Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbacchio

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Il talismano della felicità

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Boni, Ada 5 occorrenze

Volendo arricchire il ripieno potrete aggiungere qualche ovetto di gallina o, in mancanza di questi, un paio di torli di uova sode divisi a metà o lasciati interi, come pure potrete aggiungere delle animelle di abbacchio, cotte al burro, delle fettine di prosciutto, dei pezzetti di tartufo, ecc. ecc. Dipenderà dall'importanza che vorrete dare al timballo e dalla spesa che vorrete fare. Messo il ripieno nell'interno, aggiungete due o tre pezzetti di burro, prendete poi le patate lasciate in disparte, spianatele un poco e ricopritene il timballo. Pigiate pian piano con le dita intorno intorno, affinchè il coperchio si unisca bene alle altre patate, inumidite il coperchio con un pochino di uovo sbattuto, disponete ancora sopra qualche pezzettino di burro e passate il timballo in forno di moderato calore per circa tre quarti d'ora. Estraete la stampa dal forno, lasciatela riposare cinque o sei minuti e poi sformate il timballo su un piatto.

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Mettete sul fuoco una casseruola con un ettogrammo di burro e un po' meno di mezza cipolla tagliata sottilmente, aggiungete un ettogrammo abbondante di fegatini di pollo, mezzo ettogrammo di prosciutto in listerelle, due ettogrammi di animelle di abbacchio ritagliate in due, un pugno di funghi secchi già fatti rinvenire in acqua fresca, e fate cuocere su fuoco moderato affinchè il tutto possa rosolare dolcemente ma senza prendere un eccessivo colore. Bagnate allora con mezzo bicchiere di vino bianco e mezzo bicchiere di marsala, aggiungete il riso, e, insieme al riso un ettogrammo abbondante di piselli sgranati, teneri e di buona qualità, e mezzo ettogrammo di tartufi neri tagliati in dadini. Mescolate fino a che l'umidità dei vini non sia evaporata. Bagnate allora il riso con del brodo e con un ramaiolo di sugo di carne senza pomodoro o, in mancanza di questo, con un buon cucchiaino di estratto di carne in vasetti. Condite con sale, un pizzico di pepe bianco e lasciate che il riso cuocia pian piano per il tempo necessario alla sua completa cottura. A questo punto ultimatelo con un altro mezzo ettogrammo abbondante di burro e un ettogrammo e mezzo di parmigiano grattato. Date un'ultima mescolata, versate il riso sul piatto e fatelo portare immediatamente in tavola. Nella ricetta originale figurano anche delle creste di pollo. Ma siccome queste sono generalmente un po' dure, sarà bene prelessarle e metterle poi giù insieme ai fegatini durante la prima fase dell'operazione. Nelle stagioni in cui non ci sono piselli freschi, ci si può servire efficacemente di piselli conservati in scatola, purchè si abbia l'avvertenza di scegliere una buona marca. Abbiamo pubblicato la ricetta nella sua tipica integrità. Noi non consigliamo modificazioni od economie. Questo risotto è squisito a patto che sia eseguito così. Certo non è piatto molto economico da eseguirsi tutti i giorni, ma in occasione di qualche solennità, o avendo degli ospiti, avrete la certezza di farvi onore e di portare sulla mensa una preparazione veramente gustosa, che predisporrà lietamente i commensali al resto del pranzo

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Preparate anche tante rotelline di prosciutto crudo per quanti sono i tournedos e tante fettine di cervello (di maiale o di abbacchio) per quanti sono i pezzi da montare. Il cervello va prima messo a dissanguare qualche minuto in acqua fredda in una casseruolina. Si versa poi l'acqua, si sostituisce con altra acqua pulita, si mette la casseruolina sul fuoco e si porta fino all'ebollizione. Si fa bollire un minuto, dopo di che si passa di nuovo il cervello nell'acqua fredda, si estrae, si asciuga e si taglia in escaloppes le quali vanno poi infarinate e fritte. Al momento di preparare la pietanza mettete del burro in una teglietta, e a fuoco vivace cuocete i tournedos, che condirete con un po' di sale. Ricordate di tenere la carne piuttosto rosea nell'interno; quindi non spingete troppo la cottura. Quando avrete cotta tutta la carne, versate nella teglia un altro pezzetto di burro, un cucchiaio o due d'acqua e un bicchierino di marsala, e con un cucchiaio di legno staccate bene il fondo della cottura, così da avere una salsetta. Intingete alla svelta i crostini di pane in questa salsetta e allineateli sul piatto di servizio. Il quale piatto sarà preferibilmente di forma allungata in modo da permettere di disporre i crostini allineati due per due. Su ogni crostino appoggiate un tournedos, al quale avrete tolto lo spago, versate sulla carne la rimanente salsa, e su ogni tournedos mettete una fettina di prosciutto e una escaloppe di cervello.

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Per sei persone occorrono sei costolette doppie di abbacchio, cioè comprendenti due costole, oppure dodici costolette semplici. Il negoziante stesso è quello che generalmente prepara le costolette, quindi fatele tagliare da lui. L'operazione è del resto molto semplice. Si tratta di dividere col coltello le costole, una per una, o due per due, a seconda si desiderano delle cotolette semplici o doppie, di fare col coltello un piccolo intacco nella parte superiore della costola e tirare giù la pelle per mettere a nudo l'ossicino, avvolgendo poi questa pelle intorno all'altra estremità carnosa, quella che costituisce la costoletta. Una energica spianata con lo spianacarne e la costoletta è pronta. Ma, ripetiamo, chi trovasse l'operazione troppo difficile, la faccia fare direttamente dal negoziante. Mettete un pezzo di burro o una cucchiaiata di strutto in una teglia; ponetela sul fuoco e in essa cuocete le costolette. Regolatevi che il fuoco non sia troppo forte. Condite con sale e pepe, e quando saranno cotte spruzzateci sopra un bicchierino di marsala. Quest'addizione è facoltativa, ma noi la consigliamo perchè comunica un più gradevole sapore alla pietanza. Quando il marsala si sarà asciugato, estraete le costolette, e mettetele sul marmo di cucina — che avrete ben pulito in antecedenza — tutte coll'osso nel centro, in modo che formino una rosa. Copritele con un coperchio, e su questo mettete un paio di ferri da stiro o qualunque altro peso a vostro piacere. Mentre le costolette si freddano sotto peso, preparate una salsa besciamella. Fate liquefare in una casseruolina la metà di un panino di burro da un ettogrammo e mettete poi nel burro liquefatto due cucchiaiate colme di farina. Mescolate, badando di non far prendere colore alla farina, e dopo un paio di minuti versate nella casseruolina un bicchiere e mezzo di latte. Condite con sale, pepe e un nonnulla di noce moscata, e mescolate sempre, finchè avrete una salsa spessa, vellutata e senza grumi. Toglietela allora dal fuoco e amalgamateci prestamente un torlo d'uovo e una cucchiaiata di parmigiano grattato. Le costolette, freddandosi sotto il peso, saranno rimaste ben spianate. Prendetele una alla volta tenendole per l'ossicino e immergetele nella salsa calda in modo che si rivestano da ambo le parti di uno strato di crema. Tornate ad appoggiare man mano le costolette sul marmo e lasciatele freddare così. Dopo un'oretta, e quando sarà il momento di andare in tavola, con una lama di coltello staccate le costolette col loro involucro di salsa rappresa, passatele nella farina, nell'uovo sbattuto, e quindi nel pane grattato. Con la lama stessa del coltello procurate di dar loro una bella forma, e, delicatamente, immergetele in una padella con abbondante strutto od olio. La padella dovrà essere molto calda, poichè essendo le costolette già cotte, non si tratta che di riscaldarle, e di fissare colla panatura la salsa intorno ad esse. Se la padella fosse troppo fredda, la panatura scoppierebbe e la salsa andrebbe a passeggio per la padella. La salsa besciamella dovrà essere di giusta consistenza, non troppo liquida ma nemmeno troppo elastica, perchè in questo caso non si attaccherebbe sulla costoletta. Deve avere la densità di una crema ben rappresa. Se vorrete fare una Villeroy ancor più fine, potrete unire nella salsa dei dadini piccolissimi di prosciutto o di lingua, od anche di tartufa neri.

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Con le costolette di abbacchio potrete preparare questa pietanzina che è elegante e di non molta spesa. Calcolatene un paio a persona, confezionatele bene e spianatele leggermente. Poi allineatele in una teglia con un po' di olio o burro e fatele cuocere leggermente, da una sola parte. Estraetele dalla teglia, disponetele sul tavolo di cucina in circolo, appoggiateci un coperchio che le copra perfettamente, e sul coperchio appoggiate due ferri da stiro, in modo che le costolette freddandosi possano rimanere ben spianate. Intanto preparate una purè di cipolle, o, come si dice in termine di cucina, una purè soubise. Prendete un paio di cipolle, sbucciatele, spaccatele e mettetele a cuocere con acqua per cinque o sei minuti, poi, scolata l'acqua, rinfrescatele bene per far perdere loro tutta l'acredine, e rimettetele a cuocere appena coperte di acqua, aggiungendo possibilmente un pezzettino di burro come una nocciola. Quando saranno ben cotte estraetele e passatele dal setaccio, raccogliendo la purè in una scodella. Condite questa purè con sale, pepe, un pochino di noce moscata e incorporatele un paio di cucchiaiate di salsa besciamella molto densa. Qusta purè deve rimanere assai sostenuta. Se non fosse così, rimettete il tutto in una casseruolina e fate addensare assai. Quando la salsa sarà fredda distribuitene un po' su ogni costoletta, dalla parte cotta. Lisciatela con una lama di coltello dandole una forma leggermente bombata, poi prendete con garbo le costolettine, infarinatele, doratele e passatele nel pane pesto. Fate queste piccole operazioni con cura affinchè la parlatura rimanga aderente alla costoletta. Quando avrete preparato tutte le costolette friggetele a padella ben calda nell'olio o nello strutto. Potrete servirle così o accompagnandole con una salsa besciamella piuttosto liquida. Questa salsa non vi verrà a costare quasi nulla se ne farete un poco di più in principio, e diluirete poi quella che resta con un altro po' di latte.

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

- Un coscetto di abbacchio? - Ma che! Lasciami vedere. Che sarà mai, se lo posi con tanta cautela sul letto? - Ti ho portato un figliolino. - Di cenci? - Di carne e ossa. Guarda! Era davvero un bel bambino roseo, biondo, che dormiva saporitamente, avvolto in pannilini finissimi, orlati di trine. - E chi te l'ha dato? - L'ho trovato tra l'erba, su l'orlo di un fosso. - Sarà la nostra fortuna. - Gli vorremo bene come a vero figliolo. - Ma, per allattarlo? ... - Compreremo una capra. La capra, in poco tempo, si affezionò talmente al bambino, che andava a porgergli i capezzoli assai meglio di una nutrice. La carbonaia glielo posava per terra su una coperta di lana e quella, appena lo sentiva vagire, accorreva e sceglieva la posizione più comoda perché il bambino poppasse. Ciò pareva un miracolo al marito e alla moglie, che, al veder crescere quella creaturina sana, vispa e bella, ripetevano ogni giorno: - Sarà la nostra fortuna! La donna ora, dovendo badare al bambino, non poteva più aiutare, come prima, il marito nel far la catasta, la rocchina per tenerla ben legata, né a stendervi su la pelliccia con piote e piallacci. Avevano preso un garzone. Il bambino, cresciuto, era diventato un frugoletto. Correva qua, montava là, si arrampicava agli alberi, non stava cheto un momento. E spiccava certi salti, come una cavalletta; per questo, col nome di una di esse, lo chiamarono Saltacavalla. Più cresceva e più frugolo diventava. - Dov'è Saltacavalla? - Era qui un momento fa. - Tu non lo tieni d'occhio abbastanza! - E tu lo vizi con le carezze! - É così buono! - É così buffo certe volte! - Ora appicco foco alla catasta. - Ehi! Ehi! Adagino, ci sono io! Dov'era andato ad accovacciarsi? In cima alla catasta, dentro la buca. Aveva preso di mira il garzone e gliene faceva di ogni specie. Gli nascondeva le scarpe nei mucchi di carbone; gli faceva sparire la camicia o i calzoni, che andava ad appendere in cima a un albero, dove non poteva arrampicarsi altri che lui. E dopo averlo fatto ammattire un bel pezzo, esclamava: - Toh! Hanno messo bandiera bianca lassù! La camicia sventolava proprio come una bandiera. - Toh! C'è là, in alto, lo spauracchio pei passeri! Erano i calzoni infilati a due rami. I carbonai, mal trattenendo le risa, non riuscivano a sgridarlo. E Saltacavalla si faceva pregare un po' prima di arrampicarsi lassù, e di restituire al garzone calzoni e camicia. La donna gli lavava mani e faccia due, tre volte al giorno; ma dopo pochi minuti Saltacavalla era nero, mani e faccia, peggio di un piccolo carbonaio. E se la mamma e il babbo - egli non sapeva che non fosse loro figlio - lo sgridavano, Saltacavalla faceva smorfie e gesti così strani, torcendo il muso, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, che non era possibile rimanere seri; e tutto finiva in una grande risata. Rideva anche il garzone. - É il nostro divertimento; lasciamolo fare. - Poverino, non ha altri svaghi! - Tieni, è la colazione. Sta' là cheto, almeno mangiando. Saltacavalla prendeva la fetta di pane e il companatico, un pezzetto di Cacio o una mezza cipolla, e cominciava a masticare di mala voglia, quasi non avesse appetito. Tutt'a un tratto, dava un balzo, da quel Saltacavalla che era, e in un attimo eccolo in cima a una quercia, a dondolarsi su un ramo così sottile, che pareva gli si dovesse spezzar sotto. - Quassù, sì, si mangia bene! E faceva bocconi grossi, con tanti forti scoppiettii delle labbra, per mostrare che pappava di gusto. - Scendi giù, ti può accadere una disgrazia! - Intanto schiaccio un sonnellino! Si stendeva tra i rami, incrociando le gambe, tenendosi aggrappato con le mani, e si addormentava. E la povera donna stava a vegliarlo a piè dell'albero, atterrita. Alla discesa, lo prendeva per un braccino, voleva sgridarlo, ma Saltacavalla le faceva una strana smorfia di scusa e la sgridata si mutava in uno scoppio di risa. Or accadde che un giorno si trovò a passare nel bosco il Re con due persone del suo séguito. Avevano smarrito la strada. Vedendo che i carbonai stavano per dar fuoco alla catasta, scese da cavallo e volle assistere all'operazione. Il Re era triste, cupo e non diceva una parola. Non dicevano una parola neppure quelli del séguito, mentre il carbonaio appiccava il foco. Marito e moglie avevano capito che quei signori, vestiti così bene e con quei bei cavalli, dovevano essere personaggi di gran conto; la donna per ciò si tenera in disparte e tratteneva a sé Saltacavalla per impedirgli di farne qualcuna delle sue. A un tratto, Saltacavalla scappa e va a piantarsi a gambe larghe, con le braccia dietro la schiena, in faccia al Re, squadrandolo da capo a piedi: - Tu non sei carbonaio, è vero? Che cos'hai con quel viso scuro? Il Re stese una mano per fargli una carezza. Saltacavalla allungò il muso, cacciò fuori la lingua, sgranò tanto di occhi, e torse il collo a destra e a sinistra. Un lieve sorriso spuntò su le labbra del Re, ma disparve subito. - Me lo dài quel bastone lustro che porti al fianco? Intendeva di dire la spada. Saltacavalla non aveva mai visto spade, e non sapeva come si chiamassero, né a che uso servissero. Il Re tirò fuori del fodero la spada e gliela mostrò per fargli capire che non era un bastone. - É un coltello? Troppo lungo per affettare il pane! Non serve. Guarda il mio: costa due soldi. E cavato di tasca il coltellino, Saltacavalla lo aperse e cominciò a far l'atto di tagliare una, due, tre fette di pane da una pagnotta, accompagnando il gesto con tali smorfie delle labbra, di tutto il viso, torcendo gli occhi, cacciando fuori a più riprese la lingua, che il Re sorrise e stese di nuovo la mano per fargli una carezza. La povera donna era su le spine e accennava a Saltacavalla di smettere, minacciando di picchiarlo. Come se gli avesse detto: - Fai peggio! - É tuo quel cavallo bianco? Me lo dài? E prima che il Re rispondesse, Saltacavalla era in sella, e picchiava con le calcagna sui fianchi dell'animale legato per le briglia al tronco di un albero. L'animale, abituato agli speroni, non si dava per inteso di quei colpettini e rimaneva tranquillo. Saltacavalla si arrabbiava, gridando: - Arri là! Arri là! - E faceva gesti così scomposti, così buffi, cacciando fuori la lingua, agitando le braccia e le gambe, che il Re, non ostante la sua serietà e il suo cattivo umore, fu preso da una vera convulsione di risa; non aveva mai riso tanto da un gran pezzo. Quando poté frenarsi e parlare, disse ai carbonai: - Affidatemi questo ragazzo. Lo porto via con me; ne farò un gran signore. Neppure al Re in persona! risposero insieme marito e moglie. - Lo abbiamo allevato col nostro sangue. - Non è vero! - gridò Saltacavalla. - Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra. Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse. - Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re. Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse. - Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare? Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto: - Perdono, Maestà! ... Chi poteva immaginare? Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri. Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all'ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all'altro, facendo salti, capriole, mosse buffe ... E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva! Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante ... Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand'albero e rispondeva impertinentemente: - Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo! E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l'impertinenza. Avanti dell'arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri. - Maestà, c'è da far questo, c'è da fare quest'altro. Vostra Maestà permetta ... Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l'ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo. I Ministri si riunirono un giorno segretamente: - Saltacavalla è il nostro malanno! - Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui. - Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete! - Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà! - Dite bene, eccellenza! E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse: - Maestà, il popolo desidera l'erede del trono. - Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci. - Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi. Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall'allegrezza: - Maestà, il Re di Francia avrà certamente un'altra figlia anche per me. - Che cosa vorresti farne.* - Oh bella! ... Sposarla. - Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo ... Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re. Maestà, son cresciuto di un giorno! - É pochino, Saltacavalla. - Maestà, son cresciuto di otto giorni. - É poco ancora, Saltacavalla! Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo. Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore. - Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla? - Quando non rido io, non deve ridere nessuno. - E perché tu non ridi più.* - Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia. - Bada a crescere ... Dopo ... Sono già cresciuto di due mesi! E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui. Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d'accordo, il giorno preciso delle nozze. - Non sposo più! - rispose il Re. - Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione! Non sposo più; prendetela come volete. Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito. - Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti! - Mandate un altro esercito incontro al nemico. Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito! Si presentò tutt'a un tratto Saltacavalla: - Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io! E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Saltava da un punto all'altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d'infilare nemici: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Il Re cominciò a ridere a ridere ... cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava: Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Tutt'a un tratto il Re disse: - Saltacavalla sia generalissimo. - Maestà! Maestà! Con l'esercito nemico non si scherza! Saltacavalla sia generalissimo! Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più. - Tanto meglio! -- pensarono. - É l'unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno! Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse: - Grazie, Maestà! E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse: - Mi si mandi subito il sarto di Corte! Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla ... - Sarà obbedito! - Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde. - Sarà obbedito! - Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d'oro dattorno. - Sarà obbedito! - Chiamatemi il calzolaio di Corte. Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch'esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera. - Sarà obbedito! - E che abbiano la punta aguzza, lunga così ... - Sarà obbedito! Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L'esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi. - Dove vai, Saltacavalla? - Maestà, vado in cucina. - Per far cosa, Saltacavaila? - Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada. - Come ti piace, Saltacavalla. E si mise a capo dell'esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo. Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati: - Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all'assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui. Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella tan! tan! - e i suoi soldati si precipitano all'assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Quando Saltacavaila diè i tre colpi: tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno. Ma essi erano l'avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell'esercito nemico che non s'aspettava di vedersi arrivare addosso l'avversario. Tan! E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Tan! tan! I soldati di Saltacavalla si precipitano all'assalto, e fanno un'altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Tan! tan! tan! Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n'ebbero la peggio. Quell'ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro. Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città. Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita! Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando. Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall'alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l'onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell'esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri. I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re. Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti! Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono. - Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri? - Ah! - fece Saltacavalla. - Poverini! Poverini! E finse di scoppiare in pianto dirotto. Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni: - Poverini! Poverini! - E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re. Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Saltacavalla fece un gesto di stizza. - Basta, se faccio ridere! ... Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada! - No, Saltacavalla! No! Ma il Re ebbe un bel gridare - No! No! - Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito. Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata. Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere. Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell'appartamento a pian terreno, loro assegnato: - Sapete niente di vostro figlio? Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro. - Maestà, perdono! ... - disse il marito. - Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l'erba su l'orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra! - Era involtato - soggiunse la moglie - in pannilini finissimi, orlati di trine. Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro. E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n'è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado! Stretta la foglia, larga la via, Dite la vostra, che ho detto la mia.

La virtù di Checchina

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Serao, Matilde 1 occorrenze

. - Per la cena basterà l'arrosto di abbacchio e la insalata di patate? - domandò Susanna, tirando a sè la tovaglia e scotendola per farne cadere le molliche di pane. - Basterà - le rispose Checchina, restando ancora al suo posto, incapace di levarsi su, ripresa da quel letargo della mattina. - Ho parlato col padre Fileno, stamane, a Sant'Andrea delle Fratte riprese la serva, familiarizzandosi, in quella benevolenza della digestione. Quel santo sacerdote si lagna, che lei non ci vada più spesso. - Potevi dirgli che Toto ci s'inquieta e mi grida. - Gliel'ho detto che il padrone non ci crede, perchè sa come è fatto dentro l'uomo e perchè vede morire di mala morte tanti cristiani, che Sant'Andrea Avellino, protettore degli agonizzanti, ci scampi e liberi. Ma già questi uomini sono tutti a un modo: stanno bene e si ridono della religione e peccano come tante anime dannate - poi, quando sono ammalati, chiamano Dio e la Madonna... basta, ho detto al padre Fileno che sarei andata oggi a confessarmi. Me le dà due ore di permesso, quando il signore va a Santo Spirito? - Non potresti andare un altro giorno, venerdì? - fece la padrona, come sbadatamente. - No, no, gli ho detto che sarei andata oggi. Perchè vorrebbe mandarmici venerdì? - Va' pure oggi, fa' come vuoi - e si strinse nelle spalle, come una persona che ha fatto tutto quello che poteva. Dopo, ricucita la piuma sul cappello rotondo, ripose tutti quei cenci, quei pezzetti di nastro, quello scuffiotto di raso nero, con un sospiro. Giammai avrebbe osato chiedere dei quattrini a Toto. Si rassegnava, soffrendo, in silenzio, pur di non udire quella grossa voce che calcolava il valore di un soldo e gliene rinfacciava la spesa, pur di non udire le domande sospettose di Susanna. Ora rifaceva le iniziali rosse agli strofinacci, dove le aveva sbagliate, al mattino. Non poteva pensare a quello che le mancava per essere vestita bene: non voleva pensarci, per non affliggersi più. A che contristarsene? Solo un momento, in due ore, si alzò per vedere quello che faceva suo marito. Dormiva, russava sopra un grosso libro, con la bocca socchiusa e storta, la testa china sopra una spalla, il panciotto sbottonato che lasciava vedere la camicia bianca e la camicia di flanella. In cucina Susanna faceva dei piccoli buchi nella polpa rosea dell'agnello da arrostire, per ficcarvi del rosmarino e del pepe. Poi, alle tre e mezzo Toto si svegliò di pessimo umore, chiese il soprabito pesante, il fazzoletto da collo per quando usciva da quel maledetto ospedale, bestemmiò la professione di medico, chi l'aveva presa e chi la prendeva, e se ne andò, sbattendo la porta. Checchina taceva, come sempre, quando lo udiva gridare. Poi Susanna si mise il vestito di lanetta marrone, color monacale, il velo nero sul capo, lo scialletto nero sulle spalle e venne a salutare la padrona. - Raccomandami a Dio - le disse costei, sospirando. - Indegnamente - rispose l'altra, tutta compunta. Finalmente era sola, per due ore, di poter andare, venire, pensare, libera, almeno in questo. Ora più che mai le bruciava dentro la ferita del non aver vestiti. Quelle principesse che ne cambiavano tre al giorno, le cui cameriere vestivano con maggior eleganza di lei, Checchina! Quelle principesse che certo visitavano, nelle ore dei convegni, l'appartamento del marchese d'Aragona! Ella doveva andarci così, come una stracciona, con quella roba vecchia di cui si vergognava? Una forte scampanellata la scosse: restò interdetta, non osando aprire, guardandosi intorno, ritta in mezzo alla tela gialla degli strofinacci. Chi poteva essere? Suonarono di nuovo, più forte. Bisognava aprire. Finì col chiedere a voce tremante, di dentro: - Chi è? - Amici; apri, Checca, sono io, Isolina. - Ah! sei tu - disse Checca, come delusa, aprendo. - Sola, eh? Quanto mi fa piacere! Un bacione, anzi due su questa bella faccia pallida. Che hai, core mio? - Niente: non ho niente. - Hai avuto paura che fossero i ladri? Si sentono tanti brutti racconti, che io faccio sempre domandare chi è , da Teresa. Già Teresa ha sempre da chiacchierare, fuori la porta: ora con un bimbo, ora con una donna, ora con un vecchio: è una disperazione. - Come sei bella, oggi, Isolina! - Non ti pare? - e si levò in piedi, per farsi veder bene. - Tutto per Giorgio, tutto per quel caro amore mio - riprese, sedendosi. - Sei ancora da lui, oggi? - chiese l'altra, dopo una esitazione. - Ancora, sempre che posso, appena ho mezz'ora di libertà, scappo da lui. Oggi, vedi, sapevo che mio marito usciva alle cinque; gli ho scritto, a Giorgio, che sarei andata dalle cinque alle sei. Sai, sono le ore migliori, per gli appuntamenti. Invece quella bestia di mio marito va via alle tre e mezzo e io perdo un'ora e mezzo. Giorgio non andrà a casa sua che alle cinque meno cinque minuti. Ho pensato: ora vado da Checca e sto un po' con lei: mi servirà anche di scusa, se mio marito dovesse domandarmi dove sono stata. Se tu dovessi vederlo, gli dirai che sono stata qui fino alle sei. Tra amiche, sai... - Glielo dirò - e sorrise lievemente. - Questo cappello è nuovo, nevvero? - Sì, nuovo: figurati, non l'ho pagato ancora. Ma la Coppi mi conosce, mi aspetterà. Avevo dei quattrini, ma ho dovuto comprare le scarpette. - Queste qui, lucide, dorate? - Queste qui, core mio: niente meno costano sedici lire, da Carducci, un orrore di prezzo, ma vedi che tacco alto, che impuntura, che punta sottile! - Sono bellissime. - Giorgio adora i piedini ben calzati. Se tu sapessi, come sono strani, gli amanti! Io avevo dei fazzoletti semplici, di tela bianca, con una lettera I ricamata, mi restavano del mio corredo. Che! niente affatto, Giorgio vuole che io porti i fazzoletti di batista, con un merletto intorno, come questo. - È bellissimo. - Costa cinque lire. Poichè gli piace di fare lo scherzetto, di stringere le mani nel manicotto, ho dovuto comprare questo, per nove lire. Ti piace? - È bellissimo. - Non puoi credere, come si spende: è una rovina, ninuccia mia. Faccio una quantità di pasticci, d'imbrogli, di debiti, una cosa da impazzire. Ora, per tutta questa roba che mi serviva, ho pigliato sessanta lire in prestito, da una donna che conosceva Teresa, che dà il denaro a usura. Invece di sessanta, debbo restituirne centoventi, il doppio, a sei lire la settimana. Il brutto è che, se non si paga ogni sabato, quella strega viene, si siede in anticamera e aspetta. Giusto, questa prima settimana non ho avuto da pagare. Che ci è voluto per mandarla via! Ho dovuto pregarla, gridava... - Povera Isolina! - Che importa? Per Giorgio farei tutto. - Dicevi che questa donna presta denari? - Ti serve, forse? - chiese Isolina, alzandole gli occhi in volo. - No, no... dicevo per dire. - Credevo... Ma è difficilissimo averne. Per nulla, minaccia di parlare al marito: una scellerata... - Per carità! Anche quello spillo è nuovo? - Sì, l'ho comprato ieri. Ora si usano i ferri di cavallo, sono in gran moda. Le signore lo hanno in brillanti, io l'ho in argento. Non importa, non vorrei avere i brillanti, vorrei almeno avere un orologetto d'oro, uno di quei piccolini, sai, come un medaglioncino. Non puoi credere che è di terribile non aver l'orologio, quando si ha l'amante! Si sbaglia già sempre l'ora. Arrivi, è troppo presto, non vi è: è una morte lenta. Arrivi tardi, è passato un quarto d'ora, per un altro quarto d'ora egli ti porta il broncio, gli uomini si seccano di aspettare. Sei da lui, ogni cinque minuti gli domandi: che ora sarà? Quello s'irrita di questa domanda. A casa ritorni sempre in ritardo, con una cèra sbalordita che è un miracolo non ti tradisca. Dio mio, che farei per avere un orologio! Adesso, per esempio, che ora sarà? Sono o non sono ancora le cinque? - Io non so: non ce l'ho, io, l'orologio. - Vedi, non so se andare o no. Basta, cara, è meglio che me ne vada. Vieni da me, poi, un giorno? - Certo, verrò. - Fammelo sapere almeno. Ma già, non ci credo. Resti sola, ora, qui? - Sola. - E che fai? - Nulla. - Buon tempo perduto! Un bacio, cara. Purchè io non incontri nessuno! Quando fu sola, nell'ombra del crepuscolo, Checchina si mise a piangere. Ella non aveva nè scarpette dorate, nè i fazzoletti di batista, nè il manicotto, nè lo spillo a ferro di cavallo, nè l'orologio. Piangeva, poichè non aveva niuna di queste cose che servono all'amore.