Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abate

Numero di risultati: 87 in 2 pagine

  • Pagina 2 di 2

Taluni scritti di architettura pratica

266913
Pietrocola, Nicola Maria 1 occorrenze
  • 1869
  • Stamperia del Fibreno
  • Napoli
  • arte
  • UNIFI
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Abate Ricbac che lo fece avanzare più celeremente nel calcolo. Frequentò l’Accademia di S. Luca per l’Architettura, e ne riscosse onorifico certificato a’ 10 agosto 1822 da’ Professori Signor Giulio Camporese ed altri; ma più si valse delle istruzioni private che raccolse dall’Architetto napolitano di straordinario genio D. Pietro Valente, che poi fu Direttore io Napoli a’ Reali Studi di belle arti, il quale a diversi Vastesi disse di avere il Pietrocola in due anni fatto in Roma ciò che gli altri giovani non avevano fatto in 10 anni. Apprese pure in 26 giorni dal nominato Sig. Valente quella Prospettiva che il pubblico professore Sig. Dilicati insegnava in due anni, e ne conserva tutti gli studii. Indefesso alla fatica, disegnò e misurò non poco delle fabbriche antiche e moderne colà. In fine da quell' augustissima Sede delle belle arti, ove per deficienza di mezzi non potè più a lungo trattenersi, si ridusse alla Patria alla fine di Settembre del 1823. Quivi diresse quasi tutte le fabbriche, e, fra le non nominate (intendi ne’ suoi scritti) la nuova Cappella del Sacramento a S. Pietro, il Teatro ed il nuovo Camposanto. Per consenso di molti Ingegneri specialmente del corpo di ponti e strade, gli si è dato il vanto di primo disegnatore di Architettura in Provincia, almeno a que’ tempi; e lo attestano molti disegni che ei rattiene finiti ad acquerello. Dietro esami conseguì dalla regia Università di Napoli tutti i gradi accademici in Architettura, ed infine la Laurea a Marzo 1832. Nel 1851 manifestateglisi le cateratte, questa malattia gli si trovò guaribile nel 56 e 58 in Napoli; ma egli compreso dal prepotente pensiere che l’operazione sbagliata potesse ridurlo al buio perfetto, ne fu sempre ritroso, ed ora forse si riduce a tentarla in questo Settembre 1863, non polendo soffrire l’opacità della vista sempre più crescente. » Fin qui l’autobiografia. Tornato in patria il Pietrocola disvelò tosto il suo ingegno nelle occasioni di fabbriche che presentavagli una Città non adusata allora alla spesa di pagar l’Architetto, nè al bello dell’arte, nè a desiderare nelle proprie case altro che una rozza e malintesa comodità. Quindi a lui non toccò che racconciare, rattoppare, modificare, rafforzare fabbricati, ne’ quali facevan contrasto alle sue idee e la disposizione delle preesistenti mura e la magrezza della borsa del padrone. Del che bene spesso lo si sentiva muover lamentanze quasi di sua infausta stella. Sembra che di pianta non costruì, cioè non incominciò che il patrio Camposanto, il quale, in fatto di architettura, mostra una disposizione di fabbriche, di arcate, di prospetti, che appagano l’occhio di chi v’entra; quantunque dal 1843, quando fu aperto alla tumulazione, fino ad oggi 1869 sia rimasto incompleto, anzi degradato nelle fabbriche dall’ingiuria del tempo. La cecità sopravvenutagli nel 1851, la gracilezza di salute, per la quale non sempre poteva rispondere alle esigenze dello edificatore, la intolleranza de' muratori ricalcitranti alle prescrizioni ed alle vedute dell'Architetto, le quali ad essi sembravano meticolose e di nessun rilievo, ed anche una certa austerità di modi in chi è cieco ed infermiccio, rilegarono quell'ingegno a solo meditare e speculare su ciò che sentiva raccontare o leggere di nuove fabbriche e di nuovi trovati. Chi ha potuto conoscere la maniera di sua vita, le sue abitudini rese alcuna volta singolari dalle continue infermità; chi riflette alla trista condizione del cieco inabilitato agli onesti guadagni d'una nobile professione, con in prospettiva una vecchiaja che potea esser lunga e penosa, può appena formarsi idea della opportunità delle sue economie, della sua preveggenza e del carattere che taluna volta potea sembrar troppo serio e quasi tendente al duro. Era l’uomo cui il corpo fu dato, più che ad ogni altro, a strazio della mente indagatrice, e del cuore non chiuso a’ sensi di gratitudine e di beneficenza. Di che il testamento fa fede. Oltre all’Architettura ed alle scienze affini in che era maestro, egli conosceva addentro il latino, mediocremente il greco. Versatissimo nel purgato italiano (che a’ suoi tempi era estraneo alle scuole), e nel francese, sonava con maestria il violoncello; si dilettava di poesia e di quant’altro fa l’uomo ornato e capace di accostarsi a qualunque altro uomo d'ingegno. Delle patrie antichità cultore, e delle passate glorie amante, all’unica sua prole avea imposto il nome Lucio Valerio, in memoria dell’antico poeta Istoniese Lucio Valerio Pudente.

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L'orto in cucina - Almanacco 1886

300570
Dottor Antonio 1 occorrenze
  • 1886
  • Casa Editrice Guigoni
  • Milano
  • cucina
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Pagina 012

Antropologia soprannaturale Vol.I

625069
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il grande Abate di Chiaravalle nell' opera che scrisse al suo discepolo Eugenio III e che intitolò Della Considerazione , fa una riflessione simile a questa. Egli parla di Dio nella seguente maniera: [...OMISSIS...] . Or dunque nel solo e puro essere si trovano tutte le cose, e ove si volesse mescolare con lui altra cosa, non sarebbe che un mescolargli il nulla, poichè fuor dell' essere non è veramente che il non7essere, il nulla. Ora in questo noi dicevamo consistere la similitudine che passa fra quell' essere che è innato nelle nostre menti e Dio, in questa sincerità e purità: poichè tanto Dio quanto l' essere ideale innato in noi niente hanno in sè di diverso e, per così dire, di eterogeneo, ma sono impermisti e semplicissimi. Di questo è che anche nell' essere ideale si trova tutto, e dalla sola sua nozione potrebbe dedurre la cognizione di tutte le cose chi tanto valesse per forza dialettica, perocchè qualunque anche minima notizia dell' essere basta per sè a dedurne ogni notizia maggiore e a determinare, per così dire, il problema di trovare l' ordine intrinseco dell' essere, nel qual ordine tutte le divine verità e tutte le cose, come parti di esso ordine, si comprendono. Il che è l' effetto della somma semplicità e individualità dell' essere stesso, il quale non può essere mai partito dal suo tutto. E però chi ne riceve un raggio solo anche tenuissimo, riceve però tal cosa, la quale suppone e chiama per necessaria illazione, cioè per intrinseca sua esigenza e necessità, l' intero a cui ella si appartiene, e dal quale ella è, relativamente al soggetto che la percepisce, in certo modo, staccata. E questa è la ragione appunto, per la quale l' essere innato nella mente ha l' attitudine in sè di farci conoscere tutte le cose, o anzi piuttosto riconoscerle e quasi richiamarcele alla memoria: dal qual fatto è nata la reminiscenza de' Platonici. Perocchè veramente il fatto della cognizione, chi attentamente lo osservi siccome avviene e l' analizzi, mostra avvenire per siffatto modo che sembra piuttosto un ricordarci che noi facciamo di cosa già prima conosciuta e appresso dimentica, che non sia un ricevere una interamente nuova notizia. [...OMISSIS...] . E questa osservazione si può portar oltre, e estenderla alla sola cognizione de' primi principii, che non sono altro finalmente se non l' essere innato nelle varie sue applicazioni; ma sì anco alle cognizioni tutte in universale ed alla stessa percezione, almeno considerate in quanto sono cognizioni . Perocchè che è il conoscere e percepire una cosa, poniamo che essa sia anche contingente? Non altro se non vedere il rapporto di quella cosa (cioè dell' azione fatta da essa ne' miei sensi) coll' essere a me innato. E che è vedere questo rapporto? Non è altro se non accorgersi che vi ha convenienza fra l' azione da me sofferita nel senso e l' essere a me innato; cioè accorgersi che l' azione da me sofferita suppone un essere che la faccia, e quindi è un' appartenenza dell' essere, traendone così per illazione che l' essere suo corrispondente deve sussistere. Col conoscere adunque quella cosa contingente io non faccio che ravvisare nella sua azione sopra di me un atto dell' essere che io già conosco; non è che un riconoscere adunque in atto, e in un atto particolare, ciò stesso che io prima conoscevo in potenza e in un modo universale, perchè era nel mio spirito (1). Ma dunque se nell' essere ideale si trovano e sono già contenute tutte le cose in quanto sono possibili (2), in quel modo che la condizione è contenuta nel condizionale, la conseguenza nel principio; onde è che io non posso da lui solo svolgere la cognizione di tutte le cose? E ho bisogno che le cose stesse mi feriscano e portino in me un cotal sentimento di sè stesse, acciocchè io quasi mi svegli da un mio letargo e apra gli occhi a riconoscere che quelle cose erano anche prima in quella nozione, che in me luceva dell' essere, contenute e comprese? Ciò nasce appunto dalla mia tardità, da un cotal letargo della mia potenza di ragionare e prima di tutto dalla debolezza del mio occhio intellettivo che prende sì poco dell' essere e in cui non può quindi attingere ciò che pure vi sta, se non dopo di aver ricevuto l' impressione delle cose reali nei sensi e aver confrontate queste impressioni con quell' essere e vedutane la loro convenienza e uniformità con esso. Il che avviene in quella guisa appunto che negli enimmi, de' quali quando ci è comunicata la soluzione tutto ci riesce chiarissimo e vediamo come le circostanze indicate indicavano quella soluzione e altra non ne potevano ricevere; e tuttavia noi non l' abbiamo saputa trovare prima di udirla, per mancarci quel grado di perspicacia, che non è altro che una maggiore e più intima visione della cosa, la quale ci sarebbe stata necessaria per trovare il conveniente scioglimento dell' enimma proposto. Ora il grado di perspicacia dato alla natura umana dal Creatore non è tale, che nell' essere possa penetrar tanto da vedervi le cose determinate e compite, ma di aver bisogno per veder queste che le cose stesse agiscano nel nostro sentimento e ci lascino delle modificazioni, che sono altrettante traccie e segni di sè stesse, coll' aiuto delle quali noi interpretiamo l' ordine e la natura dell' essere in noi rispondente (1). Fissata così la similitudine che passa fra l' essere innato, che abbiamo detto anche iniziale perchè da noi si vede solo inizialmente, e l' essere divino che è l' essere completo, consistente nell' essere l' uno e l' altro puro e semplice essere; sarà facile di vedere la verità di quella proposizione da noi più sopra proferita, cioè che l' essere innato non solo è una cotale similitudine di Dio, ma altresì che egli ha più similitudine con Dio che non sia con tutte l' altre cose limitate che con esso essere noi conosciamo. Perocchè è manifesto che nessuna delle cose limitate è puro e sincero essere, ma ha in sè una limitazione, e quindi una cotale imperfezione, una potenzialità e una contingenza; condizioni che appartengono al non essere, le quali rendono quelle cose dissimili dal purissimo essere che è la luce delle menti. Anzi se noi attentamente consideriamo la maniera, colla quale noi veniamo a conoscere le cose contingenti, ci apparirà che si può dire in un senso verissimo, e l' hanno detta tutti i filosofi e i teologi, cioè che Dio solo E`, e le altre cose non sono veramente. Ecco come si spiega assai facilmente questa strana sentenza coi principii della nostra filosofia. Acciocchè noi percepiamo una cosa qualsiasi, egli è necessario che noi riceviamo la sua azione e impressione nel nostro sentimento, ed è questa impressione e sensazione che in noi produce ciò che ci fa indurre esistere la cosa che ci ha modificati: tale è la nostra percezione delle cose, e la cognizione loro è pure determinata dal fantasma o sensibile impressione rimasta nel nostro sentimento dalla loro azione su di noi. Questo discorso è così generale che vale per Dio stesso. Se non che il toccarci di Dio è un toccare proprio e distinto da ogni altra modificazione che noi riceviamo dalle altre cose. Questo è il toccamento dell' essere stesso, e ciò appunto che modifica quello che io chiamo senso intellettivo o spirituale, e non è diverso dall' intelletto se non perchè s' aggiunge un toccamento reale di un essere sussistente. Sicchè questo oggetto determina, specifica o piuttosto informa e costituisce di sè una potenza, quella dell' intelletto o del sentimento intellettivo, in una parola, la potenza dell' essere. Ora si consideri che in questa potenza niente altro opera nè può operare: essa è per tal modo esclusivamente la potenza dell' essere, e a ricevere questo solo destinata, che se un' altra cosa agisse in lei, sarebbe già per questo solo un' altra potenza, nascendo da questo la sua definizione, che essa è la potenza che presiede alla percezione dell' essere. Tutte le altre cose adunque, agendo in noi, non agiscono se non in sentimenti loro proprii, i quali sentimenti parimenti sono informati e costituiti dai loro oggetti o più veramente da quelle cose che colle loro azioni servono ai medesimi di materia. Or dunque, se col solo intelletto si percepisce l' essere, se nessun' altra cosa agisce nell' intelletto e se non percepiamo cosa alcuna se non in quanto opera su di noi, ne viene conseguentemente che delle cose tutte noi non sentiamo già l' essere, ma puramente la loro azione e che solamente per lo percepire che facciamo questa loro azione noi attribuiamo poi loro l' essere di nostro proprio moto: e così quelle che sono azioni in noi, ci diventano altrettanti esseri, non perchè, come dicevamo, noi le percepiamo come esseri, ma perchè noi le supponiamo tali, prestando e somministrando, quasi direi, noi stessi colla nostra intelligenza l' essere a tutte le cose e così costituendo in cotal modo le cose e facendole esistere. Quindi è che se non esistessero esseri intelligenti di nessuna specie, nessun ente sarebbe: il che spiega in qualche maniera quello che la teologia insegna, la creazione degli esseri nascere per un atto della intelligenza divina, cioè pel Verbo, luce di tutte le intelligenze (1); perocchè veramente la conoscibilità delle cose è ciò che le costituisce cose, e per la quale si possono chiamare enti (2). Senza la conoscibilità loro non sarebbero che come azioni o termini del solo essere, termini che non si potrebbero in alcun modo confondere coll' essere stesso, il quale, come dicemmo, è purissimo e impermisto, e rimarrebbero quindi da lui infinitamente distinti, sebbene per lui e in lui solo esisterebbero. Quindi è che la conservazione delle cose è veramente una continua creazione, e che noi, come dice la Scrittura, siamo, ci moviamo e viviamo in Dio (1); e che Dio porta tutte le cose colla sua parola (2); e che le cose tutte fuori di Dio sono vanità, sono tratte dal niente e sono niente (3). Platone, a cui piace di vestire le sue dottrine con imagini prese dalle cose sensibili, paragona le cose tutte alle ombre e Dio al corpo che produce l' ombra, e accusa di stoltezza gli uomini, i quali pigliano quelle ombre vane per cose reali e a quelle in luogo che a queste volgono i loro affetti (4). E una tale similitudine delle ombre dopo averla trovata Platone, fu ripetuta da tutta l' antichità; il quale consentimento prova la verità che in lei si riconosceva. Videro o certo travidero gli antichi savii questo vero, cui l' ideologia da noi esposta mette nella luce più patente, che altro è l' essere, e altro le azioni dell' essere e i termini di queste azioni: e videro che in tutte le cose contingenti ciò che noi percepiamo propriamente non è mai l' essere, ma unicamente sono azioni e passioni (5); e che queste azioni varie non sono l' atto primo (il quale è unico ed è l' essere stesso); e che perciò esigono un essere primo e supremo onde procedessero (6). Da questo conchiudevano che alle cose, appunto perchè mostrano in sè d' aver bisogno di essere prodotte, in una parola perchè mostrano la loro contingenza , non propriamente, ma quasi per opinione (1) si applica la parola di esseri, che solo propriamente conviene all' essere primo, per sè, non prodotto da altri, cioè a Dio. Perciò S. Girolamo: [...OMISSIS...] . Il perchè l' autore dell' Ipognostico (3) dice che anche dell' altre cose si può dire che abbiano la esistenza, ma non come si dice di Dio, il quale non ha PRINCIPIO del suo essere: laddove quelle, coll' aver preso da lui il principio di ciò che sono, cominciarono a essere. Il quale principio preso da Dio è appunto quel primo atto che, come dicevamo, le creature non hanno in sè stesse, ma loro viene in qualche modo attribuito. Il che pure esprime medesimamente il magno Gregorio, là dove, parlando delle create cose, dice: [...OMISSIS...] . E ciò rende luce su quella appellazione che Cristo dà a sè stesso di essere lui il principio, EGO PRINCIPIUM, che è quanto dire il primo atto e però l' atto universale (5). Questa è dottrina comune dei savii (1), la quale esige però non piccola fatica a così ben penetrarne chiaro il senso da non punto equivocare e prendere errore. Perocchè se Dio è quel primo atto onde tutte le cose sussistono, pare che egli si mescoli e confonda colle cose stesse: il che sarebbe non pure un dannoso errore, ma ben anco un manifesto assurdo l' affermarlo, perocchè si distruggerebbe con ciò quel Dio, che è appunto Dio per questo, che egli è tutto essere sincerissimo e da ogni mistura mondissimo. Di che è necessario tenere la dottrina del santo martire Massimo, che congiunge due veri, i quali sembrano fra loro opposti, e pure nol sono. Perocchè comincia egli dal dire che Dio si fa l' essere di tutte le cose. [...OMISSIS...] Il che S. Massimo segue poi a dichiarare più lungamente. Perocchè dopo aver detto che, rispetto alle cose che sono e si formano, Iddio è di tutte la sussistenza ed è tutte le cose, soggiunge: [...OMISSIS...] . Chi scruta adunque la natura delle cose create, chi bene attende a quello che realmente noi percepiamo quando di esse riceviamo la percezione, manifestamente conosce, che esse non sono l' essere, che esse non sono, e non ci si fanno conoscere se non come azioni e termini dell' essere (3): e che questa loro cotale vacuità, questa loro contingenza, questa deficienza di essere, ci conduce a vedere la necessità dell' essere, cioè di un primo atto immobile e universale il quale e le abbia create e le venga creando di continuo, cioè sostenendo, perchè non ricadano nel nulla. La quale mi pare una dimostrazione della divina esistenza così ferma e invincibile che nulla più: perocchè l' Essere supremo apparisce la condizione e l' origine di tutto l' universo, e ogni mente è costretta a pensare Dio prima di ogni altra cosa, come quello che è il mezzo della cognizione. Perocchè l' ente supremo è assai più certo, evidente e necessariamente esistente dello stesso universo o spirituale o materiale, che pur nessuno revoca in dubbio, perchè nessuno finalmente può nè vuole rinnegar sè medesimo. Tutto ciò prova che l' idea dell' essere, il quale luce nelle nostre menti, ha una vera similitudine [più] con Dio che colle creature, perchè le creature non sono l' essere, e Dio è l' essere, e l' essere è quello che nelle nostre menti risplende. Ma proseguiamo a rilevare i diversi tratti di questa maggiore similitudine che ha l' idea dell' essere con Dio, di quello che l' abbia colle creature. Fino che noi consideriamo la pura e sincera nozione dell' essere senza aggiungervi cosa alcuna, noi troviamo che quest' essere semplice non può non essere, perocchè [è] assurdo e contradditorio il dare all' essere il predicato di non essere. Quindi egli è necessariamente immutabile e eterno. Ora questa immutabilità e eternità si ravvisa egualmente nell' ordine delle idee e nell' ordine delle cose appartenenti alla divinità: il che costituisce una nuova similitudine fra l' idea dell' essere innata nella nostra mente e Dio. All' incontro tutte le altre cose non sono l' essere: non ripugna adunque per esse il non sussistere, quando anzi sussister non possono senza che l' essere a ciò [le] aiuti e spinga. Quindi la contingenza delle cose porta in esse la possibilità di mutazione e di una vicenda di nascimenti e di distruzione: il che le rende dissimili come dall' essere sussistente, così dall' essere ideale. E da questa mutabilità appunto delle cose e difformità loro dalla natura e proprie condizioni dell' essere i savii antichi conchiudevano, che ad esse non appartiene propriamente l' essere e il denominarsi enti. Eraclito, secondo la testimonianza di Plutarco, diceva non poter noi entrar due volte nello stesso fiume; e simigliantemente nessuno poter toccare due volte la mortale sostanza soffermata quasi in un medesimo stato, perchè essa per un continuo e repentino impeto di mutazione di subito si dissipa e di bel nuovo si raccoglie: o anzi non di nuovo e non di poi, ma nell' istante medesimo esiste e finisce, se ne viene e se ne va. E che è dunque, soggiunge, ciò che veramente è? Per fermo quel solo che è sempiterno, che non ha nascimento nè morte e a cui nessuna vice di tempo reca mutazione (3). Nel dichiarare il qual vero è in più luoghi delle sue opere Sant' Agostino, e particolarmente nel trattato XXXVIII sopra di S. Giovanni, in occasione di spiegare quelle parole di Cristo: « Se voi non crederete che io sono« ». Ivi fra le altre cose dice: [...OMISSIS...] . Per tutte queste considerazioni si rende quindi manifesto, che se le cose assolutamente parlando non sono l' essere, e se all' incontro la luce della mente è l' essere stesso semplicissimo, quelle non possono avere con questa luce quella vera e propria similitudine che ha colla medesima l' essere divino, cioè l' essere semplicissimo, assoluto, sussistente. E qui si chiederà in che modo il nostro spirito possa conoscere le cose, se non vi ha similitudine vera e propria fra le cose e l' idea colla quale il nostro spirito conosce le cose. E qui rispondo che perciò appunto noi per conoscere le cose contingenti abbiamo bisogno del senso e di un senso diverso al tutto dalla potenza intellettiva, perchè questa è troppo alta, e le cose contingenti non hanno alcuna proporzione con lei, sicchè esse non possono esservi ricevute. Sicchè è un' altra potenza, un altro senso quello che le percepisce, e per restringerci alle cose corporee, è il senso animale. Ricevute poi nel nostro senso animale, cioè a dire ricevuta la passione che esse vi cagionano con una reale azione, NOI che siamo pur quelli stessi, che come animali sentiamo e come intelligenti vediamo l' essere, diventiamo come i mediatori fra le cose contingenti e l' essere, diventiamo l' anello col quale si congiungono quelle a questo, veggiamo quelle e veggiamo questo, e veggiamo il rapporto fra quelle e questo. Allora annunziamo a noi stessi questo rapporto, il che è pronunciare la parola interiore ossia il verbo, e diciamo: questa passione è l' effetto di un essere; ossia qui dove c' è questa passione, c' è un essere operante: in tal modo diamo l' atto dell' essere, il primo atto a quelle passioni che per sè non sono se non atti secondi i quali perciò presuppongono il primo: e in dicendo così noi veggiamo tanti varii esseri quanta è la varietà delle passioni; ma conosciamo che tutti questi esseri non hanno se non la forza di un solo essere che li sostenti, cioè l' essere puro, fonte e creatore di tutti. Così è che al sentimento delle cose noi aggiungiamo un' operazione dello spirito che noi diciamo percezione intellettiva e che gli antichi chiamavano anche opinione . Perocchè è con questa dichiarazione che abbiam data, che rendesi facile a intendere quell' antica dottrina che abbiamo più sopra toccato sol di passaggio, cioè, che« le cose divine e sempiterne, dicevamo, e tutte, come io ho mostrato, si riducono all' essere ideale e reale, si conoscono mediante la mente; ma le cose contingenti o soggette a nascere e morire, si conoscono pel senso e per la opinione«. Togliamo dall' antichità un altro luogo dove sia espressa questa dottrina. Eusebio nell' opera della Preparazione evangelica (1) toglie a esporre la dottrina di Platone intorno a Dio, e comincia dicendo essere stata sentenza di quel filosofo ateniese, che « a Dio è proprio di essere, e delle altre cose è proprio di non essere« ». E poi seguita a narrare la platonica dottrina in questo modo: [...OMISSIS...] (cioè quello che si genera e muore e veramente non è) (1). Un' altra riflessione non posso ommettere qui. Le cose tutte, dicevano questi antichi savii del gentilesimo non meno che quei del cristianesimo, non sono veracemente, perchè di Dio solo è ogni essere, essendo egli solo tutto l' essere, e in breve e semplice parola, più della quale non si può andare, essendo l' ESSERE (2). E tuttavia le cose si fanno credere all' uomo come esistenti, cioè a dire l' uomo, dimenticandosi del primo essere, si ferma negli esseri secondi e in essi talora finisce colla sua mente: il che è un dar loro quello che solo a Dio è proprio, è un divinizzare le creature. Quindi ebbe sicuramente la profonda sua origine l' idolatria della natura e di tutte le cose create. Ora a ciò viene l' uomo tirato e lusingato da quella apparenza di esistenza che mostrano le creature stesse; e indi è che tutte le cose stesse per questa faccia di esistenza che mostrano, la quale è come una maschera e bellezza vana che seduce e trae a crederle qualche cosa per sè stesse, sono chiamate ora« vanità«, e ora« menzogna«, e che Dio solo è detto dai Padri essere verità. Questa dottrina s' incontra di frequente in S. Agostino; ma io mi restringerò qui a recare in mezzo solo un passo tolto dal libro intitolato Della cognizione della vera vita , per non essere infinito. Vi si dice adunque di Dio così: [...OMISSIS...] . Dalle quali cose apparisce, che l' essere impresso nella mente è una similitudine di Dio: che quell' essere ideale è più simile a Dio che non sia alle creature: che per ciò Dio si conosce immediatamente in virtù di quell' essere, ove che a noi si manifesti; ma che le cose contingenti non si percepiscono in questa pura nozione dell' essere, ma in un loro proprio sentimento; il qual sentimento sarebbe cieco e incognito se il nostro spirito non lo richiamasse all' essere stesso e non lo considerasse come un' azione sua, come un suo termine (2), e così lo illustrasse. Egli è mediante questa operazione che fa la mente che si predica l' essere di Dio e delle creature univocamente, come ho altrove affermato. Questa univocazione del nome di essere applicato a Dio e applicato alle creature, deve intendersi per modo che l' essere, che affermiamo comune, non sia tale se non nel concetto che noi possiamo avere delle creature e di Dio: perocchè noi non possiamo avere concetto di nessuna cosa se non a questa condizione che vi uniamo la nozione dell' essere, la quale in tal modo diventa comune. Laddove se noi vogliamo considerare Dio e le cose in sè, nella loro propria sussistenza, noi dobbiamo ben chiaramente accorgerci, che l' essere non si può applicare alle creature se non come loro sostegno e causa, ma non come elemento, il quale entri a comporle. Perciocchè l' essere non è proprio se non di Dio solo (4). E` dunque per l' imperfezione, nella quale sussiste l' essere nella nostra mente, che noi l' applichiamo indifferentemente a Dio e alle creature: il quale essere se fosse da noi in perfetto modo veduto, nol potremmo applicare più alle creature, quasi che esse lo avesser da sè, ma vedremmo piuttosto in lui, incommunicabile come egli è e indivisibile, le creature stesse come in loro causa e radice sussistere. Perocchè l' essere che è nella nostra mente, per sì tenue modo il veggiamo che è piuttosto un iniziamento di essere che l' essere stesso, e per ciò sotto questo aspetto, quasi diversando dall' essere, non disconviene applicarlo alle creature; e anzi applicandolo al Creatore non ci dà la piena notizia di lui (5). La quale non si può avere, come abbiamo mostrato, se non in percependo la stessa sussistenza sua, nella quale l' essere ideale viene compiendosi e unificandosi coll' essere reale. La volontà dell' uomo tende al bene conosciuto. Tanto adunque si stende l' affetto della volontà, quanto si stende il bene conosciuto. Perocchè fatta la volontà, come si diceva, pel bene, non può mettere un limite alle sue proprie forze, ma ove che un bene le apparisca, ivi necessariamente deve tendere coll' affetto del desiderio, e non può non volere qualsivoglia bene, se non a condizione di considerarlo sotto aspetto di male, cioè come impeditivo di bene maggiore: sicchè il movimento dell' umana volontà non è mai appieno e necessariamente quietato, se non ha t“cco e ottenuto il bene conosciuto. Chi vuol dunque vedere quanto si allarghi il pelago dell' umano desiderio, basterà che misuri quali e quanti sieno i beni che può conoscere: la sfera della volontà è quella medesima dell' intendimento. Ora l' intendimento è formato dall' idea dell' essere in universale e però non ha limite alcuno se non l' infinito. Perocchè, dopo aver conosciuto quali e quanti si vogliano degli esseri finiti, l' uomo può pensare e foggiarsene sempre degli altri, perchè nessuna eccellenza o quantità di beni finiti può mai adeguare l' essere universale, col quale l' uomo pensa, e però ha sempre mai in sè onde pensarne degli altri, e finchè non è pervenuto a pensare un essere al tutto senza limiti e da ogni parte infinito, resta sempre all' uomo un progresso d' intendimenti senza misura nè fine (1). Quindi come il moto dell' intelletto non trova posa e termine se non giunto nell' infinito essere, così parimente la volontà non può interamente cessare dal suo moto e desiderio se all' infinito bene non sia pervenuta. Tale è costituita la natura umana: e tale è pure la natura di qualsivoglia essere intelligente e volitivo. Or poi la volontà non si unisce pienamente al bene se non per una cognizione reale; non potendola soddisfare pienamente una congiunzione solo incoata, quale è quella dell' essere ideale (2). Premesse queste notizie sull' intrinseca natura dell' uomo e delle sue potenze, apparisce manifestamente che l' uomo costituito nell' ordine puramente naturale sarebbe stato imperfetto, perchè non avrebbe avuta giammai la congiunzione reale di quel sommo bene a cui la sua volontà è indeclinabilmente volta e nel quale solo può appieno saziare il suo desiderio: come pure il suo intendimento per trascorrere di una in altra cognizione di tutti gli esseri finiti, non avrebbe ottenuto giammai riposo alcuno, ma infaticabilmente si sarebbe aggirato in continua mutazione di oggetti da lui contemplati e non trovato cibo a sè proporzionato veramente in nessuno (1). Nè io voglio affermare per questo che l' uomo, anche lasciato da Dio nello stato naturale, sarebbe stato al tutto misero, o che sarebbe necessariamente scaduto a cercare nelle creature una felicità a lui impossibile di ritrovare rendendosi in qualche modo colpevole. Ma dico solo, e ciò appar manifesto dalla natura dell' essere e del bene in universale a cui tende in lui l' intendimento e la volontà, che gli sarebbe mancato il più e il meglio di quella felicità e tutta quella dignità morale, di cui la sua natura è capace, e che però sarebbe stato imperfetto. Indi appare sì conveniente all' uomo, come conveniente parimenti a Dio, le cui opere son tutte perfette, come dicono le Scritture, che l' uomo fosse non pure fornito d' intelligenza, ma ben anco costituito in grazia, solo mezzo onde possano essere compiutamente soddisfatte le supreme sue esigenze e riempita l' immensa capacità della stessa sua intelligenza. La grazia perfeziona nell' uomo e compisce l' essere a lui presente. L' essere che in quanto è veduto naturalmente dall' uomo, è una similitudine di Dio, quando è compiuto dalla grazia riceve una nuova nobiltà, un nuovo carattere, che può ricevere acconciamente e propriamente la denominazione d' imagine di Dio. Conviene ben determinare il valore di questa parola imagine per conoscere la verità di ciò che io dico: nel che seguiremo S. Tommaso che pone sempre grande accuratezza nel precisare il significato delle parole le quali egli usa. Dice adunque il santo Dottore, che ogni imagine è una similitudine ; ma tuttavia non qualsivoglia similitudine basta ad avere concetto d' imagine (1). L' imagine è una similitudine delle più perfette: e in che poi mette egli questa perfezione maggiore della similitudine per la quale essa prende convenientemente il nome d' imagine? In due note, sottilmente assegnate da S. Tommaso, dietro le ecclesiastiche tradizioni. La prima è che la similitudine riguardi la specie, cioè l' essenza specifica della cosa (2), perchè se le cose fossero simili solamente in qualche parte non riguardante la specie, l' una non potrebbe essere imagine dell' altra. La seconda, che l' imagine sia espressa, cioè cavata dalla cosa di cui essa è imagine; sicchè un fratello non direbbesi imagine del fratello, ma bensì direbbesi il figliuolo essere imagine del padre: e così parimente una testa idealmente dipinta non direbbesi acconciamente ritratto di chichessia, eziandio che si abbattesse a essere simile al volto reale di un uomo; perchè noi congiungiamo sempre col concetto d' imagine questa relazione di lei colla cosa imaginata, la quale fece da originale o modello onde l' imagine si ritrasse. Chiarito così il significato della parola imagine , parmi essere facile il vedere la verità della nostra proposizione: che la grazia nell' uomo è una vera imagine di Dio. E veramente l' essere che costituisce la naturale intelligenza dell' uomo, sebbene similitudine di Dio, non si può però chiamare propriamente imagine, se non potenzialmente, nel qual senso lo chiamano talora imagine i Padri (1). Egli non è se non un lume che precede la imagine, che la rende possibile, che le prepara la via e quasi direi ne fa nell' uomo il disegno a nudi contorni, il quale aspetta poi di essere dal sommo e eterno Artista realmente eseguito (2). E veramente l' essere in universale innato nella mente non è Dio, non è nè pure propriamente parlando una nozione di Dio: egli per ciò non può essere un' imagine di Dio, perchè nè è simile a Dio nella specie, nè è un segno della specie divina. Un segno della specie o natura divina è la concezione dell' essere divino che col lume naturale si può fare in un modo negativo, ma ella non importa una vera imagine, appunto perchè è negativa e nulla viene espresso in essa della divina natura. Oltracciò questa concezione, se si vuol anche chiamarla imagine, non è connaturata nell' uomo, ma acquisita e aderente come una pura idea. E noi favelliamo di quella imagine che sta impressa o può essere impressa nella stessa natura dell' uomo. Dicemmo che l' essere universale non è simile a Dio nella specie, nè ad un segno della specie divina. E veramente l' essere innato non può essere simile a un segno della natura divina, perchè la natura divina non ha segni naturali che sieno atti a rappresentarla, come la figura rappresenta l' uomo o un altro animale (4). Non può poi essere simile a Dio stesso in quanto alla specie, perchè la specie di Dio non è che la sostanza di Dio, ossia la divina sussistenza; e nell' essere noi non vediamo nè percepiamo alcuna realità, alcuna sussistenza, ma puramente una idealità che è quanto dire una possibilità di essere: dal che è intieramente aliena e dissimile la divina sostanza, che ha il sussistere per sè e in sè medesima. Or dunque qual cosa potrà essere imagine di Dio? Qual cosa potrà somigliar a Dio in quanto alla sua stessa specie o sostanza? Chi potrà avere qualche cosa di simile col sussistere stesso di Dio? Certamente perchè una cosa sia vera imagine dell' altra, questa imagine deve avere qualche cosa di comune coll' altra appartenente alla natura dell' altra. Questa è dottrina ferma della filosofia, non meno che della cristiana tradizione. [...OMISSIS...] E S. Giovanni Crisostomo parimente osserva: che nessuno a cui fosse ignoto l' oro potrebbe vedere la natura di questo metallo rimirando l' argento, appunto perchè una natura non si fa già vedere mediante un' altra natura diversa (2). Ora che cosa può Iddio aver di comune con qualche altro essere? Può forse avvenire che una parte della sostanza appartenga, sia posseduto da altri in proprio, come elemento o parte comune? Impartibile è la divina sostanza, e per ciò essa o deve trovarsi tutta, o non può trovarsene una sola parte, siccome può avvenire negli esseri creati che hanno delle qualità comuni e delle qualità proprie, appunto perchè non sono perfettamente semplici. Indi è a dire, che non può esistere una vera imagine di Dio se questa imagine non sia Dio stesso avendo in sè tutta intera la divinità: perchè rispetto a Dio non vale l' esempio delle creature delle quali si danno imagini che partecipano della sostanza o natura delle cose ritratte, ma non di tutto, e solo di una parte, e talora anche accidentale e tenue, ma bastevole però a sentire il segno della sostanza, come avviene de' corpi mediante le loro figure. Indi è che i maestri delle teologiche dottrine insegnano concordemente, non darsi di Dio se non una vera, propria e piena imagine, e questa essere il Verbo eterno che possiede in comune col Padre e collo Spirito Santo tutta intera la divinità dal Padre, ab aeterno ricevuta. Perciò dice S. Ilario: [...OMISSIS...] . Il perchè gli Ariani e altri eretici che detraevano alla divinità del Figliuolo, furono convinti di errore dai Padri pur con questa sola parola di imagine, attribuita dalla divina Scrittura al Figliuolo, che dimostravano non potersi punto nè poco dire imagine di Dio se non avesse tutta la natura sostanziale di Dio. E da questa sola dottrina, che vi ha una sola imagine di Dio e questa stessa è Dio, si rendono chiare quelle parole di Cristo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (2) ». Imperocchè, se il Figlio è diverso di sostanza dal Padre, in che maniera si può vedere il Padre nel Figlio? Che se una statua di legno non può conoscersi in una statua di pietra, perchè non è della stessa sostanza; e se non una pietra nel legno e non il legno in una pietra si vede per la diversità delle sostanze, conseguente cosa è che Dio Re dell' universo si conosca nel suo Figliuolo consostanziale. Conciossiachè in quelle cose che sono della medesima specie, appena vedute, si ha notizie anche di quelle non vedute, per ciò appunto che sono consostanziali (3). Dalle quali tutte cose manifestamente apparisce, che Dio solo può essere vera imagine di sè stesso e che a nessuna creatura compete un titolo tanto eccellente. Or di qui tuttavia apparirà che per la grazia invece viene nell' uomo impressa l' imagine divina. Ciò risulta dalle cose esposte nel libro precedente, dove abbiamo mostrato, tenersi, secondo l' ecclesiastica tradizione, che la grazia si faccia mediante un' operazione reale di Dio nell' anima umana (4): per la grazia essere Iddio formalmente congiunto coll' uomo (5) e quindi diventar lui un vero tempio di Dio. Lo stesso vero apparirà fornito di maggior luce ove si consideri insegnare l' ecclesiastica tradizione, che il principio della rivelazione soprannaturale è il Verbo divino, l' imagine del Padre, sia in un modo occulto, come nell' antico Testamento, sia ancor più nel nuovo, nel quale parla il Verbo manifesto (7). Di più ancora, [ciò apparirà, se si considera] che il Verbo divino si fa ancora per opera dello Spirito Santo il principio della santificazione e della grazia (1). Perocchè lo Spirito Santo non fa, come insegnano i Padri, se non chiarificare e quasi accendere il Verbo nelle anime nostre. La relazione esterna è quasi simile ad esca preparata nel f“co di volta elittica, la quale s' accende agevolmente se nell' altro f“co della volta si mettano dei carboni accesi: oppure è simile a face che collocata innanzi a terso specchio pur col suo accendersi accende altresì nello specchio la stessa [face] e fa brillare una luce eguale a sè. Tale lo Spirito Santo pur coll' entrare nell' anima vi accende in essa il Verbo, che è quanto dire la vera imagine di Dio Padre. Egli è per questo, come abbiam veduto, che lo Spirito si paragona a un suggello che, impronta, per mezzo della fede che vi accende, nell' anime il Verbo, nel quale, cioè in Cristo, credendo, dice l' Apostolo Paolo, siete improntati collo Spirito di promissione santo (3). E ancora: E non vogliate contristare lo Spirito Santo « di Dio, nel quale siete suggellati pel giorno della redenzione« (4) ». Il perchè Didimo scriveva: [...OMISSIS...] . Quindi è che non pochi Santi insegnano che l' imagine di Dio nell' uomo non si dà se non per lo Spirito Santo, perocchè appunto allo Spirito Santo si attribuisce la grazia e il segnare le anime colla comunicazione del Verbo, de' quali recherò solo S. Cirillo di Alessandria: [...OMISSIS...] . Da tutte le quali cose apparisce che l' imagine di Dio non è l' uomo, se non perchè essa imagine è nell' uomo, a quella guisa che l' imagine di Cesare sulla moneta è sulla moneta, e non è la moneta materialmente considerata: la quale imagine di Cesare sulla moneta è tratta appunto da S. Agostino a significare l' imagine di Dio impressa nelle anime nostre (1). Apparisce per conseguenza esser la grazia quella che nell' uomo mette questa imagine, ad esser quest' imagine, di cui l' uomo si adorna, una partecipazione dell' unica e vera imagine della sostanza divina, il Verbo eterno. A queste verità si riferiscono le parole di S. Paolo: « Quelli che egli ha presciti, ebbe anche predestinati, acciocchè si facessero conformi all' IMAGINE del Figliuol suo« (2) »: a cui soggiunge l' Apostolo: « Acciocchè egli sia primogenito fra molti fratelli« ». Nelle quali parole si vede espresso il modo onde noi diveniamo imagini di Dio, cioè per diventar fratelli che facciamo del solo vero natural Figlio di Dio, di quello perciò che è solo naturale imagine del Padre, a cui noi ci rendiamo conformi appunto con affrattellarglici. Questa è dottrina comune de' Padri, ed è espressa da Prudenzio in que' versicoli: [...OMISSIS...] Conveniente cosa era sì al bisogno dell' umana natura e sì alla divina bontà che l' uomo fosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale (3). E che in tal modo fosse costituito da Dio Adamo, è dottrina tradizionale della Chiesa. Nè vi era ragione perchè s' interponesse tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell' uomo, nè nulla vi ha di repugnante che Iddio nel medesimo istante desse all' uomo la natura e la grazia. Anzi non si dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo, il lume della grazia congiunto a quello della natura non forma già due lumi o due vite, ma un lume solo e una vita sola: conciossiachè il lume soprannaturale può dirsi che è l' essere medesimo più manifestamente veduto, veduto di più forte luce a segno di percepirne, in qualche modo, la sostanza. Ed egli è pur verosimile che, volendo Iddio dare all' uomo luce e vita, gliel' abbia data in quella misura che gli bisognava e non già partita, cioè glien' abbia data prima una porzione insufficiente, per dover poi dargliene un' altra e così soddisfare al bisogno rimasto non adempito colla prima: quasi come chi non ha a pagare la somma intera di un tratto, che soddissfa al suo creditore pagandolo in tre rate. Il che non si può pensare di Dio. In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la consideri, che si fa nella divina Scrittura della istituzione dell' uomo. Perocchè dottrina fermissima della Chiesa è, come si disse, che Adamo ebbe da Dio non meno la grazia che l' intelligenza. Ora, dove si narrano queste due cose nel Genesi? Si descrivono forse due operazioni distinte di Dio, coll' una delle quali egli desse all' uomo il lume dell' intelligenza e coll' altra quel della grazia? Nessun vestigio di distinzione di questi due atti si ritrova. Vi si dice bensì che, dopo l' uomo di terra, Iddio soffiò in lui lo spiracolo della vita (1). Queste sole ed uniche parole si usano a narrar tutto ciò che l' uomo ricevette da Dio oltre il corpo (2). Ora o convien ammettere che in quello spiracolo di vita, che Dio soffiò in faccia di Adamo, si contenesse unitamente l' intelligenza e la grazia, oppure convien dire che il racconto del sacro storico sia manchevole e non narri pienamente l' istituzione divina dell' uomo primitivo, che è pure il massimo oggetto di cui tratta quel sacro libro. Perocchè se quelle parole: Iddio spirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita; si devono intendere della sola intelligenza naturale, ove è la grazia datagli pur da Dio? o se si intende solo della grazia, ove è la narrazione dell' intelligenza, di cui l' ha fornito? Sicchè quello spiracolo di vita (3) si deve intendere non meno del lume naturale che del soprannaturale, che, ove sono insieme , non formano che uno e medesimo lume, perchè sono pur uno e medesimo essere. E quelle parole che seguono: « E l' uomo fu fatto in anima vivente« »; si devono intendere non meno della vita del corpo che di quella dell' anima: anzi ogni vita comprendono quelle parole e l' animale e l' intellettiva e, almeno in genere, la divina o di grazia. Perocchè tutte queste sono quasi altrettanti gradi di partecipazione d' una medesima vita: di che risulta che Dio fece vivo Adamo in quella maniera che gli bisognava essere vivo; diede a lui una vita non difettosa, ma piena, compita in tutte le sue parti; gli diede insomma quella pienezza di vita che alla capacità dell' umana natura si conveniva e alla sapienza dell' ottimo Creatore, le cui opere sono sempre perfette, come dice la Scrittura. Finalmente si può comprovare lo stesso vero da quel principio che pone l' angelico Dottore, fedele seguace anche in questo del gran Vescovo d' Ippona, cioè: [...OMISSIS...] . E veramente questo è secondo l' ordine di un sapiente operare, e tale costantemente apparisce in tutte le altre cose il modo dell' operare divino, cioè di porre a principio i germi di tutte le cose e quindi commetterne al tempo il loro sviluppamento, senza bisogno di rimettere quasi di bel nuovo la mano all' opera sua per t“rne via l' imperfezione. Quindi nel seme è racchiusa la pianta intera, quindi nell' embrione è già contenuto tutto l' animale. L' esser piccole le nature e nei loro esordii, non toglie loro l' esser in cotal modo perfette. E tale certamente fu da Dio fin dal momento costituito questo universo, sì nelle parti sue che Dio vide esser buone dopo averle create, sì nel suo tutto che vide essere buono assai. Le quali denominazioni di buone e di assai buone indicano manifestamente quella perfezione compiuta di che parliamo: perocchè Iddio non avrebbe semplicemente data l' appellazione di bontà alle cose, se fossero state manchevoli e disgiunte da quel Dio, a cui son fatte e il quale solo è buono. Di qui è che S. Tommaso conchiude che l' Angelo doveva essere stato creato in grazia; e che egualmente si può conchiuder dell' uomo, e dice che l' uomo ad un tempo coll' intelligenza deve aver ricevuto la grazia, quale seme e principio di tutto ciò, in che si doveva poscia sviluppare l' umana natura nell' ordine soprannaturale (2). E tutte queste cose dànno aiuto, perchè si dia un senso preciso e luminoso a quelle parole del Genesi, colle quali si narra appunto l' istituzione prima dell' uman genere: « Facciamo, dice Iddio, l' uomo a imagine e similitudine nostra« (1) ». Dove pare che per similitudine venga espressa l' intelligenza e per imagine la grazia: usa due parole a significare i due semi, per così dire, posti nell' uomo a principio dai quali germinassero poi i due ordini, il naturale, dico, e il soprannaturale (2). La quale dichiarazione sembra potersi confermare anche da ciò che il sacro storico, dopo aver detto che Dio si propose di formar l' uomo a imagine e similitudine sua e narrato come lo formasse, soggiunse: « E Iddio creò l' uomo a imagine sua, a imagine di Dio lo creò« (3) ». Dove non replica più la parola similitudine come quella che era già contenuta nella parola imagine: e questo che il fece a sua imagine il replica due volte, quasi per mostrare che in essa è tutto il nerbo e la perfezione della dignità umana. Ma io non dò tuttavia questa interpretazione per sicura: e se più si vuole, al mio intento giova egualmente e forse meglio, che quelle due parole d' imagine e di similitudine non si cerchi distinguerle e separarle, ma si prendano tutte due insieme per un cotal superlativo, che venga a dire un' imagine assai simile (4). Poichè con questo aumento di forza nel significato della parola si viene a dire, che non una semplice similitudine era messa nell' uomo da Dio, ma un' imagine assai somigliante, cioè non la sola intelligenza ove sta la similitudine, ma anco la grazia che rende questa similitudine una vera e viva imagine per la partecipazione appunto del Verbo, prima e sola imagine della divina sostanza. Nella quale interpretazione verrebbe ottimamente espressa quell' unità del lume naturale e soprannaturale, e si porrebbe questo come un cotal grado maggiore, un cotal perfezionamento di quello, che è ciò appunto che noi diciamo; il perchè questa interpretazione di buona voglia alla precedente noi preferiamo. E fatta una cosa sola di quella imagine e similitudine che accenna la Genesi, torna vero che quest' impronta non si scancella dall' anime interamente per lo peccato, dopo il quale rimane la natura umana e in essa il lume dell' intelligenza, come osserva S. Agostino. Ma questa cotale impronta non è veramente detta imagine con intera proprietà della parola (1). All' opposto se si voglia separare l' una cosa dall' altra e pigliare il primo grado di lume cioè il lume naturale per una similitudine, e al secondo grado di lume cioè al soprannaturale riserbare il nome d' imagine; in tal significato imagine di Dio è solo il Verbo, e l' uomo è per la partecipazione del Verbo, come dicevamo. In questo senso della parola imagine, che è il più vero, dice S. Ambrogio: « Nisi per imaginem Dei (per il Verbo) ad imaginem Dei esse non potes (2) ». S. Cirillo d' Alessandria nel medesimo sentimento così si esprime: [...OMISSIS...] . S. Atanasio parimente: [...OMISSIS...] . Indi è che S. Basilio chiama il Figliuolo imagine effettrice d' imagine (2), perchè egli, imagine di Dio vera, produce in noi la stessa imagine sè a noi comunicando: di che egli è come un suggello rispetto all' anima nostra e lo Spirito Santo è quello che lo usa sigillando in noi quella che viene chiamata anco faccia o volto di Dio (3). E di qui si sente il valore di quelle parole che disse Cristo parlando di sè stesso: « Hunc enim Pater signavit Deus (4) »; volendo dire: questo è il suggello improntato di Dio Padre che suggella l' anime mettendovi l' effige divina. E pare che il peccato di quel Cherubino di cui dice Ezechiele per ischerno: Tu sei il suggello della similitudine (5); fosse appunto questo, di aver usurpata quella prerogativa che al solo Verbo divino si addice, d' essere vera imagine di Dio e suggello che impronta la stessa imagine nelle intelligenze. E per conciliare questi Padri e molt' altri, i più della Chiesa Orientale, che potrei addurre (6); i quali sostengono che « l' imagine di Dio nell' uomo è solo il Verbo coll' anima dell' uomo congiunto« », con S. Agostino al quale non piace udire che l' imagine di Dio si spenga col peccato, ponendola perciò appunto quest' imagine non solo nella Grazia, ma ben anco nella natura dell' uomo; per fare, dico, questa conciliazione, senza mutare il significato vero e proprio della parola« imagine«, ecco qual mi sembra la via sicura e coerente colle teologiche dottrine. Il Verbo solo è l' imagine di Dio. Nell' uomo adunque preso naturalmente havvi l' imagine di Dio a quel modo che nella natura delle cose v' hanno i vestigi della Trinità. Questa è sicuramente la mente di S. Agostino e di S. Tommaso, i quali sostengono essere nell' uomo naturale l' imagine di Dio, non meno in quanto alla divina natura che alle persone (1). Ora i vestigi delle Persone divine sparsi nella natura eziandio ragionevole non sono tali se non per una cotale appropriazione che noi facciamo di quelle qualità all' origine delle divine Persone, e non perchè siano veramente atte a rappresentarle (2). Medesimamente l' imagine di Dio uno e trino è nella mente umana per una cotale appropriazione che noi facciamo. Ma là dove si parla di un' imagine non per appropriazione, ma secondo la proprietà della parola, l' imagine di Dio è nell' uomo per la Grazia, allora quando si fa nell' uomo l' operazione deiforme, e si compie quest' imagine mediante l' operazione triniforme, nella quale il Verbo a noi si comunica. Iddio creò l' uomo in tutte le sue potenze perfetto: lo rese immantinente attivo e parlante (3). Ma l' uomo con tutte le sue potenze non aveva in sè la propria felicità, appunto perchè le potenze non sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda di essere riempito. L' uomo non trovava dunque in sè stesso se non un vuoto: ma poteva egli forse meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l' intero universo materiale era minore di lui, dotato d' intelligenza: e egli stesso, tanto eccellente, era pur solo una capacità, come dicevamo, una capacità infinita. Questa creatura adunque aveva un essenziale bisogno di Dio perchè fossero pienamente appagate le sue brame (1). I filosofi trovano strano che la creatura abbia bisogno del suo Creatore, e vogliono che essa pur basti a sè stessa. Ma quanto sono lontani dal conoscere la natura umana! Che questi sieno esseri così insociabili fra di loro, i quali non possano avvicinarsi, agli occhi della filosofia? Anzi qual ferocia d' animo muove i filosofi a decretare sì crudele separazione? Proibire alla creatura di accostarsi, rifugiarsi nel seno del suo Creatore? Proibire al Creatore di accogliere la creatura che a lui rifugge, o vietargli di trastullarsi a suo senno con essa, di non addomesticarsi amorevolmente all' opere delle sue mani? Che enti sono questi, che dicono all' Eterno che li ha formati: « ritirati da noi, noi non vogliamo la scienza delle tue vie?« (2) ». Ma e dove si ritirerà il Creatore, se deve uscire dalle creature? Vi ha cosa o luogo che non sia da lui creato? E uscendo da tutta la creatura, questa potrà sussistere da sè sola? Non si trova contro natura o inconveniente che il padre conversi coi figliuoli suoi e i figliuoli col padre, che conversino gli amici fra loro: e la filosofia razionale avrà finalmente scoperta questa sì grande verità, che a Dio solo sia proibito di manifestarsi palesamente agli uomini da lui tratti dal nulla, sotto pena di essere dichiarato stolto, perchè non ha formato gli uomini in modo da non dover avere bisogno di lui? Che dissennatezza, o piuttosto che furore è codesto? Imperocchè i selvaggi non hanno giammai pensato cose nè tanto goffe nè tanto ripugnanti nè tanto stomachevoli come queste dei filosofi naturali. Niente adunque di più confacevole alla natura dell' ordine soprannaturale alla natura congiunto; il quale non è poi altro se non un cotale compimento di perfezione che esige necessariamente la limitazione di essa natura, la qual solo coll' unirsi col suo Creatore ottiene la sua ultima cima e perfezione, e coronata, quasi da Dio, acquista consistenza, dignità, partecipa di quegli attributi divini nei quali solo risiede la nobiltà e l' eccellenza (3). E perocchè le opere di Dio sono tutte perfette, come dice la Scrittura, ed egli è senza modo sapiente ed ottimo, perciò non poteva tener l' opera sua dentro i termini di un finito e limitato bene; ma doveva naturalmente volgerla a un bene infinito, a sè ordinandola e congiungendola. Di che la Scrittura dice « aver Egli operate tutte le cose per sè stesso« »; chè veramente il dare un altro fine alle cose men grande che un infinito, sarebbe stata causa dissonante dall' infinita sua potenza, sapienza e bontà; e con questo fine, ogni universo che gli fosse piaciuto creare, grande o piccolo, conteneva tuttavia la dote di una somma perfezione e di un valore impregiabile (2). Ed ora questa comunicazione loro quasi per una cotal legge naturale riusciva come l' apice alle creature sue, per la quale Egli medesimo congiunto e direi quasi il comignolo dell' universo doveva finire nella« grazia«, cioè in una comunicazione interna e reale. La quale grazia attribuendosi allo Spirito Santo, avviene che il Santo Spirito riceva dai Padri la denominazione di « forza perfezionatrice« (3) », come quello che tutte le opere di Dio ultima e perfeziona (4). Non solo adunque non è indegno della sapienza divina l' aver creato il mondo con un bisogno essenziale del suo Creatore, ma Dio stesso non poteva anzi far altro, se pur voleva che nel mondo fossero degli esseri intelligenti, per la necessità che hanno questi di ricercare incessantemente un infinito; ma se anche avesse potuto fare altramente, non sarebbe stato il farlo condecente alla sua somma bontà, e perciò immensamente diffusiva. Se però era uopo che Dio si comunicasse ad Adamo, il modo però del farlo conveniva che fosse soave, come è tutto l' operare divino e accomodato in tutto e per tutto all' umana natura. Per ciò come l' uomo ha una parte di sè interiore consistente nell' anima intellettiva, e una parte esteriore, cioè il corpo sensitivo; e come questo corpo sensitivo col quale l' uomo è in comunicazione coll' universo materiale, è ordinato a dover essere ministro all' anima delle notizie delle cose e eccitamento alle sue nobili operazioni: così conveniva che anche il Creatore influisse nella creatura per questa via esteriore e per essa, quasi direi, si introducesse nell' anima, quasi pei meati proprii di questa natura, mista di materia e di spirito. E però il Genesi ci dipinge Iddio che va diportandosi per lo giardino della delizia, quasi a pigliarvi l' aria che spira dopo il meriggio, probabilmente con aver prese forme simili alle umane e fors' anco le forme stesse che furono poi della umanità assunta dal Verbo. Tutta quella descrizione che fa il Genesi del Creatore che conversa colla sua creatura, mostra cosa somigliante a un padre che vive dimesticamente in mezzo della sua famiglia e tratta con soavità e dignità insieme co' suoi figliuoli. Questo Dio non era il Dio inacessibile nè qualche cosa di straniero e di remoto in lontanissima regione, ma era unito col mondo e consociato coll' uomo e temperata la maestà sua da corporali sembianze, velato l' abisso della sua gloria dentro umili forme; si dava a contemplare dall' uomo a quel modo che si contempla il sole d' infra un vetro appannato od infra i vapori nell' aria diffusi. In tal maniera Dio si era adattato al bisogno dell' uomo, restringendosi e circoscrivendosi per essere accessibile ed acconcio all' umana bassezza: ma questo cotale esterno adattamento che faceva il Creatore di sè per avvicinarsi alla sua creatura e che il rendeva, quasi direbbesi, una parte della natura stessa, un essere connesso con tutti gli altri esseri, quasi il supremo anello della catena, non toglieva però a lui di potersi manifestare altresì nella propria grandezza della divinità, giacchè da quelle limitate apparenze egli diffondeva e le parole della vita e le opere della maestà, e indi il pieno dominio esercitava su tutto l' universo, e quanto egli voleva od occultamente od in manifesto modo operava. Questa sua sensibile e quasi direi corporal presenza nella natura doveva secretamente e in palese influire sopra di essa natura conscia della prossimità del suo Creatore (1): era un glutine quella divina presenza, per così dire, che attaccava e infra sè commetteva le parti dell' universo, era un aroma, una virtù corroborante, conservatrice di tutte le cose, onde queste ritraevano un vigore e una speciale vitalità che impediva loro la corruzione; e ivi finalmente risiedeva la mente provvida, a cui ogni cosa obbedendo rendeva un' armonia, più soave d' ogni più squisito concento alle spettatrici celestiali intelligenze (2). Il Creatore adunque in quest' abito, per così dire benignissimo e affabilissimo si interteneva coll' uomo, col mostrarsi a lui e favellargli, lo ammaestrava lo sollevava e ingrandiva. L' uomo non riceveva già solo ne' suoi orecchi i nudi suoni delle parole del Creatore, atti a eccitargli alcune idee, nè solo aveva la sensibile apprensione del Dio, che gli si manifestava, ma quelle parole erano vitali, e vitale era pur la vista e ogni sensibile percezione di Lui: cioè a dire quelle parole e quelle percezioni erano ministre di grazia interiore, la quale, purchè l' uomo avesse aperto l' adito del suo cuore, entrava abbondante, e tenendo però una cotal proporzione coi segni sensibili ai quali ella era per una cotal legge annessa. E questi erano i sacramenti del tempo dell' innocenza, dove pure veggiamo la grazia venire inserita per la via de' sensibili segni, siccome ad uomini, cioè ad esseri intelligenti, a cui è dato un corpo qual mezzo del loro sviluppamento e della loro perfezione, si conveniva. In tal modo uno è il disegno dell' Altissimo, una e sempre del medesimo tenore la sua sapienza e provvidenza pel bene del genere umano, una provvidenza, dico, sempre egualmente adattata all' umana natura. Sicchè Colui che ci ha dato i sacramenti nella legge evangelica dimostra d' essere il medesimo con quello che ha istituito da principio l' uomo dell' Eden: e come ora, così in quel primo tempo, ebbe la divina grazia co' segni esteriori accompagnato. Dal medesimo stile si riconosce la stessa mano. La grazia non entra propriamente nell' uomo, se l' uomo, con un assenso della sua volontà, non la riceve in sè medesima. Quindi per quantunque doni avesse Adamo da Dio ricevuti, doveva però accrescere in sè la santità e la grazia con degli atti successivi di buon volere. Vi aveva dunque una scala di meriti per la quale Adamo doveva ascendere, fino a essere confermato in grazia e nella immortalità. Sembrerebbe potersi dire che fra i segni sensibili a cui è fissa la grazia, gli atti della volontà onde l' uomo vi corrispondeva e gli aumenti successivi della grazia medesima, esistesse quasi un' armonia prestabilita. La volontà dell' uomo segue di pari passo lo sviluppamento dell' intelligenza. Sebbene Iddio avesse comunicato all' uomo, favellandogli, tutte quelle notizie di cui egli abbisognava, tuttavia restava all' uomo ancora di fare un grande uso di sue potenze intellettive colle quali acquistare molte cognizioni sperimentali e di riflessione. Dalla percezione de' suoi sensi e da quanto aveva udito da Dio, ebbe Adamo la scienza diretta: restava a lui a scomporre, ad analizzare questa scienza, e in una parola a cavarne tutto ciò che possono dare di distinzione, di lume e di ampiezza tutti quegli ordini delle varie riflessioni, il cui numero è indefinito. Tutto ciò modificava e perfezionava in lui le notizie dei beni sotto i varii aspetti ne' quali il bene all' uomo si presenta; e quindi venivano perfezionandosi continuamente gli atti della sua volontà. Allo sviluppo dell' ordine naturale dell' intelligenza e dell' amore corrispondevano, come abbiamo detto, i doni della grazia. Non è dunque a credere che la mente di Adamo fosse arrivata già nel primo istante alla percezione del sommo bene per tal modo, che questa non potesse ricevere nella sua mente maggior lume e evidenza, e farsi continuamente più attuale, più immediata: anzi doveva venir componendosi lo stesso concetto del bene in modo via più concreto, per un' induzione che movea dai beni sensibili, e conduceva al soprasensibile. Così il bene, in ragione di bellezza, si doveva comporre nella mente di Adamo prima dalle bellezze sensibili, e quindi dalle spirituali; e in queste stesse quasi per gradini di una scala ascendere al bello perfetto e ideale che pur trovava realizzato e in istato di sostanza nel suo sommo Fattore. Il quale progresso dalla bellezza terrena a una celeste e divina è quello che vide già Platone essere sommamente conforme all' umana intelligenza, e che mi ricorda di avere io espresso in alcuni versi sullo stato di Adamo, i quali, se la memoria non erra, furono questi: [...OMISSIS...] Or dove giungeva la mente col concetto, indi traeva la volontà il suo amore; e all' intelleto e amor naturale si accompagnava forse sempre un intelletto e un amore infuso per grazia, la quale grazia mostrava nell' idea la sussistenza del sommo bene e ne dava l' intima e beante comunicazione. E per questa via l' uomo doveva pervenire al sommo della perfezione morale e dell' unione con Dio: la quale unione, ove divenuta fosse per tal modo piena e compita, io penso che allora l' uomo quasi deificato avrebbe acquistate le doti della immobilità nell' unione con Dio, nell' immortalità e nella suprema beatitudine. Ma che questo corso di cognizioni, di affetti, di grazie si avesse per Adamo a trascorrersi, il provano altresì quelle parole colle quali il Genesi assegna il fine prossimo e più basso pel quale l' uomo fu creato e messo dentro il paradiso: [...OMISSIS...] . In queste parole viene descritto l' uomo come il padrone dell' Eden, come il Re dell' universo, come quello che colla sua maestà rappresentava Iddio, del quale portava l' imagine in fronte, alle altre creature sulle quali esercitava appunto per questo una pienissima signoria (1). Acciocchè poi questo piccolo dio della terra riconoscesse che egli era sottomesso al Dio del cielo, al Creatore del tutto, gli fu dato il fatale precetto. Ora in tutta questa descrizione apparisce che l' uomo fu posto, per così dire, in basso luogo rispetto a Dio, fu rivolto a lavorare e governare gli esseri privi di intelligenza; quindi doveva cominciare, e da questo primo fine della sua creazione, assai angusto, a dir vero, verso all' immensa capacità della sua anima, doveva poi per suo merito sollevarsi di mano in mano e sempre più congiungersi al suo creatore, togliendo la faccia dal ben finito e levandola più e più all' infinito e divino. A lui era dunque conceduta da prima quella felicità, se così vuol chiamarsi, che può dare la pienezza dei beni naturali a un' anima pura e innocente: ma in quest' anima dovevano poi risvegliarsi da sè altri desideri, altri bisogni, altri voti maggiori, tosto che la meditazione avesse rivelata a se stessa l' immensa sua capacità e l' infinito oggetto pel quale solo veramente era stata creata. La differenza fra l' ordine della santità e della grazia corrispondente nell' uomo innocente, e l' ordine della santità e della grazia nell' uomo redento, è il seguente. La grazia nell' uomo primitivo doveva perfezionare la natura e la natura di grado in grado perfezionata doveva passare a uno stato sempre più eccellente, doveva ognor più spiritualizzarsi, senza giammai, per così dire, tornare indietro. Doveva quindi per aumento di sapienza, di santità e di grazia accrescersi continuamente la vita, anche quella che consisteva nell' unione dell' anima col corpo, fino che questa vita doveva rendersi inamissibile: il che sarebbe avvenuto in quel tempo che si fosse resa inamissibile e piena anche la grazia e la fruizione di Dio. Noi ripugniamo alla morte, e ripugniamo eziandio che sappiamo per fede che dopo la morte ci sta preparata una nuova vita per Cristo: ma, come dice l' Apostolo, noi non vorremmo essere spogliati ma sopravvestiti, acciocchè dalla vita venga assorbito quanto vi ha in noi di mortale (2). Questo desiderio dell' umana natura veniva soddisfatto nello stato d' innocenza. Non avevamo bisogno di morire per essere ammessi alla visione di Dio, ma passavamo a tanta visione d' un passaggio soavissimo, la quale veniva a noi come una veste di gloria che ci sopravvestiva senza bisogno di spogliarci delle membra del corpo e deporre la vita della natura. Anzi ciò che vi aveva di difettoso nella vita naturale, ciò che vi aveva di mortale, veniva, secondo la calzante espressione dell' Apostolo, assorbito dalla vita, cioè da quella vita piena di Dio la quale nulla ha in sè di mortale e della quale venivamo fatti partecipi come di un cotale indumento di gloria e di incorruzione. Il contrario avviene nella condizione dell' uomo peccatore: perciocchè l' uomo peccatore fu condannato alla morte e non può andar vana la parola divina. Quindi il Redentore non tolse direttamente a camparlo dalla morte, ma a mettergli un seme di salute nell' anima, il quale, anche dopo morte, lo avvivasse e facesse risorgere con un corpo nuovo, cioè non più col corpo del peccato, alla morte soggetto. Qui veniva a battere quello che disse Cristo a Nicodemo: « Se alcuno non sarà rinato nuovamente, non può vedere il regno di Dio« (2) ». E` necessaria un' altra generazione: non è più ristorabile l' uomo vecchio, questo si deve abbandonare alla sua distruzione: tutta la speranza sta in un nuovo nascimento, in una nuova orditura e ricomposizione dell' umana natura. E il nascimento nuovo, cioè il principio della nuova vita che l' uomo deve ricevere, non è più dalla carne e dal sangue, non comincia dall' imperfetto per andare al perfetto, ma discende da Dio e viene dal perfetto a vivificare l' imperfetto. Non è il corpo, come nel tempo primo dell' uomo innocente, che manoduce lo spirito, e gli è ministro aiuto e compagno nell' acquisto della perfezione della vita: è lo spirito quello che domina e salva il corpo stesso. Nell' età dunque dell' innocenza tutto era in armonia nell' uomo, tutto si perfezionava, nulla si distruggeva, tutto l' uomo con tutte le sue parti procedeva all' acquisto dell' incorruzione e della vita beata. Di presente l' uomo non può sopravvivere, l' uomo deve perire, perchè è l' uomo del peccato. Solo in una delle due parti però dell' uomo, cioè nell' anima, Iddio che vuole pur salvo quell' uomo stesso che deve perire, con ammirando consiglio nasconde un germe vitale, cioè la grazia del Redentore; asconde anzi sè stesso, e in questo germe si accolgono tutte le speranze dell' uomo, tutti i suoi beni. In che adunque consiste, nello stato in cui ora è l' uomo, la santità? Nella fede, per mezzo della quale egli eseguisce quanto diceva a Dio Giobbe: « Eziandio se tu mi ucciderai, io spererò in te« (3) ». L' uomo spera nel suo Dio, sebbene sappia che lo darà in preda alla morte. Adamo si tolse da Dio quando gli prometteva l' immortalità: e Cristo e il suo discepolo confida in Dio quando sa pure che lo uccide. Anzi tanto confida, che egli si unisce colla giustizia di Dio medesimo contro di sè e contro tutto ciò che è macchiato di peccato, e tripudia che sia devoto alla morte tutto ciò che si è rivoltato al suo Creatore, e segue magnanimamente Colui che invitandolo a sè, gli dice: [...OMISSIS...] . Tanto è più sublime la virtù e la grazia dell' uomo peccatore, in Cristo, che non fosse quella dell' uomo innocente in Adamo! (2). Il perchè dice S. Paolo: che la conversazione dell' uomo cristiano è nei cieli. Non è come quella di Adamo sopra la terra. L' uomo cristiano sa che la terra è maledetta e non è più sua abitazione permanente, e deve andar cercandone una futura (4). Coll' intenzione pertanto del suo spirito il cristiano è già morto alle cose terrene le quali a lui tornano di peso e noia infinita, non foss' altro, perchè gli si sono fatte muro di separazione dal suo Dio, il quale si è allontanato da una natura prevaricata: sospira perciò il termine della sua peregrinazione, il rompimento de' suoi ceppi per essere con Cristo risorto per non più morire giammai, col quale il cristiano già vive fin di qua giù per una santa e inconfusibile speranza. Di che allontanato e staccato co' suoi affetti da ogni cosa sensibile, egli non cerca nè chiede che le celesti e spirituali, come quelle nelle quali ritrova anche la salute stessa della sua porzione corporea, la salvazione di tutto l' uomo. Di questi sentimenti è tessuto il Nuovo Testamento, e S. Paolo li esprime ben sovente con una forza maravigliosa: [...OMISSIS...] . Questa vita del cristiano nascosta, la quale non è altro che Cristo stesso, è appunto quel seme della grazia gittato nelle anime, la qual grazia è il Verbo stesso cui noi portiamo nell' essenza dell' anima, ma ancora velato, e che si rivelerà in noi alla morte nostra, apparendoci visibile Iddio siccome egli è. Il perchè sebbene nella prima istituzione dell' umanità in Adamo fosse fornito di grazia e nell' essenza della sua anima Iddio realmente esercitasse una segreta azione, tuttavia questo Dio che abitava nell' essenza dell' anima dell' uomo, non diffondeva però a prima giunta tanto la sua virtù per le potenze, in modo da investirne anche il corpo, fino a partecipargli l' incorruzione e quella spiritualità che lo rendesse definitivamente immortale: ciò che avviene nella seconda istituzione della umanità fatta in Cristo risorto, dopo che l' umanità prima progenerata da Adamo fu distrutta colla morte. L' umanità dunque riassunta e ricostruita dalla sua distruzione è simile all' umanità prima rispetto all' anima, in quanto che nelle due umanità non havvi peccato alcuno: ma non è simile rispetto al corpo, perocchè la grazia di cui è fornita l' umanità rifabbricata da Dio, si vantaggia tanto sopra l' antica, che di grazia è ricolma e trabocca sicchè il corpo stesso n' acquista e partecipa le doti degli spiriti, le quali sono principalmente l' incorruzione e la vita immortale. Indi è che l' Apostolo paragona l' uomo rigenerato in Cristo al primo creato in quanto allo spirito, dicendo: [...OMISSIS...] . Ma in quanto al corpo, il qual corpo non esiste rinnovellato se non dopo la risurrezione, mostra il vantaggio del secondo uomo sopra quel primo in queste parole: [...OMISSIS...] . Cioè a dire, nel primo uomo il corso della vita moveva dal corpo animale e andava allo spirito rendendosi ognor più spirituale, dall' imperfetto al perfetto: nel nuovo Adamo la vita procede dallo spirito, e va dal perfetto a vivificare l' imperfetto. E continua: [...OMISSIS...] . Così la grazia trionfa senza fine nell' uomo nuovo, spiegando tutta la sua forza rinnovellatrice: nell' uomo antico Iddio colla grazia non aveva che da aiutare la natura, ma qui egli ha da creare una nuova natura, qui fa tutto la grazia, e rigenera, e perfeziona; in quell' antico uomo la grazia non faceva che una parte e la natura era supposta e data precedentemente alla grazia per soggetto. Vero è che anche quella natura dell' uomo primo era operazione di Dio e Dio ne veniva glorificato; ma quell' operazione non era che divina . L' operazione di Dio all' incontro onde l' uomo viene rifatto, ricreato (giacchè è chiamato dall' Apostolo, una nuova creatura) è tutta operazione deiforme ; e qui sta ciò che il medesimo Apostolo chiama la gloria della grazia di Cristo. Questa seconda operazione è infinitamente più gloriosa a Dio della prima, cioè della creazione, perchè essenzialmente santa, sicchè tutte le cose si rendono obbedienti in tal modo alla santità: in una parola l' operazione divina della prima creazione aveva per termine la natura limitata, l' uomo; ma l' operazione deiforme della seconda ha per termine Dio nell' uomo: sicchè questa operazione è tanto più grande e a Dio più gloriosa da parte dell' oggetto, quanto è dell' uomo più grande Iddio. Nella prima istituzione adunque dell' uomo due erano i principii, sebbene contemporanei, la natura che veniva dalla potenza creante di Dio, e la grazia che veniva dalla potenza santificante e rendeva perfetta quella natura. Nella seconda istituzione uno solo è il principio, la grazia, e questa è creatrice insieme e perfezionatrice dell' uomo nuovo. Tutto qui fa la grazia, tutto qui è Dio, il principio, il mezzo e il fine: benchè l' uomo poi, venuto il tempo della libertà, possa corrispondere o no all' opera della grazia. Quella grazia antica insomma assorbiva bensì colla sua vitale virtù ciò che vi aveva di mortale nell' uomo, secondo l' espressione di S. Paolo: ma questa grazia nuova assorbe la stessa morte , come aveva predetto Osea: [...OMISSIS...] . Sebbene non era condecente all' infinita bontà del Creatore che avesse creato l' uomo abbandonandolo alla propria natura senza aggiungergli la grazia; tuttavia non è assurdo di supporre l' uomo in tale stato: ed è una di quelle supposizioni che aiutano ad analizzare ciò che si compone di più principii e a vedere che cosa a' singoli principii si debba attribuire. Così fanno i matematici quando spogliano i corpi di certe loro qualità anche essenziali per calcolare l' una dopo l' altra tutte le semplici forze di cui sono forniti. Supponiamo adunque l' uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sè non avrebbero potuto avere nissuno sviluppamento: e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella, colla qual solo vien tratta all' azione la sua potenza di riflettere e di astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà, ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella, tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovare egli medesimo. L' uomo può concepirsi in questo stato: e tuttavia privo di ciò che spetta a un ordine di cose divino o soprannaturale. Quale adunque sarebbe stato il grado di libertà che avrebbe avuto l' uomo in questo stato? Avrebbe egli avuto in sè tanto di vigore da mantenere fedelmente la legge morale? O anzi per un cotal mancamento di forze sarebbe egli stato necessitato a peccare? Rispondendo a sì fatta questione, in primo luogo osservo, che certamente non avrebbe peccato l' uomo posto nel detto stato di natura pura, se non ne avesse avuta nessuna cagione impellente (1), cioè se non gli fossero insorte tentazioni che il lusingassero di volgersi dal retto e giusto operare al torto e ingiusto. Ciò posto, veniamo a vedere quali tentazioni di peccare potevano darsi all' uomo in quello stato. Dalla teoria morale da noi esposta (2) risulta manifestamente che tutte le tentazioni di peccare, a cui può soggiacere una creatura intellettiva, si possono ridurre ad una sola formola e semplicissima, cioè« la tentazione si dà allora quando il bene soggettivo si trova in collisione del bene oggettivo«. Il bene oggettivo è il bene in quanto è bene, in quanto è mostrato dalla ragione: e il riconoscerlo praticamente per tale è l' essenza dell' obbligazione morale. Il bene soggettivo è il bene non considerato in sè stesso, ma considerato relativamente al soggetto che lo percepisce. Il bene oggettivo adunque è il fondamento della Morale : come il bene soggettivo è il fondamento della Eudemonologia , ossia scienza della felicità. Fino a tanto che quello che è bene oggettivo fosse egualmente anche bene soggettivo, egli è evidente che il soggetto non avrebbe alcuna tentazione che il togliesse dall' ammetterlo e amarlo per quel bene che è. Parimente se il bene oggettivo fosse indifferente, quanto al rimanente, al soggetto, e non gli fosse nè di noia nè di particolare piacere, egli è indubitato che il soggetto uomo sarebbe fedele al bene oggettivo e lo ammetterebbe e riconoscerebbe per quello che vale; perciocchè tale è l' indole della natura ragionevole che il bene oggettivo è già per questo solo suo bene e le è naturalmente dilettoso il fare un atto di giustizia e dare al bene conosciuto quel prezzo che egli pur merita. In questi due casi adunque non ci sarebbe cagione alcuna dalla quale la natura ragionevole fosse incitata a t“rsi dalla giustizia rendendosi ingiusta. Tutto adunque il cimento di violare le leggi della giustizia, a cui può esser messa una natura intellettiva e volitiva sì come è l' uomo, sta qui, quando da una parte la ragione gli presentasse il bene oggettivo, e dall' altra il sentimento fosse affetto da un bene soggettivo, e questo bene soggettivo avere o seguire non si potesse senza disconoscere e ripudiare il bene oggettivamente considerato, il bene in sè, il bene estimato col giusto suo prezzo e valore. In tal caso quindi la legge morale intima che non si deve stimare e seguire praticamente il bene se non per quello appunto che vale in sè: dall' altra il sentimento cieco suggerisce e persuade di seguire il bene non per quello che è, ma per quello che attualmente e momentaneamente diletta senza più. Queste due voci, della verità dall' un canto, della inclinazione sensitiva dall' altro, sono quelle che generano nell' uomo il combattimento morale e che formano l' essenza della tentazione. E ora dunque si domanda: L' uomo della natura non guasta sarebbesi mai scontrato a tal bivio nella sua vita dove, se avesse voluto seguitare la regola del bene oggettivo, gli convenisse privarsi in tutto o in parte del bene soggettivo (1) e quindi avesse provato una tentazione? E se questa tentazione si fosse trovata, di che natura e di che forza essa era? Poteva mai crescere in tal modo da dover vincere il valore della libertà di cui era l' uomo fornito? In quanto alla prima di queste dimande, io rispondo che essendo i beni soggettivi creati limitati, poteva, anzi doveva, avvenire che si desse collisione fra loro, cioè che l' uomo non li potesse avere e godere tutti insieme. E quindi che gli bisognava farne scelta, sì per sè, che per gli altri uomini: la qual scelta non poteva farla con altro che colla ragione di cui era fornito, e doveva essere ragionevole, cioè gli conveniva per obbligazione morale di scegliere il bene che nel complesso suo e finale risultamento fosse il migliore, e il maggiore, e il più perfettivo della sua natura, così in ordine allo sviluppamento di sue potenze, e sì in ordine al grado del suo godimento. Ciò è quanto dire che doveva stimare i beni soggettivi in un modo oggettivo, secondo quel valore appunto che avevano fra loro estimati e pesati sulle bilancie della ragione: per la quale stima solamente quei beni soggettivi si rendevano onesti, ossia di dignità morale forniti. Ora fino a che si fosse trattato di dover fare scelta tra beni soggettivi presenti, nessuna collisione cader poteva tra essi di tal natura che mettesse l' uomo in cimento di moralmente fallire: imperocchè era egualmente in tal caso interessato l' appetito dell' uomo a scegliere il complesso maggiore di beni e la morale sua coscienza; perocchè questa gli precetteva di scegliere il più che potesse del bene, e l' appetito nulla di meglio poteva volere. Ma ove si fosse trattato di paragonare insieme dei beni presenti con dei beni futuri, allora si poteva trovare in una cotale discordia l' appetito sensitivo e la ragione. Perocchè l' appetito di sua natura è cieco, e senza previdenza; e la ragione sola mette a calcolo il futuro. Quindi l' appetito con subitaneo moto persuade l' uomo al godimento istantaneo: la ragione tempera e regge questa persuasione inconsiderata che l' appetito vorrebbe ingerire, e impera la virtù della temperanza, ovecchè il presente bene impeditivo sia di un futuro e maggiore. In questa collisione pertanto non poteva l' uomo vincere, sempre, colla sua volontà ragionevole il torto suggerimento dell' appetito? facoltà che presiede alla soggettività del bene, senza più, e quindi essenzialmente priva di moralità? Rispondo che, trattandosi di beni naturali e sensibili (1), ciò poteva fare certamente il libero arbitrio dell' uomo fornito di una perfetta natura. Perocchè sebbene i beni presenti esercitassero una reale azione sull' appetito dell' uomo, e i beni futuri solo un' azione ideale , e sebbene questa fosse minore di quella (2); tuttavia la volontà ragionevole poteva sempre dominare e frenare la reale azione che esercitavano i beni presenti sul movimento dell' appetito. E ragione di ciò si è che la provvida natura fornì alla ragione uno strumento o un' arme da contrapporre al senso esteriore che presiede ai beni presenti e reggerne la veemenza; e questo è un senso interiore, cioè l' imaginazione, la quale nello stato di una natura perfetta stava in balia della volontà, la quale imaginazione presiede ai beni futuri. Ora trattandosi di beni naturali, l' uomo poteva sempre imaginarli, che è come un renderglisi presenti e l' eccitare in sè quella stessa azione reale, che, se presenti fossero, per la via degli organi esterni, ecciterebbero. Il perchè così mirabilmente fu costituita l' umana natura che essa due come sensorii avesse, l' uno riguardante le cose presenti, e l' altro le assenti; e l' uno de' quali, cioè quello delle cose assenti, potesse colla sua virtù equilibrare di continuo la violenza dell' altro, cioè di quello delle cose presenti; e che il primo fosse dato in pieno dominio della ragione, sicchè a questa facoltà che doveva essere la regina e signora di tutte le altre non mancasse tanto di polso da poter far eseguire coll' opera i suoi decreti. Fino a tanto adunque che si considera l' uomo entro la sfera delle cose naturali, e in cui egli non ha che a scegliere fra beni de' quali egli ha positiva cognizione ed esperienza, non poteva la sua virtù essere cimentata per modo da tentazione alcuna che egli col suo libero arbitrio resister non potesse: anzi piuttosto è da credere che assai difficilmente potesse peccare in tale stato, nel quale, per la lucidezza e prontezza della sua mente, non poteva mai errare il calcolo di ciò che più gli giovasse in questi suoi temporali interessi. E così si deve intendere, per mio avviso, la sentenza dell' Aquinate che dice: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole espressamente parla il Santo Dottore di un ordine di cose secondo la natura , ciò che corrisponde al caso, nel quale noi abbiamo considerato fin qui l' uomo naturalmente perfetto. In un tale stato l' uomo (al quale Dio non si fosse comunicato con una manifestazione positiva) dotato come era di nobilissima intelligenza e di un profondo sentimento, avrebbe senza dubbio, quasi per un cotal peso di tutta la sua natura, cercato di Dio nascosto; egli avrebbe tentato, per così dire, di trovare nell' intimo dell' universo e di sè stesso un sostegno e fondamento delle cose tutte, e non trovandolo, sarebbe andato al di là della natura stessa, al di là di sè stesso; avrebbe pensato la possibilità, la necessità di un Essere occulto che facesse tutto esistere, che rendesse tutto possibile: avrebbe anzi veduto che a tutte le cose mancava l' essere per sè e che pure l' essere gli risplendeva alla mente e gli faceva risplendere le cose tutte, e che pur dell' essere che lo illuminava e in cui le cose sussistevano, gli era maravigliosamente occulta la sussistenza, non partecipando egli che di un' aurora, che gli additava, senza mostrargli, la piena luce del sole. Egli avrebbe pertanto creduto al grande Essere a lui occulto dietro una misteriosa cortina, lo avrebbe adorato senza conoscerlo positivamente, e sarebbesi forse anco messo addentro di mano in mano e perduto in un sentimento abituale di profonda adorazione. Ma tutto ciò non esigeva da lui alcuna privazione, alcun sacrificio, se non anco era quanto di più dilettoso e di più solenne poteva desiderare e agognare la sua eccellente natura. Nè pur qui adunque, cioè nella sua relazione col Dio, naturalmente a lui noto, avrebbe l' uomo della natura incontrata difficoltà alcuna in essere giusto e in rettamente operare. Ma facciamo ora entrar l' uomo della natura in una positiva comunicazione con Dio: Iddio in qualche modo gli favelli e gli dia un precetto positivo, col quale venga imposto all' uomo una privazione, gli si ingiunga un sacrifizio di cosa appetita dalla sua natura: e non gli sia tuttavia comunicata alcuna grazia soprannaturale. Varrà il suo libero arbitrio a mantenere questo precetto? Certo varrebbe la sua ragione a conoscerne l' obbligazione, varrebbe la sua volontà a volerlo speculativamente: ma avrà eziandio tanta forza da imperare alla propria natura e a volerlo praticamente? Qui parmi di dover ricorrere al principio toccato di sopra:« la volontà razionale può vincere il senso e appetito di una cosa allorquando ella può contrapporre un altro senso e un altro appetito di forza almeno equivalente a quel primo«. Ora il senso e appetito che l' uomo può contrapporre ai beni presenti desiderati dalla natura è il senso imaginario col quale appetisce attualmente i beni futuri. Ciò stabilito, sono da vedere le condizioni del precetto positivo che si pone dato da Dio all' uomo. Se con quel precetto vien comandata all' uomo una privazione e sacrifizio cotale che l' uomo possa vincere colla libera volontà assistita dalla sua imaginativa virtù, egli potrà farlo: ma se l' imaginazione non gli bastasse a ciò, agevolmente rimarrà vinto. Il sacrifizio comandato è un male reale, presente: conviene dunque che colla imaginazione egli possa proporsi e rendersi efficacemente presente o un male maggiore nel quale inevitabilmente incorrerebbe non accettando quel sacrifizio, ovvero un tal bene che gli piaccia ottenere più che non gli dispiaccia il male che gli è offerto a sostenere. Così le Scritture dicono che Cristo stesso per sostenere la croce si propose innanzi a contemplare il gaudio che da quei patimenti gli sarebbe derivato (1). Ora all' uomo felice per l' affluenza di tutti i beni naturali e per la mancanza di ogni male non poteva essere desiderio di un bene che vincesse la ripugnanza di una privazione? Se si parla di un bene soprannaturale, in uomo privo di grazia , questo era puramente ideale e senza alcuno esperimento e quindi inetto a essere rappresentato nella sua imaginativa. Un tal bene perfettamente incognito, da lui sperato, pare che per sè stesso non sarebbe stato sufficiente da contrappesare l' avversione del male presente e tutto di sensibile sperienza. Pure poteva da lui essere imaginato un cotal cumolo di beni a lui noti, a cui quel bene incognito paragonato, gli paresse maggiore; e così vincere con questa imaginaria apprensione il male debito d' incontrare: purchè però due cose si fossero avverate, cioè per primo che fosse pervenuto a dar fede alla promessa di un tal bene; e secondo che un uomo già naturalmente felice ne avesse potuto concepire un vero desiderio (2). Ma se la speranza di un bene maggiore poteva dar forze alla volontà di sottomettersi a qualche sofferenza, ha poi in sè questa forza anche il timore di abbattersi in un male minacciato? L' uomo naturalmente felice non ha pigliato ancora sperienza di male veruno. Quindi sebbene egli abbia una cotal concezione tutta ideale del male, come di una cotal privazione o cessazione del bene che sperimenta; tuttavia la sua volontà non può punto nè poco far giocare in favore della giustizia l' imaginazione. Perocchè l' imaginazione, è un senso interiore e però non ha per suo stimolo il male ideale, ma il male reale e quel male reale che fu sperimentato nei sensi. Perocchè questa facoltà dell' imaginativa non ha altro ufficio nè potere se non di rinnovare internamente le sensazioni o più generalmente i sentimenti già sofferiti: e per ciò la libera volontà dell' uomo innocente e beato non poteva da questa parte far uso, come di forza ausiliare, della imaginaria potenza, e poco quindi avrebbe potuto ire innanzi per questa via del timore di un male minacciato. Quindi nella storia di Adamo, fra Dio che minaccia la morte e il demonio che promette scienza, immortalità e deificazione, il demonio aveva il partito migliore, perocchè prometteva un bene , men buono l' aveva Iddio minacciando un male : perchè del bene l' uomo avendo sperienza, poteva venire eccitato da esso imaginariamente, quando il male non poteva essere da lui se non idealmente concepito, il che lascia la libertà slenata a segno che non trova onde attingere forza e prender l' armi alla difesa. Il che non toglie però punto la sua autorità e augusta dignità alla legge divina: nel mentre che scuopre una limitazione e conseguente debolezza dell' umana natura. Se non che in Adamo questa debolezza era confortata dalla grazia, per la quale poteva, se avesse voluto, mantenere egualmente il divino comandamento: perchè, come abbiamo veduto, la grazia appartiene all' ordine dei sentimenti reali , dai quali la libera volontà trae le sue forze (1). E or qui un' osservazione si dee fare intorno all' intrinseca e necessaria limitazione di ogni natura finita, e per conseguente intorno altresì ai limiti che sono posti ad ogni libertà naturale di qualsivoglia creatura ragionevole. Ogni creatura ragionevole, per quanto eccellente ella sia, angelica, e sovrangelica, è limitata tuttavia in questo che ella non può volere nè l' assoluta infelicità propria, nè l' assoluta propria annichilazione. Ora ogni natura contingente, non essendo necessaria nè avendo in sè un prezzo infinito e incondizionato, egli è evidente che il prezzo della sua esistenza o quello della sua felicità è sempre inferiore al prezzo della legge morale il quale è infinito, incondizionato, eterno, ed è Dio stesso. Per ciò la legge morale esige e senza alcuna eccezione dimanda di essere preferita a tutto, fosse anche colla perdita totale della propria esistenza e della propria felicità: e questa esigenza è assolutamente obbligatoria, e di un' assoluta e intrinseca necessità morale, perocchè mai in nessun caso e per qualsivoglia danno, può essere la legge morale posposta e lasciata indietro a cosa alcuna. Egli è vero che l' ottimo Autore delle creature intelligenti non può permettere giammai una sì fiera collisione: ma tuttavia ella si lascia concepire; e la semplice concezione sua è sufficiente a poter trarre di ciò la seguente conclusione: [...OMISSIS...] : al qual termine non giunge veramente nessuna creata volontà. Indi è che nel fondo di ogni creatura esiste sempre una fallacità, esiste un difetto di pienezza di bontà morale: esiste una cotal limitazione non pur fisica, ma (quello che deve esser fonte inesausto di umiliazione alla creatura nel cospetto del Creatore) esiste una limitazione morale, benchè in nessun modo imputabile (2). E forse di questa limitazione morale altresì può intendersi quel passo di Giobbe ove dice che Iddio « trova la pravità negli Angeli suoi« (3) ». Di che conchiude che se vi ha questa deficienza di bontà morale nella natura angelica, molto più ella vi ha nell' uomo, il quale, oltre all' esser mosso dal principio razionale, è tirato e mosso altresì da un principio animale, attività cieca e inetta a percepire la luce della legge morale. Nel qual passo di Giobbe egli pare non parlarsi già di uomini particolari, ma della stessa natura umana e angelica, giacchè toccansi le condizioni comuni di queste nature, e in queste condizioni della stessa natura si fonda il ragionamento: [...OMISSIS...] . E qui pure giace sicuramente il senso più profondo e più vero di quell' alta parola di Cristo: « Uno solo è buono, Iddio« (2) ». Perocchè egli solo ha una volontà così ferma e immutabile nel bene, come è ferma e immutabile la legge stessa, mentre la stessa natura divina incommutabile è egualmente e la legge e la volontà della legge, onde questa volontà pareggia la legge perfettamente, le dà tutto ciò che le conviene e quindi sola adempie veracemente tutta la giustizia. Ciò che poi è mirabile, ciò che fa sentire la dignità sublime della grazia, si è il considerare che l' operazione deiforme della grazia rompe, per così dire, le angustie in cui sono le creature, toglie via, quasi direbbesi, i loro limiti, sana e giustifica questa cotale pravità, intesa nel senso sovraesposto, che rimane in fondo di tutte le creature, ove si considerino per sè sole. Conciossiachè la grazia opera nell' essenza dell' anima, ed è Dio stesso che all' anima formalmente si congiunge. Ora per una cotale unione l' esistenza dell' uomo partecipa dall' esistenza divina un cotal prezzo infinito, perocchè come dice S. Paolo, « chi aderisce al Signore è un solo spirito (5); e la Scrittura dice dei Santi: «« Voi siete dei« (6) ». Questa divinità partecipata fa sì che, desiderando la propria conversione, oggimai desiderino qualche cosa d' infinito, che sia Dio in essi il termine del loro desiderio, come è Dio in essi il termine della deiforme operazione. Lo stesso dicasi del desiderio della felicità. Non è più un desiderio vago, non è più un desiderio di una felicità universale: l' unica loro felicità è la giustizia stessa, è Dio stesso. Quindi la volontà della giustizia s' immedesima colla volontà di essere felici, perocchè questa felicità è oggimai determinata e tutta prefinita dalla sola giustizia trovata nella divina essenza. Quindi Adamo come quegli che era creato in grazia, poteva attingere forze alla sua libera volontà per essere compiutamente giusto. In Cristo dove non havvi altro che una persona e questa è il Verbo di Dio, egli è evidente che l' appetito, se così può chiamarsi, della conservazione e felicità di questa persona ha per oggetto Iddio. Ma questa stessa dirittura di affetti, che nasce per l' unione ipostatica in Cristo, nasce per l' unione sostanziale nei cristiani: tutto l' amor dei quali terminando in sè stessi, viene a terminare in Dio, per questo che sono fatti una cosa con Dio: « Io in essi dice Cristo parlando al Padre, e tu in me, acciocchè sieno CONSUMATI in una cosa sola« (2) ». Di gran valore e proprietà è quella parola, consumati ; poichè esprime una cotale consumazione di tutto ciò che vi è di naturale nella creatura, ridotto e quasi stemperato in Dio il quale è l' ultimo fine della creazione, acciocchè come dice S. Paolo, « Iddio sia tutto in tutte le cose« (3) ». Considerata dunque la creatura sola senza aiuto di grazia, egli è evidente potersi sempre concepire soggetta a cotal tentazione, alla qual vincer non basti il grado di sua libertà naturale: tentazione che, come detto è, procederebbe non da alcun precetto naturale, ma da un qualche precetto positivo che Iddio le imponesse e col quale le ingiungesse qualche sacrifizio; massime se il premio promesso non fosse che soprannaturale. In questo caso, l' appetito assai facilmente si renderebbe insensibile al freno della ragione: ed è sotto questo punto di vista che San Tommaso, con altri maestri in divinità, mostrano la necessità della grazia, perchè sia conservato nell' uomo l' ordine delle potenze, cioè la ragione dominante e il senso ubbidiente; ubbidienza che fanno derivare da quel rinforzo che riceve la ragione da Dio coll' essere a lui unita e sottomessa per grazia. Ecco le parole dell' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] Il che sicuramente si deve intendere nel caso della tentazione da noi sopradescritta, che si potrebbe chiamare extranaturale ; perocchè, fuori di questo caso, abbiam già udito poco sopra S. Tommaso mesimo insegnarci, che l' uomo, colla sola natura integra, poteva però evitare ogni peccato sì mortale che veniale. E in tal modo parmi che debbansi conciliare e concordare fra sè questi due luoghi dell' Angelico, che a prima fronte sembrano fra di loro pugnare (2). Dalla quale dottrina dell' Angelico conviene qui tirare intanto questa conseguenza che ci gioverà poscia in futuro, cioè: che la grazia di Adamo innocente era perfettiva di tutta intera la natura umana. Perocchè per natura umana s' intende il complesso de' principii che entrano a comporre l' umanità. Se dunque la grazia saldava e rinforzava, anzi pur completava l' ordine , in cui debbono tenersi questi principii, sia di soggezione all' essere divino, sia di subordinazione fra loro; egli è manifesto che giovava mirabilmente a tutto il complesso di questi principii, mantenendo in loro e completando il giusto ordine: il che è quanto dire, giovava e nobilitava la natura umana. Adunque l' umana natura per la grazia acquistava un tal prezzo, pel quale si faceva possibile un' assoluta giustizia come partecipazione della giustizia divina, della quale dicono le Scritture: « La tua giustizia è giustizia in eterno« (1) ». E tal prezzo aveva Adamo innocente. Ma quale fu poi questa grazia di Adamo, considerata relativamente alla sua efficacità? S. Agostino dice che questa grazia fu un cotal dono, una cotal potenza, l' uso della quale fu lasciato al libero arbitrio dell' uomo (2). La ragione, dice il santo Dottore, per la quale il primo uomo non ricevette questo dono di Dio (cioè la perseveranza nel bene), ma fu lasciato in suo arbitrio il perseverare o non perseverare, si fu che la volontà sua, istituita senza alcun peccato e senza aver nulla in sè stessa che per mala concupiscenza resistesse, aveva tali forze che cosa degna parea che si dovesse commettere a tanta bontà e a tanta facilità di vivere bene l' arbitrio del perseverare (3). Questa grazia adunque era come una potenza nuova data all' uomo (4), il qual uomo poi poteva o adoperarla o no, a suo piacimento: era un cotal sentimento, pel quale poteva resistere, se avesse voluto, all' appetito, e frenare i suoi movimenti in sacrifizio e in obbedienza del Signore; suppliva questo sentimento soprannaturale posto nell' uomo alla debolezza del bene puramente ideale, quale era la giustizia che imponeva di ubbidire a Dio eziandio con qualche sacrifizio; e questo bene ideale in un cotal modo lo realizzava e avvalorava: come appunto l' imaginazione può rendere efficace su di noi un bene futuro, di cui si abbia avuto sensibile esperienza. Or dunque quest' arma, questa virtù messa nelle mani dell' uomo, era indubitatamente atta a farlo vincere la tentazione, purchè avesse voluto adoperarla. La stessa specie di grazia, secondo S. Agostino, era stata data agli Angeli e colla medesima grazia alcuni hanno perseverato nel bene, e altri sono scaduti: non già per diversità della grazia, ma sì dell' uso che il loro libero arbitrio ne fece. Ecco come Agostino dichiara la cosa: [...OMISSIS...] . Con quella stessa grazia adunque colla quale alcuni Angeli perseverarono, colla stessa altri decaddero: e con quella stessa grazia, avendo la quale, Adamo, decadde, con quella stessa poteva perseverare. E` una medesima grazia, sempre appieno sufficiente, ma talora adoperata dall' uomo e talora lasciata inoperosa: come una spada bene affilata che sempre vale per sè a tagliare eziandio che si lasci nel fodero dimenticata. All' uomo insomma costava tanto l' usare della grazia e l' attingere forze da lei, quanto gli costava alzare il braccio, muovere i piedi a camminare o attinger acqua alla fonte per dissetarsi: la forza di muoversi non gli manca e ha pure il fonte innanzi che gorgoglia: in lui sta l' usare o non usare di tali beni. Egli è per ciò, cioè per la natura di questa grazia lasciata nel libero arbitrio dell' angelo e dell' uomo da potersi usare o non usare, che S. Agostino dice, che Iddio in quella prima costituzione dell' uomo volle fare sperimento dello stesso arbitrio dell' uomo e vedere che cosa l' uomo gli avrebbe dato col suo proprio arbitrio di soggezione e di ubbidienza: [...OMISSIS...] . E come togliea a fare sperimento di ciò che far potesse il libero arbitrio dell' uomo? Forse perchè questo arbitrio fosse abbandonato a sè solo? No, giacchè aveva in sua compagnia la grazia: ma sì bene, secondo la mente del santo Dottore Agostino, perchè questa grazia era una forza, una potenza che non operava se lo stesso arbitrio, facendone uso, non la faceva operare in sè e fruttare. [...OMISSIS...] Quella grazia adunque di Adamo e degli Angeli era una grazia potenziale , affidata alle mani della creatura, nella quale stava il ridurla all' atto e cavarne i buoni effetti (2). Ma qui uscirà taluno dicendo: per questo uscire della grazia da quello stato di potenza alla sua attuale operazione, non era forse mestieri di un nuovo aiuto soprannaturale dato all' uomo? Di una di quelle grazie che chiamano attuali ? - Rispondo, e parmi secondo la mente del Dottore della grazia, se io nulla intendo, che perchè quella grazia potenziale operasse, si richiedeva che operasse il libero arbitrio, il quale in questo era lasciato a sè stesso. Or però quando dico che il libero arbitrio era lasciato a sè stesso, non escludo l' aiuto che Dio come Creatore e conservatore delle creature presta loro, non meno, acciocchè possano sussistere che operare: sicchè Iddio, come prima causa, cooperare e muovere doveva sicuramente il libero arbitrio dell' uomo che facesse buon uso della grazia. Oltre questo aiuto presente e continuo di Dio, il quale sta nell' ordine naturale, la grazia stessa pur col passare dalla potenza al suo atto non è che Dio operante in un ordine soprannaturale; perocchè la grazia non si può muovere, nè dare aiuto e forza al libero arbitrio, se non per virtù di Dio: essendo la grazia un' operazione deiforme . Ma tuttavia egli non è assurdo il pensare che il primo movimento nascesse dal libero arbitrio rinforzato dalla grazia abituale e mosso da Dio solo come Creatore, e dietro quel primo e tenue moto che il libero arbitrio cominciava, e mediante una volontà tendente alle cose soprannaturali in quella maniera che per natura e per grazia fossero conosciute, la grazia stessa si attuasse via più speculando e traendo innanzi a fine di sostenere via più l' arbitrio che in tal modo prendeva le sue forze da lei. Sicchè il consenso alla grazia nasceva dal libero arbitrio, rinforzato però dalla grazia abituale e con questo consenso stesso si attuava la grazia e rendevasi operatrice. Insomma il libero arbitrio dell' uomo in quel tempo era sano e naturalmente inclinato alla onestà naturale e di più soprannaturalmente per grazia, cioè inclinato anco al bene soprannaturale. Ora dall' uso di un tale libero arbitrio dipendeva la sorte dell' uomo, come quella degli Angeli. E questo soprannaturale abito di grazia veniva mantenuto e alimentato, per così dire, dalla presenza sensibile della divinità in mezzo alla natura, siccome dicevamo, quasi per l' uso d' un cotale sacramento. Dopo il peccato la volontà umana rimase, perocchè appartiene alla natura dell' uomo: ma le sue forze vennero meno; perocchè il senso animale prese baldanza e si falsificò; e tutte le altre potenze si addebolirono e alterarono; e nella parte stessa superiore del soggetto umano entrò una certa superbia e lusinga di ritrovare una cotal pienezza di felicità e quasi una divinità in sè medesimo. Sicchè come bisognò ricreare l' uomo animale già preda della morte, così bisognò pure che Dio ricreasse una volontà nuova nell' uomo: e questa è l' opera della grazia di Gesù Cristo. Perciò la volontà del bene, nell' ordine della grazia del Redentore, S. Agostino l' attribuisce interamente a Dio sì per riguardo alla potenza che all' atto conseguente alla potenza. [...OMISSIS...] L' atto adunque dell' operare bene, secondo il santo Dottore, nello stato di Adamo innocente viene attribuito al libero arbitrio: nello stato all' incontro dell' uomo riparato viene più attribuito alla grazia. La ragione di ciò consegue da tutto ciò che fu detto. L' atto si attribuisce sempre alla potenza onde esce. Ora nello stato d' innocenza questa potenza era il libero arbitrio dell' uomo, perocchè questo libero arbitrio era retto, cioè tendente naturalmente al bene morale, cioè inclinato secondo l' ordine del bene oggettivo. E questa inclinazione era il principio dell' atto buono: dunque l' atto buono aveva il suo principio nella buona inclinazione originaria naturale (sebbene avvigorita altresì dall' abito della grazia) dell' umano arbitrio. All' opposto l' arbitrio dell' uomo peccatore è essenzialmente disordinato, cioè ha perduto quella naturale rettitudine, non è più volto al bene secondo la considerazione oggettiva, ma anzi ha un' originaria tendenza infetta da disordine, perchè non interamente secondo l' ordine oggettivo (1). Nell' arbitrio adunque dell' uomo infetto ancora dal peccato originale e non rinato nel battesimo, vi ha bensì il principio dell' atto cattivo, e non il principio dell' atto veramente e compiutamente buono. Quindi è necessario che la grazia del Riparatore sia tale che non solamente avvalori il libero arbitrio, ma vi inserisca a dirittura il principio degli atti buoni, raddrizzandolo e piegandolo debitamente all' ordine oggettivo del bene: e quindi è che dal Santo Dottore Agostino si attribuisce alla grazia non solo la potenza del bene, ma gli atti stessi, e che la grazia opera nell' uomo tutto, cioè tanto il volere, quanto anche il perfezionare. Nascendo adunque nell' uomo riparato il principio del bene non già dalla propria natura, ma immediatamente da Dio autore della grazia, avviene che le forze morali dell' uomo riparato, secondo il medesimo S. Agostino, sieno tanto maggiori di quelle dell' uomo innocente, quanto la grazia è più forte della natura: il che è un dire, quanto Dio è più forte dell' uomo. L' abbattimento adunque e il mancamento della natura umana diede a Dio occasione di far risplendere tutta la gloria della sua possanza e della sua misericordia, facendo sì che nell' uomo infermo e nullo, si trovasse maggior fortezza e costanza di virtù che nell' uomo intero e per ogni sua parte perfetto. [...OMISSIS...] E non è già che l' impulso della grazia di Cristo ascenda tanto e prenda questo grado di vigore subitamente e in tutti i cristiani egualmente o gli eletti, pel quale vigore questi già sieno sempre così sollecitati e propriamente necessitati a dover il bene operare. Il dir questo non è sicuramente la mente del santo Padre che ora ci serve di guida. Ma che il fondo dei suoi pensieri io reputo che sia questo: che venendo il principio del bene operare nell' uomo riparato non dall' arbitrio, ma dalla grazia, il che è quanto dire da Dio; questo principio di bene operare, a cui convenevolmente tutte le buone azioni e l' attual volere si attribuisce, è di sua natura onnipotente , e non di forze limitate, come la libertà naturale dell' uomo integro; e per ciò è cotale quel principio onnipotente del bene che può sempre produr nell' uomo una invitta e felicissima necessità dell' operare il bene e talora la produce eziandio nella vita presente. La necessità adunque del bene operare, colla quale, come con carattere proprio, segna il santo Dottore e contraddistingue la grazia di Cristo da quella di Adamo innocente, riguarda la natura e condizione propria della grazia di Cristo, e non il suo costante effetto nell' uomo, perocchè questo effetto della necessità dell' operare essa non è necessitata a produrlo, ma ha bensì sempre virtù di produrlo: e il produrlo realmente è una speciale predilezione che usa Dio con certe anime predilette sue amiche (2). La volontà dunque dell' uomo, come Dio la fece a principio, era retta sì nell' ordine naturale, di tutta quella rettitudine che può avere la natura umana, e sì nell' ordine soprannaturale, di quel rinforzo che riceve la volontà umana dalla grazia. Ora una volontà pienamente retta è un supremo principio di operare nell' uomo: perocchè se vi avesse un altro principio che sorvolasse la volontà e si mettesse a imperare sopra lei, già la volontà con questo non sarebbe più retta, perocchè è proprietà necessaria alla sua rettitudine che ella non si lasci volgere da alcun altro principio soggettivo, ma sì che ubbidisca solo al principio oggettivo della legge di Dio. Ora la persona dell' uomo non viene costituita che nel principio supremo che opera nell' uomo, secondo la definizione che ne abbiamo data. Adunque quel pregio che aveva la volontà di essere retta era un pregio personale del primo uomo, cioè che nobilitava la sua persona. E perchè quando alla persona come a causa si può attribuire il bene e il male, allora si dice che l' uomo merita o demerita; perciò il bene morale, di cui il primo uomo si abbelliva e fregiava, era a lui giusta cagione di merito. Ma la dignità morale di che si fregiava il primo uomo non era solamente un bene della sua persona, ella era anche un bene della sua natura. E veramente si consideri ciò che forma la persona e ciò che forma la natura; e si troverà che queste due cose in Adamo erano in perfetto accordo e l' una, per così dire, rientrava nell' altra, sicchè i beni dell' una non potevano essere altro che i beni dell' altra. Mi spiegherò più chiaramente. La persona è una relazione che sussiste nella natura intelligente, cioè è quel principio supremo di operare che è mai sempre in una natura intelligente, e che di natura sua deve dominare gli altri principii tutti della natura stessa. Per natura all' incontro non s' intende quel solo principio attivo che ha la relazione di supremazia verso gli altri, ma s' intendono tutti i principii attivi individuamente connessi fra loro, senza riguardo alcuno al loro ordine, ossia alla relazione che ha l' uno coll' altro. Ciò posto, se un principio attivo qualsiasi che entra a costituire una natura acquista qualche grado di perfezione, si può dire a ragione che quella natura si è perfezionata. Ma acciocchè si possa dire essersi perfezionata altresì quella persona, conviene che il detto perfezionamento sia avvenuto o ridondato nel principio supremo che è il principio di attività personale. E perciò si deve distinguere il perfezionamento della natura dal perfezionamento della persona: e per la stessa ragione si deve distinguere il bene della natura dal bene della persona. A cagione di esempio, se l' uomo ha o acquista una perfetta sanità di corpo, egli ha o acquista un bene di natura: ma la sua personalità è ella per questo, necessariamente per questo, più perfetta? Se insieme colla sanità del corpo egli si fosse reso vizioso nello spirito, la sua persona avrebbe anzi perduto che guadagnato di perfezione, di bene. E viceversa se un uomo si rendesse più virtuoso nel tempo stesso che incontrasse una malattia, egli avrebbe, assolutamente parlando, perfezionata la sua persona nel tempo stesso che la sua natura avrebbe sofferto. Sebbene adunque non ogni bene della natura intelligente sia anche di necessità bene della persona, e viceversa non ogni bene della persona sia anche bene di tutta intera la natura; tuttavia si dà il caso che il bene della persona ridondi in bene di tutta intera la natura. Ecco quando si può dar luogo a questo caso, e quale sia il bene personale che gode di questo vantaggio. I principii attivi che entrano a costituire un individuo intelligente, per es. l' uomo, possono essere più o meno legati fra di loro, sebbene ciascuno si distingua dagli altri. E se si considera la natura umana nel suo ideale, cioè nel suo stato perfetto senza alcun guasto, si vede chiaramente che il principio attivo supremo deve possedere in sè una forza, colla quale domini e governi gli altri principii ordinati ad essere a lui soggetti. Questa prevalenza di forza nel principio attivo supremo, ossia personale, e questa relativa debolezza e sudditanza dei principii inferiori, costituisce appunto un legame che stringe questi a quello ed è il vero ordine intrinseco alla natura umana. Or questa prevalenza del principio personale è sicuramente un pregio e perfezione della persona stessa; ma egli non è meno un pregio e una perfezione della natura intera: perocchè tutti i principii che la costituiscono sono nel loro posto e senza alcuna discordia fra essi formano quella giusta e conveniente armonia, da cui la natura tanto riceve di nativa bellezza e nobiltà. Ora quest' ordine, quest' armonia di natura era nel primo uomo costituita da Dio perfettamente e decorava non meno la sua persona che la sua natura. Di che si vedrà ragione per la quale la morale dignità di Adamo, quella cioè in cui fu costituito, dovesse passare a' figliuoli suoi. E di vero, ciò che passa per generazione nei figliuoli è la natura. Perciò i figliuoli di Adamo innocente conveniva che portassero in nascendo quello stesso bene morale che era connaturale in Adamo, cioè che era in lui non pur bene della persona, ma bene della stessa umana natura. La grazia data da Dio al primo uomo era perfettiva, come abbiamo veduto, non pure della sua persona, ma ben anco della sua natura (1). Perocchè quella dignità morale che risiedeva nella personalità del primo uomo non decorava meno la natura sua, e ad un tempo colla natura, quasi divenuta con essa una sola cosa individua, gli era stata data. Essendo tale pertanto la legge della costituzione umana, che la natura umana non dovesse esistere se non completata dalla grazia di cui abbisognava, accadeva che questa natura, neppur comunicandosi per la propagazione, scadesse dalla sua perfezione in cui il Creatore tenerla voleva, ma che tutta intera e completa in diversi individui si venisse moltiplicando (2). Abbiamo veduto come l' anima intelligente si crea nell' uomo in venendo questo generato, cioè in virtù della visione dell' essere ideale che riceve il principio senziente nell' animale, il quale, ammesso a questa congiunzione dell' essere, partecipa tantosto l' intelligenza, e l' immortalità e la spiritualità (3). Ora la grazia non è che l' essere stesso mostrato all' uomo nella sua reale sussistenza , cioè con un grado di luce nuova e veramente divina. Perocchè quest' essere che così si realizza si muta in Dio. L' essere adunque che risplendeva innanzi all' anime di Adamo e de' suoi figliuoli non era l' essere puramente ideale, ma quest' essere con un cotal modo di realtà che il rendeva potente e di tutta la natura maggiore, che il rendeva insomma soprannaturale e divino. S. Tommaso insegna che, l' uomo ove fosse stato confermato in grazia e messo al premio della visione beatifica di Dio, non avrebbe da quell' ora più generati figliuoli (1). Però tutto quel tempo, nel quale sarebbe avvenuta la moltiplicazione del genere umano, l' uomo avrebbe meritato con degli atti virtuosi senza venire però ancora confermato in grazia. Il contrario insegnano le Divine Lettere essere avvenuto degli Angioli, i quali col primo atto meritorio furono al loro termine di perfetta beatitudine. E una tale dottrina scaturisce anche dalle nozioni della natura dell' Angelo e dell' uomo. Perocchè abbiamo veduto che la natura umana è intelligente e animale ad un tempo; e che la sua intelligenza è la inferiore di tutte nella gerarchia delle intelligenze, perocchè la natura di lei sta nel veder l' essere nel modo il più imperfetto, cioè al tutto indeterminato. Or poi per ispingersi innanzi da una cognizione così tenue dell' essere a una cognizione più intera e perfetta, essa naturalmente è fornita dei soli sensi animali i quali le fanno percepire solo degli esseri materiali: ed ella è costretta di usare di queste così limitate sue percezioni a sollevarsi all' intendimento degli esseri più nobili e di Dio stesso. Intendimento che non può mai pienamente conseguire per la tenuità e imperfezione del mezzo ch' ella adopera a pervenirvi; perocchè nè nella creatura materiale, nè in sè stessa e negli atti suoi trova mai cosa che tenga vera e propria similitudine cogli esseri più nobili, cioè cogli Angeli e con Dio. Di questo passo lento e improporzionato al gran viaggio è costretto di andare l' uomo considerato entro i limiti dell' ordine naturale. Ben è vero che la grazia il fornisce di un mezzo troppo più sublime e che troppo più innanzi il reca nella cognizione dell' essere assoluto. Ma la grazia stessa è data in modo che tiene proporzione al grado della natura: perocchè la grazia non fa che aggiungere splendore ed efficacia alle concezioni naturali, fino a tanto che nella vita presente l' uomo dimora; splendore ed efficacia che rende l' uomo senza dubbio più sapiente di prima in quanto alla profondità, dirò così, delle sue cognizioni e all' acutezza della sua vista spirituale per discernere dentro a esse il divino che gli si rivela; ma splendore però che non aggiunge alla sua mente percezioni interamente nuove di nature nuove. In somma come l' essere indeterminato che costituisce la specie umana è la vista più imperfetta dell' essere stesso, e però non fa che produrre tale specie di esseri intelligenti che è inferiore fra tutte le specie di esseri dotati d' intelletto; così la grazia congiunta a principio colla natura dell' uomo doveva essere la più tenue di tutte le grazie di cui fossero fornite le altre specie intellettive più eccellenti dell' umana. All' incontro la natura angelica, secondo la notizia che ce ne danno le divine lettere, non aveva un mezzo così limitato di perfezionare la sua cognizione dell' essere come sono i sensi animali di cui l' uomo è fornito. Ma in luogo di questi vedeva l' essere già per natura assai più perfettamente dell' uomo, cioè vedeva l' essere e nell' essere poteva scorgere immediatamente molte sue determinazioni, le quali sono ciò che i teologi chiamano specie infuse . Potevano adunque vedere dell' essere non pure il principio, come il vede l' uomo per natura, ma anche molti termini dell' essere stesso. Non già che gli Angeli vedessero da principio, per natura, o per grazia, il termine essenziale e assoluto dell' essere, cioè Dio: ma come essi cercavano nell' essere ideale, quasi in uno specchio che loro rifletteva l' essere reale, tutto ciò che a loro piacesse di trovarvi aguzzandovi la loro vista intellettiva; così vi potevano cercare dentro e le altre cose create e sè stessi e il Creatore. E l' amor loro che volgeva la loro volontà in questo ricercamento dell' oggetto della loro contemplazione, poteva essere giusto, recando la loro intellettiva attenzione di preferenza in Dio, od essere ingiusto preferendo di contemplare i pregi di altra cosa che Dio non fosse. E così avvenne che quelli, i quali dentro all' essere ideale che chiarissimamente risplendeva innanzi le loro menti, cercarono la divina essenza, ve la trovarono, e con quell' atto medesimo col quale perfezionavano la loro cognizione, conseguivano altresì il merito della virtù e in un cotal merito della virtù il premio della beatitudine. Laddove quelli che con ingiusto affetto cercarono nella chiara vista che avevano dell' essere ideale innanzi sè stessi che Dio, a questo preferendosi, commisero peccato nel tempo medesimo che abbuiarono il loro intelletto, col trattenerlo dalla contemplazione della luce divina; e non poterono poi più isguardare nella faccia divina a loro amica e ridente, ma solo nella faccia divina turbata e irata in essi: vista sommamente spaventevole, e onde ogni creatura per necessità di natura atterrita rifugge. Sicchè l' angelica natura pure col primo passo pervenir doveva o alla somma felicità o alla somma miseria. Non così è, siccome dicevamo, della natura umana, l' intendimento della quale non vede già nell' essere che gli sta innanzi tutto ciò che vuole, ma anzi non ci vede nulla se l' esperienza del senso animale non lo aiuta a vedervi alcune cose, il qual senso non lo può aiutare che assai debolmente e limitatamente, come detto è. Sicchè gli rimane sempre da fare un lungo viaggio innanzi che pervenga alla cognizione intuitiva di Dio, sebbene aiutato dalla grazia, perocchè anche questa procede con quella gradazione che la natura (1). Per la stessa ragione è che l' uomo anche peccando non perviene d' un tratto all' ultimo termine della malizia. Perocchè essendo graduata la sua cognizione e rimanendosi ella sempre imperfetta, rimansi graduato ancora il suo merito e il suo demerito che tien dietro alla cognizione. Poniamo che il suo peccato consista in disubbidire immediatamente a Dio. Ora egli è evidente che la gravezza di questo peccato non è tanta quanta è la grandezza e maestà del supremo Essere in sè stesso considerato; ma sì quanta è la grandezza e maestà di quest' Essere nella concezione dell' uomo che lo concepisce. Sicchè quanto l' uomo ha più di cognizione di Dio, tanto egli ha più di reità; e n' ha meno quanto la concezione del sommo essere è in lui più imperfetta. Fermata questa norma di giudicare della gravezza dei falli dell' uomo, egli è manifesto che la limitazione della cognizione nell' uomo ne limita il suo demerito, e che il graduato conoscere dell' uomo rende altresì graduato questo demerito stesso, il quale non è mai sommo se non allora che somma sia la sua cognizione. Di che avviene che l' uomo stesso, il quale potè offendere Iddio quando lo conosceva con un dato grado di cognizione, conoscendol poi con più gradi, si penta di averlo offeso. Sicchè Iddio per convertir l' uomo non ha talora che a donargli grazie di conoscerlo più sperimentalmente: di modo che coll' accrescergli la cognizione soprannaturale e sperimentale della divina natura, può talora salvarlo. Non così poteva avvenire degli Angeli, nei quali la cognizione naturale era massima nel primo atto e, corrispondente a questa cognizione naturale, era pur massima in essi la cognizione che loro derivava dalla grazia; secondo il principio che noi abbiam posto, che la grazia è proporzionata e come pedissequa della natura. Se dunque l' Angelo, col primo uso della sua volontà, poteva dare intero compimento alla sua cognizione di Dio, movendo l' intelletto a riguardarne la stessa essenza; l' uomo all' incontro non può mai giungere a questo, ma solo ad acquistare di mano in mano qualche grado maggiore della divina cognizione. E però l' Angelo col primo atto abusando della massima cognizione e della massima grazia (1), non gli rimase più onde riceverne alcun' altra maggiore che il potesse salvare (2). Ma nell' uomo fino che vive in terra può esser sempre messa una cognizione e una grazia maggiore, e con essa convertirsi: salvo che se abusasse dell' ultima delle grazie ch' egli può ricevere, perocchè allora nascerebbe quel peccato contro allo Spirito Santo di cui disse Cristo: « Che non sarà rimesso nè nel presente secolo nè nel futuro« (3) »; peccato in tutto simile a quello degli Angeli. Queste ragioni, nascenti dalla natura degli uomini e da quella degli Angeli, rendono ragione del mistero espresso dall' Apostolo con quelle parole: « Non sollevò gli Angeli, ma sollevò (apprehendit) il seme di Abramo« (4) ». Questa proposizione è naturale conseguenza della dottrina esposta nei due articoli precedenti. Perocchè non potendo l' uomo trasfondere ne' figli ciò che non ha egli medesimo per costituzione di natura, non può comunicarlo. Ora quando l' uomo innocente dava l' esistenza a dei suoi simili, non doveva ancora essere confermato in grazia, come vedemmo, e però nè pure i nati da lui potevano ricevere per nascimento quest' ultimo grado di perfezione. Ma se i nati dell' uomo innocente non ricevevano per generazione dal padre la confermazione della grazia divina, ricevevano però la grazia originale, come detto è. Ora la cristiana dottrina insegna che il contrario avviene della grazia del Redentore, la quale non passa nei figliuoli per la naturale generazione. Ora di che deriva adunque questa differenza? Ond' è che la grazia primitiva aveva questa singolar natura di essere ingenerata, per così dire, nei figliuoli, e non così la grazia riparatrice? La ragione di tale differenza sta pur sempre in quella gran distinzione fra la persona e la natura: la prima incomunicabile, comunicabile la seconda; cioè la grazia originale non era solamente affissa alla persona, ma era affissa anche a tutta la natura umana, come abbiamo veduto; sicchè per lei avveniva che tutte le potenze dell' uomo fossero indirizzate a un ordine soprannaturale, standone queste soggette senz' alcuna contraddizione nè repugnanza. All' incontro la grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della natura umana, l' intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia, che però non sono da lei nella vita presente intieramente dominate e ristorate, ma tengono sempre la nativa corruzione che le mantiene ree di morte. Or ciò che è della persona non passa nel figliuolo, ma sol quello che è della natura. Il che vieppiù manifestamente apparisce ove si consideri il modo onde la umana natura mediante la generazione si comunica. Perocchè l' uomo genera non in quanto è persona umana, ma in quanto è individuo animale: sicchè il progresso della formazione dell' uomo nella generazione è dall' imperfetto al perfetto. Ed essendo l' uomo, considerato come animale, ancora disordinato e guasto, sebbene egli stesso come umana persona abbia ricevuta la grazia e la santificazione del Redentore, non può naturalmente produrre che un animale pure guasto e disordinato. Ed ora niente ripugna che un tale animale riceva il lume dell' intelligenza, perocchè questo lume non lo innalza già a stato di dignità morale e soprannaturale, potendo stare l' intelligenza anche insieme colla colpa. Ma sarebbe stato ripugnante e contradditorio che un essere moralmente disordinato fosse stato dotato contemporaneamente della grazia divina; perocchè questa non può stare col disordine morale e col peccato, giacchè la grazia è una comunicazione di quella natura divina abborrente essenzialmente da ogni peccato. E che l' uomo tosto che generato avesse in sè naturalmente un disordine morale, apparisce da questo, che l' appetito animale per suo disordine non ubbidisce da principio perfettamente alla ragione. Sicchè se l' uomo nascesse puramente coll' animalità senza ragione, dir non si potrebbe che in lui ci avesse deformità o guasto morale, ma solo alcun disordine fisico. Ma appunto col ricevere a un tempo stesso l' animalità e l' intelligenza, sorge in lui un disordine veramente morale per lo squilibrio di quelle due potenze, cioè a dire per la insubordinazione della prima alla seconda. Sicchè quella che genera è una natura guasta, e però genera una natura guasta: e questo guasto nella natura generata di natura sua è morale; e si richiede che Dio per un' azione esterna e sua propria vi porti riparo, non potendosi più comunicare la grazia pel veicolo della naturale generazione, ma convenendo che Iddio per nuovo straordinario dono l' affigga all' elemento intellettivo dell' uomo, nel quale vi è la verità ossia l' essere risplendente: essere che non è dato all' uomo per virtù propria della generazione, ma solo per una legge annessa da Dio alla generazione medesima, e il qual essere perciò non può mai venir macchiato nè alterato, perocchè è un' appartenenza a Dio medesimo (1). Sicchè risultando l' umana natura da un soggetto e da un oggetto, e venendo il primo formato dalla generazione, e il secondo venendo dato da Dio stesso, quantunque secondo una legge permanente; il punto di salute, e dove si poteva rappiccare la grazia era ciò che dava Dio all' uomo e non ciò che dava l' uomo all' uomo in generandolo. Di che apparisce che l' uomo doveva prima essere generato e poi redento, e che non poteva in uno colla generazione ricevere la grazia riparatrice. Un' altra dimanda si fa presente al pensiero: se i meriti e le grazie acquisite di Adamo innocente fossero dovuti passare nei figliuoli; e se no, per qual ragione passar non dovessero, quando pur passava la grazia originale? La cristiana dottrina risolve negativamente la questione: e il perchè anche qui giace nella intrinseca natura della cosa. La legge della generazione porta che passi nel figliuolo la natura del padre e della madre, ma non lo stato accidentale in che questa natura si trova nel padre e nella madre. La generazione è un' operazione animale, come abbiam detto, subordinata a certe leggi fissate dall' Autore dell' essere animale. Tutte le circostanze particolari e accidentali che entrano, o nella materia di cui si compone il generato, o negli organi generanti, o nel meccanismo dell' operazione medesima, tutto ciò insomma che realmente influisce in questa grande e arcana operazione, entra a determinare le accidentali qualità che ricever deve la natura nell' individuo generato: ciò che in esso resta sempre immutabile sono i principii costitutivi di questa stessa natura, che non è altro ella stessa che il complesso appunto di principii attivi individualmente congiunti. Ora tutti i meriti e le grazie acquisite del primo uomo innocente non avrebbero in lui accresciuto il numero de' principii attivi costituenti la sua natura; ma solo avrebbero sviluppati e perfezionati questi principii medesimi originariamente in esso esistenti. Come non è necessario che nascano i figliuoli coi detti difetti accidentali del padre; per esempio, non è necessario che da un uomo zoppo o senza braccia nascano altrettanti zoppi o monchi; così parimenti non è necessaria legge di natura che nascano i figliuoli coi pregi accidentali dei loro padri. Per questo gli adulti non generano già adulti, nè da uomini di grandi cognizioni nascono dotti i fanciulli: nè per la stessa ragione le virtù de' padri passano necessariamente ne' figli. Ma quello che è necessario per legge di generazione si è: che i principii attivi, che entrano a formare la natura de' padri e tutto ciò che traggono seco necessariamente, passino ne' figliuoli (1). Di che nasce che da uomini nascono uomini (nei quali vi sono per natura i due principii della volontà e dell' istinto); e che da bruti nascono bruti (nei quali non v' è che un principio solo, l' istinto). Se poi dei lunghi abiti di virtù acquistati dai genitori e delle abbondanti grazie possano giungere a migliorare intrinsecamente i principii attivi dell' umana natura e quindi influire sulla stessa generazione; se le lunghe virtù e i meriti dei padri insomma possano migliorare le schiatte, come pure se i vizii de' maggiori possano degradarle (il che io molto sospetto); questa è questione sottile e degna di essere chiarita colle più perseveranti e diligenti osservazioni sull' andamento delle famiglie e alterazioni che in un lungo corso di secoli ricevono le progenie. Ma per vantaggiosa che possa essere una tanta ricerca all' umanità, non è del mio ufficio nè delle mie forze il qui trattarla, giovandomi solo l' averla accennata (1). Si deve dunque distinguere i principii attivi, che entrano nella umana natura, dal loro sviluppamento. In quanto ai principii attivi si può distinguere 1. il loro numero, 2. la potenza di ciascuno, e 3. il loro ordine o scambievole armonia. In quanto al numero abbiamo già detto che la natura umana costituita nell' ordine naturale ne ha due, l' istinto e la volontà: e che costituita nell' ordine soprannaturale ne riceve un terzo, che è la volontà stessa operante dietro una percezione soprannaturale. In quanto alla potenza intrinseca di ciascheduno, questo è data per le leggi a cui soggiace la natura e la generazione, e ho manifestato di sospettare che possa essere accresciuta o diminuita per l' influenza degli abiti virtuosi o viziosi, e in generale pel bene e pel male a cui può soggiacere l' umanità nelle tante e sì varie sue vicende. In quanto al loro ordine, l' essere questo perfetto, mediante una perfetta subordinazione dei principii attivi, costituisce la perfezione dello stato morale dell' uomo. Questi tre elementi si debbono calcolare da chi vuol conoscere la perfezione maggiore o minore della costituzione umana. Ma oltre la perfezione annessa alla costituzione dell' uomo, havvi la perfezione del suo sviluppamento: la costituzione umana è formata dai principii attivi; il suo sviluppamento dall' uso ed esercizio dei medesimi. La perfezione che può conseguire l' uomo col suo sviluppamento, cioè col suo usare de' propri principii attivi, o appartiene alla persona o appartiene alla natura. Nell' uno e nell' altro caso è una perfezione accidentale: perfezione accidentale della persona, perfezione accidentale della natura. Io chiamo perfezione della persona quella che consiste e risiede nel principio personale, cioè nel principio supremo dell' uomo, nel principio morale. All' incontro perfezione della natura io dico quella che riguarda qualsivoglia principio attivo che forma parte dell' umana natura. Conviene afferrare bene questa distinzione fra perfezionamento della persona e perfezionamento della natura. Egli è manifesto che tutte le potenze dell' uomo possono svilupparsi e perfezionarsi e che la perfezione dell' una non è già sempre condizionata alla perfezione dell' altra; ma che l' una si avvantaggia e perfeziona talora senza dell' altra, se non anche a spese dell' altra. Però ogni sviluppamento e perfezione dell' uomo, come animale, non tiene già la proporzione e la norma onde l' uomo si sviluppa e si perfeziona come essere intellettivo. Anzi non di rado avviene che chi diede opera a conservare più studiosamente la sanità e le forze corporali si trovi aver negletto la coltura delle forze dello spirito, e che gli uomini più dotti e perspicaci non sieno già sempre i più sani e i più robusti. Medesimamente lo sviluppo e perfezionamento delle forze intellettive non va già sempre innanzi d' un passo collo sviluppo e perfezionamento morale dell' uomo: e non è infrequente che chi ha fatto tesoro di più cognizioni e ha rese le sue facoltà intellettuali più perspicaci e più pronte, si trovi aver trascurato la propria moralità e non data la sufficiente coltura al principio morale che in lui risiede. Or la coltura e il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona: laddove il coltivamento e sviluppo della parte intellettiva o animale dell' uomo non forma che una perfezione della natura; perocchè il principio morale è il supremo principio attivo che sia dell' uomo, in che abbiamo detto consistere la personalità. Dissi che la perfezione della persona non solo differisce dalla perfezione della natura, ma talora si trovano queste due perfezioni in vera opposizione fra di loro. Questa verità che può parere assai singolare a chi non vi ha mai riflettuto, si rende manifesta mediante un' osservazione che fa colla solita sua acutezza S. Tomaso, cioè: che fra le virtù ve ne hanno di quelle che non esigono alcuna imperfezione nella natura; ma che ve ne hanno altresì di quelle che suppongono e richiedono per esistere una qualche imperfezione della natura. Delle prime il santo Dottore reca in esempio la carità e la giustizia: e in esempio delle seconde adduce la fede e la speranza, le quali suppongono che manchi il conoscimento o il possesso di ciò che si crede e spera; come pure la penitenza e la compassione, la prima delle quali suppone essere preceduto il peccato e si forma dal dolore, la seconda nasce dalla partecipazione dei mali altrui (1). E veramente non c' è dubbio che il rammaricarsi de' propri falli, il compatire alla miseria altrui, il credere e lo sperare le cose da Dio rivelateci sulla sua parola, sono altrettanti atti morali e meritorii, i quali per ciò ci accrescono la perfezione della persona. E tuttavia come si potrebbero fare questi atti perfettivi della nostra personalità, se non ci fosse data occasione a farli da quei difetti di natura che ne formano come la materia o l' oggetto? Per quanto possa parere altrui strana questa opposizione che talora s' incontra tra il perfezionamento della persona dell' uomo e quello della sua natura, egli è però un fatto innegabile e nessun filosofo di buona fede potrà sicuramente dissimularlo. La ragione di ciò si è che la natura umana, come la natura di qualsivoglia altra cosa creata, contiene in sè medesima una necessaria ed essenziale limitazione, la quale per ciò nè pur Dio stesso avrebbe potuto fare che non ci fosse. E una tale intrinseca e naturale limitazione impedisce che la natura umana sia suscettibile di ogni ingrandimento e perfezionamento, e l' assoggetta alla surriferita ed altrettali linee di confine: dimodochè, perfezionandosi da una parte, conviene che si renda imperfetta dall' altra, e fra queste due quantità, l' una delle quali cresce mentre l' altra scema secondo una certa legge, fissa e determina un maximum di bene totale, oltre il quale non si può andare. Della quale limitazione noi abbiamo trattato più lungamente altrove (2). Ora qual è l' ordine che devono avere fra loro la perfezione della persona e quella che è semplicemente perfezione della natura? Ove si abbia a mente in che noi abbiamo fatto consistere la persona umana, non sarà difficile avvedersi che la natura deve servire alla persona e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente di più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l' uomo. Perocchè la personalità risiede nel più nobile e più alto principio che nella natura umana si trovi, cioè in quel principio volitivo che è ordinato a seguire la verità e che perciò ha un prezzo assoluto e un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l' uomo e che da quel supremo principio devono essere mosse e guidate. Sicchè ove ci avesse difetto nel principio supremo, tutto l' uomo sarebbe con questo disordinato e guasto: quando avendovi difetto solamente nelle potenze inferiori, niuna delle quali per sè è morale, l' uomo però non si potrebbe dire assolutamente corrotto e disordinato perocchè la sua personalità sarebbe sana, e l' IO (1) non ubbidirebbe già, ma riterrebbe la sua dignità di comandare o almeno di non servire ad altre potenze. E qui di passaggio mi si permetta osservare l' illusione e l' inganno che si fanno gli uomini per ragione di queste due distinte perfezioni della persona e della natura. Si vedono sopra la terra gli uomini divisi in due parti. Una parte è intesa a cercare la perfezione della persona; un' altra parte intesa a cercare quella perfezione che è semplicemente della natura. E gli uni e gli altri vanno in cerca di un bene di cui godere: gli uni e gli altri tentano di acquistare una grandezza, della quale possano compiacersi in sè medesimi: perocchè ogni uomo, qualunque sia, vuol sempre esser felice, grande, perfetto; vuole almeno poter esser creduto e potersi creder tale. Intanto quelli, che non si affaccendano se non a conseguire una perfezione e una grandezza che appartiene alla natura ma non alla persona, sono manifestamente ingannati: perocchè la perfezione a cui volgono l' animo e le fatiche, migliora sì alcune parti dell' uomo, ma non l' uomo stesso. Tutti quelli che si mostrano infaticabilmente industriosi e zelanti per crescere sè stessi o anche gli altri uomini di beni materiali e che non altro mirano che a poter aumentare l' agiatezza, la prosperità, le delizie della vita, o se si vuole anche tutti i progressi delle scienze e la coltura dell' intelletto, a esclusione della cultura morale pratica, e che si fermano qui nè voglion conoscere alcun altro bene dell' uomo di ordine a questi superiore; tutti costoro, dico, procacciano una perfezione all' umanità, ma che non si può dire mai giungere al miglioramento dell' uomo come persona, ma solo ad un cotal miglioramento dell' uomo come natura. Senza far dunque questa distinzione, essi si vengono lusingando di meritare giustamente il nome di filantropi, e si arrogano di essere essi soli che promuovono gli avanzamenti progressivi e l' ingrandimento della specie umana. Ma chi bene e imparzialmente considera i loro intendimenti, trova che nasce bensì un vantaggio dai loro sforzi anche alla umana personalità per un effetto indiretto della maggior perfezione della natura: effetto dal genere di uomini dei quali parliamo non inteso nè apprezzato nè preveduto. Ma che però questi uomini allora quando essi astraggono dal perfezionamento veramente morale, per non avere in vista che il solo perfezionamento materiale dell' umanità, non innalzano bastevolmente le loro intenzioni e non si propongono un fine abbastanza nobile dei loro utili travagli; cioè non tendono a rendere grande e perfetta veramente la persona umana che è quanto dire tutto l' uomo, ma sola una parte della sua natura. E che s' illudono quindi se si persuadono di lavorare alla vera grandezza e alla vera perfezione dell' uman genere. E se intesi alla perfezione della natura, questi uomini che fin qui abbiamo descritto, si facessero coscienza di non nuocere mai alla perfezione della persona umana, un preclaro beneficio farebbero colle loro oneste fatiche e studi all' umanità. Ma ove si consideri che noi parliamo di quei soli, i quali non altra perfezione conoscono possibile nell' uomo se non quella che abbiamo nominata perfezione della natura, e che quindi disconoscono o non badan punto o certo niente apprezzano la perfezione veramente morale e personale; non sarà difficile avvedersi che nei loro tentativi e nelle loro imprese la perfezione della persona dovrà venir ben sovente posta a pericolo e sacrificata alla perfezione parziale della natura, che sola si vuole e s' intende. Conciossiachè, come di sopra abbiamo detto, queste due maniere di perfezione non sempre vanno di un perfetto accordo fra loro: ma l' una può cadere in collisione coll' altra per l' intrinseca limitazione della natura umana. In tutti questi casi di collisione, colui che non ha mai afferrato il pregio della perfezione morale e che tutto ripone nella perfezione della natura, non dubiterà [di lasciare] che quella prima venga soprafatta e distrutta da una cieca avidità che lo porta verso la seconda. Nè questo è un avvenimento peregrino e raro: perocchè egli è tanto universale che costituisce anzi egli solo quella grande classificazione di tutti gli uomini in buoni e cattivi. Non esagero punto: si consideri la cosa con diligenza. Non sono pur i soli filantropi quelli che vogliono il bene della natura umana: anche gli egoisti il vogliono almeno per sè stessi. Tutti dunque gli uomini, nessuno escluso, appunto perchè sono uomini, hanno voglia del bene, tutti cercano una perfezione ed altresì un ingrandimento. Qual è dunque la differenza per la quale alcuni sono detti buoni, ed alcuni altri sono detti cattivi? Non è altra che questa, che alcuni i quali sono detti buoni, ogni qualvolta si accorgono trovarsi in collisione la perfezione della natura e la perfezione della persona, antepongono questa a quella. Dimodochè ciò che vogliono per assoluto, a qualunque costo e senza condizione alcuna, è la perfezione della persona: ciò poi che vogliono con un volere relativo e a condizione che niente soffra la dignità personale, è la perfezione della natura. Ed al contrario che alcuni, i quali sono detti cattivi, preferiscono questa a quella: sicchè ciò che vogliono per assoluto e a qualunque condizione è una qualche perfezione o bene di natura; il qual loro volere assoluto, così determinato, impedisce che possano veramente volere il bene consistente nella dignità della persona, perocchè questo bene non si può volere se non assolutamente, e chi il volesse relativamente e sotto condizioni, non lo vorrebbe punto. Quelli adunque che vogliono in primo luogo il bene della persona e subordinatamente a questo il bene della natura, sono i buoni: quelli che non vogliono il bene della persona, sebben vogliano il bene della natura, sono i cattivi. Trasportiamo questa teoria nell' ordine soprannaturale, vestiamola col linguaggio della religione: noi avremo nelle due classi sovraccennate i figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, i cittadini delle due città, i figli della luce e delle tenebre. La divina scrittura, parlando dei figliuoli degli uomini, fa nascer d' essi i giganti cui descrive come uomini potenti, uomini avidi di gloria, intraprendenti, fondatori di città, conquistatori, re (1). Or poi di essi, che pure avevano tante doti di natura, tuttavia dice che non ha eletti questi il Signore, ma li ha riprovati (2). Qui veggiamo da una parte uomini, i quali tendevano certamente ad una cotal loro perfezione, che risplendevano sopra gli altri per coraggio, intraprendenza, forza corporale, avvedimento e molti altri pregi; e dall' altra che tuttavia sono riprovati dall' Eterno. Ciò nasceva perchè la perfezione cui questi tendevano di conseguire e di promuovere non era la perfezione della persona, ma solo la perfezione di alcune parti della natura, la quale non si può dire semplicemente e assolutamente perfezione dell' uomo. Ora questa divisione grande del genere umano, queste due stirpi originali, dette di Dio e degli uomini, non cessarono mai, ma si perpetuarono e si perpetuano, sviluppandosi l' una accanto all' altra, senza venir meno sino alla fine dei secoli. E i due sistemi, tanto in teoria come in pratica, seguiti da queste due gran fazioni dell' umanità sono così opposti fra loro, così irreconciliabili, così esclusivi, che i loro seguaci non possono mai aver pace insieme: ed indi la perpetua lotta, che sempre si sc“rse e che non può mai cessare, de' malvagi e de' buoni (3). Veduto quale sia l' ordine della perfezione della persona e della perfezione della natura, resta a vedere in che modo e con che legge di relazione fra lor si sarebbero queste due perfezioni sviluppate e conseguite dagli uomini innocenti. Certo è che fino che gli uomini fossero rimasti innocenti, nessuno di essi, di spontaneo moto, avrebbe cercato la perfezione della natura a scapito della perfezione della persona; e che per ciò queste due perfezioni non si sarebbero trovate, quanto a sè, in lotta fra loro, ma con bella armonia sarebbero procedute. Nè meno si vede cagione (senza che fosse intervenuta una legge positiva), per la quale l' uomo fosse addotto in necessità di coltivare la perfezione della persona a spese e scapito della perfezione della natura, e può fors' anco [dirsi] che questa cagione per sè non sarebbe nata giammai (1). Tuttavia non è ripugnante allo stato di uomini innocenti che questi in grado diverso avessero dato opera all' una e all' altra perfezione e che alcuni si fossero dati più a sviluppare e perfezionare le parti della natura e altri si fossero applicati più di proposito a conseguire il pregio risiedente nella persona: senza però che i primi in perfezionando la natura guastassero il pregio della dignità personale; nè che i secondi coll' amore e collo studio tutto messo in aumento di questo pregio guastassero e corrompessero le altre parti della natura. In tanto però quelli che si fossero dati più di proposito al perfezionamento della persona, avrebbero fatto più degli altri tesoro di perfezione morale, di meriti e di virtù, e quindi avrebbero fatto più celere il loro viaggio verso alla somma perfezione umana a cui tutti pure eran volti. Di che s' intende come gli uomini, ancorchè innocenti tutti, pure si sarebbero distinti infra loro anche per li diversi gradi del merito morale, come pure per li diversi gradi dello sviluppamento delle altre parti della natura. E non è già che quelli, i quali avessero atteso più a lungo degli altri alla perfezione della natura, non avessero anche in ciò facendo raccolto del merito morale e con esso arrecato un poco di perfezione alla propria persona. Perocchè non poteva loro mancare la temperanza, la rettitudine e la giustizia, come nè pure una retta intenzione di obbedienza alla maestà del Creatore. Ma questo merito sarebbe lor venuto per indiretto e avrebbe illustrata la loro persona quasi come lume riflesso; quando quei primi che si fossero dati a contemplare le cose della sapienza, della virtù e la divina natura per collocare in essa direttamente tutto il loro amore, si dovevano guadagnare un merito diretto e molto più sublime e di un passo più celere giungere sicuramente all' altezza di tutta la personale perfezione. Or qui il pensiero naturalmente ci porta a dimandare a noi stessi: in che ordine gli oggetti si sarebbero offerti all' attenzione umana e le potenze dell' uomo si sarebbero sviluppate e perfezionate? E se, considerando come l' uomo è costituito, a lui fosse stato proprio e connaturale di dar tosto mano a perfezionare direttamente la propria personalità, o anzi se dovea prima prendere a sviluppare e perfezionare le altre parti di sua natura; e solo in fine, accorgendosi e quasi scoprendo in sè medesimo più chiaramente la personale dignità, si fosse volto a lavorare intorno a questa e occupatosi a perfezionarla? La divina Scittura, non meno che l' esame della costituzione dell' uomo, dà per risposta che sarebbe succeduto lo sviluppo diretto della persona in ultimo, e dopo essersi l' uomo alquanto occupato nello sviluppamento e perfezionamento delle altre parti della sua natura. Imperciocchè in quanto a quello che ci dice circa una tale questione l' esame della umana costituzione, vedesi manifestamente che le potenze più pronte a muoversi nell' uomo e le prime a svilupparsi sono quelle della sensibilità animale. Le quali si trovano pur in contatto, per così dire, coi loro oggetti, che è tutta la natura materiale la quale circonda l' uomo appena che esiste, e lo stimola con infinite sensazioni a porre in esercizio tutti i suoi sensi. Sicchè l' attenzione sua è tratta primieramente fuori di sè e volta all' universo materiale che le sta presente; e non può sicuramente pensare a se stesso, ai suoi atti interni, all' anima sua che non cade punto sotto i suoi sensi, se non in un secondo tempo e con un atto di riflessione, quando di ciò gli venga data alcuna occasione, dopo aver già fatto uso de' sensi suoi e sviluppate le sue facoltà anche intellettive sulla materia che gli fu posta e messa innanzi dall' universo materiale. E questo è quello che risulta ancora, come dicevo, dalla divina Scrittura. Perocchè Iddio, dopo creati gli uomini, non disse già loro direttamente: coltivate la vostra personalità, linguaggio che non avrebbero potuto intendere; ma disse: « Crescete e moltiplicatevi e riempite di voi la terra e sottomettetevela e dominate sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sopra la terra« (1) ». Nelle quali parole è descritto lo sviluppamento e perfezionamento non ancora della persona, ma della natura umana. E dice ancora la Scrittura medesima che il Signore Iddio, dopo aver fatto l' uomo, il prese e il pose nel giardino di piacere, perchè lo lavorasse e lo custodisse (2). Dove pure si vede che l' opera che viene immediatamente assegnata all' attività umana in quei primi momenti non fu direttamente lo studio della sapienza e la contemplazione dell' essenza divina, ma fu il lavoro materiale dell' agricoltura, la formazione e incremento della umana società e gli usi tutti che la società umana cavar potesse dall' universo materiale, dai bruti, dalle piante e dai minerali, in aumento della perfezione naturale dell' uomo, il quale veniva con ciò costituito signore e imperante su tutta la natura. All' opposto l' opera molto più grande e più sublime del perfezionamento personale prendeva il suo principio nell' essere servo obbediente di Dio. E col progresso del tempo Iddio aveva lasciato all' uomo stesso, nel quale aveva rinserrato la sua imagine e similitudine e fornitolo di tutte le facoltà più nobili, a scoprire in sè e quasi dissotterrare un universo più grande del materiale e un giardino da coltivare più vago dell' Eden; aveva lasciato a lui di rinvenire quasi direbbesi a caso, la via della celeste contemplazione, scoperta la quale, sarebbe allora cominciato in lui quell' arbitrio, di cui parlammo, di dedicare sè stesso o più direttamente al lavoro del perfezionamento della persona, o di continuarsi come prima nella occupazione rivolta al perfezionamento solo della natura. Dissi però che a questo perfezionamento della persona fin da principio Iddio non aveva lasciato di dargli una indiretta spinta. Poichè dopo di avergli donati in cibo tutti i vegetabili che produceva la terra, soggiunse però dandogli un precetto di obbedienza: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il chiama all' obbedienza, la quale perfezionare doveva appunto la sua persona con un merito morale. Ed è degno di osservazione che questa perfezione o merito personale che Iddio intendeva di promuovere nell' uomo con quel precetto, doveva promuoversi a scapito o certo a mortificazione della natura, perocchè la natura veniva impedita dal dilettarsi e nutricarsi di quel frutto bello a vedersi e soave a mangiarsi, il quale eccitava in essa natura un appetito di sè che domandava di essere soddisfatto. Ma per la limitazione, che abbiamo accennata, dell' essere creato, quella perfezione personale che procedeva dall' obbedienza di un precetto positivo, non poteva in alcun modo acquistarsi se non a condizione che la natura ne rimanesse rattristata e cassa nelle sue voglie. Egli è dunque manifesto che l' umanità prima avrebbe atteso alla perfezione della natura direttamente e solo indirettamente alla perfezione della persona: ma che col progresso del tempo l' umanità sarebbe volta e applicata direttamente alla perfezione della persona; dal qual punto avrebbe fatti rapidissimi progredimenti verso l' altissimo suo fine. E poichè la ragione per la quale non avrebbe atteso a principio direttamente a coltivare la perfezione della persona, sarebbe stata perchè l' attenzione sua e con questa la sua volontà e le sue forze rimanevansi occupate degli oggetti esterni sottoposti per natura alla sua sensibilità e alla sua contemplazione, a cui la cognizione di sè stesso sarebbe succeduta poscia quasi come una scoperta; per ciò è da credere che i figliuoli dei primi uomini, dopo fatta già questa scoperta, sarebbero stati più direttamente educati e volti al perfezionamento personale, approfittando essi in tal modo del progresso fatto dai loro padri. Il che però non avrebbe tolto in nessun d' essi l' arbitrio di attendere a uno o ad altro ramo, ad una o ad altra maniera di perfezione, secondo che fosse più loro piaciuto; rimanendo in tal modo le differenze fra gli uomini de' meriti e delle specie di perfezione o pregi acquistati. Distinta adunque la perfezione della persona da quella che non è se non perfezione della natura, e trovato che nello stato innocente lo sviluppo e ingrandimento dell' una si verrebbe facendo a lato dell' altra, più o meno, secondo l' arbitrio della umana volontà, nasce la dimanda: se queste due perfezioni sieno di tale indole da poter crescere di lor natura sempre più indefinitamente. In quanto alla perfezione della natura io credo che si possa rispondere affermativamente. E del credere io alla indefinita perfettibilità della natura, la ragione è questa. Tale perfettibilità si estende a sottomettere tutto il mondo materiale all' uomo, cioè a trar da lui e dalle cose tutte in lui comprese gli usi tutti che possono prestare ai bisogni, ai piaceri, e ad ogni maniera di servigi che l' uomo possa da esse bramare. Di più consiste questa perfettibilità a riempire tutta la terra di uomini quanti ne può capire, e di questi uomini come di una sola famiglia concordissimi fra di sè, formare la più pacifica e virtuosa società che possa essere, dalla quale nascano agli individui tutti gli agi e i piaceri sociali. Consiste ancora nell' acquistare una perfetta cognizione di tutte le cose create di modo che ciascun degli uomini abbia ricca la mente di una scienza perfetta e appagata quella curiosità che li porta a bramare di conoscere l' indole delle cose quant' ella si stenda. Or se dei due primi punti non può sicuramente affermarsi che essi presentino all' umanità un campo tutto indefinibile a percorrere, benchè non vi ha dubbio che il presentino sì fattamente vasto che l' occhio umano non può fissarli confini; il terzo punto però, cioè quello che riguarda il sapere, pare che offerisca all' umanità un viaggio al tutto indefinitamente lungo. Perocchè la natura creata non solo è vastissima e profondissima materia al sapere dell' uomo, ma può dirsi a ragione che ella non ha fondo, conciossiachè si avvolge tutta di infiniti, e il vestigio della divinità che l' ha creata ove che sia risplende per modo che ogni pensamento umano vi si perde e smarrisce senza trovarne l' uscita: nè appieno si può giammai conoscere la creatura, se appieno non si conosce quel Creatore che non solo l' ha creata una volta, ma che di continuo la sostiene e la crea, e, per così dire, la nutrica di sè medesimo. Basta domandarne ai matematici che pure hanno alle mani la sola materia più esteriore e superficiale della natura, quale è la quantità , e pure a ogni passo si offre loro incontro quella terribile idea dell' infinito che li sgomenta e li fa trovar fuori di tutti i limiti delle cose reali. Che dirò della fisica, della fisiologia e della patologia? Nelle quali scienze, ove non si considerino alla superfice, ma con occhio profondo e metafisico, mirasi il volto della natura tanto maestoso, tanto pauroso e i suoi intendimenti così segreti, e le sue leggi così auguste e il suo principio un mistero così inesplicabile che pare assai più proporzionato all' intelligenza di una deità che a quella dell' uomo. Quanto poi al perfezionamento personale, si può egli considerare o nell' ordine della sola natura, o anco nell' ordine della grazia. Nell' ordine della natura questo perfezionamento personale io lo tengo di un progresso, al tutto indefinito, sotto ogni aspetto in cui si considera l' atto morale. L' atto morale, come ho mostrato nel libro dei Principii della Scienza Morale (1), risulta da due elementi, la legge e la volontà; e migliore è l' atto morale quanto la legge è più grave, e quanto è più ferma l' adesione della volontà. Or sia da parte della legge, sia da parte dell' adesione della volontà, la perfettibilità morale è indefinita. E veramente la legge non nasce che dalla cognizione dell' oggetto verso il quale si pratica l' atto morale. Or gli oggetti verso i quali si praticano gli atti morali sono Iddio e l' uomo: onde le due leggi supreme della morale imperanti l' amor di Dio e degli uomini. Ma la cognizione di Dio nell' ordine naturale può sempre mai crescere indefinitamente, non solo perchè Iddio, infinito di natura, è per sè inesausto fonte all' uomo di cognizione; ma perchè l' uomo colle forze naturali, sebbene possa crescere sempre nel conoscimento di Dio, tuttavia non può attinger mai tanto di questo conoscimento che appieno lo soddisfaccia e lo bˆi: vi ha dunque una gradazione indefinita nella cognizione che l' uomo può naturalmente acquistare della divina natura: ciò trae seco che la legge di onorare Iddio si renda per l' uomo sempre indefinitamente più grave e tale che egli possa esercitare verso Dio un maggior grado di amore e di riverenza, il che aggiunge all' atto suo di continuo un maggior grado di merito. Dalla parte poi dell' adesione della volontà non si vede modo parimenti di assegnare alcun termine al crescimento d' amore della medesima. Perocchè non essendo ella mai appieno soddisfatta e sazia del possesso di Dio che naturalmente potesse avere, non c' è ragione che ella mai si fermasse nel suo sforzo di vie più con vivo amore possederlo. Senza chè l' umana natura e l' umana volontà ha ella stessa in sè qualche cosa d' immenso e d' indefinito; nè mai accade che noi possiamo assegnare un grado di affetto tanto grande, che un altro maggiore non si possa pensare possibile di cader nell' uomo. Il perchè pare a non dubitarsi che la perfettibilità personale dell' umana natura sia pur essa suscettibile di un progresso al tutto indefinito, il quale non potrebbe interrompersi se non per morte. E il medesimo avviene tuttavia all' umanità; sebbene vestita della grazia del Riparatore. Perocchè fino a tanto che l' uomo vive, l' uomo può sempre accumulare un numero maggiore di meriti e crescere in perfezione di virtù. In quanto all' ordine soprannaturale noi ragioneremo nell' articolo seguente. La differenza fra gli aumenti successivi della grazia nello stato presente dell' umanità e nello stato primitivo, consiste in questo che il crescere della grazia nell' umanità presente non può giammai essere tale che ci rechi senza morte alla visione beatifica di Dio: laddove nello stato primitivo non v' aveva morte, e convenia passare allo stato di gloria per successivi incrementi della grazia. La ragione per la quale l' uomo non può ora congiungersi pienamente al Sommo Bene se non intervenendo la morte, è fondata nella natura della grazia del Redentore: la quale, come abbiamo detto, non è affissa alla natura, ma alla persona; e non tutte le parti della natura vengono perciò da essa medicate e redente, ma la parte animale rimansi sempre disordinata e sempre perciò degna di essere data preda alla morte. E la visione piena di Dio non istà nell' uomo con tale disordine; sicchè l' uomo non è atto a veder Dio fino che veste la carne del peccato. Perocchè quando dico uomo, dico prima un animale, e poscia gli aggiungo l' intelligenza e la grazia quasi su quel primo fondamento: onde sarebbe assurdo il dire che un animale corrotto potesse esser levato alla piena partecipazione e visione della divinità. Ma così non era degli uomini innocenti: la loro natura perfetta, la grazia affissa alla natura, la parte animale dell' uomo non ritrosa a seguire a suo modo l' altezza dell' intelletto e della volontà, la quale teneva dietro alla grazia fedelissima. Allora tutto l' uomo congiungevasi a Dio per grazia, nè egli aveva nulla a distruggere in sè medesimo, ma tutto era degno di vedere svelatamente la faccia di Dio. Egli è dunque a vedere come sarebbe probabilmente seguito questo discuoprimento graduato del volto di Dio all' uomo, col quale questo sarebbe stato pienamente inebbriato di beatitudine. Gli aumenti della grazia avrebbero tenuto una cotal proporzione cogli aumenti dei meriti morali. Ora il corso della crescente perfezione morale abbiam veduto esser doppio, cioè l' uomo avrebbe cresciuto di perfezione morale e di meriti tanto per la via di una più chiara notizia che avrebbe acquistato di Dio, oggetto principale de' suoi atti morali, come per la maggior forza dell' adesione della volontà nell' atto buono e morale. A questo doppio progresso di moralità e di merito corrisponder dovea una doppia successione o serie dei gradi della grazia. Si rifletta bene che il merito morale può aversi grande assai anche con una tenue o almeno indistinta cognizione dell' oggetto dell' atto morale: anzi egli avviene ben sovente che con meno cognizioni vada congiunta una maggiore bontà morale. Avviene ancora sovente nello stato presente dell' umanità che il buon volere e quindi il merito morale si congiunga con un errore della mente e coll' ignoranza: e quante volte non avviene che una coscienza erronea dia occasione di acquistare un merito? Certo colui, il quale fa un penoso sacrifizio, credendolo a Dio gradito e in sè stesso virtuoso, non perde il suo merito, eziandio che quell' opera riguardata per sè stessa non avesse alcun pregio, o fosse inopportuna e fuori di luogo. Nella fede pure v' ha sempre un' ignoranza ed oscurità: e di questa ignoranza appunto nasce in gran parte il merito di essa fede; sicchè colui, il quale non ha bisogno d' altro argomento a credere che l' autorità della divina rivelazione, va innanzi, per merito di fede, a quell' altro che viene sostenendo la sua credenza con degli argomenti tratti dalla ragione umana, ed ha bisogno di ricorrere a questi per rimuovere da sè ogni dubitazione. Nello stesso tempo però che si dà questa specie di merito da desumersi e misurarsi dal grado di energia della volontà buona, indipendentemente dal grado della cognizione o anche in proporzione opposta a questa; si dà anche un' altra specie di merito che tiene proporzione col grado di luce e di cognizione di cui gode la mente contemplante, dietro al quale grado di lume tende direttamente la buona volontà che insieme colla chiarezza di quell' oggetto s' innalza e si sublima. Or all' una e all' altra di queste due specie di merito, come dicevamo, corrisponde una grazia, e nelle due specie al grado del merito il grado d' aumento della grazia. La differente natura di queste due grazie apparisce ove si consideri che quella, la quale ha relazione al merito della volontà senza che abbia rispetto alla perfezione del conoscimento, è più positiva, per così dire e ha più ragione di premio: quando l' altra che s' aumenta proporzionalmente a quel merito che cresce di pari passo colla cognizione, procede per una legge, quasi direbbesi, più naturale e men dipende da un positivo atto di Dio che rimunera o certo che si compiace dell' opera buona della sua creatura. In ragione d' esempio: a colui che contempla la natura divina di una contemplazione amorosa per volontà di via più onorarla e servirla, viene crescendo di mano in mano non meno il lume che l' affetto con essa la grazia. Ma questo accrescimento pare che sia un cotal effetto naturale della sua contemplazione medesima; pare che il conoscere gli cresca unicamente per la virtù del contemplare, e l' affezionarsi gli cresca unicamente per la virtù del conoscere: benchè infatti la grazia si associ all' atto del contemplare e dell' amare, ed ella stessa il sollevi in un ordine soprannaturale e il faccia crescere di più e più lume e calore. All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Antropologia soprannaturale Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre acattoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiar nei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un' eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avvanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non proprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un' origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè così universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua Storia del Parlamento d' Inghilterra . Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli AssassinŒ e Furti politici . In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei bruti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portano sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: [...OMISSIS...] E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' Imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già ci si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto ci si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco com' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. [...OMISSIS...] Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre. E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare di sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loro autorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma né pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che è la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, è appunto quella che si è francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al di fuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Epistolario ascetico Vol.II

632286
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

I fatti e gli esempi hanno potere grandissimo sull' animo della gioventù; e poichè Ella brama che Le additi qualche autore che ne contenga, mi sembrano commendevoli le opere dell' abate Carron, che, se non erro, ha anche una raccolta di vite di virtuosi militari. Ella mi dimanda in fine della sua pregiatissima qualche cenno sul modo di educare la numerosa gioventù affidatale dalla Provvidenza, e benchè le angustie di una lettera non permettano di dire delle mille cose l' una, tuttavia per esserle ubbidiente Le dirò parermi ottimo mezzo di educare quello che alla dolcezza congiunge la fermezza e una somma ragionevolezza ; sicchè il giovane debba sempre, almeno nel suo interno, essere persuaso, che l' educatore ha ragione sempre in tutti i punti, ed egli ha sempre il torto: cosa difficile a conseguirsi, poichè richiede somma prudenza in ogni passo, e perfetta coerenza e uguaglianza in tutto ciò che si opera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Rimanendomi un pocolino di tempo libero fra le occupazioni di questi santi esercizi, voglio scrivere a voi per certa cosa che mi diè noia nell' ultimo fascicolo dell' Amico Cattolico , a voi dico che ben so essere un devoto fervente della Madonna Santissima, che l' avete non solo per madre, come l' abbiamo tutti, ma quasi anche per compatriotta. Or come avete lasciato correre nel detto fascicolo, senza almen farne lamento, che Maria giunta a Betlemme fu sorpresa dai dolori del parto? Non vi offende, non vi strazia orribilmente gli orecchi una tale espressione? Ve ne può essere alcun' altra che sia cotanto, per dir poco, piarum aurium offensiva? La Madonna avere sofferto dolori nel parto del Salvatore? La Vergine che si fa madre di Dio, soggetta alle miserie penali delle altre madri? Or dove avete trovata che sia fatta per Maria la legge, che fu solo intimata ad Eva peccatrice, « in dolore paries »? Non vedete che questa legge incomincia: « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos », e che perciò è legata, quasi direi, a quella cagione impura che fa moltiplicare alle altre donne le concezioni, cagione che non potè cadere in Colei che non fu sposa effettiva d' altri che di Dio, coniugio spirituale che nulla ha di carnale, nè madre d' altri che dell' Unigenito di Dio, maternità che non toglie punto la verginità? E non vedete che la medesima legge prosegue a dire: « et sub viri potestate eris, et ipse dominabitur tui (Gen, III, 16) », parole che esprimono di nuovo la cagione de' molteplici concepimenti delle altre donne? Ora Maria a qual mai uomo fu soggetta? Perocchè Giuseppe, giuridicamente suo sposo, la venerava, a non dubitarne, come la sua Signora, e non vedeva certo in essa la sua soggetta. A chi dunque fu soggetta veramente Maria, se non a Colui, di cui disse ella stessa: « Ecco l' ancella del Signore? »Onde se Giuseppe tenne in terra la dignità, se così si vuole, di capo di casa, egli non sostenea tanto ufficio se non considerandosi come un mero vicario o rappresentante dello Sposo celeste, a cui aveva ben di cuore la sua sposa ceduta e tutta sacrata. Tant' è lungi adunque che Maria Santissima possa aver provato alcun dolore in depor al mondo il Sole della giustizia, che anzi io tengo (e credo che voi pure lo terrete meco, perocchè io lo tengo con autorità venerande e con tutti i devoti della gran Vergine) che, allorquando fu compiuto il tempo in cui dovette nascere il Redentore, ella dovette essere sorpresa da gaudio indicibile, da gioie celesti, da rapimento ed estasi amorosa così sublime, che non può da uomo alcuno concepirsi, e che le diede un cotal saggio della superna felicità. No, mio caro, non è da lasciarsi passare una frase caduta, son certo, dalla penna dell' illustre scrittore per mera inavvertenza, ma che stride tuttavia e lacera gli orecchi cristiani; non è da lasciarsi passare, io dico, senza qualche emendazione, ed io prego voi di procurarla questa emendazione a vantaggio de' comuni lettori, ne prego voi per l' amore che voi portate a Maria. Io per me non solo veggo che la divina Scrittura favella sempre in modo da rimuovere da Maria ogni pensiero d' infermità materna, ma ce la mostra divenire madre senz' aiuto di altra persona, e tosto dopo messo al mondo il suo Portato, ella stessa, non usando già dell' opera di Giuseppe, involgerlo ne' poveri pannicelli e colle proprie mani nel presepio acconciarlo, siccome suol fare non già una persona addolorata e ammalata, ma sana e lesta. « Et peperit Filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio (Luc. II, 7) », volle fare tutto da sè. E pure qual dubbio, se avesse avuto bisogno in sì dolce ufficio di alcun aiuto, che Giuseppe non si sarebbe mosso a soccorrerla? Ma che? Non vedete voi in quella vece il buon Giuseppe, che in un angolo della grotticella si sta in silenzio adorando e contemplando il gran mistero, senza pur osare di fare un passo innanzi ed offerir l' opera sua alla sua dolce regina, la quale da sua parte non cede a nessuno de' mortali, non divide con nessuno le materne sollecitudini a cui ella sola, come sola genitrice in terra, ha tutto il diritto? E per darvi maggior prova di quel parlare vigilantissimo della divina Scrittura, tutto ad onor di MARIA, io vo' che facciate un' altra osservazione, e non è l' unica che potrei farvi. Vedete quel luogo dell' Esodo (Cap. XIII) dove Iddio promulga la legge dei primogeniti serbati al sacrificio, e prescrive che il primogenito dell' uomo si riscatti a prezzo. Or bene che ne dite di quella frase: « sanctifica mihi omne primogenitum quod aperit vulvam »? E perchè non si contenta la legge di dire « omne primogenitum », senz' altro aggiungere? Non era chiaro abbastanza? Voi mi direte forse, che la spiegazione che vi si aggiunge è tutta conforme all' indole delle lingue orientali. Ma posciachè le stesse lingue orientali furono ordinate dalla Provvidenza e scelte ad esprimere gli oracoli della divina rivelazione, io non mi trattengo dal dire, che quella frase orientale ed ebraica fu eletta non a caso da Dio, come acconcissima ad esprimere ciò appunto che Dio voleva, fu eletta cioè a limitare quella legge per modo, che ella avesse sì vigore per tutte le madri, venendone nel tempo stesso eccettuata la Madre di Dio, MARIA. E quale espressione potea essere più acconcia a questo intento del divin Legislatore? Senza bisogno di aggiungere alcuna speciale eccezione, nella stessa lettera della legge è già l' eccezione contenuta, con un laconismo veramente legislatorio. Voi potete riscontrare la stessa circospezione di parlare, dove s' intima la legge della purificazione (Levit. XII), le cui espressioni tutte sono tali, che dichiarano quella legge non essere fatta se non per le femmine ordinarie, non già per colei, che senza aver conosciuto mai uomo divenne Madre e restò vergine intemerata. Non dunque da dolori, ma da gaudii ineffabili fu accompagnato il parto della Vergine, di quella che fu sempre « hortus conclusus, fons signatus »: parole registrate nella sacra Scrittura in onore della pura Sposa del Re della celeste Gerusalemme, a cui le applica la Chiesa, di quella per la quale passò il Verbo incarnato siccome raggio solare per cristallo purissimo, come uscì dal sepolcro senza infrangerne punto i suggelli, come penetrò dove erano raccolti gli Apostoli « ianuis clausis »; di quella finalmente che ad altro dolore forse non fu soggetta mai, se non a quello atrocissimo e tutto spirituale, tutto volontario, che le trafisse l' animo come spada, quando compatì il Figlio in croce, e la passione del Figlio fu riflettuta e rinnovata nell' anima della Madre. Io spero, anzi sono certo, che all' illustre e pio autore dell' articolo, dove è scorsa la frase che a me e a voi pure, son certo, mal suona, non possono dispiacere queste mie osservazioni, nè il desiderio che vi manifesto che quella frase sia emendata. Il suo scritto, tacendo del merito dello stile e della erudizione, è pieno di affetto per MARIA, ed io credo che a lui stesso gradir dovrebbe l' udire cosa, da lui forse non saputa, che tanto torna ad onore di quella Eroina che egli descrive e quasi dipinge con sì bei colori di sua eloquenza e di sua divozione. D' altra parte il non essere egli ecclesiastico lo scusa appieno dell' inavvertenza che può benissimo scorrere dalla penna anche di noi ecclesiastici. Laonde, se a voi non gradisse di mandare qualche vostra noticella ai direttori del giornale, io non ho minima difficoltà di permettervi, che li preghiate d' inserire nel prossimo fascicolo la presente mia lettera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Per esser breve, e soddisfare alle sue diverse interrogazioni, soggiungerò alle sue dimande la risposta: D. Qual autore reputa migliore per dare gli spirituali esercizi? R. S. Ignazio. Sulle tracce di S. Ignazio io misi insieme il libro intitolato: « Manuale dell' esercitatore », che ella potrà vedere nel volume pubblicato col titolo di « Ascetica ». D. Giovano gli esercizi una sola volta all' anno o più? R. In via ordinaria non più d' una volta all' anno; ma se si tratta d' un semplice ritiro di qualche giorno, può giovare assai replicando questo breve e pio ritiro. D. Qual regola particolare mi proporrebbe per mantenere la gioventù nella santa castità? R. Già le regole che danno i maestri di spirito sono eccellenti, nè di altre particolari ne avrei. Pure stimo che l' infondere un pensare elevato, nobile, spirituale, generoso, e insistere sulla purità d' intenzione in tutte le cose che si fanno, e sul buon uso del tempo, giovi più che non si creda all' intento. D. E` meglio reggere i giovani con mite governo o con severità? R. Il mite ragionevol governo, unito alla fermezza dee essere l' ordinario; il rigore dee usarsi come le medicine ne' casi rari e straordinari. D. Qual governo è preferibile nel reggere le comunità religiose, dove sia taluno poco inclinato alla pietà, all' ubbidienza, all' osservanza delle regole? R. E` preferibile quel governo che: 1 Convinca i sudditi che il superiore non opera che per puro amore del loro vero bene, senza alcun puntiglio, nè fine secondario, e con grande umiltà; 2 Che illumini i sudditi, predicando e inculcando assiduamente le verità evangeliche, e dando loro buon esempio; 3 Che dimostri nel superiore un giudizio sicuro e ben maturo, onde egli non parli che cose vere e ben fondate, non interpreti male i fatti, e molto meno le intenzioni, ecc. giovando più una correzione, quando non lascia luogo a scusa, che frequenti correzioni contro le quali il corretto possa concepire scuse plausibili; 4 Che sia fermo nel mantenere la disciplina, ma senza irritazione; e dove la disciplina è rilasciata, cominci ad essere inflessibile sopra alcuni punti essenziali, e di mano in mano diventi rigoroso sopra un numero maggiore di punti disciplinari; 5 Che sia coerente a sè stesso, sempre uguale, con un fine costante in tutte le disposizioni, non si contraddica mai, nè un giorno si mostri debole, dopo che nel precedente si è dimostrato forte; 6 Che sia vigilantissimo, sappia tutto senza mostrar curiosità, accompagni i suoi sudditi co' suoi sguardi in tutti i loro passi, non gli esponga a tentazioni sopra le loro forze, e rimuova da essi i pericoli di dissipazione; 7 Che sia concorde, cioè che i diversi Superiori maggiori o minori abbiano lo stesso spirito ed unità di governo, e l' uno sostenga l' autorità dell' altro nelle cose giuste; . Che sia penetrante, cioè atto ad intendere gli uomini ed i caratteri diversi, e ad ovviare i disordini nei loro principii, facendosi gran conto delle piccole cose, quando queste possono essere seme di maggiori; 9 Che a queste regole del governo ordinario, aggiunga delle scosse straordinarie quando v' è il bisogno; gli esercizi spirituali fatti con tutto il rigore delle regole di S. Ignazio, e dati da un sant' uomo che abbia la discrezione degli spiriti, possono rinnovare lo spirito in un religioso rilassato. D. A mantenere il buono spirito come si fa? R. Presenza continua di Dio, orazione assidua, purità d' intenzione in tutte le opere, occupazioni continue di carità, ecco dei mezzi sicuri da mantenere e crescere lo spirito. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il P. Provinciale Pagani mi rimise da Roma la lettera che gli avete scritto in data del 23 settembre p. p., e con molta soddisfazione intesi i sentimenti in essa contenuti. Sopra tutto approvo la riflessione che voi fate sull' universalità della carità. Questa è la divisa di Cristo, de' suoi discepoli, della Chiesa, e perciò è anche quella dell' Istituto della Carità. Le nostre Costituzioni prescrivono di seguire in tutto la nostra santa Madre, la Chiesa Romana, anche negli esterni riti e cerimonie, perchè la santa Chiesa Romana ha missione da Cristo di regolare e fissare la disciplina della Chiesa universale; la quale non potrebbe essere universale se non avesse unità, di cui Roma è centro. Se si trattasse di sapere quali sono le più belle vesti e i più bei parati di Chiesa, si potrebbe sostenere che i gotici vincono tutti gli altri in maestà religiosa. Ella sarebbe una questione di gusto, e come i gusti sono diversi, così a certi uomini piacerebbe una forma, a certi altri un' altra, e la uniformità non si potrebbe giammai ottenere: i vestiti e i riti varierebbero in ogni chiesa di una nazione stessa e dello stesso tempo. Volendo seguire questo sistema, si finirebbe con introdurre i capricci della moda nella Chiesa di Dio. Dunque la scelta de' sacri parati non dee essere una questione di gusto, nè può decidersi da chicchessia. E` questione d' istituzione ecclesiastica: gli abiti sacri non possono essere variati, se non da quell' autorità che gli ha istituiti o approvati. Solo in tal modo si può ottenere l' uniformità degli abiti sacri e delle cerimonie, che è un' espressione visibile dell' universalità e dell' unità della Chiesa di Gesù Cristo. Dicendo a voi queste cose, non intendo già di comandarvi che vi opponiate con forza all' inclinazione che si manifesta in cotesto Distretto medio pe' paramenti sacri di stile gotico; rimetto la cosa alla vostra prudenza. Se tutti i nostri Superiori si terranno passivi ed indifferenti, la cosa non andrà molto avanti. Raccomando bensì di predicare opportunamente a tutti i nostri: 1 che la carità di Cristo è universale, ed esclude qualsivoglia egoismo, specialmente il nazionale; 2 che la Chiesa Cattolica è universale come la carità; 3 che la Chiesa universale è fondata nella unità della S. Sede Romana; 4 che gli uomini all' opposto tendono sempre a restringere l' universalità e a spezzare la unità; 5 che l' Istituto nostro, che trae il nome dalla carità di Cristo, dee opporsi alla tendenza degli uomini, e promuovere la causa dell' universalità e dell' unità della Chiesa, coll' universalità della carità. Questa dottrina dolcemente insinuata nelle menti produrrà i frutti desiderati a opportuna stagione. [...OMISSIS...] 1.44 Se ha qualche cosetta da sofferire per amor di Dio, va bene che se ne rallegri, pensando nello stesso tempo a tanti che sofferiranno più di lei. M' è parso sempre un buon pensiero quel di riflettere a chi patisce in ogni momento nelle diverse parti del mondo. Quanti lottano colle agonie della morte, anche violenta! quanti combattono colle più fiere tentazioni! quanti sono martoriati da pene interiori! Noi non conosciamo distintamente quelli che in tante diverse maniere sono angosciati, ma basta anche solo conoscere un po' in generale quanto passa continuamente in questa valle di lagrime, per poter raccogliere che il Signore tratta noi assai dolcemente al paragone, ed essergli grati anche di questo. Supponendo che ella brami che le dica alcuna cosa sui punti della relazione comunicatami, non dubito di farlo colla presente. Sul punto del chiamarsi vittima , Le ho già scritto; e da quello che le ho scritto Ella avrà già inferito, quanto sarei ora per dirle, cioè che io non consiglierei mai ad una società religiosa di pigliare il titolo di vittime del sacro cuore di Gesù , perchè troppo pomposo; giacchè non v' ha cosa nè più grande, nè più onorifica che di essere vittime dell' amor divino. La vittima dell' amor divino è più che santa, è giunta all' apice della perfezione, alla quale non si giugne propriamente che in cielo, dove quelli destinati da Dio ad essere sue vere vittime avranno compito il loro sacrifizio. Ora come nessuno quaggiù in terra può sapere di essere santo, senza un' espressa rivelazione, così molto meno niuno può sapere d' essere vittima, nè dee riputarsi tale, ma solo desiderare di essere. D' altro lato tutto ciò che appartiene alla santità si dee procurare di nasconderlo agli occhi degli uomini: onde come mai tutte le religiose d' una congregazione potrebbero da sè stesse pubblicare che sono vittime del santo amore, e pretendere che gli uomini le chiamino con un titolo così magnifico? Queste buone religiose, imponendo a se stesse una tale denominazione, si canonizzano da sè stesse, mentre per essere canonizzate converrebbe prima che morissero, e poi facessero di que' miracoli solenni e pubblici, sui quali solo la Chiesa istituisce il processo della canonizzazione. Di più, gli uomini non potrebbero in coscienza dare loro un tal titolo, senza esporsi a mentire; perocchè quantunque le religiose fossero persuase di meritare tanto onore, tuttavia, non consterebbe della verità della loro persuasione agli altri uomini, se pur loro non rivelasse Iddio espressamente che tutte quelle religiose sono destinate da lui vittime da immolarsi sull' altare dell' amor suo. Fino dunque che noi viviamo quaggiù in terra pensiamo pure ad amare Iddio, e a divenire vittime del suo amore, domandandone ed aspettandone da lui la grazia; ma non pensiamo a chiamarci con sì bel nome, e molto meno a volere essere così chiamati da tutto il mondo. Se ella si compiacerà di riflettere tranquillamente su tutto ciò, s' accorgerà facilmente che, quanto al titolo di Vittime del sacro cuore da darsi alla istituzione alla quale le parve essere chiamata, altro non può essere stato che un gioco della sua fantasia. Spero che ella abbraccierà questo mio ingenuo sentimento, e l' abbracciarlo le riuscirà di profitto. Non cesserà già per questo di fare il più gran bene ch' ella possa al prossimo, secondo le occasioni che le verranno offerte dalla divina Provvidenza, perchè non v' ha niente di più caro al nostro Signor Gesù Cristo che l' amare ed il fare del bene al prossimo, e specialmente alle anime: l' amor del prossimo è il più sicuro segno e il più bell' esercizio dell' amor di Dio. Dopo di ciò ella mi domanda consiglio intorno alle letture che mi sembrassero a lei più convenienti, e glielo darò in breve. Nessun autore di mistica, nè pure le opere tanto pregevoli di Santa Teresa. Tutto ciò che dicono gli autori, che trattano degli stati d' orazione e delle divine operazioni nell' interno dell' anima, può essere utilmente studiato dai direttori per altrui direzione; ma è di poco profitto, di grande imbarazzo, di difficile intelligenza, ed anche di pericolo alle anime che quelle dottrine vogliono applicare a sè stesse. Il mio e suo S. Francesco raccomandava oltremodo la semplicità in trattando con Dio e cogli uomini, e v' ha gran pericolo di perderla avvolgendosi nelle sottigliezze della mistica. Egli è assai meglio amare, contemplare, pregare il Signore col menomo possibile ritorno sopra di sè stessi, su ciò che avviene nell' anima nostra, o che fa l' anima nostra. Il nostro bene è fuori di noi, è Dio in sè stesso e nel prossimo. Giova dunque pensare a Dio e non a noi stessi; cercare lui specialmente ne' prossimi, e non assottigliarci per misurare i passi nostri, con cui l' andiamo cercando. Esclusi i mistici, a lei sono già noti i più sicuri ascetici e non dubito che ne sia riccamente fornita. Mi restringerò adunque a darle un sol consiglio, quello di leggere abitualmente il « Nuovo Testamento », specialmente le proprie parole di nostro Signor Gesù Cristo, che hanno una soavità e forza infinita, sono adattate ai dotti ed agli indotti, rendono un sapor celeste, prestano un alimento divino, sono della più esatta verità, senza che nessun pensiero umano vi si intrometta, e d' una inesauribile sapienza. Le proprie parole di Gesù Cristo , ecco il cibo a lei adattato, e adattato a noi tutti. Le altre parti del Nuovo Testamento, oltre i Vangeli, servono a intendere meglio le parole di Cristo. Potrebbe anco ricorrere ad alcuni libri dell' Antico Testamento e specialmente ai Salmi, ai libri Sapienziali, a Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, e al Deuteronomio, procurando di ridurre questi libri a Gesù Cristo ed al suo amore: perchè a Cristo veramente tutti si riferiscono: tutti ben intesi lo annunziano e lo celebrano venturo: e insomma alle parole di Cristo Gesù convien sempre ritornare col pensiero, e abitare e riposare in esse con tutta l' anima. In queste parole s' impara massimamente il precetto tutto proprio di Cristo, e nuovo nella sua bocca divina, quello dell' amor del prossimo. A questo gioverà infinitamente, per dirlo di nuovo, ch' ella diriga le principali sue cure e meditazioni. Spero ch' ella mi scuserà, se mi diffondo più del bisogno, e vorrà riconoscere anche in questo, che altro non mi muove che quella carità del Signor nostro in cui ritrovo contenuto ogni bene. Credo però d' avere ora soddisfatto alle sue domande. Resta ch' ella mi compatisca e mi continui quel soccorso d' orazioni, che considero come abbondantissimo conpenso a questa leggera e dolce fatica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Presumendo il suo permesso, ho confidato a un mio compagno, il sacerdote Pagani, il progetto inviatomi della pia unione, e meco conviene nel riconoscere che l' atto, con cui un cristiano offerisce sè stesso, la propria vita, il proprio sangue a Dio, insieme col sangue e colla vita di Cristo, e coi patimenti di Maria, è il più bello ed eccellente che si possa fare; e però approva in sostanza, che si promuova questa divozione, eccitando i fedeli a praticarla. Ma perchè è molto ardua a farsi con sincerità (cosa importantissima se deve essere buona ed utile), perciò gli sembra da tenersi piuttosto fra pochi, che da propagarsi fra molti, con pericolo che diventi una comune e languida formalità, com' è accaduto ad altre divozioni per sè stesse ottime. Egli anche suggerisce che il titolo della pia unione sia più breve e più semplice; che l' offerta che si stabilisce venga recitata tre volte al giorno dagli ascritti, o almeno una, e che, lasciate le altre regole, all' offerta sussegua il modo di praticarla o, per dir meglio, i sentimenti e gli affetti da cui essa deve essere accompagnata quando si recita; acciocchè essa sia recitata bene, con sincerità d' affetto e cognizione di ciò che importa l' offerire sè stesso al Signore. Che se si volessero aggiungere delle piccole meditazioni o riflessioni sul sangue sparso da Gesù Cristo, sul Sacro Cuore, e sui patimenti di Maria, dove gli stessi sentimenti contenuti nell' offerta venissero più ampiamente esposti in forma di soliloquio, per chi ha comodità di usarne, anche questo potrebbe riuscir vantaggioso. Gesù la ricolmi dell' amor suo; e penso che ciò Le basti. Non cessi di pregare per me e pei sommi bisogni miei propri e di quelli che meco insieme servono il Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Restituisco i manoscritti favoritimi, pieni di fervorosi sentimenti, pei quali ho lodato il Signore da cui provengono. Avendomeli Essa mandati per ubbidire al suo Direttore, il quale pure mi prega di dire il mio parere sulle cose in essi contenute, riconoscendo prima di tutto la mia poca perizia, glielo esporrò con tutta la dovuta sincerità. In generale non dubito punto dire, che Ella si trova, per misericordia del Signore, in sulla buona via, per la quale non è a pensare altro se non che a tirare avanti con prudenza e semplicità. Non disapprovo adunque che continui a scrivere quanto passa nell' anima sua, per sua propria edificazione, e per informazione di quelli che la debbono guidare nel suo cammino. In particolare non feci che poche osservazioni e sono queste: La prima, che per altro calcolo poco o nulla, riguarda certe espressioni colle quali Ella sembra di credere che in certi stati, in cui Le avviene di trovarsi, le potenze del suo spirito sieno oziose: il che non è, mancando solo l' avvertenza delle loro operazioni, ed essendo l' oggetto, in cui sono occupate, generale, onde non ammette discorso e distinzioni. Ma, come dicevo, di questo non faccio caso, perchè ho veduto in altri passi che Ella viene poi a spiegarsi meglio, dicendo presso a poco altrettanto. La seconda è più importante, ed è, che mentre in descrivere certi sentimenti avuti si diffonde notabilmente, pare che mostri della ripugnanza ad esprimersi francamente ed interamente sopra certe altre cose più necessarie a sapersi per chi la deve guidare, e questi sono massimamente tutti quei luoghi, nei quali tocca, sembrarle che Iddio voglia da Lei qualche impresa misteriosa da compirsi fuori del suo Monastero. Fino a tanto che si tratta di opere buone, specialmente riguardanti la carità del prossimo, da farsi restando Ella nel luogo dove Iddio l' ha collocata, converrà esaminare le cose per minuto, ma poi non ci sarà forse difficoltà. Ma non così la penso, se si trattasse di dovere uscire dal luogo, in cui ora felicemente si trova: perocchè, già per questo solo, la cosa dovrebbe tenersi per sospetta, fino a tanto che Iddio non desse delle prove palmari della sua volontà, per esempio, che il Papa gliel' ordinasse; il che non è per ora verosimile. Su di questa materia dunque trovo necessario che Ella ponga ogni cura ad esprimere e manifestare distintamente ciò che passa nell' anima sua, essendo il punto più importante per chi la deve dirigere; a meno che Ella deponesse ogni pensiero di ciò, e la cosa finisse così. La terza osservazione si riferisce alla stessa materia, e mi si presenta forse dal mio non bene intendere il suo pensiero. Quando Ella parla delle vittime che vuole il Signore, parmi che Ella intenda di essere chiamata a fondare un monastero o una società di queste vittime. Ma converrebbe distinguere più cose. Egli è certo, che Iddio ha mandato il suo Verbo a incarnarsi ed immolarsi vittima pei nostri peccati. E` certo ancora, che la missione di Gesù Cristo è appunto questa di fare, che i suoi seguaci diventino simili a lui, vittime immolate sull' altare del divino amore. « « Io sono venuto a portare il fuoco in terra » », Egli disse, e il fuoco è quello che deve incenerire l' olocausto. « « Chi vuol venire dietro di me prenda la sua Croce » », e la croce è il supplicio dove Cristo è morto, e dove i suoi seguaci debbono pure morire. « « Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi » » e anche questo, perchè Gesù Cristo voleva dai suoi discepoli il sacrificio di se stessi. S. Paolo vuole, che i Cristiani sieno morti e sepolti con Cristo; e di sè dice, che era crocifisso al mondo, come il mondo a lui. Insomma le Scritture sono piene di questo sentimento, e Iddio ebbe sempre ed ha le sue vittime. Tali furono prima i Santi Martiri, e poi tutti i Santi Confessori, che morirono col cuore a se stessi, e non vissero e non operarono che per Cristo. Questa immolazione adunque di tutto l' uomo in onore del Creatore è il fine della missione di Gesù Cristo e della stessa creazione dell' universo. Felici quelle anime, che possono essere vere vittime bruciate dal fuoco di Cristo e condite del suo sale! Il predicare questa dottrina è cosa santissima, perchè è la dottrina stessa di tutto il Vangelo. Ma dopo di ciò, sarebbe un' altra ricerca da farsi quella « se si potesse fare una vera società di tali vittime ». Primieramente le vittime di Cristo ben sovente non sanno di essere tali: perchè chi può conoscere i secreti del proprio cuore, e sapere con sicurezza, che ci abbia nel fondo, dove non vede che l' occhio di Dio! Di poi, le vittime di Gesù Cristo non soffrirebbero di essere chiamate con questo nome, come appunto i celebri martiri di Lione non soffrivano d' essere chiamati martiri, benchè avessero sofferto moltissimo per Gesù Cristo, perchè dicevano: « non siamo ancor morti, il nostro martirio non è ancor consumato ». In terzo luogo, per formare una società di vittime, converrebbe conoscerle, ma Iddio solo conosce le sue vere vittime, e se l' uomo volesse giudicarle tali, prima di vederle coronate in cielo, andrebbe a rischio di raccogliere degli armenti, che, venuto il tempo dell' immolazione, gli sfuggirebbero dall' altare. In quarto luogo le società religiose hanno per iscopo di prendere gli uomini imperfetti e di aiutarli acciocchè, colla divina grazia, tendano alla perfezione; ma le vittime sono già perfette, non hanno bisogno di essere associate, e nè pure di conoscersi come tali. In quinto luogo, le vittime non si fanno tali se non con quell' ultimo atto di perfezione, col quale immolano se stesse; e quest' atto è l' opera di Dio; onde nessuno al mondo per quanto predicasse, eccitasse al bene o somministrasse i mezzi, che egli può al bene, potrebbe fare una vittima sola: e perciò una società, che s' incaricasse di formare delle vittime usurperebbe l' opera di Dio. Non è dunque possibile, a mio parere, istituire una società con questo titolo che agli uomini spirituali parrebbe ambizioso, ed al mondo, pur troppo, ridicolo. Che cosa adunque sarebbe possibile di fare? Quello stesso che hanno sempre fatto i santi fondatori delle religioni; unire delle persone che aspirano alla perfezione, e dare loro tutti i mezzi al perfezionarsi coll' orazione, colla mortificazione, colla povertà, colla solitudine ecc., eccitarli quanto è possibile al fervore, a non volere che il piacere di Dio, a cercare il più perfetto in ogni cosa, a caricarsi specialmente di tutte le opere di carità verso il prossimo, e dare il proprio sangue in aiuto dei loro prossimi: e in questi ministeri verso i prossimi è appunto dove possono trovare numerose occasioni di fare il sacrificio di se stessi, come l' ha fatto Gesù Cristo per nostro amore e per nostra salvezza, adempiendo così il precetto di Gesù Cristo di amarci scambievolmente, ed adempiendolo con perfezione, cioè spendendovi la vita stessa. E in questi esercizi della carità del prossimo è dove più sicuramente si esercita e spiega la carità verso Dio, non potendovi essere illusione di sorta nel fare ogni bene possibile ai nostri prossimi con fatica, umiliazione, e patimento nostro proprio: purchè sopra tutto anche in tali esercizi abbiamo la guida dell' ubbidienza, che è l' interprete fedele del divino volere. « « Se ci amiamo scambievolmente, dice S. Giovanni, Iddio si tiene in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Figliuolini miei, non amiamo colla parola o colla lingua: ma coll' opera e colla verità dei fatti » ». Or poi se fra queste persone, che si propongono di fare in tutto la volontà sua, e di spendersi a vantaggio dei prossimi, Iddio si sceglierà delle vittime, egli sia benedetto e lodato in eterno: questo è quello che bramiamo e che da lui dimandiamo. Colle orazioni nostre dimandiamo pure dal Signore, che egli mandi il fuoco celeste anche sopra tutto il mondo, e ne riceva l' olocausto in odore di soavità. Da parte nostra, dopo avere fatto quello che possiamo, in lui speriamo, che avrà pietà dei nostri peccati, e in lui riposiamo. Quanto a noi dunque, offriamo pure noi stessi al suo amore, senza crederci perciò già divenuti sue vittime; offriamocegli nel modo, che le scrivevo in sulla fine dell' anno scorso. Eccitiamo anche i prossimi a sì bella offerta, ma senza ingerire loro nell' animo il pensiero di essere divenuti vere vittime; perocchè è da lasciare tutto ciò al Signore; e più tosto procuriamo che tutti si credano ben lontani da tant' altezza. Facciamo, come S. Ignazio martire che solamente quando udì il ruggito dei leoni che doveano divorarlo, pieno d' allegrezza disse: « « Ora incomincio ad essere discepolo di Cristo » ». Eccole, Molto Reverenda Madre, le mie osservazioni. Ora vengo ad informarla dello stato del libretto progettato, che dee contenere gli esercizi per l' offerta di se stessi . Il tempo destinato a questo piccolo lavoro nel passato autunno, mi fu tutto rubato da minuti affari e convenienze a cui la carità non permetteva che mi sottraessi. Sono però desideroso, se a Dio piace, di applicarmi a così dolce fatica: ma quando il potrò? Dio solo lo sa; ma per qualche mese vedo la cosa impossibile. Ella preghi che il Signore, mi dia i lumi, gli affetti, le parole necessarie, acciocchè possa essere utile alle anime. [...OMISSIS...] 1.45 Partecipe delle gentilezze del Conte e più ancora della Contessa Masino, non posso a meno di venire a solvere un doloroso uffizio con Lei, ottima signora Contessa, un uffizio della più sincera condoglianza in questa nuova tribolazione che il Signore Le ha mandato, privandola della più intima persona di sua famiglia che sola Le rimaneva. Il Signore è certo egualmente buono, egualmente saggio anche in questi momenti che colla prova del dolore purifica le anime a lui care, come in altri momenti in cui le ricolma di prosperità e le incoraggia colle consolazioni al suo più fedele servizio. Io so, che Ella piena di Fede, e nutrita delle profonde verità della nostra Religione santissima, consolatrice di tutti i mali, non ha bisogno de' miei conforti, e che sa vincere il dolore della natura coll' altezza dell' animo rassegnato e costante. Anzi mi imagino che, avendo Ella conosciuto intimamente la bontà del cuore e le beneficenze del Conte Masino, a cui non mancarono, come mi fu scritto da Torino, nè pure nell' ultima malattia gli aiuti spirituali dei SS. Sacramenti, Ella raffrenerà la naturale afflizione colla ferma fiducia nella misericordia del Salvatore, che egli si trovi in un luogo assai migliore di questo misero mondo, che anche in mezzo alle illusioni che produce, pure si sente essere una terra d' esilio, un albergo di viaggiatori, o più tosto una mobile tenda nel deserto. E questi amari casi che ci fanno sentire vie più che questa non è la nostra patria, che non abbiamo quaggiù una città permanente, destano nelle anime buone come Lei, mia Signora Contessa, un indefinibile sentimento di speranza e un sospiro verso cose migliori e non periture, che ben dimostra quello che è stato detto ancora, che come in seno ai piaceri spunta la spina del dolore, così in seno ai dolori nasce pei veri Cristiani la rosa bella e fragrante della spirituale consolazione. E quel che è più, le disgrazie nostre temporali ci migliorano il cuore, ce lo fanno più umile, più dolce, più caritatevole, più distaccato ed anzi disgustato delle vanità. Onde il Signore che ama i suoi d' un amore perfetto, che ha per oggetto il loro miglioramento spirituale, permette che sieno così sbattuti, e si compiace di quel combattimento fra la natura e la grazia, in cui egli li vede valenti e trionfanti: ed anzi li fa tali egli stesso. Chi non ha più in terra le persone in cui riponeva i suoi legittimi affetti, questi ha più diritto di chiamare Iddio suo protettore, suo padre, suo sposo; chi è sciolto dai vincoli umani, benchè carissimi, questi ha acquistato una maggiore libertà di darsi a Dio e di consecrarsi a tutte le opere della carità e della pietà. Onde S. Paolo parlando della donna che non ha marito, dice che « pensa quelle cose che sono del Signore, ad essere santa di corpo e di spirito ». Certo che, essendo noi vestiti di corpo, quando ci viene rapita dai sensi nostri un' amata persona, non vedendola più, nè udendola parlare, nè potendo noi più parlare a Lei; ci sembra d' averla intieramente perduta. Ma quant' è più sublime il senso della Fede! Questa ci dice tutto il contrario, questa ci assicura che ciò che è perduto della cara persona è il meno, è un nulla in paragone di ciò che s' è conservato: la persona desiderata vive ancora, e non ha fatto che deporre la veste, una veste logora, sdruscita, già non più degna d' esser portata, e tuttavia questa veste non l' ha dismessa per sempre, ossia l' ha dismessa per cangiarla poscia in una nuova, magnifica, nuziale, che non prende più macchia, nè si lacera più, nè si corrode dalle tignuole, nè si consuma dal tempo, e che sempre nuova e bella rimane in eterno. Nè periscono gli affetti della persona resa invisibile ai nostri sguardi carnali, nè la memoria; ma ella pensa a noi ancora, e ci ama di più puro amore, ed è grata ai benefizi ricevuti nella pristina vita, ed è potente per rimeritarceli; perocchè ella sta vicina al trono della grazia e della misericordia. Ed è scambievole tuttavia il commercio degli affetti del cuore, perchè anche noi saliamo coll' ali del nostro spirito e della nostra fede fino a lei e, se ha bisogno ancora di noi, possiamo prestarle i più amorevoli e preziosi uffizi colle nostre orazioni ed opere buone; e, se non ne ha più bisogno, possiamo contemplarla colla speranza nostra nella sua altissima felicità e gloria, e compiacercene, ed esultarne nello spirito del Signore, e renderne a Dio misericordioso le grazie più vive. Ed anzi l' una e l' altra di queste due cose possiamo e dobbiamo fare ad un tempo, secondo la disposizione e l' invito del nostro cuore. Poichè anche quando le virtù conosciute delle persone passate di questa vita ci danno piena fiducia della loro salvezza, non possiamo però presumere che questa povera umanità sia comparita dinanzi all' Essere santissimo priva d' ogni legger mancamento da scontare e purgare; e però dobbiamo suffragarla, se mai di suffragi avesse bisogno. E quanto a me ben Le prometto, mia ottima Signora Contessa, che lo farò, e lo farò fare dai miei compagni, e da questi ottimi Novizii, e sopra tutto dalle nostre Suore della Providenza che tanto debbono a Lei, e che La venerano come madre. Che se il buon defunto non avesse bisogno di questi spirituali soccorsi, il Signore ne accetterà l' offerta a vantaggio della Signora Contessa, acciocchè sulla sua afflizione sparga la grazia, e, buona com' è, vie più la santifichi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Mi congratulo che Ella sia fatto Rettore di cotesto venerato Seminario, perchè questa è una buona occasione che la divina Provvidenza Le mette in mano di poter fare un gran bene alla Chiesa di G. C.. Ma non mi fa stupore l' intendere, che Ella si trovi in molte perplessità e dubbiezze circa la maniera di condurre un sì importante Istituto, in cui si formano ai più sacri ministeri i giovani leviti. E` già un bel lume che le dà il Signore quel di sentire le difficoltà dell' impresa e il bisogno urgentissimo ne' nostri tempi di riformare l' ecclesiastica educazione. Il clero oggidì, parlando in generale, è debole, pur troppo, prostrato e avvilito, rincontro a un secolo che tanto esige da lui: da sè stesso si è ridotto così malamente; ed una delle più grandi e delle più prossime cagioni fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l' istituzione ne' Seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento, se potesse capirsi in una lettera; e perciò attutendo quel sentimento ch' io provo di continuo, direi quasi, di sdegno, Le dirò in quella vece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua generale dimanda. La base immobile dell' educazione ecclesiastica è la SANTITA`. Ah quanto poco s' intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si contenta ne' chierici d' una bontà mediocre, d' una vocazione ingombra e macchiata di fini umani, a cui l' acquisto d' un benefizio, d' un posto lucroso, d' uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al fondo per scrutinare la coscienza dei chierici; ond' entrano nel sacerdozio assai spesso schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che egli è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all' ozio, leggieri, mondani, senz' alcuna sodezza di vera virtù! Privi della coscienza della propria dignità, senza pur intendere la propria abbiezione, molti giovani sacerdoti, forse appena usciti da' Seminari, sottopongono le spalle a delicati offici di cura d' anime, delle quali non conoscono il prezzo, e perdendone molte perdon sè stessi. Di che io voglio raccogliere che la persona più di tutte importante in un Seminario è il Direttore spirituale, senza il quale è impossibile farne alcun bene; e vuol essere uomo di gran pietà e di molta testa altresì, giacchè le teste piccole guastano con ottimi fini. Soggiungerò a questa un' altra generale osservazione, ed è che il Rettore, per quantunque grand' uomo egli sia, non può cavare gran frutto dal suo governo senza che gli altri sacerdoti che lo coadiuvano sieno bene scelti, ciascuno a suo posto, e formino con essolui buona unione, per la quale il piano che viene abbracciato si possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni. Dopo la santità, radice e fonte d' ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale ne' Seminari si dà ai tempi nostri troppo mutilata, anzi pur come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, neppure s' istituisce solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le più vitali questioni, credendole inutili alla pratica, quando esse anzi sono della pratica stessa la vita e la forza; e talora si assolvono i chierici dallo studio della dogmatica, senza dare pur loro altra morale, che quella de' soliti trattatisti, tutti volti a decidere ciò che è o che non è peccato in uso de' confessori, ma poveri di ciò che riguarda l' alta idea della virtù, e della vita virtuosa, e dell' evangelica perfezione. Onde gli studi, debbono essere, mio egregio signor Rettore, troppo più ampi che non si costuma ne' Seminari a' dì nostri; ed io credo che la sua penetrazione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i suoi timori. Ottimo è il pensiero che Le venne d' introdurre una Cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, e specialmente quella che insegna a praticare il pastoral ministero, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte l' altre; giacchè al pastore dell' anime viene il bisogno d' avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l' insegnamento di questa scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di gran pratica della cura dell' anime, fornito di naturale prudenza e di gran zelo; acciocchè potesse informare i suoi uditori. Ma non più, benchè l' argomento troppo più richiederebbe. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Nel giornale francese « L' ami de la Religion », 6 novembre 1.45, è riportata una lettera sulla conversione al cattolicismo del dottor Newman, e viene attribuita a V. S.. Io pensai che, se questa lettera è veramente sua, a Lei non dispiacerà che io soddisfi al bisogno del mio cuore che brama farle conoscere quanta consolazione in me e in molti de' miei amici ne abbia prodotto la lettura. La confidenza che Ella ripone nella preghiera, l' esclusione dell' eresia, come di un ostacolo dell' unione, il desiderio d' essere guidato dallo spirito di Dio nella verità, l' uniformità al divin volere, la speranza viva nella divina misericordia, e la sete della giustizia e della santità sono altrettanti doni del Signore, di cui la sua lettera contiene una non dubbia espressione. Voglia Ella dunque permettere, che un sacerdote cattolico del continente, che, nella carità del Signore, La considera come fratello, Le apra tutto intero il sentimento, che provò in leggendo quella sua lettera. Soprattutto il consolò l' intendere ch' Ella riconosce la potestà delle chiavi lasciata da GESU` Cristo alla sua Chiesa, e non potè a meno di dire seco stesso: « Sì, il buon Dio, che ha dati tanti lumi a quest' amico sincero della verità, gli farà anche conoscere, che la divisione dell' Inghilterra dalla Chiesa cattolica è avvenuta per un atto di questa potestà ». Quando io lessi nella medesima lettera, che ciò che tiene lontane dalla Chiesa cattolica le persone religiose d' Inghilterra, non sono le dottrine, ma alcune pratiche della Chiesa Romana, io ho concepito la più viva speranza, che Iddio, compiendo le sue misericordie, farà conoscere altresì a tali persone che la Chiesa Romana, che si professa nemica di ogni superstizione, non approva ciò che potrebbe esservi di men retto nelle pratiche di alcuni individui cattolici; e molte pratiche che in se stesse non sono cattive, salvo il dogma, non le impone come obbligatorie ai fedeli. Sì, tutti noi cattolici, da ogni parte del mondo, abbiamo ora rivolti gli occhi a cotesta illustre terra inglese, e facciamo incessanti e concordi preghiere, perchè il Signore voglia compire le sue misericordie sopra di quella, e speriamo, che quando il Signore, venuto il tempo, ci avrà esauditi, rinnestando questo tralcio separato nella vite del Supremo Padrone, la quale non può essere che unica, secondo le parole di Gesù Cristo; allora questo tralcio debba dare « fructum plurimum »: noi siamo persuasi, che Iddio prediliga cotest' Isola, e che il suo santo Spirito, spirito d' unione, operi in molte persone di buona fede, che pregano il Signore nella rettitudine del loro cuore, e che quest' operazione divina non potendo rimanere imperfetta, condurrà tali persone all' unità. Noi bramiamo che tutte queste persone possano prima di morire arrivare a quest' unità, verso cui sono mosse dal divino Spirito, senza però che il loro libero arbitrio rimanga legato. Specialmente noi lo bramiamo e lo speriamo per quelle che, riconoscendo già il potere delle chiavi, possono invocarlo e dimandare che loro sia aperto, se prima fu loro chiuso, e, riconoscendo il potere di legare e di sciogliere, possono dimandare d' essere slegati, se prima furono legati; il che appunto fece colui, nel quale V. R. nella sua lettera riconosce che operò lo spirito di verità. Questo spirito di Dio certamente lo illuminò a vedere che, se nella Chiesa non vi fosse un poter supremo delle chiavi, ma questo potere fosse dato a molti in egual grado o alle stesse condizioni; egli sarebbe esposto al disprezzo, e riuscirebbe incerto ed inutile, perchè mentre l' uno chiuderebbe, l' altro aprirebbe; mentre l' uno legherebbe, l' altro slegherebbe; si legherebbe e si slegherebbe a vicenda. Io confido nella retta intelligenza di V. R. e nel lume che Le dà e Le darà il Signore, che Ella riconoscerà come una verità di fatto, che quelli che rientrano nella Chiesa Romana, non solo riconoscono il potere delle Chiavi, ma il poter supremo delle Chiavi in S. Pietro e ne' suoi successori, avendo GESU` Cristo consegnate le chiavi nominatamente a quest' Apostolo, e impetrano che questo potere supremo delle chiavi apra loro la porta del regno de' cieli, che prima era loro chiusa. Questo è il fatto, tale è la loro credenza. Se questa loro credenza fosse falsa, sarebbe un' eresìa; ed Ella stessa riconosce che nella Chiesa Romana eresìe non ve ne sono. Se fosse un' eresìa, od anche semplicemente un errore professato da tutta la Chiesa Romana, come lo spirito del Signore avrebbe condotto nell' errore colui, di cui Ella parla nella sua lettera, ed altri, in cui Ella stessa riconosce l' operazione e la volontà di Dio? E se in tali persone la grazia del Signore, data probabilmente alle loro ed alle altrui preghiere, com' Ella giustamente osserva, produsse questo frutto; non è egli da credersi, che i bei semi che si sviluppano nel seno della Chiesa anglicana, siano appunto doni di Dio, che non abbandona le anime religiose di questa chiesa, per condurle soavemente allo stesso termine, cioè nell' unico ovile dell' unico Pastore? Che se non si può negare che la separazione dell' Inghilterra si operò per un atto della podestà delle chiavi, non si può nè pur negare che vi avesse una giusta ragione per un tal atto, cioè l' eresia che Ella, col lume datole dal Signore, riconosce esistere, più o meno, nel seno della chiesa anglicana. Non si può negare che l' eresia fu considerata sempre nella Chiesa per un giusto motivo di separarne le parti infette, privandole della comunione ecclesiastica, e che i fedeli, in un tal caso, si riconobbero sempre gravemente obbligati di tenersi uniti colla parte sana della Chiesa, dividendosi dall' altra; come pure è certo che la parte divisa dalla Chiesa non può esservi ricongiunta, se non per un altro atto della potestà delle chiavi che riapra loro la porta. Dio pur volesse che tutti i Vescovi separati che sono in Inghilterra, insieme colle loro diocesi, venissero all' unità! E parmi che il suo cuore, pieno di zelo per la gloria di Dio, miri a questo, ed aspetti questo, e lo solleciti colle sue preghiere. Se il Signore la esaudirà, noi ne benediremo tutti insieme con Lei il Signore in eterno! Ma se qualcheduno fosse chiamato dal Signore alla prima, alla terza, o alla sesta ora della giornata, io non vorrei che egli aspettasse a venire a lavorare nella vigna del Padrone per entrarvi insieme con quelli che fossero chiamati all' ora undecima. Quando il Signore chiama un popolo, suol nascere una specie di giudizio, una separazione fra quelli che egli assume e quelli che egli lascia: difficilmente rispondono tutti alla chiamata, « quidam credebant his, quae dicebantur, quidam vero non credebant »: i primi fanno la strada agli altri. Io credo che quelli che si unirono testè alla Chiesa cattolica, abbiano trovata la via più sicura e più breve di ristorare a nuova vita la chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la chiesa anglicana dall' eresìa, per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocchè il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: « « Pasci le mie pecore » ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Il P. Molinari mi avea pur troppo reso consapevole del pericoloso stato dell' ottima Signora Marchesa, sua madre, e preparato a sentire d' un giorno all' altro il doloroso annunzio, ch' ella ci ha abbandonati. Mi figuravo il dolore di tutta l' egregia famiglia, e particolarmente l' afflizione del mio carissimo amico Gustavo, di cui troppo conosco il tenero cuore. Ed ecco la sua lettera, che m' annunzia compiuta la trista aspettazione. Quell' ottima Signora adunque, delizia de' suoi congiunti, ornata di tanta carità, piena di tanta fede e ricca di tanta pietà, non è più visibile agli occhi nostri, non si trattiene più con noi in famigliari e virtuosi colloqui, non più appare qual centro, intorno a cui consorte, figliuoli ed amici si trovavano così volentieri uniti, e con sì virtuoso affetto! Ah diamo pure il suo tributo di lagrime alla natura che si risente della grave sua perdita; e poi diciamo col più famoso esemplare di religiosa fortezza che presentasse il tempo antico: « Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum! » Tale è certo l' esclamazione, che avrà già fatto più volte, con tutta la sincerità del religioso suo cuore, il mio carissimo marchese Gustavo, di cui ho prova nella stessa sua lettera: e quanta soavità di conforto non avrà già gustato! Quale salubrità di balsamo non è egli questo versato dalla fede nelle piaghe sanguinanti della natura! La volontà di Dio: che sublime parola! che luce per l' intelletto che conosce ed ama Dio! che bene ineffabile ed infinito che supplisce e compensa ogni altro bene! Oh volontà santissima, volontà sapientissima ed ottima, fuori della quale anzi non è più bene, ma sola illusione di bene, fiat, fiat! Oh adesione fortunatissima del nostro volere col volere sommamente buono, unicamente buono e perfetto dell' Onnipotente, adesione che trasforma in beni tutti i mali, in felici avventure tutte le umane calamità! Tali sono i sentimenti che io veggo in Lei, mio caro Marchese, e di cui io pure traggo come in questa, così in ogni altra sciagura temporale, indicibil sollievo, ineffabile consolazione. Ed ora specialmente mi è oltre misura caro il pensiero di avere questo conforto con Lei indiviso, al cui dolore partecipo. Ma dobbiamo ancora non poco rallegrarci considerando con che pietà la Signora Marchesa compì la sua carriera mortale, avendomi il P. Molinari raccontato con quale fortezza si faceva incontro al suo fine, con quanta sollecitudine dimandò e con quanta divozione ricevette i Sacramenti della Chiesa, e quanto rassegnata e sperante mutò questo albergo transitorio colla patria intrasmutabile. Onde se noi rimaniam privi per brev' ora di Lei, ella non rimane però priva nè di Dio, nè di noi, che in Dio ci rinviene e possiede. Che se qualche leggera macchia tenesse questa carissima anima, che fu viatrice per questo cammino del mondo, tutto fango e belletta, dove è sì difficile andare senza imbrattarsi ed è pure difficile nettarsene interamente, ancora lontana dalla visione della faccia del suo Creatore, a cui non può essere ammesso chi sia della luce men puro: il Signor nostro Gesù Cristo nella sua immensa bontà ci ha lasciati anche i mezzi efficaci per accelerare, coll' applicazione de' suoi meriti, la purificazione delle anime trapassate e renderle degne del suo cospetto. Ed anche questa istituzione divina e questa efficacia, che ci attesta la fede delle orazioni, e dei suffragi, e delle buone opere a vantaggio de' nostri cari defunti, è pur cosa preziosissima pei passati e consolantissima pei superstiti che possono accelerare il momento della beatitudine di quelle anime. Io unirò certamente le mie povere preci alle sue ed a quelle della famiglia, e anzi vengo pur ora (giacchè ho dovuto interrompere ier sera questa lettera) dall' aver celebrata la Santa Messa in suffragio dell' anima della Signora Marchesa, e così farò pur fare de' suffragi a' Sacerdoti miei ed alle nostre buone Suore della Provvidenza. Se si considera con viva fede che cosa sia la visione beatifica, oh quanta voglia viene d' invidiar santamente quelle anime, che già la godono! e quanto sdegno nasce contro la fiacca nostra natura che vorrebbe piangere di ciò che era pur necessario che avvenisse perchè fossero felici! Quanto stimolo altresì possiamo cavare da sì duri avvenimenti per istaccarci e liberarci vieppiù dalla servitù delle cose visibili ed unirci con Dio, considerando il tempo della vita presente come datoci dalla Provvidenza per fare il maggior bene possibile a' nostri prossimi e così ottenerci poi il riposo di un' eterna felicità! Le parole di S. Paolo: « dum tempus habemus operemur bonum », saranno forse corse al suo pensiero in questi momenti, come occorrono al mio. Mi imagino pur troppo quanto sentiranno vivamente la perdita fatta l' egregio Signor Marchese suo Padre, e l' ottima sua ava. La prego di presentar loro, come pure al Conte Camillo, le mie condoglianze più sincere. Potessi essere a Torino e dar loro qualche conforto! Ma sono anch' essi sì religiosi, che troveranno nella mano che flagella la mano altresì che copiosamente consola. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Io spero che vedrò il sig. Newman, che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillipps, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti. Del resto ciò che Ella dice della sommissione di noi Fratelli della Carità all' Ordine gerarchico, ella è un punto capitale del nostro Istituto. Ho ben veduto che un Istituto generale non potrebbe esistere, se fosse, assolutamente parlando, soggetto alla giurisdizione dei Vescovi delle singole diocesi, ciascun de' quali pensa naturalmente pel suo gregge, e non allo stesso grado pel bene generale della Chiesa, che più importa, e che dee formar lo scopo di un tale Istituto; ho conosciuto che gli Ordinari delle diocesi non potrebbero reggere un Istituto colle stesse massime, collo stesso spirito, con perfetta concordia d' azione, e quel che è più, che, occupati nella cura esteriore delle anime, non avanza loro tempo (nella presente condizione di cose) per coltivare, quanto importa, la vita religiosa ed interna de' membri d' una tale società, che è pur la radice ed il fondamento delle virtù e delle opere esteriori. Ma d' altra parte, essendo essi i legittimi successori degli Apostoli, avendo la missione da GESU` Cristo, chi mai potrebbe, secondo una retta dottrina, voler operare qualche cosa nella Chiesa, senza la loro direzione, senza esser mandati da essi? Procurai dunque nell' Istituto della Carità di conciliare questa sommissione, obbedienza e religiosa servitù all' ordine gerarchico colla universalità dell' Istituto, colla indipendenza necessaria per poter esistere in un corpo ben unito, e perciò stesso forte, ordinato al di dentro e animato da un solo spirito, senza pericolo che ne venisse a patire la vita e la perfezione interiore. Ad ottenere tale doppio intento l' Istituto fu esentato dalla giurisdizione vescovile, acciocchè i propri Superiori potessero liberamente occuparsi a formare i loro soggetti alla santità; ma ebbe in pari tempo per sua regola e massima fondamentale di considerarsi come professore di vita ritirata e nascosta, aspettando dalla Provvidenza le occasioni di esercitare la carità, senza cercarle, e aspettando dai Prelati della Chiesa la missione necessaria per esercitare la cura delle anime e la predicazione apostolica; esercitando in tutto e per tutto questi ministeri secondo il voler dei Vescovi e prestandosi in ogni cosa di carità alle loro domande preferibilmente a quelle di qualsivoglia altra persona. E poichè, qualora i Parrochi e Vescovi fossero dell' Istituto stesso, cesserebbe ogni difficoltà; perciò fu pure stabilito come regola precipua, che qualora alcuno dell' Istituto fosse chiamato da Dio alla cura d' una parrocchia, egli fosse parroco e ad un tempo Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della parrocchia, e così se fosse innalzato al vescovato, egli sarebbe Vescovo ad un tempo e Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della diocesi. Ciò deve sempre aver luogo, verificandosi alcune condizioni stabilite dalle Costituzioni. Così l' Istituto è diviso per parrocchie, diocesi, provincie ecc., divisione rispondente a quella dell' Ordine gerarchico a cui deve servire. Venendo ora al discorso de' riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual' è. L' attaccamento dei varŒ popoli ai loro riti è così grande, e, se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell' Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito, inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito, che mutar di fede. L' attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a' Missionari che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie de' popoli orientali, posto altresì l' efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso, io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell' opera d' invitare a sè que' Cristiani che sono fuori del suo seno, debba essere e sia di mantenere o restituire a quei riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell' Occidente, com' Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l' introdurre i diversi riti fra i membri delle Congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionari e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all' Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla sua dimanda, basta il motto che lo caratterizza omnibus omnia . Ma acciocchè non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero istituire collegi di missionari, destinati a vantaggio di que' popoli che professano quei riti. E l' Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli suole dividere i suoi membri in altrettanti collegi, quante sono le opere principali di Carità ch' egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v' avesse, poniamo, un Collegio di Missionari pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo per le diverse chiese scismatiche di rito diverso. Vero è che nella regola nostra si dice che i membri dell' Istituto usano il rito romano; ma questo fu detto unicamente per escludere i diversi riti occidentali, che discordano dal romano, essendo troppo desiderabile che l' Occidente abbia un rito solo; ma non fu detto per escludere i riti orientali. Per altro, come Ella osserva, dovrebbe sempre intervenire in ciò la facoltà e l' approvazione della S. Sede Apostolica. Noi non cesseremo di pregare il Signore, che le eccellenti vedute di Lei e l' ardente suo zelo per l' avvenimento del suo regno apportino un frutto abbondantissimo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Voi volete qualche indirizzo che vi scorga a ben giudicare delle cose presenti. Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a trionfo della sua Chiesa: ma anch' egli è un conflitto de' più opposti elementi, e la luce e le tenebre pugnano mescolati insieme, e pugnano a morte. Fra i campioni dell' inferno e quelli del cielo v' ha un partito mezzano simile a quello « degli Angeli che non furon ribelli, nè fur fedeli a Dio, ma per se foro (Dante) ». E benchè anche i primi sappiano qual sia l' arte dell' ipocrisia raffinata, tuttavia egli è men difficile guardarsi da essi che non sia giudicare rettamente di quelli che occupando il mezzo, partecipano dei due estremi. Per additarvene il carattere mi basta che voi consideriate quelle parole che Cesare Balbo pose in fronte al suo libro delle « Speranze »: «porro unum est necessarium ». A costoro l' un necessario non è più liberare l' anima dalla servitù del peccato, ma liberare l' Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal qual principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l' anima, per ottenere, quell' uno necessario; quindi agli occhi o almeno nella pratica di costoro, tutti i mezzi sono buoni per arrivare a quell' uno. Questo principio spiega maravigliosamente i loro costumi: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odŒ e di astŒ sopratutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra ecc.: tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand' uno necessario del loro nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio. Da questo voi potete raccogliere che è una somma grazia che Iddio ci fece traendoci fuori dal caos di questo mondo e mettendoci in un cantuccio al sicuro da tanti inganni che avremmo potuto prendere, e da tante occasioni nelle quali avremmo potuto offenderlo. Per me ne giubilo, e non ho lingua da ringraziarnelo a sufficienza. Del rimanente ancora io vi ripeto essere io persuasissimo che tutto ciò che accade di bene e di male, mosso o permesso dall' altissima Provvidenza, tutto sarà in fine condotto ad uno dei più splendidi trionfi e delle più magnifiche glorie della sua Chiesa. Noi, e come cristiani e come italiani e come sacerdoti e come religiosi, potremo aiutare grandemente il felice esito del terribile dramma combattendo coll' orazione incessante, e con una diligenza, una carità vie maggiore nell' adempimento di tutti i nostri doveri. Per questa via le due parti, in cui non voi solo, mio dolcissimo, ma tutti siamo pur troppo divisi, diverranno un solo tutto; o almeno quella che è degna di vincere, vincerà e dominerà l' altra, che n' è indegna e che perirà come merita, lasciando che la prima s' integri e si compia in Dio suo principio, ove tutto ritrova, onde tutto ricupera. Nella separazione dal mondo, nella dolce pace della solitudine aspirando alla patria celeste, gioveremo alla patria terrena, perocchè i flagelli delle nazioni vengono dai peccati degli uomini; e dalla fede, dalla speranza, dall' amore, dalle sopraumane virtù vengono chiamate tutte le benedizioni sopra di esse. Ecco l' indirizzo che do a me stesso, e che do a voi, mio dolcissimo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Rilevo dalla cara sua lettera che il Signore sapientissimo ed ottimo lavora dentro e fuori di Lei, e tutto dispone acciocchè Ella, distaccato da tutto l' universo, tutto a lui si consacri ed alla carità che è lui stesso. « Deus Charitas est . » A lui solo onore e gloria. Tanta grazia, che Iddio vuol fare a Lei, la desidero e prego a tutti, acciocchè sia fatta in terra la volontà del Creatore nostro com' ella è fatta nel cielo. Non badi alle parole ancorchè buone in se stesse, e di buoni, e fatte per bene, o sub specie boni , che la potessero raffreddare o disviare da quel santo proponimento in cui Ella ha posto la mira, e a cui non conduce, nè invita le anime giammai il nemico dell' anime. E se il movimento non può venire da di giù, dunque viene da di su; ne stia certo. Ella mi domanda alcune ragioni che persuadano come giovi sommettersi al giogo di una ubbidienza pienissima, qual si pratica nell' Istituto della carità, e vorrei scriverne un librettino, se avessi tempo, ma eccone alcune delle principali: 1 Il sentimento costante della Chiesa e specialmente di tutti i Santi schierati in ogni secolo, e per nominarne due soli, di san Basilio che raccolse le tradizioni orientali, e di san Benedetto che raccolse le tradizioni occidentali. 2 Le parole di Gesù Cristo: « qui vos audit, me audit »; le quali furono costantemente intese anche dell' ubbidienza religiosa « usque ad sanguinem », attesochè i Superiori degli Istituti approvati da' Sommi Pontefici ricevono dalla Chiesa l' autorità in quel modo che viene dichiarata nelle regole. 3 L' essere l' ubbidienza descritta la maggiore umiliazione ed annegazione dell' uomo, e però il contenere in sè l' adempimento compiuto delle parole di Gesù Cristo: « Qui vult venire post me, abneget semetipsum »; quindi ella ha un merito intrinseco, indipendente affatto dall' oggetto intorno a cui si esercita, o dall' essere prudente o non prudente il comando del superiore, purchè quanto viene comandato sia onesto; il vero bene sta nel prezzo morale dell' atto, non nella materia intorno a cui s' esercita; e la perfezione consiste nel cercare solo il vero bene, il valore morale. 4 L' umiltà , che è virtù evangelica intrinsecamente buona e perfetta, e che adduce un bassissimo concetto di se stessi e comparativamente un alto concetto di tutti gli altri, persuade il sottomettersi all' altrui parere, anche opposto al proprio, e quindi adduce all' ubbidienza , nella quale ci ha sempre un atto di umiltà, all' ubbidienza verso tutti, come dice san Francesco di Sales, molto più verso i superiori legittimi. 5 L' essere l' ubbidienza perfetta di molti ad un solo l' unico mezzo di esercitare la più estesa carità possibile a vantaggio del prossimo, e di compire le più grandi opere possibili per la gloria del Signore e della Chiesa; e ciò perchè un corpo, una società unita, diretta da una sola mente, è una macchina potentissima che ottiene assai più di quello che possano ottenere le forze sparpagliate dei singoli individui. Così un esercito regolare è immensamente più forte dei combattenti isolati senza direzione comune. Sarebbe un inganno manifesto quello dei soldati che volessero uscire dalle file o perchè non approvano le mosse ordinate dal condottiere, o perchè credessero di operare di più, liberi ed isolati: adoprerebbero forse di più, affaticherebbero forse di più, ma otterrebbero molto meno, ed anzi si farebbero ammazzare con poco frutto. Lo stesso è a dirsi dell' esercito del Signore. E` impossibile che individui divisi, per quantunque siano attivi, possano fare quello che possono fare società intere, rese forti dall' unione dell' ubbidienza. Conviene considerare che la perfezione consiste nel desiderio efficace di fare o di occasionare il maggior bene possibile a bene del prossimo e a gloria di Dio e della Chiesa. « Non si può dunque raggiungere la cima della perfezione se non unendosi in un corpo, associandosi in molti con perfetta ubbidienza, che è il vincolo dell' unità ». Tutto deve cedere a questo riflesso, se il desiderio del bene, di ogni bene, del bene maggiore possibile è veramente quello che vive e domina nelle anime nostre. Chi non adopera quel mezzo, che è l' unico ad ottenere di promuovere tutto il bene possibile, questi non è perfetto. Questa fortissima ed evidentissima ragione, che persuade la più piena ubbidienza, acquista un peso assai maggiore rispetto ad una società, che si prefigge appunto la carità nella sua immensa universalità, il precetto di Cristo senza limite alcuno. Il pensiero che il superiore potrebbe sbagliare nel comandare, non ha più forza alcuna contro quella grande ragione, perchè l' uno o l' altro sbaglio del superiore, d' uno o d' altro superiore, non toglie che, considerando la cosa in universale, la società a malgrado di tali sbagli accidentali, produca immensamente più bene che non gli individui separati, i quali sono pure anch' essi esposti qualche volta a prendere inganno, e tanto più quanto più sono liberi e abbandonati, e quanto sono meno umili. 6 Dimostrato che l' ubbidienza pienissima è intrinsecamente cosa santa e perfetta, e che racchiude in sommo grado le virtù evangeliche dell' umiltà, dell' annegazione, e della carità del prossimo, ne viene di conseguente che l' ubbidiente è preso sotto la protezione di Dio stesso, a cui intende ubbidire ed ubbidisce nel superiore, perocchè colui che fa tutto per Iddio, ha Dio che lo guida. « Justum deduxit Dominus per vias rectas ». Iddio dunque è quello in cui l' ubbidiente confida, e questa confidenza non può essere confusa, perchè Iddio « non confundit sperantes in se ». L' ubbidienza dunque da una parte è un atto di fede perfetta e di speranza in Dio, dall' altra ha seco la certezza che non può produrre all' obbediente se non il massimo bene, perchè tale è sempre lo scopo della direzione che presta Iddio a quelli che in lui s' abbandonano. Iddio conduce dunque l' uomo ubbidiente, ogni dì più, al vero suo bene, e per fare questo si può servire ugualmente d' ogni cosa, fin anco degli sbagli del superiore, i quali non sarebbero permessi se non fossero occasioni di bene all' ubbidiente preso in cura da Dio. Se dunque sbaglia talora il superiore, non isbaglia Iddio che lo permette, e lo permette sol quanto giova all' ubbidiente e non più: del resto Iddio illumina i superiori, dando loro tutta quella sapienza appunto, che è necessaria a conseguire il sommo bene degli ubbidienti, la somma loro santità a cui risponde una somma gloria. Per questo lo Spirito Santo dice in modo assoluto: « vir obediens cantabit victorias ». Eccole, mio carissimo in Cristo fratello già e compagno, alcune delle ragioni da lei dimandate. Nella lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza, che la esorto a leggere, troverà altre belle cose. Da questo apparisce che l' ubbidienza, benchè pienissima, non è mai cieca: è cieca di ragioni umane, ma non è cieca di ragioni divine: si rinunzia per essa alle ragioni piccole e minute, ma non si rinunzia alle ragioni grandi, universali, soprannaturali: con essa si può talora fallire ad un fine mediato, ma non mai e poi mai al fine ultimo ed assoluto, all' unico nostro fine, a quello che è vero fine, e da cui tutti gli altri ricevere possono qualche valore. Dunque « exultemus in Domino » di avere trovato il tesoro nascosto nel campo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. Nelle più gravi sventure, da cui noi siamo colpiti, vi è la mano dell' amore infinito. « Deus charitas est . » Se a noi fossero palesi i misteri della sua misericordia che si nascondono talora fra i più giusti rigori, se fossero palesi e svelati come agli occhi dei comprensori celesti, l' anima nostra non potrebbe conoscere altri affetti che quelli della riconoscenza e del gaudio nelle prospere e nelle avverse cose egualmente. La santa fede supplisce alla nostra ignoranza dei grandi disegni dell' infinita bontà di Dio, ella basta a conservarci la pace del cuore nelle più gravi avversità, com' Ella esperimenta in questo momento; ma essendo la fede un lume infallibile sì, ma velato, se rassicura e conforta d' ineffabili speranze la parte nostra superiore, non impedisce sempre in noi che la nostra parte inferma senta potentemente la scossa della sciagura che ci priva delle cose più care. Così Iddio permise che fossimo ridotti per effetto del primo peccato, acciocchè il patire diventasse un merito, una purificazione, un sacrificio accetto al Signore unito a quello del suo diletto Unigenito che più di tutti ha patito, crocifisso di amore. Chi sa da quanti pericoli, da quante colpe, fu salvato il suo Augusto? Forse era questa l' unica via di condurre quell' anima al cielo, dove ora adora ed esalta la divina bontà, e reputa per la maggiore di tutte le sue fortune la ricevuta ferita e il breve patire, e prega pel suo tenero padre. Forse in una malattia non avrebbe ricevuto i Sacramenti colla stessa divozione e collo stesso fervore, lusingandosi di campare, e, se avesse avuto da rendere il conto di una vita più lunga, sarebbe forse stato còlto dalla diffidenza, o mancatogli quell' ardore che è proprio dell' età giovanile non ancora pervertita. Deh quanto mai non v' ha a temere e a tremare per la gioventù in questo secolo nequam! Quand' io considero i rischi d' un giovane in mezzo al mondo, reputo che Iddio debba fare un prodigio ogni volta che ne conduce uno sano e salvo all' eterna città dei santi. Tutto ciò che Iddio fa, lo fa per salvare le anime: questo è il fine della creazione: per questo fine è morto Gesù Cristo: i santissimi Sacramenti sono istituiti per questo ed hanno un' efficacia infinita, perchè hanno in sè la potenza di Gesù Cristo; egli ce li ha lasciati quand' è asceso al cielo, in suo luogo. L' opera di Dio non è mai priva del suo effetto: riposi dunque tranquillo nella grazia dei Sacramenti, munito dei quali il suo Augusto partì da noi. Suffraghiamo dunque colla più gran fiducia nella divina bontà il carissimo defunto, che fu sempre raccomandato al Signore anche prima della sua fine: celebrerò la S. Messa per l' anima sua, e raccomanderò a tutti i miei compagni di unire pure le loro preghiere al medesimo fine. Il dogma del Purgatorio è pure anch' esso un dogma consolatore! Quanti peccati che a giudizio degli uomini sembrerebbero mortali, agli occhi di Dio che considera le subbiettive disposizioni, riescono forse pure venialità, o per mancanza di piena cognizione, o per mancanza di deliberazione al male ch' essi contengono! Si conforti adunque, mio carissimo e veneratissimo Marchese: le orazioni non sono mancate in vita, non mancheranno in morte al suo Augusto: e l' orazione fatta per Gesù Cristo ottiene ogni cosa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. L' umanità mia soggiacque ad un gravissimo dolore leggendo nella cara vostra del 12, ieri pervenutami, che il nostro carissimo fratello Giov. Battista Boselli sta per abbandonare il consorzio di noi suoi compagni nel terreno pellegrinaggio. Egli ebbe ripieni i suoi giorni di buone opere: fu un di quelli che portò il calore ed il peso della giornata; e la sua dolcissima serenità in sul letto di morte, di cui voi mi parlate, come è pegno e preludio della prossima mercede che sta per isborsargli il Padron della vigna, così deve essere a noi d' ineffabile conforto e stimolo acutissimo per imitare i suoi esempi, la sua instancabile assiduità nel confessionale e in ogni altro penoso ufficio riguardante la salute delle anime, la sua pazienza conosciuta da pochi, ma ben nota a Dio, la rettitudine delle sue intenzioni, il fervore del suo zelo, la sua carità che il faceva tutto a tutti, la sua profonda umiltà e pieno distacco da ogni applauso degli uomini che temeva potergli diminuire la pienezza della mercede. Sì, io lo conobbi intimamente questo caro nostro fratello, che fu uno dei primi, di cui gustassi lo spirito: l' ho venerato profondamente, e molte e molte volte santamente invidiato. Quante volte non m' ebbe egli comunicato dei sentimenti celesti, e dei documenti preziosissimi! Quante volte non mi sono avveduto che nel suo spirito si diffondevano degli sprazzi di lume divino, lume intimo che forma il secreto dei santi! Ah sì, se egli se ne è andato, forse a quest' ora che scrivo, al possesso di quel Bene che ha sempre e solo amato, noi non dimentichiamo per questo di tenerlo vivo e presente agli occhi nostri, come un esempio di molte e rare virtù donatoci da Dio, perchè noi ne caviamo copioso profitto. Io intanto mi sono subito a Dio rivolto, sia per offerirgli il sacrifizio di questo caro compagno, sia per pregarlo che se qualche macchia dell' umana infermità lo rendesse tuttavia men degno del suo cospetto, purgata la macchia nel sangue di Cristo, e reso del tutto immacolato, volesse accoglierlo nel beato suo seno; sia finalmente perchè esaudisse l' orazione che nel suo seno il nostro felice compagno gli rivolgesse per noi che lasciò quaggiù pellegrini. Ma nel mentre che la virtù, la fortezza, la generosità del nostro compagno ci brilla dinanzi agli occhi più bella e più desiderata nel momento che ci vien tolta, dovremo noi forse, mio carissimo, pensare a gettare giù dalle spalle la soma che ci ha imposto il Signore, quasi sfiduciati per la mancanza dell' aiuto che ci prestava quell' operaio, che avendo finita la sua giornata entrò nel riposo e nel gaudio del Signore? Sono questi gli altissimi sentimenti della sublime vocazione a cui Iddio ci ha fatto la grazia di chiamarci? Pensa forse il soldato valoroso ad abbandonare il posto, dove il suo capitano lo ha messo in guardia? o non preferisce anzi di lasciarvi la vita più tosto che mancare al suo dovere? E` questo l' esempio che il divino nostro Capitano Gesù Cristo lasciò a coloro che si arrolarono al suo vessillo? E l' agricoltore, che semina il campo in un fondo, perde forse la speranza della raccolta al vedere che sopravviene il verno, e che si copre la terra di neve e di ghiaccio? o il vignaiuolo che pota la vite vuol forse raccogliere i grappoli maturi da oggi al domani, o anzi non aspetta con pazienza e fiducia che venga il sole a maturarli e colorirli, alla stagione ordinata dall' Autore della natura? Avremo noi meno longanimità, meno fede nella Provvidenza divina di quella che s' abbia il bifolco, o qualunque altro uomo industrioso e prudente del secolo, che ben conosce le cose tutte avere un periodo, ed il principio di un' opera od una intrapresa lucrosa esigere prima grandi spese e fatiche, e solo dopo gran tempo potersi adunare nello scrigno il guadagno? o saremo noi così indiscreti, così presuntuosi e temerari da pretendere da Dio favori e grazie, frutto di anime a lui guadagnate senza alcuna nostra grave fatica, senza sforzi, nè stenti, nè patimenti da parte nostra? Quando mai fece Dio tale cosa coi santi suoi? Non abbiamo noi forse lette le vite degli uomini apostolici, la loro costanza ne' travagli, la fiducia che non venne loro mai meno nella superna pietà, il sudore, il sangue, le ambascie, le malattie, i patimenti d' ogni maniera, coi quali essi ricomperarono insieme con Cristo le tante anime che hanno condotte a salvamento, arrivando S. Paolo a dire, che essi supplirono a ciò che mancava a' patimenti di Cristo? Ai quali non mancava certo niente in ragione di merito, essendo in essi il fondo di ogni merito, ma mancava in ragione di applicazione, volendo Gesù Cristo stesso in via ordinaria, per la sua infinita bontà e sapienza, che i Santi apostolici, unendo i loro patimenti a' suoi, ottengano che i suoi meriti vengano applicati a tante anime, che altramente andrebbero perdute, e che così partecipino anch' essi di ogni maniera di sua gloria, fatti quasi con esso lui corredentori del mondo. Beati quelli che intendono questa dottrina e se l' appropriano! Ingannati quelli che, invitati da Cristo alla vita apostolica o comecchessia chiamati legittimamente alla cura delle anime, cercano in un' altra dottrina la loro beatitudine! Vi debbono dunque, mio dolcissimo fratello, incoraggiare queste riflessioni fondate nella parola di Dio, a non lasciarvi venire meno l' animo, tenendovi fermo al luogo che vi è assortito, acciocchè non « excedas de loco tuo »; nè vi commuova punto il poco frutto, che sembravi fare tra questa popolazione, dovendo anzi per ciò stesso essere più cara al cuore del pastore partecipe di quella carità, di cui ardea colui che è il buon Pastore, e che cercò noi stessi prima di tutto come pecore sbrancate, e ci ridusse, senza badare a ciò che gli costavamo di affanni e di sangue, nel suo sicuro e dolcissimo ovile, nè contento di farci sue pecore, volle parteciparci il suo proprio pastoral ministero. Vi sovvenga di ciò che c' insegna la Scrittura divina, quando ci ammonisce che [...OMISSIS...] . Dalle quali parole s' inferisce che pel contrario riesce alla fine benedetta quella eredità che s' acquista con lunga aspettazione di stenti e fatiche. Vi sovvenga che non si edifica la casa se non colla sapienza, che non si consolida se non colla prudenza, non s' empisce di cose preziose se non colla dottrina, cioè colla pratica della dottrina che è la virtù, e che la stessa Scrittura ci avverte che l' uomo non è sapiente se non è forte, e non è dotto nel bene se non resiste con robustezza ed efficacia alle tentazioni; tutto ciò imparandosi colà dove si legge: [...OMISSIS...] E` dunque mio sentimento e mio volere (e questo equivale per voi altri a una manifesta dichiarazione della volontà divina) che rispetto a cotesta fondazione di Verona si mantenga quella massima delle nostre Costituzioni, che prescrive la costanza nelle opere intraprese, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà che s' incontrano più o meno in tutti i principii, e che sono utili e necessarie nell' ordine della Provvidenza, acciocchè colla fiducia in Dio e colla lotta valorosamente sostenuta, meritiamo noi stessi dalla divina bontà la grazia del consolidamento dell' opera intrapresa. Conviene dunque, mio caro, rinforzarsi coll' orazione e con ogni maniera di spirituali esercizi, risuscitando nell' animo nostro abbattuto i sentimenti della fede, la quale se viene meno e vacilla, è indeclinabile il nostro affondare nell' onde. Conviene scuotersi ed operare più virilmente che pel passato, con maggior fervore e zelo, con maggiore efficacia ed energia, badando anche che una soverchia prudenza non leghi le forze, e non c' impedisca d' operare tutto il bene che possiamo, e per operarlo d' aprirci un campo più largo... Conviene dunque, mio carissimo, che voi subiate dolcemente ed alacremente la croce che vi vuole imporre quel Dio, il quale si giova delle cose più inferme all' opere sue, e al bisogno le soccorre d' ogni fortezza. Fatene la deliberazione fermissima, offerite pieno il vostro sacrificio, e non vi date altra cura che di consumarlo. Quello che è da fare con tutta sollecitudine, si è di fare approvare confessori il Mazzotti e l' Aimo. Qualora colla grazia di Dio, con uno zelo ardente, con pastorali esempi e documenti di sacra dottrina vi riesca nel corso di qualche anno di formare l' uno o l' altro di questi giovani sacerdoti, alle virtù, alla esperienza e alla prudenza del pastorale ministero: allora avrete in qualche modo il diritto di domandare, se il peso, che non avete ancora incominciato a portare, e che v' impaurisce all' imaginarlo, vi si rendesse per l' età più grave, d' essere esonerato sopra quello che sarà riuscito nella vostra scuola miglior discepolo. Ma rigettare ora un fardello, di cui vi aggrandite colla imaginazione il peso senz' averne sperimentate le dolcezze, è cosa che non conviene nè alla perfezione del vostro stato, nè all' imitazione di quell' esempio, a cui tutti i cristiani debbono conformarsi. Ed io menzionavo le dolcezze che non avete ancora sperimentate, perocchè la vita del buon pastore, piena certo di spine e di travagli, ha tuttavia le sue secrete dolcezze, le quali sono tali e tante per un' anima amante che vincono le amarezze, ed anzi rendono il pastore felice. Oltre di che, quale non è la gloria riserbata al pastore fedele! quanto diversa da quella dei cristiani comuni! quanto più splendida e più magnifica! altrettanto quanto è più sublime della comune la pastorale carità, che è tutta carità verso il nostro Signore Gesù Cristo. Ascoltate dunque, ed applicatelo a voi stesso, ciò che Cristo disse a Pietro: « Petre, amas me? si amas me, pasce oves meas ». A fine di giovare spiritualmente e corporalmente a cotesta parrocchia, trovo indispensabile che voi specialmente, dopo che sarete parroco, facciate bel bello relazioni colle migliori e più pie famiglie di Verona, le quali non mancano, e non mancherò di mandarvi io stesso delle commendatizie. Quindi potrete avere soccorsi a pro di cotesti poverelli, i quali dovete avere carissimi; e di mano in mano, s' intende col tempo, l' elemosine vi apriranno la strada a guarire le loro miserie e le loro infermità spirituali. Qui certo conviene che la carità del pastore sia ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare. Vi esorto adunque a domandare l' elemosina ai più ricchi e più pii signori della città, sia quando si tratta di levare dal pericolo qualche zitella, sia per ogni altro grave bisogno, come la educazione di qualche fanciullo, o necessità somiglianti: con far questo vi introdurrete, vi farete conoscere, si saprà in Verona che a S. Zeno vi sono uomini zelanti per sovvenire alla poveraglia. Oggi 23, ho ricevuto anche l' altra vostra del 13 corrente, che non abbisogna d' altra risposta: ella bensì appagò il mio desiderio di sapere la malattia di cui è aggravato e che forse a quest' ora ci ha tolto il caro Boselli, benchè sulla natura di tal malattia mi si dia appena qualche cenno. Del resto, di nuovo coraggio nel Signore; non mancate all' espettazione che io e l' Istituto abbiamo posto in voi, e non mancherete, se vivrete di quella fede di cui vive il giusto, e che tanto ingrandisce i nostri cuori, perchè è la sostanza delle cose che abbiamo a sperare. [...OMISSIS...] 1.4. Non Le dirò quanto il tenore della venerata sua mi abbia fatto arrossire di me medesimo, ma ubbidirò senza proemio al suo desiderio, dicendole quale mi sembra dover essere la condotta di un Vescovo nelle presenti gravissime circostanze. L' incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all' eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v' ha cautela soverchia da adoperarsi, perchè nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l' esercizio. Questo esercizio può essere intralciato sopratutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l' umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n' è il maestro istituito da Dio, e in questa regione celeste dell' Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: « Nostra autem conversatio in coelis est ». Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all' altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l' umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, sopratutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell' umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere più studiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll' eccitarli sopratutto ad una frequenza maggiore de' Sacramenti, commendandone l' eccellenza, e facendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizioni divine sopra il suo popolo, e preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviate al retto sentire. E` dall' alto che ci dee venire l' aiuto, è il lume celeste che dee sgombrare le tenebre. Dopo averla ubbidita, debbo domandare scusa dell' ardimento d' averla ubbidita scrivendole cose nelle quali Ella a tutto buon diritto è mio maestro. [...OMISSIS...] 1.49 Una delle opere più vantaggiose, che conviene prefiggersi evangelizzando i popoli, si è di introdurre nelle famiglie e nelle popolazioni cristiane consuetudini le quali, quando si giunge a ben praticarle, propagano il bene di generazione in generazione, e diventano altrettante difese o ripari posti alla corruzione del mondo. Una di queste si è la pratica di recitare nelle famiglie giornalmente il santo Rosario; ed io bramerei che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' inculcare costantemente questa pratica dappertutto ove vanno, e durante la missione trovassero tempo d' insegnare al popolo la maniera di recitarlo, spiegandogli anche il contenuto dell' orazione domenicale e dell' Avemmaria , non meno che l' ordine col quale il Rosario è disposto, del quale è parlato in quel discorsetto sul Rosario che si trova nella raccolta de' miei discorsi. Un' altra pratica da inculcarsi a tutti i cristiani che sanno leggere si è quella di andar sempre in Chiesa con un libro di divozione, col quale possano accompagnare le sacre funzioni. E` impossibile, in generale parlando, che il popolo stia raccolto nelle Chiese, e vi faccia veramente orazione, se non è provveduto dell' aiuto d' un simil libro. Mi è occorso più volte di vedere nella Chiesa una moltitudine di persone starvi coll' apparenza di statue o peggio, quasi non sapendo che fare o che pensare in quel luogo santo. Questo è troppo increscevole a vedersi fra i cattolici ed assai pernicioso alle anime, e in Inghilterra riesce di scandalo ai protestanti, i quali tutti vanno in Chiesa col loro libretto di preghiere. Io vorrei dunque che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' accordo d' indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d' un simil libro, e a portarlo sempre seco e leggerlo in Chiesa. Ma perchè la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere l' Eucologio stampato in Torino dai Fratelli delle Suole Cristiane. Converrebbe altresì, che i missionari ne facilitassero l' acquisto nei paesi ove vanno, portandone seco un buon numero di copie, o facendo che un libraio od altri ve ne porti, e che siano smerciati a buon prezzo, ma siano tuttavia legati in modo forte ed elegante. Leggete questa lettera a tutti i nostri missionari, ed esortateli tutti ad adoperarsi che queste due consuetudini s' introducano; e se prenderanno la cosa con calore, e sopratutto con uniformità e con costanza, riusciranno allo scopo. Coll' introduzione di queste consuetudini faranno un bene incalcolabile e duraturo, assai maggiore di quello che ottener potrebbero da molte prediche. Già è noto con quanto calore e zelo S. Domenico fece predicare il Rosario, e quanto bene abbiano fatto i Domenicani con questa divozione. Vorrei che tutti i nostri avvivassero in sè stessi lo spirito di San Domenico: così saranno benedetti dalla Madonna. Ma l' altra pratica, del libro di devozione da portarsi in Chiesa, non arrecherà meno di vantaggio alle anime, ed anzi ancor più. Se s' insegna a' cristiani a fare buona orazione, la causa è vinta. Il mondo va così male, perchè molti non fanno orazione, e molti altri la fanno malamente. Conviene cominciare dal poco per renderla facile, e il mezzo che conduce a ciò è appunto la pratica del libretto divoto che suggerisco. Voi tutti adunque, o fratelli carissimi, che siete sacrati alla grand' opera delle Missioni, accingetevi all' impresa di introdurre dappertutto queste due consuetudini; ma fatelo con perseveranza, senza la quale non può riuscire, e così avrete adempita la volontà del vostro Superiore, e in essa quella di Dio, da cui imploro sopra di voi ogni celeste benedizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto le due lettere, del dì di Natale e pel primo dell' anno: e prima la ringrazio de' suoi buoni augurii che di tutto cuore Le ricambio; di poi La avverto che non mi appartiene ancora il titolo di Eminenza di cui mi onora, giacchè l' esule Pontefice ha sospeso per intanto la promozione degli stabiliti Cardinali, non pel motivo che addussero i giornali, ma per le dolorose circostanze in cui si trova al presente la Chiesa Romana. Venendo ora all' argomento della prima sua lettera, non parmi che Ella bene interpreti le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli disse beati i poveri di spirito, per encomiare e raccomandare il distacco di cuore da tutte le cose mondane; le quali si possono anche possedere e tuttavia esserne pienamente distaccati, usandone pienamente alla gloria di Dio. Così fecero gli Apostoli, ai cui piedi i fedeli della primitiva Chiesa ponevano il prezzo delle possessioni vendute; così fecero tanti Vescovi, che amministrarono le ricchezze della Chiesa a vantaggio de' prossimi senza restar macchiati dal loro contatto, e cavandone anzi grandissimo merito di carità per le sollecitudini spinose che sostenevano nella loro amministrazione; così fecero tanti monarchi che onoriamo sugli altari, un santo Stefano di Ungheria, un san Luigi di Francia ecc., i quali vissero tanto poveri di spirito quanto il minimo fraticello; così fecero tanti sommi Pontefici, che portarono il peso della temporale corona come fosse corona di spine unicamente pel ben della Chiesa, pei popoli loro affidati dalla divina Provvidenza. Il sommo Pontefice non considera mai sè stesso come possessore, ma semplicemente come amministratore e depositario degli Stati della Chiesa: è una sollecitudine di carità che gli è imposta, non un mondano dominio. Nè prova in contrario l' esempio o la parola di Cristo, a cui Ella si appella. Non l' esempio, perchè Cristo, sebbene re degli ebrei e del mondo, non volle assumere la corona temporale del popolo d' Israele; perchè questo non ne era degno, come assai ben mostrò quando invece di accettarlo per re lo confisse al patibolo, e Cristo voleva che il suo regno non gli venisse dalle mani de' perfidi che formavano il mondo, ma lo aspettava da Dio e dai Santi che operano per impulso di Dio: e qual dubbio che, se la nazione ebrea fosse stata fedele e santa, egli avrebbe accettato d' esercitare col mezzo di essa anche il temporale reggimento? Non la parola, la quale altro non significa, secondo la lettera e secondo l' interpretazione de' Padri, se non che il suo regno non era del mondo , cioè non proveniva dalle arti del mondo, dalla violenza, dall' astuzia, nè dagli uomini del mondo; ma bensì traeva l' origine dalla potestà di suo Padre, e dalla santità colla quale egli avrebbe tirato a sè tutte le cose: « omnia traham ad meipsum ». E in vero dalla santità da lui infusa nel mondo provennero poi tutte le largizioni dai fedeli fatte alla Chiesa, e i vari dominii che ella possedette o possiede, dei quali dominii uno è lo Stato ecclesiastico, forse il solo che ancor resta: giacchè come la santità è quella da cui vengono alla Chiesa i beni temporali ch' ella riceve, come dicemmo, unicamente in deposito e in amministrazione a comune vantaggio degli uomini, e massime de' poveri e de' sofferenti, così l' improbità è quella che spoglia la Chiesa di tali beni; e l' improbità se potesse, torrebbe non solo tali beni alla Chiesa, ma ancora l' esistenza e la vita, come già fece del suo Capo divino. D' altra parte non vi hanno regole di governare più giuste, più umane, più liberali, più fratellevoli di quelle che professa la Chiesa, la quale possiede la dottrina della carità. Si possono bensì mescolare nella pratica degli abusi e dei difetti umani, e contro questi è giusto che s' adoperi la censura; ma perchè il Governo ecclesiastico sia perfetto, basta che questi sieno rimossi: non conviene schiantare l' utile pianta, ma coltivarla a regola d' arte. [...OMISSIS...] 1.49 Quanto mi annunziate nella vostra lettera del 6 marzo mi caverebbe dagli occhi del cuore amarissime lagrime, se non assicuraste nella lettera stessa che Iddio vi ha preservato dalle cadute. Ma a buon conto apritevi con una apertissima e sincerissima confessione al P. Provinciale, giacchè questo è un mezzo utilissimo per rinforzarsi coll' aumento della grazia del Signore. Di poi è necessario che produciate in voi stesso una vera compunzione dei falli passati e risoluzioni più forti d' abborrimento al male per l' avvenire. Ma come si può avere la compunzione? Non si può avere se non si dà tutta la colpa a se stesso de' proprii peccati e della propria fragilità. Chi invece di far così, come fanno i veri penitenti, va cercando le proprie colpe nella condotta degli altri, e gli accusa ed incolpa anzichè incolpare e accusare unicamente se stesso, costui non acquisterà mai compunzione nè umiltà, nè distacco da se stesso, nè per conseguenza fortezza spirituale. Molto più se s' incolpano i Superiori a torto, il che è un atto di ingiustizia e di superbia; e finchè dura la superbia, come si può ottenere da Dio la grazia d' esser liberi da gravi tentazioni? I Superiori vi hanno trattato con tutta la carità, e questo lo so perchè il cuore non mente; essi hanno sopportato la vostra inquietudine e indocilità, ed i vostri lamenti, così contrarii alla vostra santa vocazione, in occasione che vi hanno rimosso dalla scuola: ora voi non ricordate più le molestie che voi avete loro arrecato colle vostre censure continue delle loro paterne disposizioni. I Superiori nondimeno hanno presunto bene di voi, giacchè sogliono sempre giudicare nel modo più favorevole de' proprii figliuoli, ed hanno supposto che foste interamente emendato, fondati anche sulle vostre promesse; e dopo aver lasciato trascorrere qualche tempo e datovi agio di esercitarvi in cose spirituali, hanno creduto di poter contentarvi rimettendovi in una scuola di fanciulli d' età maggiore: voi non avete fatto alcuna osservazione in contrario. Ora invece di umiliarvi profondamente davanti al Signore di una condotta così contraria alla perfezione religiosa, che cosa fate? andate col pensiero fuori di voi, e sospettate temerariamente che i Superiori non abbiano cura e sollecitudine della salvezza dell' anima vostra. Come può stare la compunzione, la penitenza, il raccoglimento, l' umile e fervorosa orazione in compagnia di sentimenti che vengono ispirati nel cuore dell' uomo dallo spirito della superbia? No, mio figlio, senza umiltà, senza profonda umiltà non si può conoscere se stesso, non si può avere quegli affetti di perfetta contrizione e di alto disprezzo di sè, che sogliono arrecare una grazia abbondante, colla quale l' uomo umiliato è preservato dai pericoli. A questo dunque tendete con tutto lo studio, ad acquistare un grande amore di Dio. Custodite con somma cautela i sensi: fate orazioni e mortificazioni: e sopratutto esercitate con perfezione l' ubbidienza e l' umile sommissione in tutti i vostri pensieri, parole ed atti. Del resto, certo che vi leverei anche subito dal posto ove siete, se temessi che non poteste tirare innanzi senza pericolo prossimo. Ma non conoscendo ben le cose, nè potendo in tanta distanza esaminare da vicino lo stato vostro, rimetto ogni disposizione a prendere al zelantissimo vostro P. Provinciale, a cui vi raccomando di aprir tutto voi stesso, e di ricorrere come allo stesso Dio, che prego di benedirvi, illuminarvi, santificarvi. [...OMISSIS...] 1.49 Figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna ed il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell' animo mio, aderente coll' intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace, il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell' eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tutte le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato e sono rinato alla grazia. Il tenore dell' ossequiatissimo foglio, di cui Vostra Beatitudine mi onorò in data 10 corrente, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare. Ma il conoscere questo assai più che dalle mie proprie riflessioni, lo aspetto dalla sapienza dell' Eminentissimo Cardinale Mai, a cui ora intendo che Ella ha rimesso da esaminare nuovamente i miei scritti. Egli mi proporrà la dottrina della Chiesa, ed io la sottoscriverò ciecamente. Qualunque cosa nelle mie opere risulterà, dall' esame del Cardinale Mai, di contrario alle decisioni di santa Chiesa, io con giubilo la ritratterò e la condannerò. Io voglio appoggiarmi in tutto sull' autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni. Nello stesso tempo io desidero ardentemente, e, se oso supplicare Vostra Beatitudine di una grazia, La supplico che una tale definizione si solleciti per mia quiete e per edificazione del prossimo. [...OMISSIS...] 1.49 Ier sera mi fu recata la veneratissima sua scrittami per ordine di N. S. il Santo Padre, colla quale mi dichiarava, che la Santità Sua lascia a me la libertà di scegliere il luogo dove dovessi condurmi in queste circostanze. In conseguenza di che io mi dirigerò domani verso Capua per trattenermi qualche tempo, ed ivi in appresso prenderò consiglio dalle circostanze. Ella mi aggiunge un dolcissimo conforto dicendomi che il Santo Padre mi accompagnerà col suo affetto paterno, e che « pregherà costantemente il Signore, acciocchè mi conceda i lumi da poter conoscere tutto ciò che nelle opere da me scritte potesse dispiacere al divino dispensatore dei doni, la qual cognizione potrò avere volendo assoggettarmi al giudizio della Santa Sede ». Confido grandemente che qualora anche nelle mie opere io avessi inavvertentemente scritto cose erronee e perniciose, la misericordia di Dio Signore mi userà indulgenza, non avendo io mai cercato altro colle mie povere fatiche che la sua gloria, il bene della Chiesa e la salute delle anime; e questo stesso sentimento me l' ha infuso Egli per pura sua bontà. Qualunque decisione poi fosse per emanare dalla Santa Sede, io l' accoglierò con tutto l' animo mio e mi vi conformerò con gioia, non cercando io di sostenere le mie opinioni, ma le dottrine della Santa Chiesa Romana mia maestra, e questo pure lo spero dalla grazia di Gesù Cristo. La comunicazione che V. E. Rev.ma mi fa in iscritto e la benedizione che Sua Santità mi comparte espressa nella sua lettera mi avvisano di trattenermi dal venire in persona prima di partire a baciare il piede al Santo Padre, e fo volentieri questo sacrificio, raccomandandomi anche alle orazioni di Lei, che una volta si compiaceva chiamarmi suo fratello in Gesù Cristo, quale appunto da parte mia io Le sarò sempre e quale ho l' onore di dichiararmi umil.mo servo e fratello in Gesù Cristo. [...OMISSIS...] 1.49 Ricevo pur ora dalla mano del R. P. Boeri il veneratissimo suo foglio dato da Viterbo 12 agosto corrente, nel quale Ella mi significa che, essendosi radunata in Napoli per espresso comando di Sua Santità la Sacra Congregazione dell' Indice, di cui è Prefetto l' Eminentissimo signor Cardinale Brignole, questa fu di unanime consentimento, approvato poi dal Santo Padre, che si dovessero proibire le mie due operette aventi per titolo, l' una: « Delle cinque piaghe della Santa Chiesa », e l' altra: « La Costituzione secondo la giustizia sociale », ecc., e in pari tempo m' interpella sulla mia sommissione al relativo decreto, acciocchè possa esserne fatta menzione nel decreto medesimo. Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile, pregandola di assicurare di ciò il Santissimo Nostro Padre e la Sacra Congregazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto qui in Albano una lettera del caro Gilardi in data del 4 agosto, nella quale trovai copia di un' altra lettera che voi mi avete scritto in data del 7 luglio, dirigendola a Santa Lucia di Caserta, la quale debb' essere andata perduta. A questa prima di tutto rispondo pregandovi di non far cosa alcuna di ciò che mi esponete di aver deliberato coi vostri due Consultori in occasione della persecuzione mossa contro di me. Questa persecuzione conviene lasciare che si sfoghi, perchè è Dio che la vuole, cioè che la permette pe' suoi adorabili fini, ed io perciò ne sono contentissimo. Sono ormai certo che verrà proibito tanto il libro delle « Cinque piaghe » quanto quello della « Costituzione », senza che a me venga comunicato il motivo o la ragione della proibizione. Io mi sommetterò pienissimamente al decreto, come è cosa doverosa di farsi, e non ne domanderò la ragione, la quale già non mi sarebbe comunicata. Ho ragione di credere che quasi tutti i Cardinali e specialmente il Prefetto dell' Indice mi sieno contrari: prove di amicizia non ricevo che dal buon Cardinale Castracane e dal Cardinale Tosti, il quale ha la bontà di ospitarmi qui in Albano, ma nè l' uno nè l' altro di questi possono cosa alcuna nei momenti presenti. Sono momenti di turbazione e di passioni. Ottenuta la proibizione di quelle mie due operette, è ben naturale che non si possa parlar più di Cardinalato. Tuttavia, per le ragioni stesse che voi dite, io mi devo trattener qui fino che non mi sia noto espressamente il volere del Santo Padre, e vi sto tranquillissimo e contento. Il Padre Theiner fece stampare a Napoli un opuscolo contro il libro delle « Cinque piaghe », nel quale si dicono molti errori evidenti ed eresie. Io ne sto componendo una risposta, la quale mi sembra dover riuscire concludentissima; ma venendo proibito il mio libro, non conviene più che io la stampi, perchè sembrerebbe che volessi difendere una cosa proibita, e darei nuovo appiglio ai nemici. Le ragioni, per le quali io vi prego di non fare alcun fatto in questa bisogna, sono: 1 perchè essendo voi altri lontani, e non conoscendo le persone che attorniano il Pontefice, potreste fare dei passi assai falsi con pregiudizio dell' Istituto; 2 perchè sembrerebbe la cosa mossa da me, e la persecuzione, lungi dal cessare, si incalorirebbe vie più; 3 perchè non essendo io consapevole di aver fatto, detto o scritto cosa alcuna maliziosamente, conviene avere una viva fede in Dio, il quale dispone ogni cosa pel bene della sua Chiesa, e se sarà di sua volontà e di utilità alla Chiesa, farà indubitatamente tornare il sereno dopo la tempesta, e tanto più presto, quanto meno ci porremo dell' opera nostra e più della fede in lui; 4 perchè una persecuzione che non ha alcun solido fondamento, va a cessare da sè stessa solo tacendo e sopportando. Dirò come diceva San Francesco di Sales quando era messo in pericolo il suo onore: « Iddio sa di qual grado d' onore noi abbisogniamo per poterlo meglio servire; quel tanto d' onore che ci bisogna a un tal fine, Egli saprà mantenercelo, senza che noi ce ne prendiamo sollecitudine ». D' altra parte da tutti questi avvenimenti nascono molti beni; e fra gli altri io ne vedo uno, del quale sono a Dio gratissimo, e questo si è del tenermi più lontano dal mondo e da uno stato di cose così imbrogliate e difficili, in cui al presente si trova lo Stato Romano, dal quale non si vede alcuna uscita. Povero me, se dovessi o come Cardinale o con altro impiego prender parte agli affari di questo Governo! Io sarei intieramente sacrificato senza produrre alcun bene agli altri. Così lontani, come voi siete, non potete conoscere nè immaginare questo orribile caos. Iddio adunque per la sua singolare misericordia mi salva ora dal perdermi in un vortice divoratore. Ben intendo il trionfo che meneranno i nemici, le dicerie dei malevoli, l' alienazione da noi di molti deboli amici; ma noi dobbiamo sapere servire al Signore « per infamiam et per bonam famam ». E se possiamo sperare di avere Iddio con noi, « quis contra nos? Si consistant adversum me castra... in hoc ego sperabo ». Acciocchè poi voi vediate chiaramente tutto ciò che è avvenuto fin qui in questo affare, vi mando copia della relazione che ne ho data al nostro buon amico il Cardinale Castracane, raccomandandovi nello stesso tempo di usare il più gran secreto e una somma prudenza nel favellare. Questo è il tempo di tacere e di pregare. Il Papa non rientrerà nello Stato, a quanto si crede, prima del mese d' ottobre, e perciò non ispero ricever ordini prima di quel tempo. Attenetevi dunque ai miei consigli, e siate superiori a tutto ciò che dicono gli uomini, nei quali non dobbiamo confidare, e i quali non dobbiamo temere. Scrivetemi quanto prima d' aver ricevuto la presente. Dite al caro Gilardi, che per ora non si può più parlare della ristampa del libro delle « Piaghe ». Io vi ho sempre tutti nel cuore, e vi metto ogni dì sulla patena e nel calice di Cristo. Egli vi custodisca e benedica perchè possiate arrecare quel frutto plurimum che esige dalla vite che egli va potando. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ringraziamo il Signore, il quale ora permette che io sia preso assai di mira anche da persone, che moltissimo influiscono sul Pontefice. Si fa ogni sforzo perchè vengano messi all' Indice i due miei scritti delle Cinque piaghe , e la Costituzione ; e vi riusciranno per certo non avendo io alcuna via aperta a difendermi. Io mi sommetterò alla condanna con tutta la sincerità del cuore. So che non mi verranno comunicate le ragioni, e un Cardinale mi disse che errori non ve ne sono: saranno probabilmente proibite per l' inopportunità di quegli scritti e il pericolo d' abuso. Non ci affliggiamo punto di questo, mio caro, ma, come dicevo, ringraziamone il Signore, il quale vuole provarci, o permettere a Satana di cribrarci. Io mi fermerò in Albano, dove convivo coll' Em.mo Tosti in questo suo casino: il Cardinale mi usa ogni atto gentile. Quando rientrerà il Papa nei suoi Stati, e non sarà certo prima di ottobre, allora saprò forse qualche cosa delle sue disposizioni a mio riguardo. Qualora voi poteste senza inconveniente venire in Italia, io ve lo permetto: nè sarebbe da tardare per non incontrare la stagione troppo fredda al ritorno. Potreste forse sbarcare a Napoli, e di là recarvi qui meco, il che mi sarebbe di grande consolazione. Ma tutto si dovrebbe fare in modo che non ne soffrisse cotesta cara e importantissima Missione inglese per la vostra assenza. Voi coi vostri Consultori giudicherete. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Non ho fatto che puramente il mio dovere nel sottomettermi pienamente al decreto della sacra Congregazione che fu poi approvato dal Santo Padre. E perchè non intendo di scrivere la presente al Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, ma alla privata persona del Rev.mo Padre Buttaoni, a cui ho somma devozione e stima, aggiungerò che, per pura grazia di Dio, non ho mai avuta in vita mia alcuna tentazione in materia di fede, e non ho mai esitato un solo istante a condannare qualunque cosa la santa Sede fosse per condannare ne' miei scritti o altrove. Quando nel mese del prossimo passato settembre il Santo Padre si era degnato ordinarmi di scrivergli una lettera, nella quale dichiarassi o correggessi alcuni punti osservati nelle due note operette che mi avrebbe fatto indicare da Mons. Corboli, io per desiderio di uniformarmi colla più saggia esattezza alla mente del Sommo Pontefice, pregai lo stesso Mons. Corboli di estenderne la precisa minuta, e quindi copiata la sottoscrissi e la presentai al Santo Padre. Quando poi lo stesso Santo Padre mi disse che la facessi esprimendo più esplicitamente il punto che riguardava le vescovili elezioni, ubbidii subito come era debito, e mandai da Napoli a Gaeta quanto mi sembrava desiderare il Papa, di che egli non mi fece più alcun cenno. Avendomi in appresso il Santo Padre stesso scritto di aver deputato ad esaminare le mie opere il Cardinal Mai e ordinato di conferire con lui, ne lo ringraziai e mi recai tosto dal detto Cardinale per adempire tutto ciò che mi avesse indicato; ma ebbi per risposta dal Cardinale, che egli non avea voluto accettare un tale incarico, e che il Santo Padre ne lo avea dispensato. Così stavano le cose quando ricevetti qui in Albano il veneratissimo suo foglio del 12 corrente, riuscitomi del tutto improvviso. Ora Iddio è testimonio della mia sincera e costante disposizione di sottomettermi in tutto, e di ubbidire in tutto ai miei superiori. Perdoni, Rev.mo Padre, se La ho trattenuta con questa inutile lettera, a cui non s' incomodi a rispondere. La ho scritta pel dovere di renderle grazie de' benignissimi conforti che mi dà colla gentile sua del 20 pur ora ricevuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 « Sit nomen Domini benedictum », al quale è piaciuto che si proibissero i due libri delle « Cinque piaghe » e della « Costituzione ». La cosa mi venne assai improvvisa, perchè mi fu tenuta secretissima: si fece in un' adunanza della sacra Congregazione tenuta a Napoli straordinariamente, non col solito segretario, ma con altro a ciò delegato: con quei cardinali che ivi si trovavano, essendo alla presidenza Brignole, sempre avverso alle cose del nostro Istituto, e per consultore si adoperò Secchi7Murro: niuno che fosse a noi benevolo. Ringraziamone di nuovo Iddio: io mi sono sottomesso alla proibizione ciecamente, benchè mi sia tenuto segreto il motivo, il quale, a dir di taluni, fu più politico che religioso. - Mi ha dato non leggera consolazione spirituale l' intendere che vi siete adoperati nell' assistere i colerosi: faccia Iddio che siate i primi di tutti in tali opere di generoso zelo. Beati, se vi toccasse la grazia di esser vittima della carità! Ma anche il sacrificio che non si consuma materialmente, spiritualmente è perfetto: e Iddio che è spirito ve lo imputa a corona. - Vi raccomando di governare i fratelli nello spirito del Signore, secondo le norme e le regole dell' Istituto, con dolcissima carità e con fortezza costante. Non chi comincia, ma chi persevera sarà salvo. Abbraccio e benedico tutti cotesti miei carissimi in Cristo. Non pensate alla traslocazione del Cesana, ma a sopportarlo e renderlo migliore: fategli fare il cinto ed il tabarro di cui abbisogna, come vedrete dalla annessa lettera. La carità pazientissima usata da lui col caro Don Roberto, la cui anima godrà ora la vista di Dio, merita che noi pure siamo verso di lui in particolar modo caritatevoli, rendendogli il cambio de' suoi servigi. Addio, non vi prendete pena delle cose mie, perchè in qualunque modo vadano a sciogliersi, il Signore mi dona una pace perfetta, e spero nella sua misericordia che me ne continuerà il dono, com' io ne lo prego, e voi altri meco. [...OMISSIS...] 1.49 Gli amici che sempre eguali si dimostrano e non cangiano clima come le rondini, sono quel tesoro inapprezzabile di cui parlano le divine Lettere. Voi, mio soavissimo Paolo, siete uno di questi rarissimi, e la vostra cara lettera, nella quale il minor fregio è l' eleganza della latina favella, mi conferma quello che da lunghi anni conoscevo; perciò vi porto sempre, non dirò in oculis , ma nel cuore riconoscente. Tanto è poi vero quello che voi dite, che non si può rinvenire nulla di più dolce che il sapere con certezza di ragione e di fede, e il tener fermissimo, averci un Nume ottimo, sapientissimo, potentissimo, regolatore di tutte le umane cose, soccorritore di quelli che in lui confidano; che l' improvviso avvenimento testè accadutomi del vedere due mie opericciuole ascritte all' indice de' libri proibiti per nulla alterò la mia pace e la contentezza dell' animo mio, anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che disponendo ogni cosa coll' amore, anche questo per solo amore permise. Ma non crediate tuttavia che questa tranquillità sia cosa mia propria: perchè ben so che io sarei in balìa di ogni perturbazione e passione, se Colui che ascolta le umili nostre preghiere e conosce i bisogni della nostra infermità, non me ne avesse protetto misericordiosamente colla sua grazia, e in me sostituito al mio disordine umano il suo ordine divino. Laonde di questa stessa grazia del Signore nostro ho gran cagione d' umiliarmi e di essergli grato senza misura; di che conviene che i veri amici, come voi siete, mi aiutino a ringraziarlo anche di questo, il che io non so fare nè degnamente, nè bastantemente. E di vero quanto non sarebbe stato facile che io mi turbassi ad un annunzio così impreveduto, se non altro pel danno che ne potrebbe venire a' miei fratelli, che servono il Signore nell' Istituto della Carità, e pel dolore che ne proveranno? Ma in questo stesso mi confortano assai due pensieri: l' uno che so di certo che tutti si uniranno a me nella sottomissione e nella docilità, baciando anche la mano che ci percuote; l' altro che non si raffredderanno punto, nè diverranno perciò più lenti in quelle opere che prestano alla Chiesa ed alla carità de' prossimi con tante loro privazioni e fatiche. Quanto poi a quello che potranno soffrire dagli uomini, Iddio che li raccolse e che disse: « « Ove due o tre di voi si uniranno nel nome mio, io sarò nel mezzo di loro » », distenderà le sue ali, sotto le quali sicuri e fidenti troveranno ricovero. In quanto a me dirò sempre: « Tollite me et mittite in mare, et cessabit mare a vobis: scio enim ego quoniam propter me tempestas haec grandis venit super vos . » Sto anche pensando come possa recarmi quanto prima in mezzo di loro a consolarli: ma l' ingombro delle cose che ho a Roma, e di cui non so ancora come disporre, mi rallenta l' esecuzione di questo mio desiderio. Or basta: quando mi toccherà la buona ventura di riabbracciarvi, di più a voce. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Rispondo alle care vostre del 2 e 7 corrente, che non è d' affliggersi per la proibizione delle mie due operette; e ciò perchè non è da prendersi affanno che del peccato. Fu retta l' intenzione con cui furono scritte, la coscienza mi rende questo testimonio. Noi dobbiamo rimanere sinceramente sottomessi al decreto, e dobbiamo prendere anche questo avvenimento dalle mani dell' amorosissima Provvidenza che lo permise. Se fui obbligato ad accettare la porpora e a fare gravissime spese per provvedermi del corredo cardinalizio, se ne fu differito il conferimento per la fuga del Papa da Roma, se ora, come credo, il Papa non me la conferirà più; questo è affatto nulla, perchè non ci pregiudica, ed anzi ci può aiutare ad ottenere il nostro fine. Se questo è un disonore presso gli uomini, che giudicheranno esserci noi resi colpevoli di qualche grave mancanza, dobbiamo avere presente che noi dobbiamo essere ugualmente disposti a servire Gesù Cristo « sive per infamiam, sive per bonam famam ». Stiamo dunque tranquilli ed allegri, se possiamo essere umiliati e patire qualche cosa ad imitazione di GESU` Cristo. Quando il Papa mi annunziò il cardinalato, il nostro caro e santo fratello Gentili mi scriveva queste belle parole: Padre mio, si ricordi della porpora di cui coprirono le spalle di nostro Signor GESU` Cristo : egli parlava forse in ispirito quasi profetico. Spero che il nostro caro Istituto non soffrirà alcuna scossa da questo avvenimento; e se dovesse sofferirne, sarà per risorgere più bello e più glorioso nel Signore. Quanto a me, non vi prendete alcun pensiero umano. Non so ancora se e quanto mi fermerò qui: vorrei prima conoscere più esplicitamente la mente di Sua Santità. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Consideriamo, com' è dover nostro, le cose dall' alto. Una somma bontà e sapienza il tutto dispone per nostro bene e per la sua gloria. Quindi ho benedetto il Signore nella proibizione delle due mie operette, come in ogni altro evento più felice, e con tutta la sincerità e devozione del cuore mi sono sottomesso al decreto, senza conoscerne o ricercarne i motivi. Furono proibite: dunque c' erano ragioni di proibirle, altro a me non importa sapere. Sono bensì grato all' amicizia ch' Ella mi dimostra in questa occasione, di che mi è testimonio la sua letterina. Ho sentito con molto dispiacere, che cotesto ottimo Mons. Vescovo sia incomodato: prego Iddio che ce lo conservi. Spero che Ella qualche volta visiterà cotesti miei buoni fratelli di S. Zeno: li raccomando alla sua amicizia. Quest' anno non potrò vederli, come oltremodo bramerei; ma sia fatta anche in questo la volontà di Dio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando vi scrivevo che sarebbero state poste all' Indice le due note operette, io sapevo che il decreto era stato fatto il 30 maggio e confermato dal Papa il 6 giugno, perchè il Maestro del sacro Palazzo m' aveva scritto officialmente per domandarmi se io mi sottomettevo. Per quantunque improvviso mi sia riuscito un tal decreto (fattosi in Napoli in adunanza straordinaria, con segretario straordinario, essendo uno dei Consultori il P. Secchi7Murro), tuttavia non mi turbò, perchè raccomandandomi a Dio, non solo ebbi la grazia di sottomettermi senza difficoltà, ma anche con consolazione dell' animo mio, pensando che così ed io e l' Istituto sentiremo meglio di essere nelle mani paterne del Signore, e a quelle dolcemente ci abbandoneremo. Nessun motivo mi fu comunicato della proibizione, e proibendosi certi libri non solo per errori che contengano, ma ben anco per una prudente economia che intende sottrarre agli occhi del pubblico quelle dottrine di cui si potesse temere abuso, è verisimile che per quest' ultima causa si sia venuto alla accennata proibizione. D' altra parte non sarebbe la prima volta che con un nuovo esame si sieno tolti dall' Indice dei libri che vi erano stati inscritti, e fra gli altri, i libri che insegnavano il movimento della terra. Ma l' autorità ha parlato, e basta; noi tutti staremo sempre sottomessi ad ogni decisione. Conviene però che in pari tempo accresciamo la nostra fede, e confidati in Dio, stiamo fermi, come scoglio, nella fiducia della sua infinita bontà e provvidenza: sotto le sue ali poniamo noi e l' Istituto, lavoriamo allegramente, e senza avvilirci od abbatterci, per la sua gloria e pel bene de' nostri fratelli: e questa confidenza e santo coraggio domandiamolo a lui stesso caldamente, perocchè egli ce lo darà. [...OMISSIS...] Io mi sento a segno tale contento, che altrettanto non fui innanzi al decreto: la mia coscienza non mi rimprovera nulla: « Deus autem est qui iudicat ». Quando siamo umiliati, umiliamoci ancor più e saremo esaltati: la parola è di Gesù Cristo. Rinunzio alla consolazione di vedervi se la venuta vostra potrebbe pregiudicare cotest' opera santissima, che Iddio v' ha posto così manifestamente alle mani. Vi avrei detto molte cose, che non posso comunicare ad una lettera. La vostra supplica al Papa, benchè giunga tardi, farà buon effetto. Nei disegni di Dio sta qualche cosa di grande, di grande dico, anche agli occhi nostri, perocchè in sè stessi i suoi disegni sono sempre grandi, anzi infinitamente grandi. Circa il rimanente, vi risponderò dal Piemonte, dove conto ritornare, giacchè va da sè, io credo, che il Cardinalato, che il Papa mi obbligò di accettare (onde spesi da otto a nove mila scudi pel corredo), sia andato a finire nella proibizione dei due opuscoli; benchè questi fossero stampati e noti al Papa prima che mi ordinasse di prepararmi ad essere promosso alla porpora nel prossimo Concistoro, che doveva cadere nel passato dicembre. L' essere alleggerito del peso di questa dignità mi è caro, salvo il disonore che me ne viene presso gli uomini; ma anche questo lo sopporto pensando che uno molto maggiore tollerò Gesù Cristo, e che egli sa qual sia il grado d' onore che ci faccia bisogno per meglio servirlo in quelle cose nelle quali egli vuole essere da noi servito. Il nostro caro fratello D. Luigi fu profeta, quando, udita la promozione intimatami dal Papa, mi ammonì di ricordarmi di quel cencio di porpora di cui furono coperte le spalle di Gesù Cristo. Coraggio adunque! Io partirò pel Piemonte entro i prossimi quindici giorni, ma mi fermerò alcuni giorni a Firenze. Orazione, orazione, orazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi con retta coscienza cerchiamo di servire il Signore conviene riposarsi in lui, nè troppo rattristarci di ciò che avviene. Al Signore è piaciuto non solo che venissero poste all' Indice le due note operette, ma che questo affare mi si celasse con tanta secretezza, che allora solo il seppi quando vi scrissi, essendosi bensì fatto il decreto il giorno 30 di maggio e confermato dal Papa il giorno 6 giugno, ma non pubblicato se non sulla fine di luglio. Se avessi saputo prima che questo affare si trattava, non avrei mancato di avvisarvene. Ma come poteva formarne nè pure un prudente sospetto, se dai colloquii avuti col Santo Padre io dovevo anzi indurre tutt' altro? Già molto prima il Santo Padre m' avea detto che i miei avversari avenano la veduta corta d' una spanna. Io l' aveva veduto anche il 9 giugno e i giorni successivi cioè alcuni giorni dopo la conferma del decreto: m' avea trattato come il solito, m' avea parlato delle cose dello Stato, e solo nell' ultima udienza o nella penultima gli uscirono queste parole: « stanno esaminando le sue opere », il che io intesi di qualche esame privato, di cui mi sarebbe comunicato il risultato. In quella vece non si esaminavano, ma il decreto era già fatto, e confermato a voce da alcuni giorni. Lungi da me ogni maniera di cavillazione o di sottigliezza legale; ma ben vi dico, che se un uomo di legge volesse instruire su questo avvenimento un processo, avrebbe molti e validi indizi da far parere verosimile che il Papa non fu libero in tal negozio, che pronunciò contro il suo sentimento a me manifestato più volte, e che la conferma del decreto fu ottenuta orretiziamente e surretiziamente, e per una umana e diplomatica pressione. Ma come dicevo, tutte queste cose, e la mia causa stessa l' abbandono intieramente al Signore, da cui viene ogni cosa e per la causa del quale ho scritto quello che ho scritto: perchè la causa della Chiesa è la causa di Cristo. Le quali considerazioni fecero sì che, pel divino favore, la proibizione non mi abbia recato nè turbamento grave, nè grave dolore; e mi sia sottomesso con semplicità di cuore, senza fatica. Questa finalmente non importa una condanna delle dottrine; ma importa la proibizione fatta a' fedeli di leggere que' libri giudicati inopportuni e dannosi nelle presenti circostanze de' tempi. Così il Pontefice Alessandro II sottrasse agli occhi del pubblico il libro intitolato « Gomorrhianus » di S. Pier Damiani; e non è unico quell' esempio, senza intendere con ciò di paragonare me stesso con uomini così santi e dottissimi; e senza nè pure volere affermare nulla sulla dottrina dei due libri proibiti, sulla quale è certo che non ha parlato ancora la Chiesa. Io credo che se voi conosceste le circostanze in cui si trovava a Gaeta ed ora in Napoli il Santo Padre, vi farebbe assai meno maraviglia l' avvenuto. Persuadete dunque il caro Bertetti, che io nulla vi tenni nascosto di quello che seppi, non vi ho ingannati; ma bensì sono stato ingannato io, e tosto che rilevai la cosa, ve la scrissi con ogni schiettezza. A vostro conforto, voglio altresì aggiungere che l' effetto della proibizione e della mia sommissione, fu più favorevole a noi che contrario; tanto in Roma quanto in Piemonte e a Verona; eccetto nel partito de' nostri avversari. Non temiamo adunque come v' ho scritto nell' ultima mia, ma confidiamo grandemente in Dio, che caverà anche da questo, come da ogni cosa la sua gloria. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Vi sono oltremodo obbligato della cara vostra lettera, che dimostra ad un tempo ardente zelo per la causa di Cristo e della Chiesa, e molta amicizia per me. Ora lasciamo fare a Dio, mio carissimo, e noi non pensiamo che a fare il dover nostro; sforzandoci col divino aiuto di compiere ogni giustizia, secondo l' esempio datoci dal Signor Nostro Gesù Cristo. Questa giustizia voleva che io mi sottoponessi, con sincerità di cuore, al decreto dell' autorità competente, senza badare al modo straordinario col quale venne emanato e alle eccezioni alle quali potesse soggiacere, fra le quali una è il trovarsi in contraddizione colle private parole dettemi dal Sommo Pontefice. Deve essere nel grand' ordine della divina sapienza anche questo un mezzo necessario a fare andare avanti il regno di Dio e la gloria di Cristo: e noi, che altro non vogliamo, esultiamone. Nostro Signore, che non dà mai un peso a portare senza aggiungere forza a chi lo deve portare, ove umilmente gliela dimandi, mi ha conceduto in questa bisogna una pienissima pace ed anche letizia. Che vogliamo noi di più? Intanto uno de' beni che ne verranno, oltre quello della maggior nostra umiliazione e pratica uniformità al suo volere, sarà quello di poterci presto rivedere; perocchè conto di partir da Roma in pochi giorni e per la via di Firenze, Livorno e Genova, affine d' evitare i luoghi infetti di colera, restituirmi al nido di Stresa. Io non so più nulla dell' affare del Cardinalato, dopo esser partito da Gaeta, e dopo la proibizione; ma quello che io credo si è che non avrà luogo alcuna promozione alla porpora prima del ritorno del Santo Padre a Roma, dove è ancora incerto quando si potrà condurre, non prendendo un buon avviamento le cose pubbliche di questi Stati. Godo sentendo che siete stato incaricato dal Vescovo d' insegnare il metodo alle Monache della diocesi, e che lo stesso abbiate fatto colle nostre Suore: l' opera che avete alle mani è opera grande, opera di Dio, cui prego di cuore di volervi rendere un nuovo Calasanzio. Salutatemi in Domino tutti i nostri carissimi maestri, e confortateli ad intendere la dignità e la bellezza della loro santa missione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi non vogliamo altro che quello che vuole Iddio, godremo sempre la pace di Cristo che contiene ogni bene. L' improvvisa e inaspettata proibizione delle mie due operette non ha potuto togliermela; nè il modo segreto con cui fu condotta, nè i maneggi d' ogni specie che vi si mescolarono, impedirono che io mi sottomettessi con tutta la sincerità del cuore a ciò che stimò bene di pronunciare la competente autorità. Nondimeno mi conforta l' essere stato assicurato che la proibizione non fu fatta perchè si fosse trovata nelle dette mie operette alcuna proposizione degna di censura teologica, ma perchè si credettero inopportune alla condizione politica dei tempi, dispiacendo sopra tutto a qualche potenza temporale ciò che vi si trova scritto intorno alla maniera d' eleggere i Vescovi, quantunque scrivessi con sincera persuasione di dir cosa non meno utile alla Chiesa che agli Stati, cosa che influirebbe a mio vedere a temperare le esorbitanze de' popoli dando a questi una tendenza religiosa; i quali se non si avviano a pensare ed occuparsi delle cose religiose, rovescieranno la loro esorbitante attività sulla società civile, e ne turberanno tanto più l' ordine, quanto più saranno empi e indifferenti ai negozi religiosi. Comecchè sia, io mi sono ciecamente sottomesso a quel decreto, com' era mio debito. Godo assai de' buoni avanzamenti de' tuoi figliuoli, nei quali il Signore ti benedirà. A me non meno che a te dispiace che la nostra unione sia tolta, o almeno differita. Io credo che non ci saranno promozioni alla porpora prima che il Papa entri in Roma, il che non so davvero quando possa essere, lo stato delle cose pubbliche e delle opinioni rimanendo ancora tutt' altro che sicuro e consolante. Quando poi il Papa sarà tornato alla sua capitale non so quello che sarà di me. Perocchè quantunque a Gaeta stessa m' abbia assicurato che nella prossima promozione avrebbe compreso l' umile mia persona, tuttavia dopo la mia partenza di là venni a sapere ciò che si lavorava in Napoli, di cui fu effetto la congregazione straordinaria che proibì le mie operette: e questo può aver mutata la deliberazione del Papa, benchè nessuno avviso io ne avessi. In questa oscurità e contraddizione di avvenimenti, io penso di tornare per intanto a Stresa ed ivi aspettare l' esito definitivo che mi farà conoscere la volontà divina. Tu già sai che io nulla omisi per declinare l' onore e il peso del cardinalato, e che fui obbligato in coscienza a sottomettermi. Se dunque come tutte le cose sembrano tornare nello statu quo , anche io ritorno nello statu quo ; non è certamente questo che mi rincresca. 1.49 Non ho risposto prima alla dolcissima sua lettera piena de' sensi della più vera cristiana amicizia, ricevuta anche tardi, per diverse occupazioni che mi sottraevano il tempo destinato al carteggio cogli amici. Nel sottomettermi, come ho fatto con pienezza di cuore, al decreto emanato dalla autorità competente e riuscitomi del tutto improvviso ed inaspettato, non ho fatto che un semplice atto doveroso per ogni figliuolo della Chiesa, di cui io sono l' ultimo; nè per grazia di Dio un tale avvenimento mi diminuì punto nè poco la pace. Iddio mi è testimonio che quello che ho scritto, l' ho scritto pel bene della santa Chiesa e del prossimo, ma dichiarando in pari tempo che io non mi reputava il giudice di ciò che potesse convenire ai tempi ed alle circostanze, e quindi che io sottometteva ogni cosa al giudizio supremo della Chiesa stessa, che n' è il vero giudice. Ella ha trovato che fosse meglio sottrarre agli occhi de' fedeli que' miei suggerimenti o consigli; e così sia. Mi conforta che da più persone di merito fui assicurato, che niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolar censura teologica: onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell' abuso, e perchè non rimanessero offesi alcuni Governi tenaci delle nomine vescovili; benchè io credessi in buona fede, che la libertà delle elezioni diventerebbe un vantaggio non meno della Chiesa che degli Stati, ai quali niente più nuoce dell' irreligione dei popoli, nè veggo come questa possa cessare se i popoli non abbiano Pastori di tutta loro confidenza, e i popoli stessi non prendano un vivo interessamento per tutte quelle cose che riguardano la religione e la Chiesa. Rivolta l' attenzione e il pensiero de' popoli alle cose religiose, non rovescierebbero la loro attività aumentata sulle cose politiche con sì gran danno dell' ordine pubblico, come pur troppo veggiamo avvenire e dolorosamente sperimentiamo. Molti già intendono la cosa così, ma non osano zittire, perchè il timore di far peggio comprime i buoni: ed anzi, venendo l' occasione di doversi manifestare, si mettono dalla parte contraria. Io però non veggo tutte le cose presenti della nostra religione santissima di color così fosco come la veggon taluni: ma confido vivamente che la divina Provvidenza vada preparando uno stato novello di cose, alla religione ed alla causa della Chiesa, utile e glorioso. Quanto poi s' attiene alla mia persona, nulla affatto ci penso, come nulla so di quanto sarà per disporre il sommo Pontefice, dopo tutti i precedenti. Intanto conto di restituirmi a Stresa fra i miei carissimi compagni che da tanto tempo non veggo, e m' accompagna la dolce speranza di poter ivi riabbracciare il mio carissimo amico Gustavo. Con sommo dolore debbo dire che qui le cose non procedono come si desidererebbe, nè lo spirito pubblico migliora, nè ancora si sa quando il Santo Padre potrà rientrare con fiducia nella sua capitale. Del pari mi danno gran dolore le cose pubbliche del Piemonte, mia seconda patria, e mi ha pur sommamente attristato vedendo i tentativi sacrileghi che si stanno ordendo per ispogliare la Chiesa delle sostanze temporali, e renderla schiava del Governo che le getti un tozzo di pane perchè viva. Chi avrebbe aspettato in un regno, poco fa così devoto alla Chiesa, macchinazioni così empie e così opposte ai principŒ più elementari del giusto e dell' onesto? E questa dev' essere la strada della libertà? Povera Italia! traditi Governi! Ho ricevuto a suo tempo la lettera scrittami prima in Albano, come pure ho consegnata l' acchiusa per l' Em.mo Tosti, a cui fu aggraditissima. Non è facile a dire quanto La ami e La stimi; egli ha dovuto tornare in Roma per alcuni giorni, dove lo rivedrò domani. Mi usò ogni immaginabile tratto d' amicizia pel lungo soggiorno che feci presso di lui. Mille ossequi a tutta la sua famiglia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Avrete ricevuto risposta alla vostra precedente lettera; ora aggiungo poche linee per rispondere all' ultima che mi avete scritta in data 17 p. p. settembre. L' abisso della divina sapienza e scienza di Dio merita un abisso di adorazione e di amore; e se la tardità e durezza del nostro cuore di carne non può toccare il fondo di questo abisso, dobbiamo almeno esercitare quegli atti di adorazione e di amore che possiamo maggiori, e il più che vi manca e che ci resta quasi in abito deve supplirsi colla conoscenza del difetto nostro e colla umiltà che ne consegue. Così avremo l' inalterabile pace di Cristo, che non il mondo, ma noi soli sentiamo. Questo principio verissimo ci dispensa altresì dal sottilizzare sull' autorità che ci parla e sugli atti suoi, e ci dispensa da una scienza travagliosa e pericolosa. Tanto più che della proibizione d' un libro non è conseguenza necessaria il contenere esso dottrine degne di censura, perocchè colla proibizione non altro fa la Chiesa che giudicarlo inopportuno a' fedeli, agli occhi dei quali il sottrae, come avvenne di un libro di S. Pier Damiani, e più recentemente dell' opera del P. Lacunza, del quale, parlando io una volta col Papa, mi assicurò egli stesso, che in quel libro non ci avevano dottrine condannabili, ma era stato proibito per una cotal prudenza ed economia della Chiesa. Conviene adunque che noi facciamo quello che è tante volte inculcato nelle divine Scritture colle frasi « expectare Dominum, sustinere Dominum », e ciò con viva sicurissima fede. Del rimanemente ringrazio di cuore il Signore che, mediante l' accidente intervenuto, egli siasi degnato di illuminarvi nella cognizione di voi stesso con aumento di umiltà (la più preziosa di tutte le virtù, perchè fondamento di tutte) e di saviezza. Domani parto per Roma, e di là m' incammino verso coteste anime a me carissime, e tutte colla mia nel Signore conglutinate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Godo che la lettera del Cardinal Franzoni sia venuta a confortarvi in questa prova che v' ha mandato il Signore. Ma assai più ho goduto in vedere che la divina Provvidenza chiaramente si manifesta a favore del progetto, tanto da voi bramato, di erigere costì un Collegio di Missionarii per le Nazioni estere. Ora mi sembra cosa di somma importanza di cominciare dallo stabilire alcune massime fondamentali che servano di norma alla istituzione di detto Collegio. E prima di stabilirle, bramo di sentire tutti i vostri sentimenti e concetti, dandovi intanto su di ciò un cenno de' miei. Per quanto ho potuto osservare, parmi che nel preparare i Missionarii ad opera così sublime, si possano commettere due sbagli egualmente dannosi, i quali potrebbero isterilire le Missioni. Il primo si è di credere che Iddio doni la grazia dell' apostolato assai largamente, quand' ella anzi essendo di tutte sublimissima, non è data a tutti, ed esige la maggiore cooperazione da parte dei vocati, il cui numero potrà essere accresciuto soltanto per virtù d' orazioni, avendo detto Gesù Cristo: « « La messe è molta per certo, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Signore della messe che mandi operai nella messe sua » ». Sì certamente sono scarsi ed anzi scarsissimi gli uomini apostolici, i quali non possono essere tali, se non sono eminenti nell' orazione e nello zelo di annunziare la parola di Dio. « Nos vero orationi instantes erimus . » E questo ci dee fare conchiudere di non eleggere alle Missioni straniere, in cui si tratti di diffondere il Vangelo agli infedeli, se non quei pochi che sono di provata vocazione, e con zelo ardente a questa cooperano. L' altro errore si è di credere che per le Missioni agli infedeli faccia bisogno una grande scienza analitica, su quella forma nella quale s' instituiscono i Sacerdoti in Europa. Io credo che si dovrebbe studiare per trovare un modo d' instituire tali missionari all' apostolica, un modo che congiungesse insieme la pratica e la teoria, e che questa piuttosto venisse da quella, anzichè il contrario. Vorrei che si procurasse di accendere, o piuttosto nutrire in essi un ardentissimo zelo delle anime; e dico piuttosto nutrire, perchè lo zelo deve già prima ardere in essi, come un dono di Dio e segno della vocazione: le anime fredde e comode si dovrebbero escludere. Vorrei che fossero esercitati prima di tutto nel culto e nell' amministrazione de' Sacramenti, ne avessero il gusto, ne cavassero profitto cercando d' intenderne lo spirito e la lettera, e che dalla Liturgia si traesse, come da uno de' fonti, l' istruzione loro teologica. Vorrei che avessero un' altissima stima e devozione allo studio delle Sacre Scritture siccome ispirate da Dio, e sopra tutto del Vangelo, che n' avessero famigliare la lettura e la spirituale meditazione, ed indi come da un altro fonte si deducesse la loro istruzione teologica. Quando ci fosse tutto questo, ove avessero appreso un compendio contenente tutte le verità definite dalla Chiesa, un compendio di Morale, un altro di Diritto ecclesiastico per ciò che riguarda specialmente la gerarchia della Chiesa, potrebbero essere presso che formati, colla sola giunta di quelle notizie o cognizioni che richiedesse la missione particolare a cui si destinano. Io vorrei che, se Iddio ci dà la grazia di vedere istituito e consolidato questo collegio, gli alunni di esso si destinassero fino a principio tutti ad una Missione determinata, perchè conviene restringersi, e non sparpagliarsi, e perchè, se si prende in vista una sola Missione determinata, si può dirigere tutta l' istituzione a preparare missionari idonei alla medesima; laddove formare in un solo Collegio missionari per più Missioni, sembrami cosa impossibile. Mi pare che noi dobbiamo scegliere fra l' America inglese e le Indie pure inglesi. La Missione americana parrebbe più facile perchè s' avrebbe la lingua, e altro non si richiederebbe che imparare poi sopra il luogo, se non si può prima, le lingue dei selvaggi, nè v' ha quasi bisogno di filosofia. All' incontro se si preferisce l' India, io credo che noi dovremmo tentare una strada diversa da quella che s' è fatta finora, prefiggendoci d' andare ad assalire i bramini, al che fare si esige moltissimo studio delle loro filosofie, oltre alla lingua indiana e l' indiana antica, la sanscrita. Io credo che non si è fatto ancor molto in quel popolo, perchè essendo egli sommamente legato ai loro bramini, non si fa niente o poco rivolgendosi al popolo senza attaccare i bramini stessi, se non convertendoli, almeno confutando le loro dottrine, e facendo loro perdere quel credito di sapientissimi che si mantengono, e dimostrando che i missionari sanno anch' essi tutte le dottrine braminiche, e ne sanno di più, perchè le sanno confutare. Credo che senza questo le Indie non saranno conquistate alla fede, e questo è un lavoro duro e lento, al quale si esige anche molto ingegno, perchè quelle loro filosofie sono veramente maravigliose, e quasi l' estremo sforzo dell' errore. L' Inghilterra sarebbe un paese acconcissimo dove formare dei missionari ben addentro in tali dottrine, le quali sono state fatte conoscere all' Europa dagli Inglesi, specialmente dalla loro società di Calcutta; ma converrebbe mettere a suo tempo i nostri missionari, cioè quando sono più formati nello spirito, e in tal caso si dovrebbero anche formare, nella filosofia, e più avanti nella teologia, in relazione coi letterati e dotti in tali studi che debbono essere a Londra e in altre Università. Io bramerei che consideraste tutte queste mie riflessioni, e mi diceste, dopo invocato il lume divino, se vi paresse meglio assumere l' impresa di formare missionari per l' America, o per le Indie. [...OMISSIS...] 1.50 Voi mi proponete due sottilissime questioni, l' una fin dove, preparandosi a favellare al popolo, possa giungere la confidenza nel divino soccorso, senza che traligni in temerità o presunzione, l' altra come si compongano insieme la semplicità e la prudenza evangelica. Queste sono cose, o mio caro, che nessuno degli uomini può insegnare, e che Iddio ha riserbato a se stesso per insegnarle egli solo ai suoi servi. Ed egli le insegna un poco alla volta, perocchè questa scienza, o piuttosto questa sapienza è troppo grande per essere ricevuta tutta in un tratto da noi così poco preparati. Il perchè niuno ha finito d' apprenderla mai, e i santi v' impiegaron tutta la vita, e ne restava ancora. Conviene dunque dimandarla al Maestro, e non cessare mai di dimandarla con intensissime istanze, e con grida e gemiti, presentandogli l' anima aperta a ricevere tutto quello che egli ci mette, e gli orecchi del cuore aperti a non perdere sillaba della sua istruzione. Perocchè la dottrina celeste è così fatta, che quand' anche ci avesse un uomo che la sapesse e potesse ridurla ad una teoria umana ed esprimerla con parole, ancora avverrebbe che i suoi discepoli non la intenderebbero, se Iddio non aprisse loro l' intendimento alla sua luce, o la fraintenderebbero, se Iddio non dirigesse al vero la loro intenzione. Una cosa nondimeno io vi dirò sulle generali, e questa si è, quanto alla prima questione, che giova prepararsi, specialmente nel caso vostro, con tutta diligenza, nelle cose prima, e poi anche nelle parole, ma senza sollecitudine od inquietezza; nell' escludere questa consiste l' abbandono in Dio, e quest' abbandono esclude la sollecitudine sull' esito, non lo studio e la diligenza. Pensare all' oggetto e dimenticare il soggetto, cioè dimenticare affatto noi stessi, ma intendere con tutto l' impegno nell' oggetto, cioè nella dottrina che dobbiamo annunziare. Quanto alla lingua, di cui fa d' uopo vestirla, chi n' ha più bisogno e chi meno, e chi n' ha più bisogno dee più occuparsi: conviene che ognuno prenda regola in questo da quella misura di cognizione e di facilità che sa di avere. Credo che costì in Inghilterra vi abbia qualche copia di quell' eccellente libro che io raccomando ai nostri Predicatori, e che ha per titolo: « Guide de ceux qui annoncent la parole de Dieu (Chambéry, Puthod, 1.29) »: è una raccolta di precetti dei Santi intorno al vero modo di predicare, e vi troverete anche cose che fanno alla vostra domanda. Quegli poi è uomo semplice , il quale dice sempre la verità, e s' attiene ne' suoi pensieri, affetti ed operazioni, alla giustizia; quegli che non usa frodi per comparire più che egli non è, e che non fa uso di cavillose riflessioni per fare che la verità sia quello che a lui piace, ma accetta la verità qual' è, amandola come tale, senza intendimenti stranieri o fini secondarii: quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo, anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza o una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti e in tutte le occasioni, alla presenza di tutti, e senza fasto, ma unicamente perchè è vero: quegli è semplice che, piuttosto che fare un giudizio temerario, si lascia ingannare e pregiudicare dal prossimo, che prende tutto in buona parte, nè perde il sereno dell' animo suo per qualunque contegno gli altri tengano con esso lui. Questi è quello che è veramente semplice, che è un umile sincero, conoscendo schiettamente tutti i propri mali, e non ischivando altresì di riconoscere e confessare i beni che gli ha dati il Signore, con rendimenti di grazie e infinita gratitudine, non riputandoli a' suoi propri meriti, nè tampoco esagerandoli. Ma il prudente è quegli che sa tacere una parte della verità, la quale sarebbe inopportuna a manifestare, e che taciuta non guasta la parte di verità che dice, falsificandola: quegli che sa giungere ai fini buoni che si propone, scegliendo i mezzi più efficaci con solerzia ed energia di volere e di operazione: quegli che in qualunque affare sa prevedere tutti i casi possibili e le difficoltà che potrebbero incontrarsi, e sa per tempo evitarle: quegli che per tempo antivede ancora le difficoltà opposte o contrarie, cioè le difficoltà che nascono dallo stesso studio di evitare le difficoltà, e quindi sceglie la strada di mezzo che è quella che incontra difficoltà minori e minori pericoli: quegli che avendosi proposto qualche fine buono, ed anche nobile e grande, non lo perde più di vista giammai, e colla costanza del suo proposito giunge a superare tutti gli ostacoli, dirigendo a quel fine tutti i suoi atti, nè lasciandosi scappare occasione alcuna che a quello conduca: quegli che in ogni affare distingue nettamente ed afferra la sostanza, nè trattenendosi, nè lasciandosi impacciare dagli accidenti, trascurati i quali, più rapidamente giunge a cogliere il suo fine, e quindi bada che le sue forze non divergano e si sparpaglino in varie direzioni, ma tutte le tiene serrate e converse nel fine che si propone: quegli finalmente che, dopo aver fatto tutto ciò, spera il buon esito da Dio solo, e a lui lo domanda, e lo vuole se lo vuole Iddio, e non si raffredda, nè si cruccia, nè si pente, nè rallenta il suo bene operare, se non gli riesce, contento d' aver fatto tutto ciò che sta in lui, e sicuro che il fine ultimo non gli è mancato, perocchè questo fine ultimo all' uomo prudente del Vangelo non è più altro che la volontà e la maggior gloria di Dio. Voi vedete, mio caro, che questa semplicità non ha nulla che contraddica a questa prudenza, e questa prudenza nulla che contraddica a questa semplicità. La semplicità sta nell' amare e la prudenza nel pensare: l' amore è semplice, l' intelligenza prudente: l' amore prega, l' intelligenza vigila: « vigilate et orate », ecco la conciliazione della prudenza e della semplicità. L' amore è come la colomba che geme, l' intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, nè mai urta, perchè va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ancor domani celebrerò la santa Messa in suffragio dell' anima di sua madre e la farò suffragare colle orazioni de' miei compagni. Le quali orazioni non sono utili soltanto ai defunti, ma di conforto anche ai sopravviventi; perocchè, in virtù di quel lume della fede che non inganna, noi sappiamo con una immobile persuasione che quelle care persone, le quali partendosi di questo mondo nella fede di Cristo ci si tolgono dagli occhi, non è vero che sieno morte, ma solo che vivono in un altro modo. E di più dobbiamo sperare, che questo nuovo modo di vita sia troppo migliore e più perfetto di quello che aveano prima: chè per verità il verme o la crisalide non muore quando diventa farfalla, ma riceve l' ultima forma dell' esser suo. E credo veramente che, se noi ci staccassimo col retto giudizio e coll' affetto da questa vita di senso e di carne, la quale è in fine un' incomoda e corruttibile prigione, e giungessimo a dimorare col vigore della nostra volontà in quell' altra forma di esistenza serena e spirituale, nella quale lo spirito entra tostochè è liberato dall' ingombro corporeo; proveremmo una letizia spirituale della morte nostra o de' nostri, la quale tempererebbe ed anzi vincerebbe la naturale tristezza che induce in noi l' animalità che si scioglie. Non che questa letizia possa venire all' uomo dalla condizione della sua natura, ma certo da quel Cristo Signore, nel quale siccome membra al capo siamo incorporati, e il quale vive di vita immortale e beatissima, e comunica alle sue membra della stessa vita quando ancora militano quaggiù, e più pienamente quando passano di quaggiù colà dov' egli si trova, e dove compensa abbondevolmente l' anime ignude di quello che collo spoglio de' sensi corporei hanno perduto. Ma veramente ardua cosa è mantenere lo spirito nostro così sollevato, e anzi ella è opera della grazia e della fede che in noi si aumenta coll' orazione. Onde io dicevo che questa non riesce di minor conforto e consolazione ai sopravviventi che di suffragio ai defunti. Voglia, mio carissimo amico, trovare alleggerimento al suo gravissimo dolore in queste belle e preziose verità, e non abbandonarsi di soverchio alla tristezza. So pur troppo quanto il Signore in questi due anni passati L' abbia voluto provare e purificare colla tribolazione, la quale è un segno indubitato dell' amor suo. E se la compagnia de' mali può attenuare, come si suol credere, il dolore ai compazienti, io bramerei ch' Ella potesse vedere nell' anima mia; poichè in allora chiaramente conoscerebbe che non Le mancano compagni nelle sofferenze e nelle tribolazioni, e forse Le parrebbero scarse le sue. Ma colui che castiga è quegli ancora che consola: riceviamo l' una e l' altra cosa dalle stesse mani amorose: al doppio regalo corrispondiamo con doppio amore, cioè coll' amore della rassegnazione e con quello della riconoscenza. Così perverremo, aiutandoci Iddio, ad una condizione di animo che gode mai sempre, come quello che sa derivare un cotal gaudio dallo stesso dolore: « Ut gaudium vestrum sit plenum . » Ma più lungamente e forse più soavemente ragioneremmo di tali cose se Ella fosse presente, e però Ella mantenga il promesso, venga a passare alcuni giorni nella solitudine di Stresa, dove filosofando insieme procureremo di darci l' un l' altro conforto. [...OMISSIS...] 1.50 Pervenne a' miei orecchi una cosa di voi, mio caro figlio, la quale mi ha molto amaricato, cioè che vi siete non poco rilassato nello spirito, e divenuto negligente nello studio dell' orazione. Se la cosa è così, conviene che abbiate grande timore e sospetto di voi medesimo, acciocchè Iddio non vi castighi. Perocchè Iddio ha usato con esso voi ogni liberalità, e oltre il farvi cristiano, vi ha eletto fra quelli che si debbono dedicare al suo più stretto servizio, e arrivare alla perfezione della vita; e vi ha raccolto dal mondo in una casa a lui consecrata, e quasi direbbesi nel suo stesso palagio, cioè nella religione. Ora se Iddio è liberale, egli è anche geloso, e pretende che quelli, a cui egli è andato incontro il primo, offerendo loro i più alti posti nel suo regno, riconoscano il valore e la preziosità di tale sua grazia, e non la prendano a festa, ma le corrispondano siccome è degno. Il che non fanno sicuramente quelli che sono pigri ed accidiosi, e hanno quasi noia e fastidio di trattare con esso lui nell' orazione, la cui conversazione non ha amarezza nè fastidio, ma ogni letizia ed ogni gaudio; e chi non la prova questa letizia e gaudio ineffabile nello stare in istretta conversazione con Dio nella orazione, è manifesto segno che ha l' animo rozzo e duro, quasi privo di senso spirituale, e senza lume a conoscere l' infinita grandezza e dolcezza e bontà di quel Dio a cui si sta presente, e a cui parla. Onde se costui vuole veramente il bene e il vero, nè ama ingannarsi da se stesso, deve provare grandissimo dolore e timore in conoscersi così freddo, insensato e stupido, e non dee aver quiete nè dì nè notte, fino che non ha trovato la compunzione, e ricuperato il gusto spirituale e il fervore della preghiera e di tutti gli esercizii di pietà. E lo troverà se vince se stesso, se vince la sua carnalità superba, colla mortificazione e colla umiltà prima di tutto, e poi col durarla imperterrito nella fatica del pregare; la quale fatica, se colla buona e forte volontà si sostiene e supera generosamente, cessa dopo qualche tempo d' essere fatica, e diventa soavissimo esercizio, a cui l' anima infervorata trae e anela, siccome l' affamato al cibo più ghiotto. Sollevatevi dunque, carissimo figlio, dalla bassezza della tiepidità in cui pare siate caduto, e staccandovi da voi stesso e da ogni pigrizia, siccome buon soldato, senza temere patimento di corpo, riprendete alacremente i santi esercizii della orazione, specialmente quelli che sono ordinati dalle nostre consuetudini, e più ancora, se potete spronare lo spirito vostro ad una maggiore generosità. Considerate che se noi non vogliamo ridurre veramente in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo, e tenere dietro da vicino a' suoi esempi, egli è vano e falso il chiamarci suoi discepoli, e la vita che abbiamo intrapresa non si sa dove se ne andrà a riuscire, ma non certo a buon punto. Se dunque non vogliamo faticare indarno ed esserci messi per questa via della religione senza pro, conviene che quelle parole: « sine intermissione orate », e quelle altre: « vigilate et orate », e ancora: « petite et accipietis », ci stieno presenti, e siano da noi adempite coll' opera, acciocchè diventino per noi un titolo alla mercede e alla gloria, e non anzi una legge che ci condanni: conviene altresì che portiamo di continuo dipinto innanzi agli occhi nostri Gesù Cristo, che pernotta in orazione o sul monte, o nell' orto con effusione di sangue, o sulla croce con un valido clamore, siccome nostro vivo modello, in cui ci sforziamo continuamente di trasformarci, facendo in lui e con lui quello che egli faceva e che fa tuttavia, « qui sedens ad dexteram Patris interpellat pro nobis ». Non inganniamoci, mio carissimo, chi non prega non può reggersi in piedi, nè stare con Dio: chi prega poco, fa poco bene; chi prega molto, ne fa assai, e noi ci siamo obbligati, mio caro, colla nostra professione di vita tutta ardente di carità, di farne assai; e però dobbiamo pregare molto e, se non lo facciamo da vero, veniamo meno al nostro dovere, falliamo al nostro fine, ci pasciamo di vento, non possiamo avere quella carità a cui ci obbligammo, a cui, in cui, e per cui debbono essere tutte le nostre operazioni. Voi direte che l' ufficio vostro di Maestro di belle lettere ha del profano e distoglie l' animo dalle cose di Dio. - Appunto per questo dovete più fortemente e più assiduamente pregare; il vostro officio è tale, che esige che voi otteniate da Dio, a forza di orazione, di renderlo innocuo all' anima vostra, e utile spiritualmente ai vostri prossimi; egli è necessario che colle più fervide e perseveranti istanze otteniate da Dio una sì gran misura di carità, che santifichi i vostri studii, e, quasi direi, da profani li faccia divenire santi e spirituali; il che avverrà se li professate con una profonda umiltà di cuore e disprezzo di voi medesimo, con una retta e pia intenzione di servire Iddio ne' prossimi, e con un' industria di giovare con essi anche spiritualmente, ed anzi prima di tutto spiritualmente, ai vostri discepoli, guidato da un vero e ardente zelo della salute delle loro anime, alle quali un maestro di scuola può sempre in molte maniere giovare, perocchè l' Istituto della carità non prende propriamente a insegnare se non per questo gran fine, in cui la carità di Gesù Cristo consiste. Onde il fermarsi coll' istruzione o coll' operazione nella letteratura, o nella grammatica, o nella filosofia, o in altra scienza profana, senza pervenire fino al Vangelo, in cui sta la salute, è somigliante a chi si trattenesse in sul viaggio a mezzo del cammino, senza pervenire allo scopo del viaggio stesso. Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Filosofia politica naturale

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre accatoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiarnei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non poprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene. che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè cosí universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua « Storia del Parlamento d' Inghilterra . » Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli « AssassinŒ e Furti politici . » In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei brutti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portono sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Il quarto fatto è il seguente: [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; rse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: « « Le città d' Orleans e di Parigi troncavano il corso a questi malandrini, sicchè non potevano inoltrarsi nè per la Senna, nè per la Loira. Ugo Capeto, che queste due città possedeva, teneva in mano le due chiavi degli sventurati avanzi del regno: se gli conferì una corona ch' egli solo era in grado di difendere. In questa guisa appunto venne dippoi conferito l' Imperio alla famiglia che è capace di custodire le frontiere dei Turchi. » » E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già si si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto si si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco co m' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. « « Al tempo di Carlo Magno era altri obbligato sotto gravissime pene di recarsi alla convocazione per qualsivoglia guerra: non si ammettevano scuse, ed il conte stesso che n' avesse esentato alcuno sarebbe stato punito. Ma il trattato dei tre fratelli (anno .47) pose sopra di ciò tal restrizione che tolse per dir così dalle mani del re la nobiltà: altri non fu più tenuto a seguire il re alla guerra se non quanto questa fosse difensiva, nelle altre era libera o seguire il suo signore, o accudire a' suoi affari. Questo trattato si riferisce ad un altro fatto cinque anni prima fra i due fratelli Carlo il Calvo e Luigi re di Germania: in vigor del quale dispensarono questi due fratelli i loro vassalli ove avvenisse che l' uno contro l' altro tentasse alcuna impresa: cosa che giurarono i due principi, e che giurar fecero ai due eserciti. » « La morte di centomila francesi fece pensare a quella nobiltà, che ancora restava, che per le private risse de' suoi re intorno alla lor divisione sarebbesi alla perfine distrutta, e che la loro ambizione e gelosia farebbe versare tutto quel sangue che pur rimaneva. Fu fatta questa legge che la nobiltà non verrebbe astretta a seguire i principi alla guerra se non se quando si trattasse di difendere lo stato da una straniera invasione. »2) » Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre, E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare dì sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loroautorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma nè pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che é la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, é appunto quella che si é francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero. ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al difuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Gioberti e il panteismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ma noi non siamo qui, miei signori, per trattare quasi innanzi a tribunale il diritto di priorità che possa avere l' abate Gioberti all' invenzione del suo sistema sopra i precedenti; non siamo qui per esaminare a qual titolo egli si vanti d' aver nobilitata la scienza, e fattala divenire una specie di culto nobilissimo verso il suo Autore. Siamo qui solamente per esaminare una verità importante al nostro studio, per riconoscere con mature ed imparziali riflessioni, se si possa confondere l' ente ideale col reale, l' idea con cui l' uomo conosce tutte le cose, colla realità di Dio, senza professare con ciò appunto un sistema di panteismo. Poichè io sono ben certo che voi tutti sarete meco d' accordo in questo, che se rimane provato, che dichiarando esser Iddio stesso il mezzo unico e necessario con cui si possono conoscere tutte le cose reali, è lo stesso che fare Iddio l' essere reale e la sostanza di tutte le cose, se ciò sarà provato una volta, dico, non potrà mai più venire un tempo in cui questa dottrina cessi dall' essere panteistica, poichè ciò che è vero una volta è vero sempre, e però non può riuscire che vana la lusinga del signor Gioberti, il quale spera appunto che verrà un tempo in cui non sarà più panteistico il dire che « Iddio è in tutta la scienza » confessando con ciò che, al presente almeno, la sua è una dottrina riputata panteistica. Ma concedetemi che io vi legga anche questo brano, in cui egli va preconizzando i destini della nuova teoria. [...OMISSIS...] E certo la scienza non può essere religiosa, come egli dice, se non è una religione, quando sia vero che l' oggetto d' ogni scienza e di ogni cognizione è Dio stesso. Ma se per l' opposto, l' oggetto e il termine immediato delle scienze naturali non è Dio stesso, converrà dire il contrario, miei signori; converrà dire che il pretendere che la scienza sia irreligiosa sol perchè non è una religione, è un portare le cose all' eccesso, è un confondere due cose ben diverse, la religione e la scienza, e dichiarando la scienza religione, egli è un sagrificare la religione alla scienza. Giacchè non vi ha più bisogno di un' altra religione in tal caso, qualora gli uomini coltivino la scienza, che è già la religione ella stessa: e perciò il fisico, il botanico, l' astronomo non ha più bisogno d' altro culto, che del culto della natura, delle piante, degli animali e degli astri, perocchè questi sono gli oggetti immediati di tali scienze, o son tutti Dio, perchè l' oggetto e il termine immediato della scienza è Dio. Io non so, miei signori, come si possa professare più apertamente il panteismo; ma poichè il nostro signor Gioberti fa almeno le mostre di voler giostrare contro tutti i panteisti anteriori a lui, e quindi dobbiamo credere lontanissimo dall' animo suo un tale errore; ella è cosa equa e necessaria per illustrare questo argomento e investigarne il fondo, che noi ascoltiamo ed esaminiamo diligentissimamente le sue discolpe, e facciamo ogni nostra possa per liberarlo da tanta vergogna, o almeno da tanto abbaglio, se mai ci riesce possibile; se non che non rimanendoci oggi mai più tempo in questa lezione da svolger le ragioni con cui egli toglie a giustificarsi, ne riserveremo la trattazione alla lezione prossima, contentandoci per questa di solo sfiorare l' ampia materia. E per primo fiore che noi possiamo raccogliere ad introduzione della sottile disamina, piglieremo a nostro pro un avvertimento che ci dà lo stesso Gioberti, ed è [...OMISSIS...] Non applichiamo no, miei signori, il titolo di frasi menzognere alle frasi giobertiane, siccome quello che ha una non so qual relazione ingiuriosa coll' animo; ma non sarà indiscreto nè ingiusto che noi chiamiamo magnifiche le frasi che egli adopera, e sotto una veste magnifica si possono certamente coprire anche cenci o piaghe profonde. Onde non ci vorremo noi lasciare illudere al suono delle parole, ma col pensiero semplice e retto cercare i concetti. L' altra cosa che vi farò osservare prima di chiudere la lezione, si è che due sono le strade più generali per le quali si può rovesciare nel panteismo, delle quali il Gioberti non par che conosca se non una sola. Poichè egli è tuttavia certo che una strada conducente al panteismo, è il partir da Dio, e discendendo alle creature, con queste confonderlo; l' altra si è muover dalle creature, e confonderle col Creatore. La prima è il confondere la natura necessaria ed assoluta colla contingente e limitata, ed è propria di quelli i quali, formandosi un' idea grandissima di Dio, non sanno poscia tener da lui le altre cose distinte, ma le fanno assorbire in lui stesso e così indiarsi; la seconda è propria di coloro che più grossolanamente della grandezza dell' universo stupiti lo vengono deificando. Egli è evidente che entrambi riescono al medesimo risultato, benchè i termini da cui muovono siano diversi; poichè vi ha tanto dalla natura a Dio, quanto vi ha da Dio alla natura, e il dire che Iddio è tutte le cose, riesce al medesimo che a dire che tutte le cose sono Dio. Ora coloro che fanno Dio quell' Essere che si afferma e si predica delle cose reali, e col quale si conoscono, sogliono essere di que' panteisti, che avendo precedentemente un' idea grande di Dio, credono magnificarlo vie più col dichiarare che l' essere suo è quell' essere stesso che l' intendimento conosce in tutte le cose reali, e che perciò il termine immediato della cognizione di ogni cosa è Dio. Ma il Gioberti non vuol punto riconoscere questa seconda via per la quale si viene al panteismo, confondendo la natura necessaria colla contingente; che anzi pretende non avervi che un sistema di panteismo, il quale confonde la realità contingente colla realità necessaria. Egli se ne dichiarò espressamente nell' opera degli « Errori », perchè il professore Tarditi aveva scritto che [...OMISSIS...] Ora il Gioberti gli negò recisamente che il panteismo nascesse dal fare che quell' Ente che è il principio del sapere sia altresì il principio e la base delle realità contingenti, anzi egli scrisse così: [...OMISSIS...] . Ma noi sappiamo assai bene, che la confusione della realtà contingente colla realtà necessaria e assoluta è principio generativo del panteismo; ma sappiamo altresì che è ugualmente principio generativo del panteismo la confusione della idealità necessaria e assoluta colla realità contingente (tanto più nel sistema di Gioberti, che ad imitazione di Hegel, chiama e definisce Iddio l' idea); come pure l' identificazione di quella idealità con tutto ciò che non è la stessa realità necessaria e assoluta, ed è questo che ignora e disconosce il signor Gioberti; e però egli ci dà un giusto sospetto, o per dir meglio, ci spiega per qual via egli pervenne al suo errore, ignorando dove tal via conduce. Poichè escludendo egli uno dei sistemi di panteismo, pretendendo che non ci sia che l' altro dei due grandi sistemi da noi indicati, non riconoscendo che una sola delle due vie che mettono a tale errore, qual meraviglia, miei signori, ch' egli sia, e nieghi ciò nondimeno di essere panteista? Il suo sistema panteistico è appunto quello che egli disconosce, la via per cui egli se ne va a precipitarvi è appunto quella che egli ignora, o dichiara ignorare che meni a tal termine. Ma d' altra parte come può egli ignorar ciò? quali almeno sono le ragioni, alle quali affidato, pretende che non è punto nè poco infetta di panteismo quella dottrina ch' egli professa, e colla quale sostiene a rigor di parola, che il termine immediato di ogni cognizione naturale è Dio, che Dio è l' oggetto universale del sapere? Questo, come vi dicevo, è ciò che nella prossima lezione servirà di tema al nostro ragionamento. Avete veduto, o signori, in qual maniera il signor Gioberti pensi di medicare e rimpastare il sistema rosminiano per allontanarsi più che mai dall' empietà panteistica da lui tanto detestata ed abborrita. Noi per ispiegare la cognizione delle cose reali, e principalmente la percezione intellettiva, ricorrevamo col Rosmini non meno che col senso comune, all' azione che esse esercitano immediatamente sopra di noi producendoci i sentimenti. Ma poichè quest' azione e questi sentimenti non possono esser più che materia di cognizione, cercavamo poi il formale della cognizione in un elemento divino, cioè nell' essere possibile, che è l' intelligibile stesso. Noi abbiamo posta tutta la cura per non confondere l' idea elemento divino con cui si conosce, colla cosa reale che affermando si conosce, la quale, se parlasi di cose create, è contingente: e così ponendo un muro di separazione insuperabile tra la cosa contingente e l' elemento divino con cui ella si conosce, credevamo d' avere estirpato il panteismo fino dalle radici. Ma il signor Gioberti grida all' incontro con altissima voce, che noi siamo appunto per questo panteisti, perchè abbiamo elevato questo gran muro che separa il divino dall' umano, e che egli solo ha trovata la via di annientare quest' errore perniciosissimo coll' atterrare del tutto il muro di divisione da noi eretto. E come procede egli in questo suo trovato? Voi l' avete veduto, col negare fieramente che gli uomini prendano dal sentimento la materia della cognizione dei reali, e coll' affermare che essi prendano tanto la materia, quanto la forma di questa cognizione, tanto l' elemento ideale, quanto l' elemento reale de' contingenti in Dio stesso percepito da noi, com' egli pretende, per un naturale intuito, di maniera che Iddio sia sempre l' oggetto universale del sapere e tutte le scienze abbiano per loro termine immediato Dio stesso, e sieno una religione! Tale è la pretensione del signor Gioberti, ed io credo, come v' ho detto nella precedente lezione, che deva essere tanto difficile ad ogni uomo di buon senso il capire come si possa evitare il panteismo cercando nella natura divina la realità delle cose contingenti, quant' è difficile il capire come si possa accusare di panteismo una filosofia che toglie la realità delle cose contingenti da queste stesse cose, e non ricorre all' elemento divino se non per ispiegare la loro cognizione. Ma poichè il signor Gioberti stesso pur sente d' aver bisogno d' una apologia e d' una difesa contro il sospetto di panteismo; egli si sbraccia a difendersi, ed è questa apologia che noi ci siamo proposti di esaminare nella lezione presente con tutta la possibile equità e discrezione. In primo deve esser cosa bella ed intesa con noi, che il protestare e gridare di non esser panteista, come pure il dare generosamente quest' accusa agli altri, questo solo non iscioglie la questione, perchè in filosofia non vale il cicaleccio, ma la ragione; non vale fare lo spavaldo, ma convien fare il filosofo; onde tutte le declamazioni del signor Gioberti contro gli altri sistemi, e specialmente contro quelli da cui egli ha preso di più, e tutte le magnifiche lodi che dà a sè stesso, non devono, miei signori, entrare in conto: e qui noi dobbiamo, se vogliamo trovare il vero e non bere grosso, cancellarle coll' imaginazione nostra da' suoi volumi senza compassione di renderli, così facendo, piccini piccini, o, per usare una parola sua, assai mingherlini. In secondo luogo egli stesso ci avverte di non lasciarci illudere, come avete udito, « dalle frasi magnifiche e menzognere che talvolta adoperano i panteisti »; il che dee valere anche per lui finattanto che non è purgato intieramente dal sospetto di panteismo ch' egli stesso teme d' incorrere; benchè predica che verrà un tempo in cui non si avrà più per panteistico il dire quel ch' egli dice, cioè che « « Iddio è in tutta la scienza » », frase che contiene il sistema da lui professato e con che egli viene a riconoscere che al presente almeno quella frase nel senso datole è riconosciuta per panteistica. Oltre ciò, dopo aver egli scritto nel 1.40, nell' « Introduzione allo studio della filosofia », che Iddio è « « l' oggetto universale del sapere » », tre anni dopo, cioè nel 1.43, nell' opera « del Buono » confessò che questa frase è equivoca, e che per lo meno uno de' suoi sensi è apertamente panteistico, benchè egli l' abbia pronunciata assolutamente, e senza distinzione, come quella che esprimeva nel modo più proprio tutta la sua dottrina. Udite, o signori, la sua confessione nell' Avvertenza premessa all' opera « del Buono » [...OMISSIS...] . Se dunque questa frase si può prendere anche in senso eterodosso e panteistico, perchè l' ha egli pronunciata assolutamente ed incondizionatamente? perchè ha lasciato che tutto il mondo per ben tre anni la considerasse come l' espressione più fedele del suo sistema? Ma via, posciachè ora egli stima bene di ritrattarsi in parte, cioè di ritrattare l' uno de' due sensi che può avere quella frase, vediamo con quali argomenti dimostri, che nel suo sistema essa debba avere un senso ortodosso. Egli avverte, che i panteisti [...OMISSIS...] . Io non mi fermerò, o signori, ad osservare la poca proprietà filosofica di que' suoi dati scientifici, frase tutta sua; ma piuttosto domanderò se l' oggetto del sapere possa essere la sola forma senza la materia, o la materia senza la forma. P. e. il fisico che parla delle diverse specie di sostanze corporee, prende forse ad oggetto della sua dottrina i corpi spogliati di materia? o volendo esporre la scienza dell' uomo potrà l' antropologista parlare d' un uomo non composto di carne e di ossa? I corpi celesti che sono l' oggetto dell' astronomia si possono concepire privi al tutto d' ogni materia e d' ogni realità? e in generale quando le scienze trattano di esseri reali, e non puramente ideali, si può egli dire che il loro oggetto debba esser privo di materia ossia di realità? Poichè non si parla già qui di materia o di realità individuata, ma della materia de' dati scientifici che è materia e realità comune e specifica. Laonde, se i panteisti sotto il nome d' oggetto del sapere intendano la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente, niuno potrà accagionarli per questo d' errore, finchè si parla di scienze che hanno esseri determinati per loro oggetto, quando non si voglia dire che l' oggetto di un tal sapere sia costituito dalla sola forma senza più contro a ciò che si propone la scienza. Dove sta adunque l' errore dei panteisti? non già nella definizione dell' oggetto del sapere, che loro attribuisce il signor Gioberti, ma bensì nel pretendere che quest' oggetto sia Dio. Ma questo è appunto quello che pretende Vincenzo Gioberti. Egli l' ha detto, l' ha replicato in termini espressi, ha pronunciato solennemente che Iddio stesso è il termine immediato di tutte le scienze di cui si compone l' Enciclopedia, e che questa è una religione, e che Iddio stesso è l' oggetto universale del sapere, e lo provò di qui che non si deve prendere la materia della cognizione nostra dal sentimento, come fa il Rosmini col senso comune degli uomini e delle scuole, ma si deve trovarla in Dio, che è l' oggetto del nostro intuito; imperocchè che cosa è la materia del sapere, se non la realtà delle cose che si conoscono, o al più la cognizione di questa realtà? Onde se il signor Gioberti non credesse, come egli dice che fanno i panteisti, che per l' oggetto delle scienze fisiche si debba intendere la forma de' dati scientifici e la materia egualmente, invano avrebbe riposto fra i pretesi errori del Rosmini questo, che egli toglie la materia della cognizione da' sensi, e non da Dio oggetto dell' intuito. E voi già vi sovvenite quanto il Gioberti lungamente si sbracci per provare che non è mica vero che la cognizione di un essere reale p. e. d' un corpo sia composta di due elementi assolutamente distinti, l' uno de' quali divino ed ideale, l' altro contingente e reale ricevuto nel nostro sentimento; da due elementi, dico, che un giudicio dell' uomo copula insieme in un' affermazione; egli pretende anzi che questi due elementi l' idea e la realità sentita da noi non abbiano alcuna reale distinzione, e quindi non possano essere termini di alcun giudicio, ma si percepiscano come un concetto semplice, di modo che l' idea e la realità contingente (notate bene contingente) formi un oggetto solo al tutto indivisibile, oggetto del nostro intuito, il quale è la sostanza delle cose, ed è Dio stesso. Risovvenitevi del Capo IV della sua « Introduzione allo studio della Filosofia », dove questo suo concetto è ampiamente sviluppato, e per ajutare la vostra memoria ve ne leggerò qualche passo. Al N. 3 del citato capitolo egli prende a confutare questa proposizione del professor Tarditi: [...OMISSIS...] Ora egli sostiene che qui non vi ha giudizio, ma semplice concetto. Ma udiamo lui stesso. Proposta la questione da che nasca, e in che consista il concetto della concretezza e della individualità delle cose, incomincia a dire [...OMISSIS...] Era facile, voi il vedete, rispondere a questa interrogazione, bastando dire che il concetto del concreto e dell' individuo è generico anch' esso, perchè esprime ogni concreto ed ogni individuo; onde la difficoltà da lui proposta non esiste, ma è da lui sognata. Ma invece di trovare una risposta sì facile, al Gioberti piace rispondere così: [...OMISSIS...] . Io credo che voi altri stupirete a queste parole. Stupirete a sentire che vi fu al mondo un uomo che negò, che l' idea della concretezza sia un' idea, il che è quanto dire che il nero sia il nero, e che il bianco sia il bianco. Io non ho mai saputo, che vi sia stato un tal uomo al mondo, e molto meno un filosofo; ma il signor Gioberti ci fa sapere che questo povero goffo è il Rosmini. Peccato che non abbia indicato dove il Rosmini abbia parlato così! Ma via, non perdiam tempo, posciachè in tutte le opere del Rosmini dal principio alla fine si cercherebbe indarno una cosa simile: egli è uopo conchiudere, o che il signor Gioberti abbia traveduto, ovvero che il suo sistema non possa esser sostenuto, se non avanzando sì gravi errori di fatto. Proseguiamo dunque a sentire il ragionamento, col quale il Gioberti pretende che noi conosciamo la realità delle cose, dico delle cose contingenti, notate, per un immediato intuito di Dio, di maniera che Iddio riesca sempre il termine immediato del nostro sapere. Così egli la discorre. [...OMISSIS...] Voi avete udito! Gli esseri contingenti, la realità individuale si conosce per un intuito speciale e diretto, il quale ci rivela non la sola corteccia, ma la sostanza delle cose. Ora l' oggetto di quest' intuito, come oggetto immediato di ogni sapere, secondo il Gioberti, è Dio; nè può esser altro, perocchè se potesse essere qualche cos' altro, già egli non sarebbe più bisogno di spendere tante parole al Gioberti per ispiegare come si conosca la realità individuale. Che cosa dunque ci rivela l' intuito? nient' altro ci può rivelare se non il suo oggetto. Ma da una parte si dice che questo oggetto è Dio, dall' altra si dice, che quest' oggetto che ci si rivela è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Or pel principio che due cose eguali a una terza sono uguali tra di loro, ne viene irrepugnabilmente che Iddio è « « non solo la corteccia, ma ben anco la sostanza delle cose ». » Non siamo noi nella sostanza universale dello Spinoza? se non anco più in là, giacchè Iddio, secondo le citate parole del Gioberti, è non solo la sostanza, ma anco la corteccia delle cose? Noi siamo pervenuti a questo risultato per una dimostrazione altrettanto esatta, quanto le dimostrazioni matematiche. Il qual risultato noi l' abbiamo colto in sulla via, perchè ci veniva tra' piedi, senza che fosse propriamente l' intento del nostro ragionamento. Noi volevamo far osservare che il Gioberti pretende che si conosca la realità delle cose contingenti per un intuito semplice e indivisibile, e non per un giudicio risultante da due termini, l' idea (o per dir meglio, l' essenza che si vede nell' idea) e il sentimento reale. Infatti tutto il discorso suo tende a provare la tesi che questi due termini non esistono, ma ne esiste un solo, che è l' ente reale indivisibile affatto in sè stesso, in quant' è oggetto del primo intuito, Iddio: egli sostiene, che l' essere possibile si trova dalla mente colla riflessione dopo il reale che è l' oggetto dell' intuito. [...OMISSIS...] Dal quale passo si vede che il Gioberti nega espressamente che il reale oggetto dell' intuito sia composto, o si possa dividere realmente, e sola la riflessione lo divide astraendo da esso il possibile. Ora il reale che è l' oggetto dell' intuito contiene per conseguente non solo la forma o idea, ma anche la materia del conoscere, sicchè la riflessione che sopravviene non può aggiungervi nulla, ma solo analizzarlo mentalmente, su di che mi riserbo, o signori, a farvi in altro luogo delle speciali osservazioni. Dunque se l' oggetto dell' intuito è indivisibile, e contiene ugualmente la materia e la forma del sapere, come potrà il Gioberti condannare i panteisti per questo che essi « « intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente » » senza condannare sè stesso? E se sono i panteisti che « « quando dicono che esso Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome di oggetto la forma o idea dei dati scientifici e la loro materia egualmente » », non dovrà temere il signor Gioberti di essere annoverato appunto fra essi, posciachè sostiene che la materia e la forma del sapere, la realità e l' idealità, non si congiungono dall' uomo con un giudicio come è uopo che avvenga se sono due cose; ma si comprendono in un concetto solo, e si hanno unite nell' oggetto dell' intuito, che è Dio, oggetto universale del sapere? Di poi osservate ancora incostanza di parlare. Questo autore afferma che, [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che per evitare il panteismo conviene dividere il conoscimento delle cose contingenti in IDEA o forma, e in MATERIA. Ora voi ben sapete che questo è appunto quello che facemmo noi col Rosmini; onde a detta del signor Gioberti, la nostra maniera di filosofare dovrebbe appunto essere la via sicura di evitare il panteismo. Non crediate: il Gioberti vuole tutt' altro: vuole anzi la confusione in uno stesso concetto della materia colla forma del sapere: ed è implacabile contro il Rosmini, perchè divise saviamente que' due elementi. Ma di più, che cosa egli intenda per Idea, l' avete udito poco fa: vi richiamerò le sue parole: [...OMISSIS...] . Nell' idea dunque, secondo il Gioberti, si contiene la REALITA`, anzi ella è la realità stessa; dalla quale colla riflessione si astrae poscia la possibilità. Se dunque l' idea contiene tutto, la realità come anche la possibilità, in che modo poi egli vuole che si distingua l' idea dalla materia del sapere? in che modo dichiara panteismo il non distinguere que' due elementi, ma fare che nell' oggetto del sapere si comprenda tanto l' idea quanto la materia? che cosa è, o può essere la materia del sapere, se non la realità? E se nell' idea vi è già prima di tutto la realità, che cosa può rimanere fuori di lei e che sia atto a costituire una materia del sapere, distinta dall' idea stessa? O si dee dunque distinguere l' idea che contiene la possibilità dell' ente contingente, dalla realità di quest' ente, e allora vi ha distinzione tra la forma e la materia del sapere, ed è evitato il panteismo, il che fa appunto il Rosmini; ovvero si dee dire che l' idea è la realità dell' ente onde poi si astrae la possibilità, ed allora non vi ha distinzione possibile tra la forma e la materia del sapere, e si cade nel panteismo, il che fa il Gioberti. Ma il Gioberti stesso insegna che se non si distingue la materia dalla forma del sapere, e si fa che entrambi sieno oggetto dell' intuito, il panteismo è irreparabile. Dunque il Gioberti stesso si fa la sentenza, e noi siamo costretti a dichiararlo panteista, se vogliamo attenerci alla sua propria confessione. Tornando dunque alla definizione dell' oggetto del sapere, no, l' empietà de' panteisti non istà in pretendere che l' oggetto del sapere umano abbracci la forma e la materia egualmente: qui non vi ha errore di sorta; la forma e la materia del sapere è egualmente necessaria a costituirne l' oggetto, o per dir meglio, certi oggetti, e non si può dividere trattandosi di enti contingenti; imperciocchè, badate bene, miei signori, il Gioberti vi confonde due questioni che sono separatissime: la prima « se l' essere ideale sia Dio o no »: la seconda « se noi conosciamo i reali contingenti coll' idea e col sentimento, ovvero collo stesso Dio7Idea, di modo che quando conosciamo un reale contingente, l' oggetto del nostro conoscere sia Dio stesso ». Ora è questa seconda questione che noi al presente trattiamo, e non la prima, e il Gioberti la risolve affermativamente. Ma posciachè il dire che, quando conosciamo i reali contingenti, allora l' oggetto del nostro conoscere è lo stesso Dio, altro non è che un manifestissimo panteismo; quindi il Gioberti per iscansare in qualche modo tale conseguenza, qui senza paura di contradirsi viene con noi, e ci divide in due parti l' oggetto del conoscere, cioè nella forma o idea e nella materia, e dice che l' errore del panteismo sta nel non fare questa divisione: nè si ricorda più, o mostra almeno di non ricordarsi che prima, nell' « Introduzione allo studio della Filosofia », aveva insegnato, che ogni oggetto del conoscere si riduce all' oggetto dell' intuito, e che l' oggetto dell' intuito è reale, uno e indivisibile, e che il possibile si trova poscia in esso per astrazione. Quindi egli non aveva certamente diritto di scrivere così: [...OMISSIS...] . Perocchè in prima, quando noi conosciamo un corpo, abbiamo per oggetto del nostro conoscere la materia delle forze finite, e se non avessimo questa materia delle forze finite per oggetto del nostro atto conoscitivo, non conosceremmo mai un corpo. In secondo luogo egli dice, che in questa materia delle forze finite riluce l' idea, la quale è Dio stesso: ma in tal caso, quando noi conosciamo un corpo, il nostro conoscere avrebbe due oggetti e non un solo, l' un oggetto sarebbe l' idea che è Dio, che non si può confondere colle forze finite, senza cadere nel panteismo che si vuole evitare, l' altro oggetto sarebbe la materia delle forze finite che costituisce il corpo e che non è Dio. Ed egli sembra che così voglia dire, laddove scrive, che egli move il suo ragionare [...OMISSIS...] ; lasciando da parte la strana improprietà di applicare a Dio la denominazione di concreto, mentre tutta la Teologia insegna che Iddio non è un concreto. Ora se l' atto di conoscere ha un doppio concreto, ognuno che conosce un corpo dovrebbe conoscer due cose, Dio e il corpo, il che si oppone troppo al senso comune per farcelo ingozzare; poichè niuno quando conosce un corpo dice mai di conoscere Dio ed il corpo. Dipoi, se chi conosce un corpo conosce questi due oggetti, certo è che egli non li deve confondere, bensì distinguere tra loro, li deve cioè distinguer tanto quanto sono distinti in sè stessi; e poichè sono distinti immensamente, infinitamente, perciò nel suo supposto chi conosce un corpo dee collo stesso atto conoscere l' infinita differenza che corre tra il corpo che conosce e Iddio che pure conosce. Perocchè sarebbe un assurdo contrario all' esperienza ed al senso comune il dire che ognuno che conosce un corpo, conosce Iddio e il corpo in modo che faccia di questi due oggetti un pasticcio, prendendoli per un solo oggetto. E pure il Gioberti nel luogo citato, in cui prende a separare il suo sistema dal panteismo, parla di un oggetto solo, nel quale distingue la materia dalla forma. Ma o convien dire, che il corpo non sia mai oggetto del conoscimento dell' uomo, ma solo Iddio anche quando l' uomo crede conoscere un corpo, il che è marcio panteismo; o convien dire, che chi conosce un corpo, conosce solamente un corpo e non Dio, conosce la materia delle forze finite sotto una sua propria forma e non più, il che si oppone a quanto insegna il Gioberti; o finalmente convien dire, che conosce bensì Iddio e il corpo, ma di questi due oggetti ne fa un solo oggetto, il che, a detta dello stesso Gioberti, è quello che di nuovo i panteisti fanno, [...OMISSIS...] . Notate, miei signori, che questa nostra argomentazione non ha già bisogno di cercare come si conosca il corpo, limitandosi a cercar solo se il corpo, ossia la materia delle forze finite si conosca sì o no; e se si conosce sola, o con Dio, in modo che Dio sia l' oggetto del conoscere; e conoscendosi insieme con Dio, se si distingua o si confonda con esso Dio. Osservate ancora che il Gioberti dice che l' Idea, cioè Dio, riluce nella materia delle forze finite. Ora come possiamo noi sapere che vi riluca, se non supponendo di conoscer la materia delle forze finite, dove l' Idea, cioè Dio, riluce? Converrebbe dunque supporre che noi vedessimo e conoscessimo Dio vedendo e conoscendo le forze finite dove egli riluce; e in tal caso la materia delle forze finite sarebbe l' oggetto precedente del nostro conoscere e il contenente; e Iddio, ossia l' Idea sarebbe l' oggetto susseguente e il contenuto. La materia dunque delle forze finite si conoscerebbe per sè stessa, e Iddio, ossia l' idea giobertiana, per via della materia! Assurdo che il Gioberti sicuramente rifiuta, benchè implicitamente il pronunci. Ma dopo aver veduto che, secondo la giobertiana dottrina, quando l' uomo conosce un corpo dovrebbe conoscer due oggetti immensamente distinti e inconfondibili tra loro, e quali e quanti assurdi da ciò derivino; vediamo anche il come voglia il Gioberti che si conosca la materia delle forze finite che egli fa sinonimo alla sostanza delle cose create . Udiamolo attentamente. [...OMISSIS...] . Queste ultime parole escludono, miei signori, la volontà di esser panteista: ma la dichiarazione di non esser panteista, (la quale è frequente nel Gioberti, e però noi non attribuiremo mai un tale errore alla sua persona) esclude ella altresì il panteismo che si trova nelle parole precedenti? Certo presso i veri panteisti la dichiarazione di non esser panteista non val nulla, perchè sono di quelle frasi magnifiche e menzognere, che essi talora adoperano, e dalle quali il Gioberti già ci mise in gran guardia. In fatti abbiamo veduto che l' oggetto scientifico, quando si tratta di conoscere oggetti finiti, è composto, secondo lo stesso Gioberti, di materia e di forma; e che la forma è l' idea la quale è Dio stesso. Iddio dunque, secondo quest' autore, viene in composizione colla materia corporea, ed insieme con essa costituisce l' oggetto del sapere; ma s' udì mai che Iddio possa venire in composizione con cos' alcuna, e in composizione sì stretta da formare un solo oggetto scientifico, un composto di materia e di forma, di cui Iddio sia la forma? All' incontro, basta conoscere i primi elementi della Teologia per sapere che Iddio è purissimo e tale che non si può mescolare con cosa alcuna fino a formare con essa un solo oggetto. Nè vale già il dire, qui si tratta d' oggetto scientifico, e non d' oggetto reale, perocchè il Gioberti esclude affatto questa ritirata, sostenendo che l' ordine che hanno le cose nella mente è quello stesso nè più nè meno che esse hanno al di fuori della mente; e al professor Tarditi fa colpa dell' aver distinti col Rosmini questi due ordini, e assegnate le lor proprie leggi a ciascuno. E qui notate, o cari signori, che questo principio che l' ordine delle cose nella mente sia quello stesso dell' ordine delle cose fuori della mente, fu sempre graditissimo ai panteisti tutti, siccome quello che mirabilmente giova al loro sistema. Nè sarà inutile raffrontare a questo proposito la maniera di pensare dello Spinosa con quella di Vincenzo Gioberti, il che farò colle parole di un recente storico della Filosofia che così espone il pensiero dello Spinosa: [...OMISSIS...] Io lascio riflettere a voi stessi sull' eco che di questa dottrina voi trovate nel Gioberti. Il quale anche nel passo ultimamente di lui citato ripete che [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire che quando il pensiero pensa la materia creata (notate bene, la materia e non più la forma), pensa Dio stesso. Ed avvertite la ragione che egli dà di questa sentenza, perchè dice, « « la materia creata non si può disgiungere dall' azione creatrice » ». La qual ragione acciocchè sia efficace a provare l' assunto, dee voler dire che la materia creata è così congiunta coll' azione creatrice che forma con essa una cosa sola pensabile; perocchè se non formasse con essa una cosa sola, non potrebbe giammai formare un solo ed unico oggetto del sapere, come vuol provare il nostro filosofo. Che se la materia creata forma una cosa sola coll' azione creatrice, in modo da costituire un solo ed unico oggetto del sapere, forz' è che la materia creata formi una cosa sola con Dio, perocchè l' azione creatrice è Dio stesso, e d' altra parte Dio appunto, a detta del Gioberti, è l' oggetto immediato ed universale del sapere. Se dunque la materia creata e Dio sono una cosa sola, e tale che non si possono pensare divisi come due oggetti (se non solo forse per quell' astrazione che succede al primo intuito, e che, secondo il Gioberti, divide anche l' indivisibile), varrà egli punto a fare, che un tal sistema non sia manifestissimo panteismo, la dichiarazione aggiunta che anche rispetto alla materia creata « « l' oggetto scientifico è Iddio stesso, non come identico alle sue fatture, ma come causa creante e immanente di esse »? » O non converrà piuttosto conciliare questa dichiarazione con quel che precede? Perocchè una tale dichiarazione è infatti conciliabile, miei signori, colla dottrina precedente, avendo ella un senso che può star bene nella bocca di qualunque compiuto panteista ed emanatista. Poichè l' emanatista è già panteista facendo che Iddio e le creature sieno della stessa sostanza, senza che tuttavia egli dica che Iddio sia identico colla sua fattura, che anzi egli distingue benissimo l' emanante dall' emanato. Ma il sistema giobertiano, stando alle sue frasi, è un panteismo ancora più solenne e più compiuto. Perocchè l' emanatista fa, è vero, che la sostanza di Dio sia quella stessa delle sue fatture, ma alla fine, lungi dal fare che Dio emanante e le sue fatture emanate sieno lo stesso oggetto, ne fa due oggetti distinti; quando all' incontro il signor Gioberti dice che questo è impossibile, e che non possono essere che un oggetto solo, benchè poscia la sopravveniente astrazione li distingua. Onde se per l' emanatista, Iddio e le sue fatture non sono identiche, perchè formano due oggetti realmente distinti, benchè d' una stessa sostanza; pel signor Gioberti Iddio e le sue fatture (quantunque formino un solo e medesimo oggetto del pensiero) non sono identici, unicamente perchè l' astrazione poi distinguendoli toglie loro l' identità, e così ci mette una semplice distinzione di ragione. Di che conchiude il Gioberti con quella frase che adopera spesso anche lo Spinosa, cioè che « « Iddio è causa creante e immanente di esse » », perchè forma con esse un oggetto solo, nel quale poi la nostra astrazione distingue causa ed effetto; ma come il signor gioberti concepisca la causalità e la creazione, senza che punto nè poco rechino offesa al suo panteismo, noi lo vedremo meglio fra poco. Facciamo ora un passo indietro e supponiamo che noi non leggessimo nelle opere del signor Gioberti che [...OMISSIS...] . Supponiamo che egli si ristringesse a dire che Iddio è l' oggetto del sapere solamente in quanto alla sola forma. Che ne avremo, o signori? avremo evitato con ciò il panteismo, o supponendo che sì, avremo evitato ogni altro errore, avremo una filosofia veramente sana? Vediamolo. a) Primieramente quand' anco si trattasse d' idee nel senso in cui solitamente le intendono i filosofi, e non nel senso giobertiano, secondo il quale la stessa realità è in esse e propria di esse, ditemi, o signori, parrebbe egli a voi che si potesse riputare una proposizione del tutto ortodossa questa, che « « le idee delle cose finite sieno Dio stesso » »? Io non so, a dir vero, se si possa asserire ch' essa sia stata precisamente condannata dalla Chiesa in Wicleffo (1), ma certo a me sembra manifestamente erronea, giacchè nè in ciascuna nè in tutte insieme tali idee si può trovare quello che è necessario all' essenza divina, nè per fermo si potrà mai dire, che l' intuire tali idee così moltiplici e limitate siccome sono, sia intuire Dio stesso. b) Di poi, quanto non s' accresce l' errore se si considera, che pel Gioberti l' idee sono reali, e non contengono la sola possibilità delle cose, che anzi questa possibilità, secondo lui, è soggettiva, cioè prodotta dalla riflessione ed astrazione dell' uomo, che la distacca dirò così dall' idea nella sua concretezza? Con questo dogma filosofico il panteismo ideologico di Wicleffo diviene di più un panteismo materiale ed assoluto. c) Finalmente e a conferma appunto di questo, si consideri che se fosse altramente, secondo la dottrina del Gioberti, cioè se quando conosciamo un corpo, l' oggetto del nostro conoscere fosse bensì composto di forma e di materia, ma la sola forma fosse Dio; resterebbe a domandarsi, se il detto oggetto del conoscere sia realmente solubile in due oggetti, ovvero rimanga un oggetto solo. Poichè se rimane un oggetto solo, siamo da capo. E questo conferma veramente il Gioberti quando dice che [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la forma cioè Dio, si conjuga colla materia, cioè col corpo, e quindi costituisce con esso un solo oggetto; e in questa conjugazione, per cui Iddio diventa un oggetto solo col corpo, sta, dice il Gioberti, « la sintesi maravigliosa dell' intuito umano ». Da cui trae questo conseguente, che [...OMISSIS...] . Notate bene: dall' avere egli ammesso a principio che Iddio è l' oggetto del sapere rispetto alla forma, è venuto poi quasi come per una conseguenza indeclinabile a concedere, che quando conosciamo un corpo materiale, lo stesso Iddio sia l' oggetto scientifico anche rispetto alla materia creata; per la ragione appunto, che questa non si può disgiungere dall' azione creatrice, la quale azione è Dio stesso. E in fatti egli dovea precipitare a questo contradittorio risultato, poichè se Iddio non fosse, secondo lui, l' oggetto del conoscer nostro, anche quando il conoscer nostro ha per oggetto la materia creata, egli non avrebbe impugnato il sistema del Rosmini, che fa venire la cognizione della materia dal sentimento, e non avrebbe detto che l' oggetto dell' intuito dovea essere un reale, acciocchè in lui potessimo trovare e conoscere la realità delle cose contingenti, delle quali si parla; senza di che questa realità non sarebbe stata conoscibile. Conchiudiamo dunque questa lezione. Panteisti son quelli che, « quando dicono che Dio è l' oggetto universale del sapere, intendono sotto il nome d' oggetto la forma o idea dei dati scientifici, e la loro materia egualmente ». Ma Vincenzo Gioberti insegna, che « « non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia l' oggetto scientifico è Iddio stesso » ». La conclusione non è bisogno che la tiriamo noi, miei signori; ma viene da sè. Ripetiamo che non vogliamo attribuire la panteistica empietà all' animo del signor Gioberti, ma noi non sappiamo come purgarne il sistema. Nella precedente lezione noi abbiamo udite le giustificazioni, colle quali il signor Gioberti cerca di purgare il suo sistema dall' empietà panteistica, e, dopo esaminatele il più accuratamente che noi abbiamo saputo e imparzialmente, dovemmo convincerci ch' elle sono insufficienti. Tuttavia non dobbiamo tenercene a pieno contenti, miei signori; dobbiamo continuare nella ricerca, penetrare più addentro, considerare altri brani delle opere d' un autore, che fu letto avidamente in qualche parte di questa nostra penisola. Ciò noi dobbiamo per doppia ragione. La prima, perchè, se mai ci riesce di averne il lietissimo risultato, che il giobertiano sistema vada immune veramente da un tanto errore, noi avremmo non solo provveduto al buon nome del suo autore, ma ben anco al buon nome di tutti coloro che gli furono larghi di prontissimi ed amplissimi encomj. La seconda, che se per opposto noi avessimo il dolore di rinvenire il fatto contrario, in così rincrescevol termine dovrebbe pur confortarci il vantaggio che per avventura potrebbero ritrarre i nostri connazionali dalla nostra discussione. Imperocchè egli è troppo importante, o signori, di ben guardare e premunire questa nostra terra italiana, che per pietà e per buon senso a niuna cede di quante in potenza la vincono, all' invasione che la minaccia dei mostruosi sistemi stranieri, quali sono quelli che straziano sì crudelmente i visceri della Germania, de' quali indubitatamente il Gioberti s' industria di trapiantare almeno le frasi, se non i concetti, nel nostro suolo. Cominciamo adunque subito, se vi piace, a leggere qualche altra pagina del Gioberti, e vedere che cosa vi troviamo a sua discolpa. [...OMISSIS...] . Qui subitamente già troppe cose ci si presentano, troppe cose ci si rivelano. La prima si è, che l' idealità si dichiara separabile nell' ordine delle cose contingenti. Dunque almeno in quest' ordine può essere la idealità senza la realtà, e però non è assurda questa separazione. Si dee dunque conchiudere che almeno in quest' ordine l' ideale, benchè separato dal reale, non è più il nulla, come tante volte ci ripete il Gioberti per provare che ripugni intrinsecamente che l' ideale si separi dal reale. E se questo ideale anche separato dal reale è qualche cosa, dunque non è mica più assurdo, che Iddio nella formazione dell' uomo, gli abbia dato l' intuito dell' essere ideale, e non la percezione dell' essere reale. Non trattasi adunque che della verificazione del fatto, il quale non può argomentarsi a priori, ma accertasi colla osservazione filosofica. Dipoi, egli è assai strano l' immaginare un ordine contingente di cose, in cui l' ideale stia separato dal reale; giacchè in un ordine contingente di cose non si sa come possa avervi l' ideale; poichè in qualunque senso si prenda l' ideale, egli è pur sempre necessario, e non mai contingente. Se si prenda nel senso nostro come distinto da ogni realità, e qual semplice lume comunicato da Dio alle create intelligenze, noi abbiamo veduto che esso gode i caratteri della necessità, dell' eternità ecc.: dunque non appartiene all' ordine contingente, ma all' ordine necessario, a Dio stesso, di cui è un' attinenza. Se si prende nel senso giobertiano, nel qual senso esso è Dio stesso, molto meno può essere contingente, se non fosse nel sistema panteistico, in cui del contingente e del necessario si fa una cosa sola. Il dire dunque che l' ideale nell' ordine contingente di cose è separabile dalla realità, è in ogni modo un manifesto assurdo, sia poi un assurdo panteistico, o d' altro genere. E pure non ci dee fare meraviglia, o signori, se il Gioberti ponga nell' ordine delle cose contingenti qualche specie d' ideale . Poichè dove mai ha egli preso il suo achille contro la nostra dottrina, se non in questo principio appunto che l' idea dell' essere essendo, a detta sua, un' idea astratta, è per conseguenza subiettiva e s' immedesima col subbietto uomo che è pur contingente, di che accusa il Rosmini di psicologismo con tutte le altre brutte taccie, che ne sono la conseguenza? [...OMISSIS...] . Ma forse ad alcuno di voi sovverrà, miei signori, che in altri luoghi il medesimo Gioberti dà del divino anche alle idee astratte siccome sono le idee generiche: sovverrà che nella sua terza lettera al professor Tarditi, dopo aver pronunziato solennemente che [...OMISSIS...] . Onde aperto dichiara che egli ammette bensì un reale dotato di contingenza, ma non un ideale della stessa natura (3). Le quali cose sembrerebbero contradittorie all' aver distinto, come egli fece, l' ideale dal reale nell' ordine contingente, ed all' aver dichiarato che le idee astratte, e nominatamente quella dell' essere in universale, ch' egli fa venire dall' astrazione (al contrario del Rosmini che la mantiene innata alla mente) è un' idea subbiettiva, che s' immedesima coll' uomo soggetto contingente e finito. Ma egli v' ha pure un sistema nel quale tali proposizioni tanto opposte si conciliano ottimamente: dovremo noi, miei signori, credere che un tale sistema sia quello del signor Gioberti per cavarlo di contradizione? Ora qual è mai questo sistema? Il panteismo, o signori; non altro che il panteismo. Poichè solo in questo sistema si può cangiar di linguaggio, e dire, in qualche modo, ora che l' idea sia Dio stesso, ora che la medesima idea sia l' uomo essere contingente e finito; quando il panteista, come sapete, riguarda il contingente ed il necessario come aspetti diversi, sotto cui lo stesso essere si considera; e quello a ragion di esempio che considerato come oggetto dell' intuito chiamasi Dio, quello stesso diviso poi dalla riflessione e dall' astrazione diviene uomo, e chiamasi essere contingente e finito. Ma il Gioberti, che ha tutta la buona volontà di non esser panteista, tenta un' altra via per vedere se gli riesce di conciliarsi seco stesso con più onestà. Egli immagina dunque due enti possibili invece d' un solo, perocchè egli dice: [...OMISSIS...] . Dunque quando l' uomo pensa un ente possibile, per esempio « un cavallo possibile », egli pensa due possibili, due cavalli possibili, immensamente diversi l' uno dall' altro, perocchè l' uno dei due cavalli possibili è Dio stesso, poichè è « « il possibile eterno come pensato da Dio » », è « « l' idea divina numericamente identica » », come dice poco appresso (1); l' altro cavallo possibile è nel soggetto umano, e s' immedesima col soggetto umano, e però è l' uomo o parte dell' uomo, e tuttavia questo possibile subbiettivo, com' anco dice, è « « la pensabilità umana del pensato divino » ». Di che ne viene che l' altro possibile oggettivo debba essere « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Non voglio indugiarvi sull' assurdo che di una stessa cosa vi abbia due possibili, distinti quanto è distinto Iddio dall' uomo. Solo voglio farvi avvertire, che queste due pensabilità sono entrambi accessibili all' uomo, secondo il signor Gioberti: onde nell' uomo cade tanto « « la pensabilità divina del pensato divino » », che viene appresa dall' intuito, quanto « « la pensabilità umana del pensato divino » », che è una copia finita di quella, come dice poco appresso, e però non più un' astrazione com' avea detto innanzi. Veramente se l' uomo non è Dio, pare difficile a intendere, come gli possa appartenere « « l' idea divina numericamente identica », « il possibile eterno, come pensato da Dio » », e « « la pensabilità divina del pensato divino » ». Ma se l' uomo è Dio, in tal caso poi è difficile a concepire del pari, come gli possa appartenere « « la pensabilità umana del pensato divino » », e « « una copia finita del cavallo possibile eterno come pensato da Dio » ». Anche di questo intrico ci sembra oltre modo malagevole uscire senza ricorrere ad un sistema, che confonda insieme la natura divina e l' umana. Se il signor Gioberti ci riesce, lui fortunato! Intanto però egli ci protesta che « « il subbiettivo dell' idea non si può separare dall' obbiettivo »(2) »; il che è quanto dire, che l' umano dell' idea, non si può separare dalla medesima idea, la quale avrebbe perciò ad un tempo stesso dell' umano e del divino. Laonde egli sembra che la distinzione che il Gioberti introduce, nel passo più sopra recatovi, fra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, nel suo sistema non possa aver luogo; e questo vi si renderà anzi evidente se farete riflessione alla ragione che son per dirvi. Il signor Gioberti insegna, che « « l' idealità non è separabile dalla realità nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito » »; ma dice ancora e lo replica fino alla sazietà, che nell' oggetto dell' intuito vi è tutto lo scibile, tanto quello che riguarda le cose create, e tutto ciò che resta a fare all' uomo non è che l' opera della riflessione che analizza, e lavora ciò che nell' oggetto dell' intuito si contiene, onde anche l' ordine contingente di cose non può essere escluso dall' oggetto dell' intuito giobertiano, perchè la riflessione ve lo trova, ovvero sia lo produce in separandolo. Se dunque si dà distinzione tra l' ordine assoluto e l' ordine contingente, non può mica essere che il primo ordine sia oggetto dell' intuito e non il secondo, come viene a dire nel passo citato; ma convien dire che questa distinzione si trovi già nell' oggetto dell' intuito stesso. Ora se i due ordini, l' assoluto e il contingente, sono separabili e non confusi insieme, essi vengono necessariamente a costituire due oggetti e non un solo; poichè la loro separazione, se la si vuol riconoscere, si dee riconoscerla per una separazione massima, di maniera che sia più separato il contingente dall' assoluto, di quello che un oggetto contingente qualsiasi, p. e. un topo, da un altro oggetto contingente qualsivoglia, p. e. dal sole. Se dunque il topo ed il sole sono due oggetti distinti del conoscere umano, molto più debbon essere due oggetti distinti del conoscere l' ordine contingente di cose e l' ordine assoluto, e quindi il primo non può essere in modo alcuno forma, ed il secondo materia del medesimo oggetto. Ma se l' intuito giobertiano ha due oggetti e non un oggetto solo, e se l' uno non è forma dell' altro, come poi dice il nostro Filosofo, che quando conosciamo un corpo, l' oggetto scientifico è Dio stesso, non solo rispetto alla forma, ma anche rispetto alla materia, quando pure Iddio sarebbe non lo stesso oggetto, ma un oggetto diverso? Di più, se « « l' idealità non è separabile dalla realtà nell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito, ma solo nell' ordine contingente » », come si conosce quest' ordine contingente? O si conosce coll' idea, o senza di essa: se coll' idea, in tal caso, posciachè quest' idea per il signor Gioberti è reale ed è Dio stesso, l' ordine contingente non è più diviso dall' ordine assoluto, e supponendolo diviso si suppone ciò che nel suo sistema è contradittorio ed assurdo. Se si conosce senza l' idea, l' ordine contingente è dunque fuori dell' idea, è conoscibile per sè stesso; e quindi non è più vero che tutto si contenga anche il contingente nell' oggetto dell' intuito. Finalmente dicendo che nell' ordine contingente l' idealità è separabile dalla realtà, pare che l' ordine contingente si componga di idealità e di realità. Ma nell' idealità, secondo il signor Gioberti, si contiene già la realità, perocchè altrimenti sarebbe nulla. Dunque l' ordine contingente, secondo lui, si compone d' idealità che è insieme realità, e d' una realità che non è idealità. Dunque si compone di una idealità e di due realità. Ma nell' ordine assoluto non v' ha che una idealità e una realità inseparabili tra loro. Dunque, giusta il ragionare giobertiano, vi ha più nell' ordine contingente che nell' ordine assoluto: perocchè in questo vi è una idealità con una sola realità, e in quello una idealità con due realità, l' una delle quali è separabile! Quali imbarazzi, quali contradizioni non sono queste, miei signori? Ma portiamo pazienza, e riprendiamo le giobertiane parole. [...OMISSIS...] Io non mi fermerò qui, miei signori, ad osservare tutte le cose gratuite e false che suppongono queste parole; giacchè gratuito e falso è che l' intuito umano abbia per oggetto Iddio, il quale in tal caso sarebbe « nobis naturaliter notum », contro la dottrina di s. Tommaso «(S. I, II, 1; e III, IV, 2) »; e di tutti i principali teologi; gratuito e falso è che abbia per oggetto l' atto creativo, che nessun vide, mai quaggiù, appunto perchè « Deum nemo vidit nunquam », come disse san Giovanni «(I, 1.) », non potendosi vedere l' atto creativo senza vedere lo stesso Dio. Non sono questi ed altrettali gli errori che noi abbiamo preso a rifiutare in queste lezioni, miei signori (2); ma dobbiamo solo esaminare se, anche supposto che tutto ciò fosse vero altrettanto quant' egli è falso, una tale dottrina possa conciliarsi coi principj teologici, e specialmente se ella possa andarsene pura dal veleno panteistico. Ora il Gioberti ci accorda espressamente che Iddio non è identico alle sue creature, ma che queste sono effetto, di cui Dio è causa. Per evitare il panteismo questo non basta, miei signori; converrebbe che egli qui ci dicesse di più che la natura di Dio e la natura delle creature sono cose infinitamente distanti l' una dall' altra, che sono dunque due nature realmente diverse: converrebbe che ci dicesse ancora che queste due nature non hanno niente, niente affatto di comune tra loro, dimodochè non possano essere intese con un solo concetto; perocchè tutti i teologi cattolici e fino i Mussulmani insegnano che Iddio non cade nè in alcun genere, nè in alcuna specie. Se dunque Iddio e le creature sono nature così distinte, che non hanno nulla affatto di comune tra esse; egli è manifesto che non si possono intendere e percepire con un solo e medesimo concetto; e non possono formare un oggetto solo dell' intuito. E` dunque necessario per non cadere nel panteismo il supporre che due pensieri, e non un solo pensiero, sia quello che ci fa conoscere cose così al tutto diverse: giacchè due sono indubitatamente gli oggetti che quanto alla natura, non comunicano insieme in cosa alcuna. Laonde, e come mai sfuggirà il panteismo una dottrina, la quale insegna che v' ha un solo intuito nell' uomo, il cui oggetto contiene tutto lo scibile sì del necessario, come degli esseri contingenti, e che la riflessione non fa che trovarlo, e svolgerlo poscia operando su quell' oggetto? come sfuggirà il panteismo un sistema, che sostiene che quando noi conosciamo le creature materiali, p. e. un corpo, allora noi abbiamo per oggetto Dio stesso? e ciò non solo per rispetto alla forma, ma ben anco alla materia? Il Gioberti dice « « perchè Iddio è causa creante e immanente delle cose » »: ma e che per questo? Noi gli rispondiamo, o la causa si identifica coll' effetto, ed allora accordiamo, che percependo l' effetto si percepisce necessariamente la causa, e viceversa; o la causa non s' identifica coll' effetto, come il Gioberti dice espressamente, e come diciam noi, anzi è una natura intieramente diversa da quella dell' effetto e non ha niente di comune con esso, ed in tal caso come può essere che la causa, che nel caso nostro è Dio, formi un oggetto solo del conoscere umano col suo effetto, che sono le creature, e sottostia ad un solo concetto, siccome pure viene a dire il Gioberti, quando pretende che Iddio sia l' oggetto di tutte le nostre cognizioni? non si potrà forse conoscere una natura, che è causa, senza conoscere un' altra natura tutta diversa da lei, che è l' effetto non necessario, ma libero di quella? Ma il nostro autore soggiunge: queste due cose, Iddio e la creatura, sono congiunte mediante l' atto creatore. E che perciò? non restano esse tuttavia così distinte e così separate, che v' ha un infinito di mezzo? non rimangonsi nature così dissimili, che non convengono in cosa alcuna nè speciale, nè generale (1), se non fosse nel nudo concetto dell' esistenza? Ma voi non potete vedere l' atto creatore senza vedere la creatura prodotta. Sebbene l' affermare che l' uomo veda l' atto creatore in questa vita sia piuttosto un sogno o un delirio, che una sentenza filosofica o teologica, tuttavia giacchè abbiamo detto di non volere impugnare per ora questa stranezza, anzi di voler supporla, così rispondiamo a tale istanza: l' atto creatore si distingue egli dall' essenza di Dio? no certamente, ma quell' atto è la stessa essenza divina, perchè Iddio è un atto solo con cui è e con cui opera. Dunque coll' introdurre l' atto creatore non si può spiegare la percezione delle cose create, p. e. dei corpi, meglio che coll' introdurre l' essenza divina. Se questa è un oggetto del conoscere umano diverso al tutto da un corpo che l' uomo percepisce, si ha una natura diversa, una natura e un oggetto che non ha niente di comune col corpo; dunque nè pur nell' atto creatore si possono trovare i corpi stessi reali, e percepirveli . Il Gioberti, egli pure dice in qualche luogo, che le creature sono il termine estrinseco dell' atto creatore, e non il termine intrinseco e consostanziale. Dunque nell' interno dell' atto creatore, cioè in Dio, non vi sono i corpi reali, non v' è il contingente, non v' ha la materia creata, in questo senso che sono appunto quello che sono in quanto da Dio si distinguono. Or come, se la cosa è così, può dire il nostro eloquente scrittore, che quando conosciamo un corpo, Iddio è l' oggetto del nostro conoscimento, e non solo quanto alla forma, ma ben anco quanto alla materia creata? O bisogna abbandonare questo sistema, o non disdire e negare il panteismo, ma anzi ammetterlo: poichè il fare altrimenti è un tagliarsi per mezzo colle proprie mani. Ma pure le cose create sono in Dio, e però in Dio si possono vedere; e le vedono in Dio i celesti comprensori. - Io non so se io debba far parlare il Gioberti con sì poco senno teologico; ma mi permetto di farlo, o signori, a suo vantaggio; cercando cioè di non trapassare niuna delle ragioni apparenti, che potessero scusare i suoi gravissimi errori. E di vero, se così ci replicasse il Gioberti, noi gli diremmo, che consultando i teologi, gli sarà facilissimo impararvi, che le cose create sono bensì in Dio, come nel loro esemplare e nella loro causa, [...OMISSIS...] , per usare l' espressione di s. Tommaso «(S. I, III, VIII) »; ma non sono mica in Dio nè quanto alla loro forma, nè quanto alla loro sostanza materiale, [...OMISSIS...] . Ora di che cosa trattiam noi? forse di avere solamente l' idea del corpo, che è quanto dire di conoscere il corpo nella sua possibilità? Non ci ha dubbio che l' idea di corpo c' è in Dio in qualche modo: in un modo, dico, che resterebbe ancora a spiegare, perchè l' idea de' corpi non è in Dio, come in noi, distinta realmente dalle altre idee, ma compresa in un lume solo; che l' unica cosa che v' ha in Dio di realmente distinto sono le persone, e il porre altra distinzione reale si oppone, come sapete, alla cattolica fede. Onde non essendo l' idea che è in noi di un corpo, quell' idea stessa che è in Dio del corpo, non si può dire senza errore che noi vediamo l' idea in Dio; perocchè quando ciò fosse, vedremmo l' idea del corpo con tutte l' altre idee contenute in una idea sola, o per dir meglio nel Verbo, come le vedono i comprensori celesti, al che ripugna il fatto del nostro modo di conoscere per via d' idee molte e distinte. Ma benchè questo solo argomento, dove fosse svolto secondo i principj della cattolica teologia, basterebbe a rovesciare l' ipotesi giobertiana, ed eziandio la meno ardita di Malebranche; tuttavia, anche accordatogli quello che non è, che vedessimo in Dio l' idea del corpo, niente avrebbe egli ancora guadagnato; chè il nostro discorso non è mica v“lto a spiegare l' idea del corpo, ma è v“lto a spiegare la percezione intellettiva d' un corpo, colla quale noi percepiamo e conosciamo non la possibilità del corpo, ma la sua stessa realità; questo corpo che è qui, ora; la sua materia, la quale in Dio non si trova, che anzi ella ha questo per essenza, d' esser fuori di Dio; nè si potrebbe metterla in Dio senza divinizzarla, e materializzare Iddio, e quindi essere panteista e spinosista. Ancora, trattiamo noi forse di spiegare come conosciamo la causa del corpo, o il corpo in quanto è nella sua causa, cioè in Dio? Neppur questo, poichè, per dirlo di nuovo, trattasi di spiegare unicamente come noi percepiamo la stessa sostanza materiale del corpo, e come noi stessi veniamo in comunicazione con questa sostanza. Ora il corpo, in quanto è sostanza materiale, non si trova in Dio, nè nell' atto creativo che è Dio stesso; ma è tutto fuori di Dio, e fuori dell' atto creativo che il fa esistere. Egli è vero che in Dio vi è la virtù che fa sussistere il corpo, perchè è causa creante ed immanente; ma da ciò non ne viene altra conseguenza se non questa, che qualora fosse vero che noi conoscessimo Dio, sarebbe vero che noi percepiremmo la causa, e conosceremmo l' effetto, cioè il corpo, ma non lo percepiremmo già nell' essere suo proprio materiale, come in fatto lo percepiamo, ed è questo fatto della percezione della corporea e materiale sostanza, per dirlo di nuovo, che noi dobbiamo e vogliamo spiegare in Filosofia. Onde o convien dire che noi non percepiamo la sostanza materiale de' corpi, il che sarebbe un negare il fatto più manifesto, ed il Gioberti stesso nol nega parlando anch' egli di sostanza contingente e di materia; ovvero, volendo sostenere che noi percepiamo il corpo nel suo essere proprio e materiale in Dio, che si suppone oggetto dell' intuito, non vi ha più riparo alcuno alla panteistica assurdità; giacchè è giocoforza che collochiamo in Dio la stessa sostanza e materia corporea; e poichè tutto ciò che è in Dio è Dio; forz' è che concludiamo che Dio è corpo, o che il corpo è Dio; ciò che viene al medesimo. Riassumiamo, o signori, quest' argomento evidentissimo. Noi non possiamo percepire in Dio, o nell' atto creatore, che è pur Dio, ciò che non vi è. Ma il corpo, e niuna delle cose contingenti, in quanto hanno un loro essere proprio reale, contingente e materiale, non sono in Dio. Dunque, quand' anco fosse vero altrettanto quanto è falso, che noi vedessimo Iddio, potremmo conoscere perfettamente, ma non potremmo percepire la materiale sostanza dei corpi, nè alcuna creatura nel suo essere proprio e contingente, se non avessimo il sentimento, e nel sentimento non ne ricevessimo l' azione. Convien dunque confessare, che col ricorrere all' intuito di Dio e dell' atto creatore, non si può spiegar la percezione delle sostanze create, e specialmente delle materiali, e questo è rinunziare al giobertiano sistema; ovvero conviene ammettere tutto quant' è lungo e largo e goffo e grosso il panteismo. A voi, miei signori, la scelta, che non vi è certamente difficile a fare. Ma e i celesti comprensori non percepiscono forse in Dio le cose create? A questa dimanda, che niuno perito nella scienza teologica farebbe mai, rispondo di no: posciachè mi parlate di percepire, e non di conoscere semplicemente. In Dio, nè nel suo atto creatore, che è Dio medesimo, essi non possono percepire ciò che non vi è; e non vi è, come dicemmo, la creatura nell' essere suo proprio formale, sostanziale, materiale. Dunque ivi non possono percepire e non percepiscono punto nè poco le creature. Essi ve le conoscono bensì, ve le conoscono cioè non tutte, ma solo quelle che Iddio vuol loro rivelare; ma non ve le conoscono per via di percezione come le conosciamo noi al presente; benchè è da credersi che neppure ad essi sia tolta la percezione delle creature nel loro essere proprio fuori di Dio; ma questa loro percezione non l' hanno nella visione di Dio, perchè quivi non possono averla, ma per quella comunicazione naturale che ancor conservano colle creature stesse. Essi vedono in Dio le cose contingenti quante Iddio ne vuol loro dimostrare, come nel loro esemplare, cioè nella loro idea, e questa idea fa loro conoscere la possibilità di esse. Ci vedono ancora le cose come nella loro causa creante, e quindi ben intendono che sussistono e come sussistono, e le conoscono meglio che non le conosciamo noi colla percezione; ma in altro modo, perchè non le percepiscono in sè stesse. Nè l' uno nè l' altro di questi due modi di conoscere è percepire le cose; e perciò quello dei celesti comprensori non è il modo del conoscer nostro sperimentale, non è quello che noi trattiamo di spiegare, e per ispiegare il quale noi ricorriamo col Rosmini al sentimento, e all' essere ideale; laddove il Gioberti ricorre all' intuito di Dio e dell' atto creativo. Vero è che noi abbiamo anche un altro modo di conoscere le cose, ed è quello di conoscerle nella loro possibilità. Ma neppur questo modo si può spiegare, come abbiamo accennato, ricorrendo all' intuito di Dio, per l' argomento fatto di sopra, che possiamo riassumere così. In Dio non vi hanno concetti in senso proprio, l' uno realmente distinto dall' altro, ma vi ha un solo ed unico Verbo, che è figura della sostanza; e insieme esemplare delle cose, pel quale tutte le contingenti si creano, e si distinguono e sono da Dio perfettamente conosciute. Ma noi vediamo le cose possibili con altrettanti concetti determinati dalle nostre percezioni, ciascuna delle quali è realmente diversa dall' altra, e non già pronunciandole con un solo e medesimo verbo, come faremmo se le vedessimo nell' unica percezione del Verbo divino. Dunque qualunque via si prenda a spiegare l' origine di questi concetti così distinti, o si ricorra ai sentimenti e alle loro vestigia, come facciamo noi, o si abbracci un altro sistema; non sarà mai vero che i detti concetti sieno un solo pronunciato, come dovrebbe essere se li conoscessimo a quel modo come sono conoscibili in Dio. Dunque noi non vediamo la possibilità delle cose in Dio, e quindi non vediamo Iddio, come pretende il Filosofo nostro. Rimane il terzo modo di cognizione per via di causa. Di questo noi uomini, nel mondo presente, ne siamo privi del tutto: noi non sappiamo come le cose sieno in Dio eminenter: questo lo sanno solo i comprensori celesti. E facilmente si prova in questo modo. Ciò che si conosce per via di causa, o è nella causa o fuori di essa. Se è nella causa, si può percepire insieme nella percezione della causa; altrimenti, non essendo nella causa, si deve argomentare movendo dalla causa, e venendo all' effetto; e questo sarebbe un conoscere le cose indirettamente . Ma le cose create col loro essere sostanziale e materiale, come noi le conosciamo sperimentalmente, non sono in Dio loro causa, ma sono il termine dell' azione di questa causa. Dunque se noi vedessimo Iddio solo, senza avere anche la percezione immediata e diretta di esse, noi non potremmo conoscerle se non per via d' un' argomentazione dalla causa all' effetto, o, per dir meglio, dall' esistenza eminente all' esistenza propria e reale, o per ispeciale interna e positiva rivelazione. Solo se noi vedessimo l' atto di questa causa unitamente al suo termine, conosceremmo certamente questo termine, ma nè pur allora in quel modo sperimentale e diretto, nel quale lo conosciamo adesso. Certo nessuno dirà che noi conosciamo prima l' esistenza eminente delle cose in Dio, e poi l' esistenza loro propria e reale; come pure niuno dirà che noi conosciamo la sussistenza delle creature per via di argomentazione che parte dalla causa e viene all' effetto, e finalmente nessuno di buon senno dirà, io credo, che invece di percepir le cose direttamente e trattandosi de' corpi col senso, conosciamo tali cose col puro intuito dell' intelletto come termini dell' atto creativo, il quale certamente non è sensibile, se non all' intelletto: e il Gioberti stesso, sebbene dica che la conosciamo indirettamente, tuttavia altrove esclude espressissimamente questa via, perocchè egli vuole che il suo intuito sia immediato per forma, che non vi si mescoli alcuna argomentazione, che anzi per lui è l' intuito di un mero concetto . Dunque l' uomo non può conoscere le cose create per via di causa. Ma nulla ostante, si prenda ciò che si vuole, e converrà sempre rinunziare al sistema giobertiano. Se si prende che le cose si conoscano per via di causa, argomentando; si rinunzia al sistema giobertiano, che sostiene, quelle conoscersi per intuito immediato senza sillogismo, e senza giudizio alcuno di mezzo. Se si prende il partito di dire, come dice il Gioberti, che si conoscano nella causa, senza argomentazione nè giudizio, anzi come un semplice concetto che s' intuisce; allora divenendo noi manifesti panteisti, perchè mettiamo l' effetto sostanzialmente e realmente nella divina sua causa, converrà di nuovo rinunziare al giobertianismo, perchè il Gioberti dichiara di non voler essere panteista. Da qualunque via si prenda questo sistema, ne' suoi visceri è dal panteismo corroso a morte; nè le proteste in contrario, o le belle frasi nel possono guarire. Non mi fermo, o signori, a notare cent' altre inesattezze e ripugnanze nei passi citati, come il dire che « « la cosa creata rappresenta imperfettamente l' idea creante » », frase che starebbe bene solo in colui che ammettesse che dalle creature, percepite direttamente, si salisse a conoscere il Creatore, che è il viaggio contrario a quel del Gioberti; o come l' ostinarsi a chiamare Iddio Idea , ed alla frase consacrata e al tutto dogmatica « il Verbo umanato »affettare con profano ardire di sostituire continuamente quella d' « idea umanata »; neologismi temerarj e gravidi di perniciosissime conseguenze, e tant' altre che il tempo mi vieta di riferire. Ma io non posso nulladimeno abbandonare ancora l' argomento troppo fecondo, senza chiamarvi ad altre importanti considerazioni, le quali io mi riserbo ad esporvi in un' altra lezione. Noi raccogliemmo, o signori, nelle lezioni precedenti tutte le giustificazioni, di cui il signor Gioberti riputò bisognevole il suo sistema per nettarlo dalla taccia di panteismo, e non omettemmo industria affine di trovarci dentro qualche valore; ma sgraziatamente ne riuscì il risultamento contrario, poichè le sue scuse e le sue giustificazioni stesse misero in più aperta luce la increscevole verità che quel sistema ch' egli si sforza d' introdurre in Italia, è fiore di panteismo tedesco. E per vero le proposizioni tutte che egli adduce a rimuovere da sè la sentenza che lo condanna, si trovano già ammesse dai panteisti più famosi che lo precedettero. Egli ammette che Iddio sia causa, e si compiace assai di chiamarlo causa immanente del mondo; ma anche molti fra i panteisti ammisero Dio come causa del mondo, e Spinosa in particolare si compiaceva di quella espressione; e pure essi fecero il mondo della stessa sostanza di Dio (1). Egli dichiara che Iddio è l' oggetto del sapere anche quando il sapere ha per oggetto le cose contingenti, poniamo, i corpi: [...OMISSIS...] . Ora sarà ben difficile il trovare dei panteisti, i quali dicano Iddio identico a ciò ch' egli produce colla sua propria sostanza. Egli confessa che Iddio è causa libera; ma chi non sa che questo fu detto anche da' più spacciati panteisti (2)? e che gli stessi teologi più rispettabili dissero che Dio fa liberamente tutto quello che fa, anche le stesse operazioni interiori, come la generazione del Verbo e la processione del Santo Spirito? Perocchè prendono la parola liberamente per indicare un' azione spontanea non legata, non determinata da alcun principio straniero a Dio (3); onde ancora il dire Iddio causa libera senza spiegare di più, non giustifica dal panteismo un autore che in tanti luoghi sembra professarlo col suo sistema, benchè continuamente, e quasi con soverchia solennità, dichiari d' esserne inimicissimo. Ma acciocchè voi abbiate qualche documento storico sotto gli occhi, dove vediate aperto come i panteisti abbiano sempre accozzate insieme, parlando di Dio, le proposizioni più contraddittorie nell' apparenza, alla guisa dell' autore che esaminiamo, permettete ch' io vi accenni il panteismo stoico, e che vi legga un passo dello stoico Seneca, che il professava. Questi, nel libro II, cap. 45, « Delle naturali questioni », così prende a parlare di Dio: [...OMISSIS...] . Voi vedete già in queste parole che Giove, cioè il sommo Dio, qui si riconosce 1 per custode e rettore dell' universo: 2 qual animo e spirito; 3 qual signore e fabbricatore della natura. Dunque Iddio non si fa già identico con ciò che egli produce, regge e governa: lo si fa artefice, e perciò causa del mondo, e lo si fa causa spirituale e intelligente a cui compete lo scegliere, il deliberare, l' esser libero. Con tutto ciò udite in che modo continua lo stoico panteista dopo aver detto che a Giove compete ogni nome: [...OMISSIS...] . Qui già Iddio è convertito nel fato, al quale lo stesso filosofo poco prima aveva attribuito la necessità scrivendo: [...OMISSIS...] . E tuttavia chiama Iddio « causa caussarum », che è veramente un renderlo creatore, come quello che produce non già solo gli atti delle cause seconde, ma le stesse cause seconde. Andiamo avanti: [...OMISSIS...] . Qui non è una necessità cieca, ma una mente guidata dal consiglio e dalla sapienza, ed è ancora distinto dal mondo. Procediamo a quel che viene: [...OMISSIS...] . Eccoci arrivati allo scioglimento: ecco dove finiscono le magnifiche frasi dei panteisti. Sì, Iddio è creatore, libero artefice dell' universo, non identico colle sue fatture, la causa delle cause, il rettore e il signore di tutte le cose; ma insieme egli è anche la necessità di tutte le cose e di tutte le azioni, egli è la natura, egli è l' universo: [...OMISSIS...] . Simili esempj di panteisti i quali uniscono, parlando di Dio, le frasi più vere e le più erronee ad un tempo, sono comuni. Acciò che dunque il signor Gioberti avesse legittimamente purgato il suo sistema dal panteismo, di cui teme egli stesso possa venire accusato, conveniva che oltre quelle magnifiche sue frasi intorno a Dio, non avesse poi aggiunte quell' altre che panteista il potrebbero dimostrare, come, poniamo, quella che « « Iddio è l' oggetto immediato ed universale del sapere, e non solo rispetto alla forma di esso sapere, ma ben anco alla materia » »; e l' altre da noi ripassate nella lezione precedente e moltissime più efficaci ancora che non abbiamo avuto il tempo d' indicare. Or qui, miei signori, ditemi per puro amore del vero, vi par egli che un tale scrittore sia giudice competente, quando, sedendo a scranna, toglie ad imporre accusa e a pronunciar sentenza recisa di panteista a questo e a quel filosofo, che non ebbe mai alcuna simile taccia? O vi credete voi che questo suo zelo possa parere al pubblico del tutto netto e sincero? Il zelo puro e sincero suol avere per sua guida la discrezione e la verità, nè suole eccedere in esagerazioni manifeste. Ora vi par egli che sia savia e discreta quella smania che ha il signor Gioberti di trovare il panteismo per tutto, dicendo che [...OMISSIS...] ? Non si può dunque più errare senza essere panteista? Non ha questo l' aspetto di un zelo eccessivo e del tutto esagerato? Non lascia egli dubitare che, colle migliori intenzioni, il signor Gioberti vada illudendo se stesso? Quando specialmente si considera, che al Panteismo contrappone come unico sistema vero il suo proprio sistema, dandogli l' appellazione di Ontoteismo, che non sembra il miglior vocabolo per designare un sistema affatto immune da ogni parentela con quel brutto errore del panteismo (2)? Perocchè egli pare che la parola Ontoteismo, che viene da Ente e Dio, sarebbe acconciamente adoperata a significare il sistema che fa Dio di ogni ente, ossia che fa ogni ente sia Dio. Onde quella denominazione che cangia il nome e lascia la cosa, potendosi Ontoteismo prendere appunto siccome sinonimo di Panteismo, sembra tanto più inopportuna, che le cose già da noi considerate nelle precedenti lezioni dimostrano pur troppo, che il signor Gioberti rassomiglia in qualche modo a colui che affaticasi a gittar acqua in casa d' altri, dove non è alcun fuoco, mentre arde tutta la propria. Al che dimostrare maggiormente non ci vien meno, o signori, sempre nuova messe ogni qual volta apriamo i suoi libri dovecchessia. Io credo non dovervi rincrescere che noi spendiamo ancora qualche tempo a considerare alcuni brani tra i molti di questo Autore, affine di assicurarci via più che non pronunciamo leggiermente sì grave sentenza sulla natura del suo sistema nel tempo stesso che rispettiamo senza limite le sue intenzioni. Nell' opera degli « Errori » alla terza lettera diretta, come tutte le altre, al prof. Tarditi, fac. .2, egli scrive così: [...OMISSIS...] . Meritano bene la nostra attenzione, o signori, queste parole, poichè, anche prescindendo dalla questione del panteismo, esse ci accordano più cose che prima ci sembrava negare. Esse ci accordano prima di tutto il fatto capitale da cui movono i nostri ragionamenti, cioè che « la mente umana pensa l' ente comunissimo e generalissimo ». Non è dunque assurdo, miei signori, pensare quest' ente, come sembra che voglia fare credere in altri luoghi il signor Gioberti; non è assurdo, e non può essere assurdo, perchè non può essere assurdo un fatto. E veramente altra è la questione dell' origine dell' essere ideale, altra la questione della natura . Altro è il domandare se noi vediamo l' essere ideale per natura, o lo caviamo per astrazione; altro il cercare se, qualunque sia la origine di quel concetto, egli ci stia dinanzi alla mente, e però sia qualche cosa, ovvero sia un mero nulla. Quando il signor Gioberti pretende che non possa essere congenito alla umana natura perchè egli è nulla, e poi ci fa sapere che l' uomo sel forma per astrazione, allora si contraddice; giacchè se è possibile che l' uomo si formi l' essere ideale per astrazione, rimane dunque possibile egualmente che sia a lui congenito, e, se più vi piace di così esprimervi, che Iddio glielo dia già bello ed astratto. Per decidere la questione dell' origine, conviene dunque aver prima ammesso che l' essere di cui si parla non sia nulla; questione che riguarda la sua natura, perchè di ciò che è nulla non si cerca l' origine. Il Gioberti confonde adunque due questioni, pugnando seco medesimo: non vuole riconoscere che l' essere ideale possa essere innato come quello che è nulla (onde accusa di nullismo il Rosmini); e poi riconosce che l' essere ideale si forma per astrazione, ammettendo così che sia qualche cosa. E perchè Iddio non potrebbe infondere ad una mente da lui creata una cognizione generica o speciale senza bisogno d' infondergli insieme quella dei reali e sussistenti individui che ad essa corrispondono? Del pari, anzi a maggior forza, niente dimostra impossibile, che il Creatore conceda all' umana creatura l' intuizione dell' essere universale, il quale si può pensare manifestamente senza bisogno di volgere contemporaneamente il pensiero alle sussistenze reali. Quante volte non si pensa un ente nella sua pura possibilità senza più? Ma quello che maggiormente dovete notare, o signori, si è, che fu già a pieno dimostrato dal Rosmini, che l' essere in universale non si può avere in modo alcuno per via d' astrazione, come vogliono i sensisti, la cui sentenza è ammessa senza esame per assioma indubitato dal Gioberti, perocchè l' astrazione non può cadere che sugli oggetti già percepiti, ed ogni percezione suppone dinanzi a sè la notizia dell' ente in universale; la quale d' altra parte sola ella basta a renderla possibile. In secondo luogo, quell' ente comunissimo ed astratto non è nessun ente particolare, è una mera astrazione pel signor Gioberti; dunque considerato come astratto non ha realità; che è quello appunto che diciam noi, essendo la realtà propria degli enti particolari. Perocchè se il signor Gioberti, dopo aver astratto l' ente comunissimo dall' ente reale, pretendesse di aver formato con questa operazione un altro ente reale, darebbe forse a ridere alla gente, e perciò noi crederemmo di fargli torto, se gli attribuissimo una simile assurdità. Vero è, che egli dice, che « « il possibile è reale come possibile »(1) », frase novissima, udendo la quale sembra, a dir vero, che egli voglia giocar di parole; che egli cioè, dopo aver distinto per via di astrazione il possibile dal reale, voglia poi allo stesso possibile astratto dare la realtà, benchè coll' astrazione gliel' abbia tolta. Il che è come dire: « Vedete il fusto di questa colonna. Astraete da esso la pietra di cui ella è formata: che cosa vi resta? Mi resta l' idea d' un fusto di colonna che contiene tutta la forma, ma che non contiene, non determina alcuna materia di cui sia composta, nè pietra, nè legno, nè metallo, nè altro. Eh! v' ingannate, soggiungesse, la vostra colonna astratta è realmente di pietra ». Si risponderebbe ad un tale dialettico: Voi volete farci travedere: come può essere di pietra quella colonna astratta, dalla quale coll' astrazione abbiam tolta via la pietra? Così appunto il Gioberti: egli ci consente che coll' astrazione si possa levare la realità dell' ente, e con ciò formarci un ente possibile, astratto, comunissimo. Ma dopo tutto ciò, ci soggiunge tuttavia: [...OMISSIS...] . Non è questo un giocar di parole? Non si muta qui il valore della parola realità? E mentre prima si prendeva in senso di ente sussistente in opposizione dell' ente meramente ideale, poscia si prende in senso di entità? Certo che l' astratto, il possibile, l' idea pura ha la sua entità, non è nulla; ma la questione non cade qui; la questione cade a sapere se il possibile, il comune, l' astratto, ha quella entità che hanno gli enti chiamati sussistenti e reali da tutto il mondo. Conviene egli a noi tener dietro a siffatti scambietti di significati dati alle parole, non degni di chi vuol filosofare? No, miei signori, onde lasciamoli pure da parte (1), e concludiamo che il Gioberti ci concede che l' ente comunissimo, ideale e possibile, possa esser diviso dal reale (dal quale per altra parte non si può prendere, perchè non può prendersi alcuna cosa dov' ella non è) senza che questo sia reale, benchè sia verissimo oggetto della mente che lo vede puro e lo contempla, e senza che sia tuttavia il nulla, che non si può vedere nè contemplare, nè dire che sia un elemento comune a tutti gli enti; e posciachè quell' oggetto della mente non è nulla, egli può anche essere ingenito; del che il Rosmini diede molti ed apertissimi argomenti, ai quali avrebbe dovuto certamente rispondere il Gioberti se volea impugnare quel sistema, ma stimò meglio dissimularli trapassandoli in sommo silenzio. Prendiamo dunque a conto queste concessioni che egli ci fa, e che sono pure il tutto nella disputa che egli move contro alla dottrina da noi seguita. Ma egli tuttavia ce ne fa un' altra non meno importante: ci concede ancora che noi diciamo bene quando affermiamo che quest' ente comunissimo non è Dio; poichè, a detta sua, tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo v' ha quella analogia e somiglianza rimota che corre tra l' infinito e il finito . Ascoltate attentamente, perchè già ci avviciniamo di nuovo alla questione del panteismo, che è il principale argomento, di cui al presente ci dobbiamo occupare. Non è già che con quelle parole il signor Gioberti esprima fedelmente la nostra opinione. Primieramente tra l' idea di Dio e l' idea dell' essere comunissimo non ci può correre quella infinita distanza che pretende il signor Gioberti, perchè finalmente elle sono due idee dello spirito umano. La distanza sta bene tra Dio e l' essere comunissimo, ma non ancora tale quale il Gioberti sembra volerla indicare. Se noi diciamo, che l' ente ideale non è Dio, non diciamo però così assolutamente, com' egli dice, che esso sia finito; anzi diciamo che egli ha un lato infinito ed un lato finito: in quanto è infinito ed universale cioè nella sua parte positiva, egli è un raggio di Dio, un lume del volto divino, come la Scrittura lo chiama, una partecipazione del lume increato, e perciò lo chiamiamo anche noi divino; in quanto poi è finito e limitato, cioè nella sua parte negativa, intanto a lui si appartiene il nome che gli dà s. Tommaso di lume creato . Ma ad ogni modo resta sempre fermo, che il Gioberti ci accorda, che l' ente ideale non è Dio, e questa è quella confessione che noi vogliamo raccogliere dalla sua bocca. Che se noi abbiamo ragionato bene dicendo che quest' ente non è Dio; ond' è poi lo strepito ch' egli mena contro questa nostra sentenza, per la quale vuole che noi urtiamo necessariamente in uno de' due infamissimi scogli del soggettivismo o del panteismo? A vederlo conviene che noi attendiamo al modo onde egli ragiona in quanto al soggettivismo, cioè a quell' errore che il Rosmini denunziò forse il primo al pubblico, e cui egli impose il nome. Egli dice così: [...OMISSIS...] . Così alla facc. .5 della citata lettera. Io non voglio già qui fermarmi, o signori, ad osservare quante cose inesatte o false si contengano in queste parole; non voglio già farvi osservare essere una mera e grossa falsità, l' affermazione sì franca, diciamolo pure, e sì audace al suo solito, che, secondo il Rosmini, « « si distingue l' essere ideale numericamente dall' idea divina » », frase che non adoperò, nè adoprerebbe mai il Rosmini, il quale non parla d' idee divine che riduce tutte al Verbo, ed ancora sostiene che l' essere in universale è essenzialmente uno, e numericamente il medesimo veduto da tutti gli uomini e da Dio stesso, ma da Dio in tutt' altro modo proprio di Dio, senza niente di negativo, perciò senza che in Dio si distingua dal suo stesso Verbo (1), distinguendosi solo rispetto all' uomo a cui è dato in modo sì limitato. Neppure mi fermerò a pregarlo che si compiaccia di darci qualche prova di quell' affermazione egualmente ardita e gratuita, [...OMISSIS...] . Perocchè se per questo soggetto conoscente egli intende l' uomo, ora perchè mai, noi gli domandiamo, dovrà egli immedesimarsi coll' uomo, a cui solo risplende come il lume agli occhi? Forse perchè è nell' uomo come oggetto del suo intuito? Per questo no, poichè, se egli adducesse questa ragione, la ragione stessa varrebbe per l' oggetto reale che egli attribuisce all' intuito, onde si darebbe della zappa in sul piè. Forse perchè, essendo ideale, dee aver per sua sede qualche mente reale? Questo non prova che s' immedesimi coll' uomo. Prova solo quello che dimostra il Rosmini, cioè che l' essere ideale dee risiedere in Dio, e immedesimarsi con Dio; benchè l' uomo non veda il come, perchè col lume naturale non vede Iddio. E questo è anzi l' argomento a priori che il Rosmini addusse dell' esistenza del Supremo Essere (1). Dove io vorrei pure poter dare al signor Gioberti almeno lode di buona fede. Ma quando considero l' abuso che egli ha fatto dell' aver detto il Rosmini che « l' ente ideale non sussiste fuor della mente », colle quali parole il Rosmini intendea d' ogni mente e umana e divina, e il Gioberti se ne prevale per far dire al Rosmini, che l' essere ideale è nulla fuori dell' uomo; mi duole non potergli neppure attribuire quella lode che agli onesti è sì cara. Procede adunque il nostro Filosofo tutto sul gratuito e sul falso. Ma non fermiamoci a ciò: in quella vece così ragioniamo. Il signor Gioberti dice, che « « un tale ideale solo nel soggetto conoscente, s' immedesima sostanzialmente con esso » »; il Rosmini all' incontro dimostra in un lungo dialogo (1) con argomenti evidenti, di cui il Gioberti non fa parola, che, quantunque l' essere ideale sia nel soggetto conoscente nel senso che è da questo soggetto intuíto, tuttavia non si confonde, nè si può giammai confondere con esso lui; che anzi è per la sua stessa essenza inalterabile ed inconfusibile, ed ha natura tanto distinta dal soggetto intuente, quant' è distinto ciò che è necessario da ciò che è contingente, e la natura dell' uno conserva opposizione alla natura dell' altro, come esprime anche l' etimologia della parola soggetto ed oggetto . Dunque il Rosmini a buon conto non cade certamente nel soggettivismo, che gl' imputa l' avversario. Dopo di ciò raccolgo un' altra confessione del signor Gioberti intorno alla maniera con cui egli concepisce « l' essere possibile, ideale, comunissimo »; raccolgo cioè essere la sua sentenza intorno alla natura di quest' essere tutto contraria alla sentenza del Rosmini, il quale sostiene che egli è per essenza oggetto; laddove il Gioberti lo fa soggettivo, e vuole che s' immedesimi col soggetto conoscente. Ritenuta questa confessione del Gioberti intorno alla natura dell' essere ideale, ritenuto che quest' essere astratto, com' egli dice, non è Dio, ma creatura, non conserva rispetto a Dio che « « quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima che corre fra l' infinito e il finito » »; io passo all' accusa di panteismo, ed esamino tosto se questa cade giustamente sul Rosmini, o ricade piuttosto in capo allo stesso Gioberti. In quanto al Rosmini, voi sapete che egli insegna che l' essere ideale è per essenza oggetto, come dicevamo, ed inconfusibile coll' uomo, che è identico, manifesto a tutti gli uomini che vissero ne' varj secoli, e nelle più disparate parti della terra, universale, eterno, immutabile ec., in somma divino da quel lato nel quale egli è infinito. Dunque dicendo il Rosmini che quest' oggetto è nella mente di Dio, ossia è in Dio, egli non confonde già le creature con Dio, e perciò non cade nel panteismo. Dice di poi che quest' essere in Dio non si trova a quel modo come si trova nell' uomo per partecipazione e da qualche parte limitato, ma si trova per essenza e illimitato da tutti i lati, e che è Dio stesso non punto nè poco diviso dalla divina natura. Ma dice di più che non ne viene da questo, che l' uomo veda la natura divina, la coscienza e la ragione dicendoci il contrario; dicendoci cioè che l' uomo vede l' essere in istato puramente ideale, il quale però non è Dio, perchè Iddio non è un' idea, ma è vera sussistenza, viva, intelligente ed intelligibile per se stessa. Laonde la limitazione colla quale è dato all' uomo l' intuito dell' essere, è tale e tanta che per essa gli si nasconde la divina sussistenza e sostanza, in modo che l' essere che rimane visibile non contiene più ciò che col nome sostantivo di Dio viene espresso. E tuttavia, aggiunge il Rosmini, che l' essere ideale qual è veduto dall' uomo suppone un primo reale, cioè una mente sussistente in cui egli si trovi come in proprio luogo, e così per via di raziocinio e non intuitivamente, dall' essere ideale argomenta all' esistenza di Dio, con argomentazione a priori efficacissima. All' incontro il Gioberti vuole che l' essere ideale sia del tutto finito, soggettivo, anzi che si immedesimi col soggetto uomo. Ora indovinate mo' dopo tutto questo, dove, secondo lui, un tal ente si trova? Quest' ente appunto si trova, secondo il Gioberti, in Dio medesimo: Iddio è l' oggetto dell' intuito giobertiano, e l' uomo coll' astrazione vi trova dentro l' ente finito, l' ente che s' immedesima coll' uomo stesso. Or questo che cosa è mai, miei signori? E` panteismo o no? Leggete che cosa egli scrive alla faccia 67 della citata lettera III. [...OMISSIS...] . Questi riverberi e queste postille delle cose impresse in nitido vetro, non farebber pensare, per osservarlo di passaggio, che le cose mandino il loro lume in Dio come nello specchio? sicchè le cose sieno il lume, e Iddio il vetro che lo riceve? Ma lasciando tali improprietà, avete udito che Iddio contiene l' idea dell' essere possibile, che, secondo il Gioberti, è l' ente finito, identico coll' uomo. Si fa dunque dell' ente finito e dell' infinito, dell' uomo e di Dio una cosa sola. Ascoltate di più come egli aveva già prima scritto nella « Introduzione, L. I, c. IV, facc. 35 »: [...OMISSIS...] . Quale eloquenza, miei signori! Egli è impossibile raffrenarne la foga coll' opporgli forse che tali cose non sono state mai dette nè da filosofi, nè da teologi cattolici. E che varrebbe infatti l' opporgli che tutti quanti i più solenni teologi della Chiesa cattolica, incominciando da s. Tommaso (e più su si potrebbe andare), dichiararono e dimostrarono fin qui, che in Dio non vi è nè generale nè particolare (1), se questo fiume d' eloquenza sdegna ed abbatte tutte le teologiche sponde? Lasciando adunque questi accessorj, cerchiamo d' intendere bene la sua mente nel principale. Ed i passi citati sono chiari. Egli dice, che l' Ente reale, cioè Iddio, è la sintesi di queste proprietà, cioè del concreto e dell' astratto, dell' individuale e del generale (già v' accorgete dell' affinità di questo parlare col sistema dell' identità assoluta dello Schelling): dice che Iddio sotto un aspetto è l' astratto, sotto un altro il concreto, sotto un aspetto è il generale, sotto l' altro è il particolare; dice bensì che tutto ciò è in modo diverso dalle creature; ma soggiunge che la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente, da cui nascono le idee riflesse. E per istare nel discorso che abbiamo cominciato, egli colloca l' ente astratto e possibile, dove si rinviene poi per via d' analisi, in Dio, anzi egli dice che Dio stesso è l' ente astratto, è il possibile considerato sotto un rispetto, dice che l' ente assoluto contiene in sè l' idea del possibile. Ma avvertite, che egli stesso altresì è quegli che dice parimente, che l' ente astratto e possibile non è Dio, non è che un' analogia e somiglianza con Dio rimota ed imperfettissima, come quella che corre tra il finito e l' infinito, e che quell' ente astratto s' immedesima coll' uomo. Dunque la conclusione parmi assai chiara; il finito, il soggettivo, il soggetto stesso umano col quale s' immedesima l' essere astratto è in Dio ed è Dio; perocchè tutto ciò che è in Dio è Dio, e la sola analisi dello spirito è la virtù creatrice che cava il finito dall' infinito, e le esistenze, cioè le creature dal creatore. E qual panteismo v' ebbe mai al mondo che non sia rifuso in questo sistema? Dunque al Gioberti si deve applicare, secondo la giusta logica, quell' argomento che egli fa sì male a proposito contro il Rosmini e contro il Tarditi, il quale è questo: [...OMISSIS...] . A questo ragionamento non si può rispondere. E di vero, risponderà forse, che quando egli disse che l' essere possibile ed astratto è finito, intendeva solo nel caso che non si ponesse in Dio, ma che esistesse solo nell' uomo, come falsamente attribuisce a noi di tenere? Non può dir questo, mentre anzi espressamente dichiara in contrario; dichiara che è proprio finito quell' essere che si vede in Dio, e che perciò è Dio: ripetiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Dice adunque che è finito quell' ente possibile appunto, che si vede in Dio, ed anzi che si crede tale perchè tale si vede in Dio. Or posciachè tutto ciò che è in Dio è Dio, dunque anche il finito, ciò che, secondo il Gioberti, è soggettivo, e che si immedesima con noi è Dio; il che se non è panteismo, per dirlo ancora, che cosa sarà, miei signori? S' accalappia dunque il nostro Filosofo ne' suoi stessi ragionamenti, e precipita nella fossa altrui preparata; il che suole esser sempre la giusta sorte riserbata all' errore. Ma v' ha ancora un barlume di speranza, miei signori, di poter salvare in qualche modo il sistema dell' ab. Gioberti dalla taccia gravissima che egli incorrerebbe, secondo i fatti ragionamenti; e questo si è che egli professa apertamente, ed estolle a cielo il dogma della creazione, anzi lo pone a segno caratteristico da cui distingue i filosofi puri di panteismo da quelli che ne vanno infetti. E veramente in ciò siamo d' accordo con lui, purchè s' intenda come l' intendono i cattolici e non come l' intendeva lo Spinosa o l' Hegel: questo dogma può essere una tessera acconcissima a ciò, perchè in qual maniera sarà panteista colui che professa, come professiamo noi tutti cattolici, miei signori, che l' università delle cose contingenti è cavata dal nulla? Perciò se gli fosse piaciuto di esser coerente a questo criterio che stabilisce per iscoprire dove giacciasi il panteismo, avrebbe dovuto incominciare dimostrando che tutti quei filosofi che egli accusa di tanto errore, negano la creazione, e che egli solo l' ammette. Ma questo è quello appunto ch' egli si dimenticava di fare. Ma or lasciando stare le accuse che egli appone altrui, non avrà almeno il signor Gioberti, magnificando il dogma della creazione, ed anzi cangiandolo in assioma filosofico (il che è andare certamente al di là dello stesso dogma), purgato interamente e pienamente il suo sistema da così brutta colpa? Questo è quello che noi ci proponiamo d' investigare, miei signori, in altra lezione. Sì, miei signori, se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente il dogma della creazione, quale è insegnato dalla fede cristiana, egli non è panteista. A malgrado di tutto ciò che abbiamo veduto di lui, noi siamo presti ad assolverlo da un tanto errore: noi diremo o che non l' abbiamo inteso, ovvero che egli non è troppo felice nello spiegare i suoi concetti, o finalmente che egli si contraddice inavvedutamente. Ma avvertite: noi pretendiamo per rimandarlo giustificato, ch' egli veramente ammetta questo dogma cristiano della creazione, e che non ci illuda con pompose parole; che lo ammetta nella sua filosofia, non nella sua credenza, sulla quale noi non moviamo alcun dubbio, nè importerebbe alla scienza. Quest' avvertenza ce la insinua egli stesso, poichè egli stesso ci ammonisce [...OMISSIS...] . E veramente se gli stoici chiamavano Iddio caussa caussarum, che è quanto farlo in un certo senso, creatore, non erano perciò meno panteisti; se lo Spinosa chiama Iddio CAUSA IMMANENTE di tutte cose, che è la frase di cui tanto si compiace il Gioberti, non era questo immune da panteismo. Convien dunque, che il Gioberti, se vuole andar netto da sì brutta macchia (parliamo sempre del sistema, non dell' uomo,) ammetta la creazione nel vero senso, nel senso cattolico, come l' ammettiamo noi. E` questa la ricerca che ci rimane a fare: a noi riman di vedere qual sia il concetto che il signor Gioberti ci dà della creazione, come ce la spieghi; giacchè egli dichiarando propriamente di vederla nell' intuito primitivo, può essere in caso di spiegarcela assai meglio d' ogni altro che non crede di vederla. Cominciamo dunque a dar mano a questa nuova ed importante ricerca. E prima osserviamo come lo stesso signor Gioberti confessi di non avere altro rifugio che il salvi dal panteismo, se non questo dogma della creazione; e confessi che tutto il resto del suo sistema sarebbe manifestamente panteistico, se non sopraggiungesse opportunamente questo dogma a sanarlo. Nella lettera XI di quelle che dirige al professor Tarditi, ci narra la storia dei suoi pensieri, parlando di se stesso in terza persona così: [...OMISSIS...] . Dal qual passo raccogliamo più cose importanti. E la più importante si è, che costruire la scienza prima coll' ente possibile del Rosmini non è già cadere nel panteismo, come in tanti altri luoghi va declamando il signor Gioberti (che che ne sia dello scetticismo che non appartiene al nostro discorso); e che all' incontro costruire l' edificio della scienza prima colla semplice nozione dell' ente reale, è appunto un cadere nel panteismo; questa confessione rileva assai, miei signori, perchè è ciò appunto che avea scritto il prof. Tarditi, dicendo che [...OMISSIS...] . Ora voi vi risovverrete pur anco, o signori, che il Gioberti, stretto allora dal bisogno di difendersi, negò francamente, che il Tarditi cogliesse nel vero [...OMISSIS...] . Ma ora all' opposto concede al prof. Tarditi senza contrasto, che costruire la scienza coll' ente reale è cadere nel panteismo, il che gli avea prima negato: noi teniamolo a conto. Di poi avete udito che egli parla di molti autori ortodossi ed eterodossi, che pongono a prima base dell' umano sapere l' ente reale , e che il loro sistema riesce al panteismo. Quali sono, secondo il Gioberti, cotesti scrittori ortodossi? Certo, sant' Agostino, s. Bonaventura, Malebranche ed altri tali. Vedete, che interpretati al modo che fa il Gioberti, tutti cotesti autori riescono macchiati di panteismo, perchè a spiegare la cognizione delle cose esistenti non sono ricorsi all' intuito della creazione. Or questo non par probabile di uomini sì illuminati, al men rispetto ai due primi. Laonde noi ci atterremo, miei signori, all' interpretazione che dà il Rosmini di sant' Agostino e di s. Bonaventura, la quale nello stesso tempo che li concilia con s. Tommaso, li salva ancora da ogni taccia di panteismo; e d' altra parte l' interpretazione del Rosmini non è tratta già dall' una o l' altra frase sfuggevole, ma dallo spirito e dal fondo di tutte le loro opere. Ma che diremo poi della pretensione, che mette fuori il signor Gioberti ad ogni piè sospinto, di avere tali autori dalla sua, se tali autori appunto, a detta di lui, sono panteisti? Convien dunque dire, stando alle confessioni dello stesso signor Gioberti, ch' egli si vanti di seguire dei panteisti; o se rinunzia a coprire il suo sistema con sì rispettabili autorità, egli si rimane del tutto solitario ed isolato nel mondo della Filosofia. Ma entriamo direttamente nel nostro argomento. E cominciamo dall' osservare che pel signor Gioberti il dogma della creazione non è solamente un articolo di fede, o un teorema filosofico, ma di più è anche un assioma . E quale assioma! Il primo di tutti gli assiomi, sul quale si fonda lo stesso principio di contraddizione, e da cui procede la forza d' ogni dimostrazione (1). Ora un assioma è una verità necessaria, e il primo di tutti gli assiomi è il più necessario di tutti, da cui deriva la necessità agli altri. Se dunque il principio di contraddizione è necessario, se è necessaria la forza con cui conchiude il sillogismo, ancor più necessario o almeno ancor prima dee esser necessario il principio o l' assioma di creazione. Abbiamo dunque una creazione necessaria, una creazione così necessaria come sono i primi principj della ragione, e d' una necessità anteriore; ma non è questa, o signori, come ben sapete la creazione cattolica, la quale non ha una necessità intrinseca e razionale, come quella che dipende dal libero ed ottimo volere di Dio. Di poi che cosa sono le esistenze o sieno le creature pel signor Gioberti? Non altro che qualche cosa che si separa da Dio per mezzo della riflessione. Vediamolo. L' oggetto dell' intuito umano è l' Ente. L' Ente è Dio. In quest' oggetto l' uomo trova ogni cosa, il contingente e il necessario, la creatura e il Creatore, perocchè l' ente è ogni cosa. Noi abbiamo veduto che tale è la dottrina del Gioberti. Richiamiamo le sue parole: [...OMISSIS...] . L' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito, possiede dunque tutto ciò che vi ha di positivo nell' astratto, nel concreto, nel generale e nel particolare, nell' individuale e nell' universale. Le creature possiedono le stesse cose, ma in altro modo, perchè il positivo è mescolato in esse col negativo, il quale non è in Dio. Alle esistenze reali, che sono le creature, appartengono, come dice poco appresso, la concretezza e l' individualità , che per altro in un modo diverso, cioè senza l' elemento negativo, si trovano in Dio. Quindi egli soggiunge che « « la concretezza e l' individualità sono il reale senza l' ente »(2) », cioè il reale diviso, separato da Dio, ammettendo che per via di riflessione e di astrazione si possa separare il reale da Dio, e così fare che esistano. Come poi si può separare da Dio il reale, così viceversa si può colle operazioni riflesse della mente separare da Dio l' astrattezza e la generalità, e così fare che esistano nello spirito umano le idee, onde dice: « « L' astrattezza e la generalità sono l' ente senza il reale » », cioè l' ente dal quale è stato separato per via d' analisi il reale. E che cosa allora ne è rimasto dell' Ente, cioè di Dio, su cui si esercitarono tali operazioni? Egli è rimasto l' ente possibile, perchè l' ente senza il reale è ente possibile, e però all' ente possibile, che altre volte ha detto essere il nulla, altre volte ha detto immedesimarsi col soggetto umano, qui dà il titolo di Ente, che è la parola solenne che egli serba a significare Iddio, e altrove dice più espressamente che è Dio. Pone dunque due separazioni che si fanno nell' Ente, cioè in Dio, mediante la riflessione: colla prima si trova la concretezza e la realtà, coll' altra si trova l' astrattezza e la generalità: [...OMISSIS...] . Fermiamoci dunque qui, e vediamo come il nostro Filosofo faccia nascere le cose create, perocchè questo ci fa conoscere qual sia il concetto che egli si è formato della creazione. Onde adunque, nascono secondo Gioberti, le cose create? Dalla concretezza e dalla generalità. E dove sono la concretezza e la generalità? Sono in Dio, il quale è [...OMISSIS...] . Ma il concreto, il particolare, l' individuale appartengono all' esistenze reali (così chiama le creature) per altro in modo diverso da quello in cui appartengono a Dio, perchè in Dio quelle nozioni sono unite coll' astratto, col generale, coll' universale; ed acciocchè nascano le creature si devono separare. Le creature dunque sono nozioni o idee che sono in Dio, ma che si devono separare dalle sue correlative, acciocchè sieno creature. Così nascono le creature. Ma se dopo separate queste, si tornano a unire colle loro nozioni corrispondenti, che sono l' astrattezza, la generalità, l' universalità, in tal caso si ricompone l' Ente, cioè Dio. L' analisi adunque e la sintesi sono quelle che fanno uscire le creature da Dio, e che le fanno poscia rientrare in Dio. Infatti egli soggiunge: [...OMISSIS...] . Tale è il concetto della creazione giobertiana. E questo concetto non ispiega solamente la creazione del mondo, cioè dell' esistenze reali, ma ben anco l' origine delle idee, come vedemmo. Perocchè a quel modo che, analizzando l' Ente, si può separare il concreto e l' individuale dall' astratto e dall' universale, e così averne belle e create le esistenze reali, simigliantemente si può separare l' astratto e l' universale dal concreto e dall' individuale, e così averne le idee riflesse, giacchè, come dice, [...OMISSIS...] . Ora ditemi, miei signori, che vi par egli di questa maniera di far nascere le esistenze reali mediante l' analisi che lo spirito fa dell' Ente, cioè di Dio, coll' uso della riflessione? Vi par egli che questo sia un ammettere il dogma della creazione? Non è molto singolare la spiegazione di questo dogma? Voi sapete che il dogma della creazione suppone un atto di Dio, e qui noi lo troviamo ridotto ad essere un' analisi che fa lo spirito dell' uomo! come viceversa troviamo che l' Ente reale, cioè Iddio, è finalmente una sintesi dello spirito stesso! Vero è che il sig. Gioberti dice, che [...OMISSIS...] . E che diremo, dunque, signori miei? Diremo forse che la creazione sia un lavoro filosofico che fa Iddio e che l' uomo ripete, e così la ragione dell' uomo sia veramente la ragione di Dio? Diremo che la creazione non sia altro che « « una rivelazione di cose » » come espressamente la chiama il nostro Filosofo (2)? E` forse questo il dogma cattolico della creazione? Dal catechismo noi abbiamo apparato che la creazione si definisce convenientemente « una produzione dal nulla ». Non crediate. Il signor Gioberti vi dichiara espressamente che questa non è che una « « metafora volgare » » (3), benchè confessi che essa è « « la produzione assoluta, che dà principio alla sostanza, non meno che alle forme potenziali ed attuali delle cose prodotte » »; ma è da vedere in che modo egli intenda avvenire questo dar principio . Noi abbiamo veduto che nel sistema che esaminiamo il Creatore è lo spirito che analizza l' oggetto dell' intuito, il quale oggetto è Dio, e vi cava il concreto ed il particolare che sono le esistenze reali, le creature: niente dunque produce dal nulla, perchè trova in Dio tutto: la concretezza stessa e l' individualità, dalle quali nascono le cose create, come pure l' astrattezza e la generalità, dalle quali nascono le idee riflesse; perocchè « « l' ente è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale in un tempo » » le creature dunque sono diverse da Dio, come le proprietà divise per analisi sono diverse dalle proprietà unite per sintesi: non v' ha qui niente di nuovo se non che è nuovo il modo col quale la riflessione umana considera lo stesso oggetto dell' intuito. A questo appartiene la sintesi primitiva che ha per oggetto Iddio, a quella appartiene l' analisi che ha per oggetto le creature, cioè certe proprietà dell' Ente divise dalle altre. Perciò egli ci dice che « « l' atto creativo immanente non è cosa sostanziale, ma modale »(1) » benchè, secondo la Teologia cristiana, la creazione in Dio è la stessa divina sostanza, e neppure nella creatura ella è cosa modale; anzi è il ricevimento del suo essere sostanziale. Ma se la creazione si fa coll' analisi e colla sintesi giobertiana, niente vieta che ella sia non più che cosa modale; conciossiachè il separare il concreto e il particolare dall' astratto e dal generale certo non importa che una mera modalità. Ma è egli forse questo quel concetto di creazione che può purgare un filosofo dalla taccia di panteismo? O piuttosto non vediamo noi che un panteista dee per necessità e coerenza col suo sistema innalzare alle stelle la bellezza e la fecondità del dogma di creazione spiegata in tal modo? E il vantare con tanta affettazione un tal dogma come cosa propria di tal filosofia, e quasi non più comune al mondo cristiano, non somiglia egli al costume di que' panteisti che cercano d' illudere il pubblico con frasi magnifiche e mensognere? Vero è che in un altro luogo dice, che « « l' esistente è sostanzialmente distinto dall' ente »(2) »: questa frase ci fa concepire un raggio di speranza, che il Gioberti riconosca che le creature e Dio non sono una sola sostanza, ma due sostanze veramente distinte; pure perchè mai esprimere un vero tanto importante così brevemente? Sarebbe ella non più che una frase magnifica? Vediamo tutto il contesto: [...OMISSIS...] . Ora se le creature insiedono in Dio, come possono essere una sostanza da lui diversa? Perocchè qui non si tratta dell' insidenza loro come in esemplare ed in causa, ma si tratta d' un' insidenza dell' essere reale e sostanziale delle creature. Certo che in Dio non vi hanno due sostanze, ma una sola. Tutto quello che è in Dio è Dio. Dire che il concreto e il particolare, da cui prima avea detto che nascono le creature, quando tali proprietà si dividono coll' analisi, esistono in Dio in un altro modo, non basta; perchè la differenza non può essere di modo, ma di sostanza, per evitare il panteismo. Ma udiamo come egli continua: [...OMISSIS...] . Che vi pare di questo linguaggio? Egli è certamente coerente a quello che avea detto prima, che togliendo in Dio coll' analisi l' astrattezza e la generalità, nascono le idee, e togliendo in lui la concretezza e la individualità nascono le creature. Ma la sostanza è ella unica, o sono più sostanze? Questo è quello che noi dobbiamo sapere. Ora noi abbiamo da una parte un sistema intero da cui risulta che la sostanza è unica; ed abbiamo dall' altra una frase sfuggevole, isolata e contradittoria che « « l' esistenza si distingue sostanzialmente dall' ente » ». Questa frase potrà esprimere la credenza dell' uomo; ma noi esaminiamo il sistema del Filosofo. D' altra parte, la frase è conciliabile col sistema, giacchè se le creature sono il concreto e il particolare che la riflessione ritrova in Dio oggetto dell' intuito, certo che esse si distinguono da Dio sostanzialmente, perchè le creature in tal supposto, lasciano a Dio tutta la sostanza e esse non sono che sue proprietà. Infatti il Gioberti dà il nome di proprietà al concreto ed all' astratto, all' individuale e al generale che ripone in Dio, là dove dice: [...OMISSIS...] . Ma consideriamo un altro luogo dello stesso Autore, acciocchè, quanto si rende più chiaro il suo pensiero, altrettanto s' allontani il pericolo che le sue frasi ci illudano. L' oggetto dell' intuito giobertiano è l' ente, cioè Dio; all' incontro l' ente possibile che s' immedesima col nostro spirito, come vedemmo, è oggetto della riflessione. Ora fra l' uno e l' altro « « v' ha quella analogia e somiglianza rimota e imperfettissima, che corre tra l' infinito e il finito, fra l' ente e l' esistente » »: sono parole del Gioberti. Questa immensa differenza nasce unicamente dalla diversa maniera colla quale lo spirito nostro vede lo stesso oggetto. Se dunque l' oggetto è lo stesso, benchè le potenze sieno diverse; se lo stesso oggetto rispetto ad una potenza è Dio, rispetto all' altra potenza è l' esistente, cioè la creatura; non avremo noi che Iddio e la creatura sono l' essere stesso, la stessa sostanza? Ora udite le parole di Vincenzo Gioberti: [...OMISSIS...] . Considerato bene tutto questo passo, molte cose, son certo, suggerirà al vostro spirito, miei signori, la penetrazione di cui siete dotati, delle quali alcune saranno forse le seguenti: 1 Il Gioberti dice che l' idea diretta e la riflessa hanno NELLA SOSTANZA un oggetto medesimo: la sostanza dunque è unica. 2 Che quest' oggetto sostanzialmente il medesimo, quest' unica sostanza, rispetto all' intuito è l' Ente, cioè Iddio; rispetto alla riflessione è l' ente finito, l' ente astratto e possibile, quale è nel nostro spirito, e s' immedesima col nostro spirito stesso; onde accagiona il Rosmini di soggettivismo, perchè da esso deduce le idee; benchè non sia vero che ne deduca le idee, ma solo la forma delle idee. Tiratene la conclusione: non solo voi, miei eruditi signori, ma ognuno che abbia fior di logica, sa tirarla. La conclusione indeclinabile, inescusabile, manifesta ed evidente si è, che dunque Iddio, e l' ente astratto, finito, soggettivo, che s' immedesima collo spirito umano, sono nella SOSTANZA il medesimo oggetto, e differiscono nel modo; perchè è la sola riflessione e astrazione dello spirito che li divide; questa è quella che fa uscir fuori le esistenze dall' Ente: ecco per dirlo di nuovo, a che si riduce la CREAZIONE GIOBERTIANA! Onde altrove egli esprime la creazione con questa frase, « « la trasformazione psicologica del reale (cioè di Dio) nel possibile » » (che secondo lui è una creatura) (2). Miei signori, non è ella forse una dolorosa, ma patente verità oggimai il dire, che questo sistema è quello nè più nè meno de' più arditi panteisti? Dopo di ciò non fa meraviglia, che il Gioberti, miei signori, sembri contradirsi, come abbiam veduto che soglion pur fare tutti i panteisti, e di più non è meraviglia, che esca in declamazioni contro i panteisti che lo precedettero (anzi ella è cosa naturale), secondo i quali [...OMISSIS...] . Ma dopo avere dato tali e somiglianti sgarrate, quasi scudo messo avanti a protezione di sua dottrina, egli ritorna a sè medesimo, e vi dice netto, che, come [...OMISSIS...] . Vi dice ancora, siccome udiste, che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo l' Ente, cioè Iddio, è divenuto quell' idea che dà luogo alla psicologia, quell' idea che spiegò già il Gioberti nel luogo sopracitato, dove disse, che è un' idea che s' immedesima collo spirito umano, onde anzi dà nome ed accusa di soggettivisti e psicologisti a quanti muovono da quest' idea separandola dalla sussistenza. Perocchè non è già l' Ente come sussistente che dà luogo alla psicologia, ma l' Ente come intelligibile, che è quanto dire come quello onde fu astratta la sussistenza, il quale, secondo lui, s' immedesima col soggetto, coll' uomo. Ancora, dopo averci detto, che la sola dovizia reale delle scienze è quella che consiste nel concreto, egli ci soggiunge che il concreto della Filosofia [...OMISSIS...] . Il che vi prego di raffrontare con ciò che avea scritto nell' « Introduzione », «L. I, p. I, f. 23 ». [...OMISSIS...] , ed è perciò ch' egli vuole che nell' oggetto del suo intuito vi sia anche il sensibile, il che è perfettamente conseguente a tutto il resto, perchè anche la materia sensibile è una esistenza. Ma posciachè voi avete udito pure testè di che il Gioberti accusa i panteisti, cioè di volere che Iddio sia, a rigor di termini, non già il centro universale, ma lo stesso circolo; giova che noi vediamo d' intendere a fondo quale sia la distinzione che il Gioberti pone fra il centro universale che è Dio, e il circolo che sono le cose create. Parlando dunque egli dell' idea e del reale, li considera meramente come due rispetti, sotto cui si riguarda la cosa stessa, la stessa sostanza; protestando di dividerli appunto come si divide coll' astrazione il centro d' un circolo dalla sua periferia. Ora udite, che divisione sia questa, e se basti a dividere le creature dal Creatore in modo da non cadere nel panteismo. [...OMISSIS...] . Se dunque i panteisti errano col dire che Iddio è tutto il cerchio, mentre non ne è che il centro universale; voi avete inteso, miei signori, rimedio che apporta a tant' errore il nostro Gioberti. Egli ci fa osservare che il centro non istà senza il circolo, nè il circolo senza il centro, che il circolo ha due rispetti, l' uno de' quali è il centro, e l' altro è la periferia, i quali non si possono dividere nè realmente, nè scientificamente; ma solo astrattamente, cioè con quell' astrazione che distingue mentalmente le cose più indivisibili. Ora se Iddio è il centro, secondo il Gioberti, e se secondo i panteisti, Iddio è tutto il circolo, che avremo a dire se non: poveri panteisti, che non hanno saputo dividere Iddio coll' astrazione dal resto delle cose, benchè sia indivisibile, come il centro è indivisibile dalla periferia! Povera gente, a cui non è riuscito di trovare quest' accorta distinzione suggerita da Vincenzo Gioberti, per la quale si fa vista di distinguere Iddio da tutto il resto; ma s' aggiunge la dichiarazione, che ella non è già una distinzione nè reale nè scientifica; ma una distinzione di mera astrazione, la quale fa considerare l' Ente sotto due rispetti diversi, l' uno dei quali è Dio, Idea, e l' altro è la realità in tutta l' estensione del termine tanto necessaria, quanto contingente! Ed ancora, dopo avere insegnato una dottrina così ardita, sembra nondimeno ch' egli intenda di prepararsi aperta una ritirata al suo bisogno, gittando in un altro luogo male a proposito quelle parole che vi ho già recitate altrove, colle quali egli fa vista di rifiutare il panteismo, come se il giudicio del pubblico potesse sorprendersi e ingannarsi con qualche frase. [...OMISSIS...] ; sul qual passo alle osservazioni per noi fatte nella lezione precedente dobbiamo aggiungerne un' altra, miei signori, importante, mostrando forza che egli ha di assolvere dalla colpa di panteismo il giobertiano sistema. Secondo queste parole dunque, l' ordine assoluto è l' oggetto dell' intuito; e in quest' oggetto l' idealità è inseparabile dalla realità; questa è quella sintesi la quale precedentemente ha detto, se vi ricorda, che è Dio, perocchè Iddio pel signor Gioberti è una sintesi, quella sintesi che si trova nell' intuito dell' uomo. Or che cosa contrappone il Gioberti all' ordine assoluto oggetto dell' intuito? Egli contrappone l' ordine contingente di cose, il quale è l' effetto libero del primo. Dunque l' ordine contingente, l' ordine delle cose create ch' egli chiama effetto libero, quest' ordine non è l' oggetto dell' intuito. Ma d' altra parte ella è pur dottrina fermissima del signor Gioberti, che ogni conoscimento umano sostanzialmente è compreso nell' oggetto dell' intuito, e che fuor dell' ordine dell' intuito non v' ha altro ordine di sapere, se non quello della riflessione e dell' astrazione, o, come la chiama altrove, della sintesi raziocinativa e dell' analisi. Dunque alla sintesi raziocinativa ed all' analisi appartiene l' ordine contingente delle cose, le quali cose, per dirlo di nuovo, sono create in virtù delle operazioni della mente umana, che è appunto il sistema de' panteisti della Germania. Per fermo chi mai di voi non conosce il sistema dell' Hegel; che riduce appunto tutte le cose all' idea, e colle trasformazioni di essa fatte dal pensiero toglie a spiegare egualmente Iddio e il mondo, il necessario ed il contingente, l' essere e il pensiero stesso? Il qual sistema, lungi d' esser nuovo, è quello appunto de' primi panteisti italiani, gli Eleatici, pe' quali era un medesimo il pensare e l' essere, [...OMISSIS...] . Udiamo su di ciò nuovamente spiegarsi lo stesso Gioberti: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole, unendole alle precedenti, noi possiamo trarre questo dialogo. - Che differenza vi ha, signor Gioberti, tra la cognizione che è oggetto dell' intuito, e la cognizione che è oggetto della riflessione? G. La cognizione che è oggetto dell' intuito, e quella che è oggetto della riflessione, è sostanzialmente la medesima, e non differisce che nella forma . - Se l' oggetto dell' intuito e quello della riflessione è nella sostanza il medesimo, come poi dite che differisce nella forma? in che consiste questa differenza? G. La differenza di forma che passa tra la cognizione oggetto dell' intuito, e la cognizione oggetto della riflessione, consiste in due cose, la prima che la cognizione oggetto dell' intuito è istantanea, e la cognizione oggetto della riflessione è successiva; la seconda che nell' intuito lo spirito vede l' oggetto quale è in sè, e la riflessione gli dà una forma soggettiva, lo scompone e ricompone . - Ma non avete anche detto che all' intuito appartiene l' ordine assoluto nel quale l' idealità è inseparabile dalla realtà? G. Sì, l' ho detto. - Non avete anche detto che il contrapposto dell' ordine assoluto è l' ordine di cose contingenti? G. L' ho detto. - E che l' ordine delle cose contingenti è l' effetto libero dell' ordine assoluto, oggetto dell' intuito? G. L' ho detto parimente, e ne ho soggiunta la ragione, perchè [...OMISSIS...] . - Voi dunque per Ente intendete l' ordine assoluto? G. Appunto. - E per esistenze, ossia cose contingenti, intendete quelle cose che la riflessione, la sintesi raziocinativa e l' analisi trovano nell' ordine assoluto, che è il vostro Ente, veduto proprio in sè, quando queste facoltà dividono l' una cosa dall' altra, per esempio l' idealità dalla realità, e le dividono con successione di tempo, onde quest' ordine in fatto diviene in tal modo un ordine soggetto al tempo, alla moltiplicità ed alla contingenza? G. Appunto. - Egli diviene altresì ordine soggettivo, perchè in tal modo l' ordine assoluto acquista una forma soggettiva? G. Così nè più nè meno. - L' ordine adunque delle cose contingenti è formato dalla riflessione, che scompone e ricompone l' ordine assoluto, ossia l' Ente oggetto dell' intuito. G. Ottimamente. - Ora veramente capisco chiaro che cosa sia quello che voi chiamate principio di creazione, pel quale l' ordine delle cose contingenti, è un effetto libero dell' ordine assoluto che è l' oggetto dell' intuito. L' ordine delle cose contingenti dove si dà separazione dell' ideale dal reale non differisce sostanzialmente dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, da Dio, oggetto dell' intuito, ma differisce solamente nella forma, e per questo la creazione è cosa modale, come dite, [...OMISSIS...] . G. Dite di più: l' ordine contingente che abbraccia le creature non differisce dall' ordine assoluto, cioè da Dio, nella sostanza; ma differisce nella forma, perchè in quell' ordine delle cose contingenti vi è lo stesso che nel primo, oggetto dell' intuito, lo stesso che in Dio, ma con questo divario che l' oggetto dell' intuito, cioè Dio, acquista una forma soggettiva . Questa forma soggettiva che si dà all' oggetto dell' intuito, cioè a Dio, mediante il raziocinio, la sintesi raziocinativa e l' analisi, è appunto la creazione, perchè venendo posto l' oggetto dell' intuito sotto questa forma, ciò che era assoluto divenne relativo, ciò che era necessario divenne contingente, ciò che era oggettivo si cangiò in soggettivo, ciò che era Dio si cangiò in creatura. - Mirabile spiegazione che voi date, mio caro Gioberti, del mistero della creazione; si vede proprio che n' avete l' intuito immediato! La cosa infatti non mi pare che possa essere più chiara, o signori: l' ordine delle cose contingenti non differisce, secondo il nostro Filosofo, di sostanza dall' ordine assoluto, ossia dall' Ente, che è il Dio del Gioberti. La sostanza dunque di Dio e delle creature è la medesima; la diversità sta unicamente nella forma; il cangiamento di forma a cui l' Ente, cioè Iddio oggetto dell' intuito soggiace, è la creazione. Questo cangiamento è un effetto libero dell' Ente, ma questo effetto libero è poi l' opera della sintesi raziocinativa, e dell' analisi dell' uomo; perchè è questa che dà all' oggetto dell' intuito una forma soggettiva, scomponendolo, maneggiandolo giusta le proprie leggi, senza però alterarne la sostanza, benchè tuttavia sia da aggiungersi, che [...OMISSIS...] . Voi giudicate dunque, o signori; voi paragonate questo sistema a quello dell' unica sostanza di Spinosa, e ditemi che ci trovate di diverso, se non forse una nuova fraseologia, una maggior confusione d' idee, maggiori contraddizioni, ed una declamazione continua che tutti gli altri sistemi, eccetto questo suo, sono panteisti, la qual declamazione (d' altra parte non degna d' un filosofo) voi ben vedrete se appartener possa a quelle frasi magnifiche e menzognere di cui i panteisti appunto, massime del nostro tempo, fanno uso, come c' insegna lo stesso Gioberti. Alle quali frasi magnifiche si potrà dunque senza scrupolo riferire anche quella, dove il signor Gioberti dice, che Iddio non comprende in sè la « « realità contingente »(1) ». E certo la realità contingente non può essere in Dio dall' istante ch' ella è il concreto separato per via d' analisi da Dio; onde ciò che è separato non può essere unito. Ma questa separazione però operata dallo spirito che riflette e che costituisce il principio di creazione, non è più che modale; perchè la riflessione e l' intuito hanno nella sostanza il medesimo oggetto . E la ragione che di ciò dà il Gioberti, come vedemmo, si è perchè il discorso che fa la mente quando dall' Ente possibile passa all' Ente reale [...OMISSIS...] . Nell' oggetto dell' intuito vi è dunque ogni realità che altronde non potrebbe aversi, il qual discorso, s' egli ha alcuna forza, vale anche per la realità contingente nella sostanza, non però quanto al modo della contingenza, che nasce quando si separa colla riflessione. Che anzi non si potrebbero distinguere i corpi reali dai fantasmi e dai sogni, se non vedessimo quelli nell' oggetto stesso dell' intuito (1), secondo il Gioberti; e però conviene che la stessa realità de' corpi si vegga almeno confusamente nell' oggetto intuíto. [...OMISSIS...] . Allo stesso genere di frasi non si può a meno di ascrivere quell' altra che [...OMISSIS...] . Perocchè questa analogia e somiglianza imperfettissima diviene bentosto nel linguaggio del Gioberti una vera similitudine mediante « « la sintesi dell' atto creativo » », perocchè l' atto creativo è una sintesi, come voi già sapete, [...OMISSIS...] , benchè la Teologia cattolica insegni che fra Iddio e le creature non possa passare alcuna vera similitudine, nè avervi alcun genere comune. Questa sua similitudine è fondata, secondo il Gioberti, nell' Ente possibile, che egli afferma comune a Dio ed alle creature. Eppure il Rosmini avea dimostrato, che non si può applicare propriamente la possibilità a Dio, ma solo l' idealità, e ciò per conoscere che egli esiste, non mai per conoscerlo simile alle creature. Dice adunque il nostro filosofo, che l' Ente possibile conviene a Dio ed alle creature: è una impressione e una modificazione del soggetto conoscente fatta nell' uomo dall' oggetto conosciuto (1), quasichè una modificazione del soggetto umano possa essere comune a Dio ed alle creature. Ma se l' Ente possibile è una impressione ed una modificazione del soggetto umano; se è una modificazione ed un' impronta lasciata dall' oggetto dell' intuito, e se l' oggetto dell' intuito è veramente duplice, cioè Iddio e le creature, come talora dice il Gioberti, conseguirebbe, secondo la buona logica, che le impressioni e modificazioni fossero due, e tanto distinte fra loro e disparate, quanto sono distinti gli oggetti che fanno l' impronta. Non ve lo pensate: anzi il Gioberti vuol che sia un' impressione ed una modificazione sola, il che corrisponde alla sua dottrina sull' unicità dell' oggetto del sapere, di che abbiamo parlato nelle precedenti lezioni, e ciò attesa la sintesi dell' atto creativo che risponde nello stesso tempo all' uno ed all' altro oggetto. Poichè [...OMISSIS...] . Ma non crediate, miei signori, che questo Ente possibile che è una modificazione dello spirito umano, comune a Dio ed alle creature, non sia nello stesso tempo l' idea posseduta da Dio stesso. Questa impressione unica che l' Ente e l' esistente, Iddio e le creature lasciano nello spirito umano, attesa la sintesi dell' atto creativo, e che è fedel ritratto dell' unicità sostanziale del suggello, questa impressione e modificazione del soggetto umano che è l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, questa modificazione che rende simili fra di loro Iddio e le cose create, è nello stesso tempo [...OMISSIS...] . Voi vedete dunque, miei signori, che l' idea possibile è una modificazione dello spirito umano; e che nello stesso tempo è l' idea divina, che è quanto dire Dio stesso (2). [...OMISSIS...] . Certo in qual modo la stessa idea possa essere ad un tempo subbiettiva, cioè modificazione dello spirito umano, e obbiettiva, cioè idea di Dio, non si può facilmente intendere se non in un sistema di assoluto panteismo. Così fuori di questo sistema è impossibile intendere come un' idea possa mai essere una modificazione dello spirito umano, un' impronta, una impressione, metafora de' materialisti e soggettivisti; che d' altra parte non danno nessuna chiara notizia di ciò che costituisca un' idea. Dove mi piace, o signori, farvi osservare quanto agevolmente il Gioberti cangia stile e linguaggio, senza alcun sospetto, dove stima bisognarli per la sua causa. Perocchè avendo sempre nel corso de' suoi volumi accagionato il Rosmini di soggettivismo, qui tutto improviso lo accusa d' essere soverchiamente oggettivista, scrivendo che [...OMISSIS...] . Ma qual' è la ragione perchè il Rosmini dice obbiettivo, e insieme nega che sia subbiettivo l' Ente ideale? Voi lo sapete, o signori: è perchè immedesimare l' obbiettivo col subbiettivo da una parte va contro al senso comune ed alla ragione; dalla altra parte è un professare il più compiuto panteismo. Senza cadere nel panteismo, certo non si può dichiarare che l' idea, che è cosa divina, sia modificazione o impressione dello spirito umano, come non si può insegnare che Iddio e le creature lascino una sola e medesima impronta nel soggetto pensante come fossero un solo suggello, e che quest' impronta sia l' Ente possibile comune a Dio ed alle creature, dichiarando nello stesso tempo che questa comunità, questa similitudine di Dio e delle creature, si ravvisa « « nell' idea eterna dell' Ente »(2) ». Che se si ravvisa nell' idea eterna dell' Ente, che bisogno di ricorrere all' impronta che rimane nel soggetto uomo? E poi, se questa idea eterna dell' Ente, cioè di Dio, è « « l' archetipo eterno, senza il quale la creazione sarebbe impossibile » », converrà dire che vi abbia un archetipo comune a Dio e alle creature. Ora quando si udì mai che Iddio abbia un suo archetipo su cui possa esser creato? E se non ha l' archetipo, come l' archetipo potrà mai essere l' idea dell' Ente possibile, comune a Dio e alle creature? Lasciamo pure la sua gran parte alla confusione delle idee che cozzano nell' ardente immaginazione del nostro oratore; ma finalmente non rimarrà sempre il panteismo manifesto in fondo a tutto questo sistema, se così un cotale straparlare può chiamarsi? In altro luogo il signor Gioberti scrive che [...OMISSIS...] , cioè da Dio. Il possibile dunque che è da una parte subbiettivo, cioè una modificazione dell' uomo, dall' altra parte è inseparabile da Dio dove si contiene, e perciò è Dio. Ma da questo così aperto panteismo sembrerebbe discordare quella frase che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » »; perocchè certo il dire che la realtà finita si contiene soltanto idealmente nell' infinita, è benissimo detto, miei signori, è frase immune al tutto da panteismo. Ma noi dobbiamo pur sempre domandare, prima di raccoglierne cosa alcuna, se quella frase sia veritiera, o per avventura ci mentisca come tutte le altre. Per venirne a capo, noi dobbiamo richiedere che cosa intenda il nostro Filosofo per idealmente, che cosa per idea, da cui viene la voce idealmente . Ora tutto il suo sistema para a questo d' identificare l' idea colla realtà; e contro a que' filosofi che vogliono accuratamente distinguere tali cose, egli adopera, se non l' armi della Filosofia, certo quelle della Rettorica, per le quali innalzò tanto grido fra' suoi amici. Il signor Gioberti insegna che tutte le cose sono idee (1); che lo spirito nostro afferra non solo l' Ente (Iddio), ma anche l' esistente (le creature contingenti) « « nella loro concretezza, non già applicando loro l' idea astratta dell' ente » (2) », di maniera che anche la concretezza delle cose contingenti è intelligibile allo spirito senza alcun mediatore (3), e crede che questo sia anche il pensar comune degli uomini, la quale credenza, o signori miei, vi parrà forse un po' strana, come pare a me; perocchè scrive francamente che [...OMISSIS...] . Se dunque le cose s' immedesimano colle idee e le idee colle cose, se ogni cosa è un' idea e ogni idea una cosa, che significherà in questo sistema la frase che la realtà finita si contiene « idealmente nell' infinita »? Qual sarà il valore da attribuirsi, o signori, a quella parola idealmente? La differenza che si pone tra l' idea e la cosa, ci sarà pure tra il valore delle parole idealmente e realmente . Ma quella differenza è nulla, perchè l' idea e la cosa si identificano: dunque la parola idealmente dee avere un valore nel sistema del nostro Autore identico alla parola realmente (1). Non lasciamoci dunque ingannare nè pure da questa frase e dichiariamola senza scrupolo menzognera come tutte le altre, perocchè quando il nostro Autore dice che « « la realtà finita si contiene idealmente nell' infinita » », dice ad un tempo che si contiene realmente, non differendo l' ordine dell' idee da quello delle cose. Ma il dir questo è panteismo svelato, e perciò gli giova coprirlo pudicamente agli occhi de' semplici suoi lettori col velo di una frase così bugiarda. La messe è tanto ricca, o signori, che io vi tratterrei di soverchio, se ne volessi fare l' intera raccolta. Io m' ero proposto di esaminare in questa lezione che cosa intende il nostro Filosofo sotto la parola di creazione, a cui egli ricorre, come ad unico scudo, onde salvare il suo sistema dalla brutta taccia che tanto teme: m' ero proposto di esaminare s' egli, come filosofo, ammetta veramente la creazione, quale l' ammettiamo noi colla Chiesa cattolica, ovvero se adoperi anche questa bella parola insidiosamente per ammansare i timori che i buoni potessero concepire de' suoi filosofici ardiri; e quanto abbiamo detto finqui mostra assai manifesto, che la sua creazione non è per avventura la creazione della cristiana Teologia, ma una creazione al tutto panteistica. Ma ciò che ho detto è pur poco verso a quello che a dire mi rimarrebbe, onde a mio malgrado devo rimettere oggimai molte cose, e per avventura le più importanti, ad un' altra lezione. Mi contenterò dunque in questa di aggiungere ancora poche osservazioni, e poi finirò per non abusare della vostra indulgenza. Noi abbiamo veduto che l' ordine delle cose è identico a quello delle idee, e che ogni cosa è un' idea, e che la prima idea, chiamata dal sig. Gioberti il primo psicologico, è il principal concetto di quelli che entrano a formare il primo ontologico, mentre gli altri non sono che logicamente derivati . E bene, questo ci appiana la strada ad intendere come il nostro Autore attribuisca la creazione all' idea . E posciachè l' idea è quella che giudica, ragiona e in una parola dialettizza, non è maraviglia se quella che crea sia la sintesi, onde parla così spesso della sintesi creatrice (1). Ma in che maniera credete voi che l' Idea operi la creazione? Egli vi dice schiettamente che [...OMISSIS...] . Voi sapete, l' intelligibilità propria di Dio è Dio stesso, come insegna il signor Gioberti, e questa intelligibilità che trapassa è dichiarata da lui numericamente identica in Dio e nelle creature. Dunque, secondo la sua dottrina, Iddio coll' azione creatrice trapassa nelle cose create, ed è per questo che egli insegnava prima che l' oggetto universale ed immediato del sapere in tutte le scienze è Dio stesso, come abbiamo veduto nelle precedenti lezioni. La qual maniera di spiegare la creazione è a dir vero a lui comodissima. L' intelligibilità di Dio trapassa nelle creature, perciò anche queste divengono intelligibili, perchè esse hanno in sè l' intelligibilità stessa di Dio in esse trapassata. Ma perocchè l' ordine degli intelligibili è identico perfettamente all' ordine della realtà, conviene che trapassando l' intelligibilità di Dio nelle creature vi trapassi anche l' essere reale, e così acquistino in virtù della stessa operazione « « l' essere, l' intelligenza e la vita »(1) ». Le creature adunque che sono ad un tempo cose ed idee, acquistano ad un tempo e collo stesso atto creativo l' esser cose e l' essere idee, trapassando in esse Iddio che è cosa ad un tempo ed idea. Egli è piacevole, a dir vero, miei signori, l' udire il Gioberti menare gran vanto di aver trovato un sistema così felice per evitare intieramente il panteismo. In un luogo delle sue opere, mettendosi uno scanno più su di Platone, egli viene narrando, come questo filosofo, benchè nè pure egli netto al tutto di panteismo, non sia pervenuto a tanta altezza. Sofferite che vi rechi ancora le sue parole. Dopo aver professato di seguire il filosofo ateniese, così segue: [...OMISSIS...] . Se dunque l' intelligibile ossia l' idea divina trapassa nelle cose create, dee trapassare pure in esse la realtà divina; e così vengono create: il qual placito è chiamato dal signor Gioberti l' assioma di creazione. Di che egli condanna [...OMISSIS...] . Mediante questa dottrina dell' atto creativo che il Gioberti ripone nel trapassamento dell' idea e della realtà divina nelle cose create, con che le cose sono create e diventano contingenti, reali ad un tempo ed intelligibili nella loro concretezza, o anche intelligenti; intenderete a meraviglia, miei cari signori, molti luoghi dell' opere del nostro Filosofo, che altramente riuscirebbero oscuri e sembrerebbero dissonanti dal panteismo. Intenderete cioè a meraviglia: I Perchè il Gioberti consideri l' idea di creazione [...OMISSIS...] , soggiungendo che [...OMISSIS...] . II Perchè affermi che [...OMISSIS...] , negando che sia mediatore ossia mezzo di conoscere l' essere ideale, come vuole il Rosmini (3), e tuttavia sostiene che la realtà non si può conoscere che nella sua ragione necessaria, la quale è Dio. Ora se questa ragione necessaria che ci fa conoscere la realtà finita e contingente fosse cosa diversa da quella realtà, ella sarebbe mezzo di conoscere, mediatore; ma poichè quella ragione necessaria, che è l' idea divina e Dio stesso è passata nelle cose create coll' atto creativo, e passando in esse le ha create e costituite nella loro concretezza; perciò ella non è diversa dalle cose create che si devono conoscere, e non è quindi mezzo di conoscerle, nè mediatrice tra esse e lo spirito, ma è proprio l' oggetto del conoscere, e così le cose create si conoscono nella loro stessa concretezza, senza bisogno d' altro, perchè nella loro concretezza sta l' intelligibile divino. III S' intende ancora perchè il signor Gioberti distingua il reale finito dal possibile, e distingua in ogni cosa due possibili, l' uno umano e l' altro divino; ma queste distinzioni che gli giovano non poco a mantellare il panteismo, egli dichiara che non sono che distinzioni di semplici rispetti e di puri aspetti, sotto cui si considera sempre la stessa cosa. [...OMISSIS...] . IV L' atto creativo consistendo nel trapassare che fa l' idea divina e con essa la realtà nella cosa creata, s' intende in che senso egli dice che l' Idea divina (e reale) informi la mente umana, e si vanti di spiegare egli pel primo la virtù informatrice dell' Idea ripetendola dalla sua VIRTU` CAUSATRICE, la qual virtù causatrice è quella appunto che dà l' essere materiale e sostanziale alle cose. Di vero egli continuamente dichiara che [...OMISSIS...] . I teologi cattolici insegnano che Iddio non può venire in composizione colle cose create, e però non può essere la loro forma sostanziale. Ma il signor Gioberti non si contenta già di fare che Iddio venga in composizione colle sue creature, dichiarandolo forma delle medesime; ma di più egli passa colla sua propria concretezza a costituirle, e così le crea; perocchè è coll' atto creatore che Iddio come idea informa le cose, e Iddio come cosa (giacchè cosa e idea s' identificano) le crea trapassando in esse il divino intelligibile, che è Dio stesso. V S' intende ancora in che modo il signor Gioberti non si contenti di chiamare Iddio causa prima e le creature cause seconde, il che è benissimo detto e consentaneo al comune sentire, giacchè la causa prima non ha bisogno per essere tale d' immedesimarsi colla causa seconda: ma lo chiami ancora sostanza prima, chiamando le creature sostanze seconde, con che spera egli di ottener due vantaggi, cioè di sbattere da sè la taccia di panteista colla frase magnifica di sostanze seconde riserbata alle create esistenze, e d' intromettere nello stesso tempo il panteismo a man salva nelle menti de' suoi lettori. E veramente egli descrive l' attinenza delle sostanze seconde alla sostanza prima, come si descriverebbe appunto l' attinenza degli accidenti alla sostanza che li regge e sostiene. Così Iddio diviene sostanza delle sostanze, e queste acquistano natura di accidenti di Dio medesimo; il quale oltre comporsi con esse come la forma colla materia, trapassa in esse sostanzialmente e così le crea. Ascoltiamo com' egli si esprime: egli dice in un luogo che il Sole spirituale, cioè Dio, [...OMISSIS...] . Iddio dunque informa l' anima umana sostanzialmente, la informa come prima sostanza, la sostiene, che è la frase che s' applica alle sostanze reggenti e sostenenti gli accidenti. Altrove, parlando dell' intuito umano, s' esprime così: [...OMISSIS...] . Laonde il Gioberti non trova modo più acconcio a descrivere la virtù creatrice, che quel di dire che « « il contingente RAMPOLLA dal necessario » », come appunto il rampollo esce dall' albero, trapassando in esso i succhi dell' albero; e quello che « fa rompollare il contingente dal necessario » è un' idea, cioè com' egli dice, l' idea di creazione (3). VI Finalmente vi si renderà or chiaro perchè voi vi scontrate negli scritti del nostro Filosofo in tante identificazioni. Identico è per lui l' ordine delle cose e l' ordine delle idee, come vedemmo, identico l' ideale ed il reale, identico nella sostanza è ciò che dà l' intuito e ciò che dà la riflessione, identica è la necessità metafisica (1); in somma tutto si riduce a identità, da poichè la creazione si fa col movimento e trapassamento dell' idea di Dio e Dio stesso nella creatura (rimanendo quell' idea e sostanza divina numericamente la stessa), di quel Dio che come sostanza informa, sostiene e regge le cose create, a quel modo che queste sostengono gli accidenti, e più ancora perchè elle propriamente non gli informano. Ma io voglio chiamarvi a considerare più attentamente un' altra identificazione. Voi sapete che il sig. Gioberti dà all' uomo l' intuito di Dio. Ma l' intuito, quest' operazione dell' anima umana, a chi appartiene, all' anima umana o a Dio? Il signor Gioberti vi dice conseguentemente alla sua teoria dell' atto creativo, pel quale l' intelligibile divino trapassa nelle cose create e così le crea; vi dice che appartiene non meno all' uomo che a Dio. [...OMISSIS...] , onde l' intuito dell' uomo è anche medesimamente per un altro rispetto intuito di Dio. E dà di ciò questa ragione, che [...OMISSIS...] . E certo, che vi abbia una connessione intima fra la creatura e il Creatore, niuno il vorrà negare; ma trattasi di sapere se questa sintesi faccia sì che il Creatore e la creatura diventino un solo oggetto, come il signor Gioberti sostiene; o se ella consista nel trapassare che fa l' Intelligibile, cioè il Creatore, nella creatura, come il sig. Gioberti la spiega nel luogo che abbiamo citato (benchè altrove si contradica negandolo); o finalmente se l' atto creativo è così inseparabile dall' atto conoscitivo, che quello sia un elemento essenziale di questo, a talchè il proprio concetto di questo racchiuda come una sua parte l' atto creativo, ciò che pure sostiene il nostro Filosofo. Egli dice in fatti, che [...OMISSIS...] ; il che è coerente con ciò che disse che ogni cosa è un' idea, sistema che si direbbe del panteismo ideale, ma pel sig. Gioberti è medesimamente panteismo reale, poichè per lui ogni idea è una cosa, e viceversa. Or posciachè le cose create sono intelligibili, secondo lui, nella loro propria concretezza, senza bisogno di un altro lume mediatore, perciò l' intelligibilità delle cose s' immedesima colla concretezza delle cose, ed è cosa identica l' esser le cose intelligibili e l' essere concrete. Ma posciachè l' intelligibilità delle cose non differisce numericamente dall' intelligibilità divina, giusta la sua dottrina; dunque l' intelligibilità divina s' immedesima colla concretezza delle cose finite; e il renderle intelligibili s' immedesima colla loro produzione. Di più, l' intelligibilità divina, secondo il signor Gioberti, è lo stesso che la mente divina, onde dice che [...OMISSIS...] . Non è dunque meraviglia se l' atto dell' intuito umano sia pel sig. Gioberti un intuito appartenente alla causa ed alla sostanza prima, cioè alla mente divina, e quest' intuito divino ed umano sia l' atto creatore, cioè l' atto che rende intelligibili le cose, e così le crea. E se il renderle intelligibili ed il crearle suona il medesimo, dunque tutto l' essere delle cose create consiste nella loro intelligibilità, ed elle sono idee (ciò che è lo stesso pel signor Gioberti che dire cose reali); e però sono intelligibili nella loro concretezza, perchè la loro concretezza ed esistenza è appunto la loro intelligibilità: [...OMISSIS...] (quasi che, miei signori, per dirlo di passaggio, applicando l' idea astratta alle cose, quest' idea non cessasse per ciò appunto di essere astratta). Se dunque la concretezza delle cose è la loro esistenza, e quest' esistenza s' identifica colla loro intelligibilità, onde coll' illustrarle sono create, e la loro intelligibilità è numericamente identica con quella di Dio, e con Dio stesso, voi vedete bene qual conseguenza indeclinabile ne proceda, e se per evitare la taccia di panteista basti che l' Autore dichiari sulla sua parola di non essere, e qua e colà sparga a piene mani frasi magnifiche contradicenti al panteistico errore (1). Laonde il signor Gioberti scrive ancora che [...OMISSIS...] . Dove il discendere che fa lo spirito umano da Dio a sè come creatura si dichiara un atto che s' immedesima coll' ascendere che fa lo spirito come pensiero a Dio, mediante l' azione creatrice. Il pensiero dunque dell' uomo che ascende a Dio, s' immedesima col discendere che fa la creatura da Dio, mediante l' atto creativo, e queste operazioni sono simultanee ed immanenti com' è l' atto creativo! Ancora un' ultima osservazione, o signori, e poi finisco, che è ben tempo. Il signor Gioberti ci fa sapere che non v' ha un solo panteista che non si contradica, e che a lato del panteismo non insegni cose contrarie a tale sistema, infiorando ogni cosa di frasi magnifiche e menzognere, perocchè il panteista pudico ha vergogna di mostrar nuda la propria fronte. Ora se il contradirsi è costante carattere de' panteisti, dichiaro non mancare nè pure questo carattere al nostro Filosofo. Noi l' abbiamo veduto, ma suggelliamo la serie delle contradizioni accennate, con un gruppetto di esse alquanto piacevole. I Il signor Gioberti insegna che ogni cosa è un' idea, e che l' idea crea le cose, che l' intelligibile divino passando nelle cose create dà loro esistenza, che crea i sensibili illustrandoli, e crea pure la mente (2). Or ogni cosa è un' idea ed ogni idea è una cosa: creandosi le cose di necessità si creano anche le idee. Ma no che in un altro momento lo stesso signor Gioberti scrive all' opposto: [...OMISSIS...] . II A malgrado però che « « la menoma idea obbiettivamente sia Dio, pel signor Gioberti, e non possa esser creata » », giusta un' altra dichiarazione non meno espressa dello stesso Filosofo, vi ha un gran numero d' idee, ossia d' intelligibili essenzialmente distinti, il che recherebbe direttamente la conseguenza platonica, che vi abbia un gran numero d' Iddii essenzialmente distinti, i quali Iddii potrebbero esser creati dall' Ente, che sarebbe il supremo Iddio. Ciò risulta assai chiaro, se si raffronta col brano ultimamente citato quello ove dice: [...OMISSIS...] . Or se gl' intelligibili assoluti sono le idee obbiettivamente considerate, ciascuna delle quali, benchè essenzialmente distinte, è Dio; gli intelligibili relativi sembra che siano le stesse idee considerate subbiettivamente, le quali lo spirito umano si forma colla sua riflessione, e tuttavia, secondo il Gioberti, l' Ente egualmente le crea e sono essenzialmente distinte (1). Del resto voi non ignorate che noi col Rosmini siamo assai lungi dal dire che « « l' idea dell' essere sia la sola cosa conosciuta dall' uomo » », quando anzi insegniamo che per mezzo di questa idea conosciamo tutte le altre cose, e particolarmente le realità finite. Ma poichè non è la difesa nostra che noi cerchiamo di fare in queste lezioni, ma sì la difesa della verità filosofica e cristiana che esclude e riprova il panteismo, noi qui lasciamo ben volentieri l' argomento, pregandovi di continuarmi la studiosa vostra attenzione per un' altra lezione ancora, la quale conchiuderà la discussione intrapresa sul sistema di panteismo proposto all' Italia da Vincenzo Gioberti: forse acciocchè questa nostra nazione nel genere del panteismo s' abbia il primato. Ripetiamo, o signori, quello che abbiamo detto al cominciamento della precedente lezione, che se Vincenzo Gioberti ammette puramente e semplicemente la creazione, noi lo rimandiamo assai volentieri libero da ogni sospetto di panteismo. Ma dobbiamo però rammentargli quanto egli disse a Vittorio Cousin: « « Non si tratta delle parole, ma dei concetti »(1) ». Perocchè il signor Cousin si difendeva appunto dalla taccia di panteismo, dichiarando d' ammetter la creazione, e nulladimeno il Gioberti non gli fece buona la scusa, anzi il volle convinto di quell' errore, di cui certo una parola non basta a purgarsi. Ora noi abbiamo veduto che maniera di creazione sia per avventura la giobertiana; creazione che non è creazione, anzi è velo trasparente assai e squarciato, con cui egli spera di togliere agli occhi altrui la schifezza del suo panteismo. Ma che direste, signori miei, se io vi dimostrassi che dopo avere egli sbandito nel fatto il concetto di creazione, e tenutane co' denti la parola, questa stessa arma imponente della parola ce la cede assai facilmente? Udite tutto il ragionamento e poi giudicate. Egli dice prima che ogni cosa è un' idea (2). Dice dipoi che ogni menoma idea obbiettivamente è Dio (3). Già voi sentite la conseguenza manifesta che discende da queste due premesse, cioè che ogni cosa obbiettivamente è Dio. Ora, secondo il signor Gioberti, gli altri sistemi fuori di questo suo nel quale ogni cosa è necessariamente Dio, sono tutti fracido panteismo. Andiamo avanti. Se ogni cosa è un' idea, non si posson creare le cose senza creare le idee. E in fatto il signor Gioberti, quantunque sostenga che ogni menoma idea obbiettivamente sia Dio, tuttavia dice ancora che le idee sono essenzialmente diverse l' una dall' altra, e che si creano (4). Ma in altri luoghi, rinsavito alquanto, nega che si creino, e prende calore contro il Tarditi, attribuendo a questo professore, benchè falsamente, l' aver detto che le idee si creino, e che l' idee dell' uomo sieno numericamente distinte da quelle di Dio; perchè dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Se dunque Iddio non può creare la menoma idea, dunque egli non può creare nè tampoco la menoma cosa: ed ecco esclusa la creazione, ecco caduta di mano al nostro Filosofo anche questa parola, quest' arma impotente colla quale credea difendersi dalla vergogna del panteismo. La logica dee avere il suo luogo, miei signori, e la logica è inesorabile, non ha compassione delle parole, quando queste la vogliono impaniare e impastojare. Ma come dunque (si opporrà) il signor Gioberti, che da una parte dice che ogni cosa è un' idea, e che le idee non si posson creare (onde la creazione rimane abolita); come lo stesso signor Gioberti ha poi continuamente in bocca la parola creazione, e non contento che ella sia un dogma, e d' altra parte confessando che non si può dimostrare per via di raziocinio (3), ci assicura sulla sua parola d' onore ch' egli la vede proprio immediatamente e direttamente coll' acuto sguardo del suo spirito contemplante, e la dichiara altamente non già un teorema, ma un assioma filosofico? Signori, e non sapete voi che i panteisti son filosofi, che stimano di aver la facoltà di far travedere come indubitatamente hanno quella di travedere? Non sapete quante scappatoje si tengano sempre aperte? Eccovene qua una nel caso nostro. Distinguete il concetto volgare della creazione dal concetto filosofico; e tutto sarà aggiustato. Il Gioberti la nega solo nel concetto volgare, che la definisce colla Chiesa cattolica, una produzione dal nulla; ma la ammette poi nel concetto filosofico. E qual è questo concetto filosofico? Voi l' avete udito. [...OMISSIS...] . In tal modo esse pure diventano intelligibili, idee, e lo spirito umano le afferra nella loro concretezza, senza bisogno di alcun mezzo di conoscere, di alcun' altra idea che faccia l' ufficio di mediatore tra le cose create e lo spirito, perchè sono esse stesse idee. Così c' insegna il Gioberti. In un luogo il nostro Filosofo, dopo aver detto che [...OMISSIS...] , segue a parlare della luce intellettuale così: [...OMISSIS...] . Conchiudete: la luce stessa intellettuale sussiste adunque identica in Dio e nelle creature, le quali si creano col venire illustrate da questa luce divina, come disse altrove, e così la loro concretezza non ha bisogno d' altro che di se stessa per esser conosciuta. L' idea dunque è quella che crea, ella è altresì quella che intuisce, che giudica (1), che astrae (2), che ragiona (3); ma è altresì quella che è creata; onde la creazione di una cosa, per esempio d' un arbore, è chiamata dal nostro Autore [...OMISSIS...] . Ma questa attuazione estrinseca dell' idea dell' arbore, che è la sussistenza e concretezza dell' arbore, è della stessa sorte e natura dell' idea? Certamente, secondo il Gioberti, perocchè egli argomenta così: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque l' idea, che è la potenza, attuandosi diventi cosa, che è la sua attuazione ed effettuazione, conviene che l' idea e la cosa sieno della stessa sorte, perocchè quella altramente non potrebbe dare la realtà a questa se non fosse reale; il qual argomento non può valere se non trattasi di una realtà della stessa natura e sostanza; benchè soggiunga che [...OMISSIS...] . Onde la cosa contingente essendo « il possibile attuato », consegue che egli sia più del possibile, cioè che sia il possibile dotato di necessità assoluta, più il suo atto contingente; ond' è che il contingente è intelligibile nella sua concretezza senza bisogno d' altra idea o mezzo di conoscere. Ogni cosa dunque è l' idea, più l' atto contingente dell' idea, e l' idea essendo la sostanza stessa di Dio, quindi ogni cosa è la sostanza di Dio, più l' atto contingente di questa sostanza: così Iddio è la sostanza prima, e il suo atto contingente sono le sostanze seconde sostenute da quella, come l' atto è sostenuto dalla potenza che lo produce (2). La stessa conclusione si raccoglie, miei signori, dalla definizione che il nostro Filosofo ci dà poco appresso del possibile, definendolo: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è il reale increato o creante? Egli è certamente Iddio. Ma che cosa è il reale creabile? Il creabile non è ancora il creato: il creabile sono le idee. Ma la menoma idea obbiettivamente è Dio stesso, insegna il Gioberti. Dunque il creabile è Dio stesso; e il possibile non è altro che una relazione che ha Dio verso sè stesso, quasichè in Dio vi avessero altre relazioni che quelle delle persone. L' idea dunque è quella che crea ed è ad un tempo quella che è creata; dove per creata il signor Gioberti intende, come abbiamo veduto, attuata, effettuata . Tale è il concetto della creazione del nostro Filosofo. Da tutti i lati spiccia la stessa conseguenza, lo stesso puro e putido panteismo; sicchè si può dire a ragione che il signor Gioberti sia fra i panteisti uno de' più coerenti. Pigliamo pure la cosa ancora da un altro verso. E` principio del signor Gioberti che nulla vi abbia nell' oggetto della riflessione che non sia prima nell' intuito, e che quella non faccia che ripetere ciò che vi ha in questo. [...OMISSIS...] (1). Vediamo dunque di nuovo che cosa si contenga nell' oggetto dell' intuito. Il signor Gioberti ci insegna che l' uomo nello stato di intuito [...OMISSIS...] . L' intuito dunque non ha che un oggetto ideale. Ora ogni ideale, anzi ogni menoma idea oggettivamente, com' è data nell' intuito, è Dio stesso. Ma nello stesso tempo egli ci dice, che l' oggetto dell' intuito è quello che egli chiama anche la formola ideale, e che [...OMISSIS...] . Ma come da questo Dio, che è tre realità, giusta la formola, come da questa trinità giobertiana escono poi le creature? Voi avete udito la descrizione dell' atto creativo: egli è quello [...OMISSIS...] . Perciocchè infatti il collegarsi d' un ente con un altro è una mera modalità. Onde, spiegando che cosa intenda per sostanza seconda, egli l' aveva definita [...OMISSIS...] . Con che nulla si crea veramente, poichè la stessa sostanza che esisteva prima in un modo, comincia ad esistere in un altro. Ma riteniamo, miei signori, che l' oggetto dell' intuito, benchè contenga anche le esistenze, cioè le creature, egli è sempre ideale, e però è sempre Iddio, pel signor Gioberti, pel quale ogni ideale è Dio. Onde le esistenze, cioè le cose create, essendo Dio, sono intelligibili per sè stesse, nella loro concretezza, senza bisogno di alcuna idea che loro serva di mediatore, poichè sono anch' esse idee, e però Iddii; e l' uomo conosce le cose immediatamente in virtù dell' intelligibilità assoluta (3), che è Dio oggetto unico dello scibile. Ma come poi, essendo Dio le cose create, noi le separiamo da Dio? Non già per mezzo dell' intuito, il cui oggetto è ideale, ma per mezzo della riflessione, la quale così diventa creatrice, come già abbiamo veduto. Ma avvertite che l' intuito e la riflessione convengono insieme « « NELLA SOSTANZA del loro oggetto » », giusta la dottrina del nostro Filosofo (4). Onde, le creature sono apprese come contingenti dalla riflessione, ma nell' intuito sono idee, e perciò hanno la divina natura, e nella sostanza s' identificano perfettamente. La loro intelligibilità tuttavia, ossia la loro idealità (1), rimane la stessa anche nella riflessione, e però rimane divina, anzi Dio stesso; e mediante questa intelligibilità sono create, cioè sono sostanze, perchè è l' idea quella che le crea. Tuttavia il signor Gioberti di buon animo nega la medesimezza del reale e dell' ideale contingenti, spiegando però la parola contingenti così, [...OMISSIS...] , la qual derivazione si fa per via di riflessione, come vedemmo. Tuttavia la riflessione [...OMISSIS...] . Sebbene adunque nell' oggetto dell' intuito giobertiano si comprenda ogni cosa in quanto alla sostanza, e tutto in esso sia ideale, cioè tutto in esso sia Dio; tuttavia nell' intuito l' uomo non trova sè stesso, [...OMISSIS...] . E pure, ciò che si contiene nell' oggetto dell' intuito e nell' oggetto della riflessione non differisce nella sostanza, ma solo nel modo. Se dunque il soggetto uomo è una sostanza seconda che non si trova che nell' oggetto della riflessione, e se l' oggetto della riflessione non differisce di sostanza dall' oggetto ideale dell' intuito, che è la sostanza prima; convien dire che le sostanze seconde non differiscono dalla prima di sostanza, ma solo di modo . Tali sono le sostanze seconde del signor Gioberti. Si può dunque conchiudere, che il vocabolo di sostanze seconde non sia un velo abbastanza denso per coprire la vergogna del panteismo, e che val tanto questo vocabolo di sostanze seconde, quanto vale la dichiarazione che [...OMISSIS...] ; mentre avea pur detto che l' intuito e la riflessione convengono [...OMISSIS...] . Volgiamoci ancora d' altra parte: vediamo se il signor Gioberti spieghi in qualche altra maniera il suo principio di creazione, che più s' avvicini al cattolico insegnamento. Eccovi qua un luogo, signori miei, molto atto a farci conoscere la sua mente. Egli riduce la creazione ad una individuazione delle idee. Iddio è l' idea, anzi ogni menoma idea è Dio: questo Dio7Idea è il generale; questo generale s' individua, ed ecco venute fuori tutte le creature. [...OMISSIS...] . E certo, miei signori, gli scolastici più illustri e di sana dottrina, fra i quali s. Tommaso, dicevano che Iddio nella creazione non individualizza già una cosa che prima era generale, e molto meno individualizza se stesso; ma dicevano che egli cava dal nulla la cosa stessa, la materia o sostanza e la forma, come insegna la Chiesa cristiana cattolica. Ma non tutti gli scolastici s' attennero a questa maestra di verità: anche fra essi v' ebbero dei panteisti, e questi panteisti insegnarono intorno alla creazione quello appunto che adesso ci ripete come una novità, come un sistema da lui trovato, Vincenzo Gioberti. Scoto Erigene, il più celebre tra i panteisti del medio evo, ammetteva le idee creanti come udimmo fare il Gioberti, ed insieme create, perchè il Gioberti insegna, che [...OMISSIS...] . Ma Guglielmo di Champeaux ebbe di più insegnato che gli universali, cioè le idee, s' individuano nei particolari, e così vengon questi creati; e poichè in ogni particolare v' ha lo stesso universale individuato, perciò gl' individui identici nell' essenza non differiscono che per la varietà degli accidenti e delle forme passeggiere. Non vedete voi qui aperto quel fonte a cui il signor Gioberti sembra aver attinto il suo sistema della creazione? e che, se voi volete, dopo averlo attinto, l' ebbe anco perfezionato, press' a poco come Amanzi di Chartes e Davide di Dinant perfezionarono il sistema di Guglielmo, riducendolo in un più espresso panteismo? Perocchè il Gioberti, facendo che l' intelligibile, cioè Iddio, che chiama anche il generale, crei le cose illustrandole, e le illustri passando in esse, nella loro propria concretezza che diventa così intelligibile per sè stessa, sicchè lo spirito l' afferra senza bisogno del mezzo d' alcun' altra idea, riuscì a quella solenne sua conclusione, che Iddio è l' universale ed immediato oggetto pel sapere umano. Laonde quando il Gioberti vi dice, o signori, che lo speculare degli scolastici non potè sciogliere per intero il gran problema della creazione, egli dee intendere degli scolastici sani e cattolici, come un san Tommaso ed altri tali, perocchè d' altra parte voi avrete osservato quante volte nelle sue opere egli riprenda e condanni i semi7realisti, e con qual compiacenza egli si dichiari per uno schietto realista . Or bene a chi non è noto che REALISTI appunto si chiamavano i discepoli di Guglielmo di Champeaux, di questo famoso dottore, il quale dichiarava la creazione essere un' individuazione degli universali, come fa il Gioberti? Ma torniamo un poco ad ascoltare il Gioberti stesso. [...OMISSIS...] . Questa è la definizione che il Gioberti dà del generale in sè stesso, e nella sua radice; la quale giunta « nella sua radice »parrebbe, a dir vero, superflua, dopo aver detto che il generale è tale in sè stesso; poichè, se il generale è l' Ente necessario, l' Ente necessario non ha radice, nè io so che i filosofi od i teologi abbiano mai fin qui parlato della radice dell' Ente necessario, che è Dio. Andiamo dunque avanti. [...OMISSIS...] Se non fosse, miei signori, per non interrompere troppo il corso delle idee, vorrei pur trattenermi un poco anche su questo punto determinato, in cui l' individuale contingente concentra la sua realità; ma continuiamo: [...OMISSIS...] . Così il signor Gioberti si esprime. Riassumiamo adunque. Che cosa è creare? Creare è individualizzare l' idea generale. Che sono le creature? Le creature, ossia le esistenze contingenti, non sono che l' idea generale (l' Ente necessario, Iddio), che passa a stato d' individuo. Vi farete ora maraviglia, miei signori, che le cose contingenti sieno pel Gioberti l' idea, quando Iddio stesso, secondo lui, è l' idea? Ma qual differenza passa dunque fra Dio e le creature? Grande certamente e sostanziale; perchè Iddio, secondo il Gioberti, è l' idea generale nella sua generalità, mentre le creature sono l' idea generale nella sua individuazione; onde l' idea generale si chiama sostanza prima, e l' idea generale nella sua individuazione si chiama sostanze seconde. La creazione è il passaggio che fa Iddio dallo stato d' idea generale allo stato d' individuo, dallo stato di Ente allo stato di esistenza, e questo passaggio è l' atto creativo. Voi vedete di nuovo qui che Iddio oggetto dell' intuito, e le creature oggetto della sintesi raziocinativa e dell' analisi, non differiscono nella sostanza, ma differiscono nella forma (il signor Gioberti nondimeno trova assai utile di chiamare Iddio sostanza prima e le creature sostanze seconde): Iddio è l' oggetto generale, che mediante l' individuazione, cioè l' atto creativo, passa a stato di soggetto, ossia di creatura. Laonde coerentemente dice il Gioberti: [...OMISSIS...] . Per quanto sia strano il dire che la radice divina si veda effettuata nelle creature, pure non è men vero che così la pensi il signor Vincenzo Gioberti, perchè egli stesso ce ne assicura. Con queste spiegazioni che egli medesimo ci somministra de' suoi pensieri, e della maniera con cui toglie a distruggere il panteismo, noi intendiamo, o signori, più altre cose, che senza ciò ne riuscirebbero per avventura troppo difficili a concepire. Intendiamo primieramente l' impegno ch' egli ha preso di combattere la distinzione dell' ideale dal reale, e di pretendere che l' ideale sia qualche cosa di sussistente, e com' egli dice nel modo il più strano, di concreto . Senza di ciò, egli non avrebbe potuto nè convertire Iddio in un' idea, nè convertire quest' idea nelle creature coll' individuamento, che è il suo atto creativo . Egli dunque accorda, che l' idea generale appartenga alla mente, e il particolare al senso; ma solamente nell' ordine della riflessione, che è l' ordine delle cose contingenti: in quest' ordine il generale è già individuato, reso soggettivo, immedesimato col soggetto, meramente ideale, cioè diviso dal reale e dal sensibile. Ma questa è tutta opera della riflessione dell' uomo che viene dopo l' intuito, il quale vede tutte queste cose insieme: e questa congerie, questa sintesi, come la chiama il Gioberti, è l' ordine assoluto, cioè Dio stesso. [...OMISSIS...] (voi ben sapete che noi non reputiamo la mente dell' uomo sorgente del generale, come egli ci imputa colla sua solita infedeltà; diciamo anzi che la mente non crea, ma riceve il lume universale col quale ella poi forma, limitandolo, gli universali minori, ciò i generi e le specie), [...OMISSIS...] . Voi vedete qui la solita metafora della radice obbiettiva sì della generalità , come dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili . Non viene egli la voglia di rivolgere al signor Gioberti quella interrogazione, che assai male a proposito egli fa a' suoi avversarj, [...OMISSIS...] , le quali sappiamo aver le loro radici, perchè sono piante? In secondo luogo è pure notabile che il Gioberti riconosca una radice unica, obbiettiva, esterna, indipendente della cognizione, tanto della generalità delle idee riflesse, quanto del concreto de' sensibili, cose, a dir vero, molto disparate. In terzo luogo rimane a vedere, se questa radice della generalità dell' idee riflesse e del concreto dei sensibili, sia sostanzialmente la stessa cosa con questa generalità e con questo concreto, oppure sia cosa separata da essi, e di diversa sostanza; poichè questa ricerca è quella che può decidere la questione (quantunque sembri decisa soprabbondantemente da quanto è detto), se il sistema che esaminiamo sia panteistico o no. Giacchè essendo in fine quest' unica radice della generalità delle idee riflesse e del concetto dei sensibili, per Vincenzo Gioberti, Iddio stesso; la questione del panteismo è sempre quella di sapere se la sostanza di Dio e quella delle creature è una e la stessa, o diversa e infinitamente diversa. Se la radice del Gioberti è di sostanza diversa affatto dalla sostanza delle due piante che si fanno nascer da essa (la generalità delle idee riflesse e il concreto dei sensibili), in tal caso le metafore che egli adopera non saranno più che frasi poco esatte; ma se la sostanza della radice di quelle piante è identica, il panteismo sarà aperto ed indubitabile. Ora, onde mai il Gioberti fa uscire le due piante della generalità delle idee riflesse, e del concreto dei sensibili? Le fa uscire dalla riflessione dell' uomo preceduta però e creata dalla riflessione dell' idea, cioè del Dio7Idea. Ma questa operazione della ragione umana, che è anche insieme la ragione divina, che cosa fa? Scompone e compone l' oggetto precedente, soggettivizza quello che era oggettivo, produce, come abbiamo veduto, l' ordine contingente colla scomposizione dell' ordine assoluto oggetto dell' intuito. L' oggetto dell' intuito è dunque la radice della generalità delle idee riflesse e del concreto dei sensibili, che sono come l' albero diviso in due tronchi, e quell' oggetto è l' oggetto stesso della riflessione nella sostanza, non differendo che nella forma. Ecco come ripete questa sua teoria: [...OMISSIS...] . Quindi conchiude che il generale, in quanto è veduto nell' intuito, è l' essere necessario, cioè Dio stesso, e il concreto sensibile è il contingente, cioè Iddio stesso che concentra la sua realtà in un punto individuandosi. [...OMISSIS...] . Uditene la conseguenza che spiega ancor più le premesse. [...OMISSIS...] . La conseguenza è coerente alle premesse. Poichè, s' egli è vero che l' individuale contingente, o, come anche dice, il concreto de' sensibili altro non sia che l' idea generale individualizzata, egli è certo che per averne la cognizione, conviene aver l' intuito di quest' idea generale, che è l' essere necessario e infinito, cioè Dio, e della sua individualizzazione, che è l' atto creativo, il qual atto creativo che concentra l' esistenza in un punto determinato, è l' opera della riflessione che così reca all' esistenza il concreto dei sensibili. Egli è dunque del tutto logico il dire che per conoscer l' albero conviene conoscer la radice nel sistema del signor Gioberti, perchè in tal sistema non solo la radice è della stessa sostanza dell' albero, ma anzi ella si trasfonde nell' albero stesso, essa è il soggetto sostanziale di cui l' albero è l' atto accidentale retto e sostenuto; laddove se la radice fosse di sostanza totalmente diversa, non vi sarebbe bisogno alcuno di percepire la radice per percepire i rami della pianta, perchè una sostanza è ciò appunto che si concepisce dalla mente senza ricorrere ad altra sostanza, quando l' accidente è ciò che non si può concepire solo senza la sostanza. Quindi la ragione è palese del perchè egli cotanto ci replichi, che le cose contingenti non si posson percepire che nell' atto creativo: essendo quelle una trasformazione di Dio medesimo, conviene vedere e Dio e la sua trasformazione per averne la percezione. Ora io credo che a ciascuno sia facile il decidere sulla ricerca che continuamente facciamo, se il sistema del nostro Filosofo ontologista sia netto e puro di panteismo, com' ei sostiene. Ritenuto il filo del qual discorso, non fa maraviglia l' udire che, come le cose individue sono l' idea, ossia Dio trasformato, così l' idea, cioè Iddio, anch' egli alla sua volta sia le cose trasformate in senso contrario, cioè trasformate nella composizione o sintesi; non fa meraviglia che l' idea, cioè Iddio, sia un' attuazione dell' individuo, piuttosto che l' individuo sia una cotale attuazione dell' idea. E questo è pur quello che insegna ancora espressamente il Gioberti. [...OMISSIS...] . Ritenete, o signori, che individuare è creare, e che individuo è sinonimo di creato, e che l' idea, ossia il generale che s' individua è l' essere necessario e infinito. Che cosa è dunque il creato? L' attuazione di Dio. E che cosa è Dio? E`, ed assai meglio, l' attuazione del creato; [...OMISSIS...] . Come dunque intuire le esistenze create, senza intuire Iddio di cui sono l' attuazione? (perocchè Iddio in questa dottrina non è solo atto, ma egli ha anco attuazione). E come intuire Iddio senza intuire le esistenze che sono il creato, di cui Iddio stesso è assai meglio l' attuazione? « Quindi (soggiunge di nuovo quello che sapevamo, perchè ce l' aveva detto tante volte), [...OMISSIS...] , ossia nella loro radice obbiettiva. Udite ora come il nostro Filosofo applichi la sua teoria della creazione a spiegare il valore della proposizione: « Questo corpo è ». Colui che la volesse interpetrare alla semplice, secondo il senso comune ed i filosofi passati, altro non vedrebbe in quella proposizione che l' affermazione di un corpo. Non lo crediate: il Gioberti è troppo coerente a se stesso; egli vi vede l' insidenza del corpo nell' Ente, cioè in Dio, di cui il corpo è un' attuazione, o assai meglio Iddio è un' attuazione del corpo, e però ci vede anco l' affermazione di Dio stesso. Udite: [...OMISSIS...] . In che dunque consiste, secondo Vincenzo Gioberti, l' esistenza, colla qual parola a lui piace d' esprimere la cosa creata o contingente? Consiste nella [...OMISSIS...] . Il corpo materiale adunque nella sua concretezza insiede in Dio, e partecipa a Dio, ed è questa l' esistenza del corpo. Ora poichè non vi è nulla che insieda in Dio, e che a Dio partecipi, se non Iddio, forz' è dire che anche la materia sia Dio. Ma notate tuttavia, che il corpo è l' idea generale (il Dio di Gioberti) individualizzata, e non l' idea generale nella sua generalità: non è l' idea generale oggetto dell' intuito, ma è l' idea generale divenuta oggetto della riflessione, che l' analizza col raziocinio; ond' è necessario che la voce è nella proposizione « questo corpo è », indichi il suo riferirsi alla realtà necessaria, poichè questo riferirsi della realtà contingente alla realtà necessaria, è l' esister di questa. E in che consiste questo riferirsi? Nell' emergere, dice il Gioberti, dalla sua causa per mezzo dell' individuarsi che fa questa causa, cioè Dio, l' individuarsi del quale è l' atto creativo. Lo stesso egli ci ripete in altro luogo: udite attentamente: [...OMISSIS...] . L' esistenza dunque, sotto il qual nome il Gioberti intende costantemente la creatura, è una partecipazione finita di Dio! Se l' esistenza, per esempio, un corpo reale e individuale è Iddio partecipato in un modo finito, il corpo stesso nella sua realità e individualità ha la natura di Dio, benchè in un modo finito. E non è questo il più materiale panteismo? (2). Ora imparate, o signori (perdonatemi se così parlo), imparate a conoscer l' ignoranza profonda in cui fin qui foste stati immersi, e con voi insieme tutti gli uomini. Non credete voi, che dicendo « è questo corpo »(e ben vedete che dicendo questo non si esprime il corpo in genere, ma in individuo, nella sua concretezza e materialità), non credete, che dicendo « è questo corpo », si affermi una sostanza morta? Certamente. Ma siete ingannati: il corpo che s' afferma esistere è ben tutt' altro. Il Gioberti v' assicura, e con tutta coerenza, che dicendo « questo corpo è », il verbo è « esprime una forza viva », perchè ci mostra [...OMISSIS...] . Di più, fin qui voi eravate in un goffo errore credendo che la creazione fosse una cotal produzione dal nulla: il signor Gioberti, il filosofo della creazione, venne a insegnarvi che questa non consiste già nel prodursi il contingente dal nulla, ma [...OMISSIS...] . Quanto erano ignoranti prima di questo lume tutti i sani filosofi ed i teologi cattolici! Essi credevano tutt' alla buona, che i corpi si conoscessero come cose fatte nel tempo, e invece a rigor di termini si conoscono dall' uomo, non come fatte nel tempo, ma nell' immanenza dell' Eterno . E questo noi lo sappiamo non per divina rivelazione, non per via di raziocinio, ma di semplice intuito, che ha per oggetto l' ordine assoluto: ce ne assicura il signor Gioberti, e guai a domandargliene la menoma ragione, chè il suo intuito è immediato, e non ammette ragione alcuna. In appresso succede la riflessione che analizza quest' oggetto, il quale appare nell' immanenza dell' eterno, ed allora nasce la continuità temporanea, allora il contingente è già emerso dal necessario. Il panteismo dunque è nell' intuito, ma sopravviene la riflessione soggettiva che disfà il panteismo coll' analisi raziocinativa. Ecco l' errore dei panteisti antichi: essi avevano bonariamente insegnato il panteismo col raziocinio, ma il Gioberti li confuta, trasportandolo nell' intuito; perchè ragione prima del raziocinio che nulla crea, dee esser l' intuito che tutto contiene: e questo è l' ordine del vero assoluto, mentre quello della riflessione è un ordine soggettivo. Combatte dunque il panteismo, dimostrando che non ebbe fin qui solide basi, ed egli intende così di sopporgliele; lo combatte col sostituire un panteismo assoluto ed intuitivo ad un panteismo troppo meschino, perchè relativo e raziocinativo; un panteismo più perfetto a quei sistemi che fin qui furon proposti, e che a lui non sembrano perfetti e compiuti. Concludiamo: per distinguere il signor Gioberti da tutti gli altri panteisti, non ci resta che denominarlo il panteista intuitivo. Dovrei copiarvi le opere intere del sig. Gioberti, se volessi arrecarvi tutti i passi, coi quali egli colorisce ed incarna in tutte le guise questo suo filosofico disegno: egli parla, nella stessa pagina che vi citavo testè, del flusso delle creature che si contempla congiuntamente alla immanenza dell' atto creativo, e conchiude: [...OMISSIS...] , confondendo così insieme l' ordine naturale col soprannaturale, come appunto confuse le creature col Creatore. Ma egli è pur tempo che noi poniam modo a questa lunga discussione, in cui abbiamo spese diverse lezioni. L' attenzione che voi mi avete costantemente prestata riesce a me di caro conforto, o signori, a dover credere, che voi avete giudicato importante l' argomento, e che noi non abbiamo perduto il nostro tempo invano. Avrei desiderato che Vincenzo Gioberti fosse stato anch' egli qui ad ascoltarmi: amatore del vero, come dobbiam riputarlo, forse avrebbe modificato le sue sentenze. Se egli avesse voluto difenderle, lo avrei ammonito di mantenere in facendolo la stessa legge ch' egli ricorda sì sovente ai suoi avversarj, di non arrecare per avventura altri suoi detti contradittorj ai primi, ma di sciogliere direttamente le obbiezioni che presentano quei molti che noi abbiamo disaminati. E gli avrei aggiunto, che noi trattiamo del suo intero sistema, e della coerenza intrinseca del medesimo, non di alcuna frase appiccicata e dissonante. Quello dee dimostrare immune da panteismo, non questa, perocchè di quello si tratta. Del resto confidiamo nel retto senso de' nostri connazionali. Invano si vuol presentare a questa nostra religiosissima e svegliata nazione un panteismo deforme, mascherato, siccome nuovo e sano e profondo sistema filosofico: la chiara mente degli Italiani non s' appaga d' ambiguità di favellare, di vanissime ed insolenti dicerie, di stirate cavillazioni; sono sei anni che scrisse Vincenzo Gioberti, e non un solo Italiano, a noi noto, ha per ancora preso a professare il suo panteismo: l' Italia dunque, o signori, diciamolo pure, lo conosce e lo rigetta. Ho letto con mio molto piacere la « « Teorica del Sovrannaturale » » del sig. ab. Vincenzo Gioberti, da Lei favoritami. Prima non la conoscevo che per qualche brano mandatomi dagli amici. Di vero, l' argomento del libro è acconcissimo ai tempi nostri e necessario, perocchè il maggior bisogno che ha oggidì il mondo, e il maggior suo desiderio si è quello di essere accertato che vi ha qualche cosa di soprannaturale, e di poter dire in qualche modo a se stesso che cosa il soprannaturale si sia. Nulladimeno non parmi vero, nè detto con proprietà, ciò che l' autore afferma alla faccia 52 del suo libro, cioè che « « in tutta la Storia della Filosofia - non si è mai atteso a ricercare se in effetto la mente umana comprenda qualche elemento inintelligibile » ». Manca, se io non erro, la proprietà dell' espressione in queste parole; perocchè egli pare una contradizione il pretendere che la mente umana comprenda quello che è inintelligibile; tanto più se si consideri, che la parola comprendere significa, secondo la nota definizione che ne dà s. Tommaso, perfettamente conoscere; di guisa che quella proposizione suonerebbe così: « Non si è atteso a ricercare se la mente umana perfettamente conosca qualche elemento che non è intelligibile »! Voleva egli alludere certamente in quelle parole alla potenza che lo spirito umano possiede, d' accorgersi ch' egli non conosce tutto, e che vi hanno delle cose ch' egli neppure può conoscere nella presente sua condizione, o certo ch' egli non può comprendere, benchè non di meno sappia determinarle e segnarle con certe loro relazioni ad altre cose a lui note, e sappia ancora assicurarsi di loro reale esistenza e di loro necessità. Ma spiegato il suo detto a questo modo, cessando di essere assurdo, incomincia a non esser vero. Imperocchè egli è indubitato, che fu sempre mai conosciuta questa potenza del soprannaturale (chiamiamola pur così), la quale porta l' uomo a persuadersi dell' esistenza di una qualche cosa che sta via oltre a' confini della natura contingente e limitata; ed io, quando mi occorse parlarne, le assegnai il proprio e specifico nome d' integrazione . Tutti i teologi scolastici oltracciò, cominciando dall' antico autore de' libri de' « Nomi Divini e della Celeste Gerarchía », parlarono della maniera negativa, colla quale la mente umana da se stessa si leva a conoscere Iddio. Potrei salire più là, e trasportarmi fino ad un tempo anteriore a quello della filosofia italo7greca, dimostrando co' libri da non molto tempo scoperti degli Indiani, e coll' altre memorie antichissime dell' orientale sapienza, che la facoltà del soprannaturale e dell' incomprensibile fu sempre conosciuta e positivamente annunziata dai savj; come pure che da essa sola ebbero origine le infinite superstizioni di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Che se il signor Gioberti avesse avuto sott' occhio la « Tavola delle potenze dell' anima umana »da me pubblicata in Rovereto, vi avrebbe trovato quella potenza del soprannaturale, distinta nelle sue varie diramazioni. Quantunque poi il suo libro dimostri ch' egli conosce assai bene le teologiche discipline (conoscenza che suol mancare in quasi tutte le moderne scritture, eziandio che trattino di Filosofia o di Religione, come egli stesso giustamente osserva), tuttavia non trovo da lui dichiarata la doppia maniera nella quale lo spirito umano si solleva a ciò che è soprannaturale e divino, distinzione alla lucidezza dell' argomento necessarissima. Perocchè ella è cosa grandemente diversa, che l' uomo s' accorga dover esistere alcun che al di là di tutte quante le cose da lui conosciute, al di là di tutti i confini del contingente; in una parola, dover esistere al di là del relativo, l' assoluto; ovvero che l' uomo possa oltracciò percepire realmente questa assoluta sostanza. A fare la prima di queste due operazioni, a conoscere l' esistenza dell' ente assoluto, ed alcune necessarie analogie fra esso e l' ente relativo, bastano le naturali umane facoltà. Onde può dirsi, che v' abbia una facoltà naturale delle cose soprannaturali. Ma all' incontro a fare la seconda di quelle operazioni, cioè a percepire realmente quello che è soprannaturale, niuna facoltà naturale qualsivoglia è sufficiente; chè ella sarebbe contradizione apertissima il dire che la natura percepisca quello che è al di là della natura. Ella ben intende che cosa a me suoni la parola percepire . Allora solo, secondo la maniera di parlare da me stabilita, una cosa viene da noi percepita, quando noi ne sentiamo in noi stessi l' azione sua propria, cioè un' azione tale che non può venirci altronde, e però atta a caratterizzare e distinguere nell' intendimento nostro quella cosa fuori d' ogni altra. Richiedesi adunque che venga dato all' uomo un principio di conoscimento soprannaturale, acciocchè egli possa percepire il soprannaturale; o, come dicono ottimamente i teologi, si richiede l' infusione del lume di grazia o di gloria. Sarebbe dunque cosa assurdissima il collocare nella natura umana una potenza del soprannaturale presa in questo secondo senso; e si può solamente attribuirle una cotal radice di detta potenza, che è piuttosto una potenza della potenza, cioè a dire ella è la potenza di ricevere in sè la potenza di percepire Iddio, cui Dio stesso, comunicandosi all' anima, crea in essa. Di qui Ella vedrà manifesta ragione per la quale nella citata Tavola delle umane potenze, io abbia collocata l' integrazione (facoltà della Teologia naturale), come anche la fede (facoltà delle idee negative) che le si associa, fra le potenze naturali; e perchè all' opposto abbia fatto una lunga enumerazione di potenze soprannaturali, quando volli indicare quelle facoltà o virtù infuse, colle quali si percepiscono realmente le cose divine, e si pensa e si vuole e si opera in conseguenza di quelle deiformi percezioni. Nell' incertezza se Ella abbia sott' occhio la Tavola di cui le parlo, gliene unisco qui un esemplare. Col volgere poi uno sguardo alla Tavola medesima, Ella potrà vedere altresì, che la facoltà del soprannaturale, quale viene descritta dall' ingegnoso signor teologo Gioberti, dà luogo ad un' altra osservazione importante assai per le conseguenze che si trae dietro. Della facoltà del soprannaturale egli fa una potenza isolata e tutta da sè, contrapponendola a quella della ragione e a quella del sentimento . Ora il concepire a questo modo la facoltà delle cose soprannaturali, dà, egli è vero, ai ragionamenti che n' espongono la teorica, un' aria di non so qual misterio e profondità, gradita al lettore; ma a fondo considerato, quel modo di concepire la detta facoltà non trovasi conforme al vero, nè scevro d' intima contradizione. E di vero, come è egli mai possibile concepire una facoltà senza ch' essa produca all' uomo qualche specie di sentimento? Non si possono dunque dare facoltà nell' uomo, le quali sieno al tutto straniere al sentimento; poichè l' uomo stesso, come io ho dimostrato nell' « Antropologia », è un sentimento. Come, di nuovo si possono dare tali notizie o percezioni, delle quali noi siamo ben certi, quando elle sieno poi prive al tutto dell' autorità della ragione, ed escluse dall' intendimento? Non si possono dunque dare oggetti nè naturali nè soprannaturali, de' quali noi siamo ben certi, se questi si pongano fuori del dominio dell' intelligenza. Convien dire adunque o che la facoltà del soprannaturale sia cieca, e in tal caso di nissun pregio, nè diversa dal fanatismo e dalla superstizione; ovvero ch' ella abbia pure in sè del lume di ragione, nè sia tutta sola, e genericamente distinta tanto dal sentimento quanto dall' intelligenza. Cotal facoltà non può dunque non essere finalmente che una specie di sentimento ed una specie d' intelligenza; e questo è quanto apparisce chiaramente da tutto ciò che io n' ho scritto in più luoghi, e ch' Ella potrà veder di nuovo nella « Tavola delle potenze »dove, senza accennar nulla che si riversi al di fuori dell' ordine de' sentimenti e dell' intelligenza, appariscono le potenze soprannaturali innestate sopra le naturali, e si dimostrano come una sublimazione del sentimento e della intelligenza, a cui azioni ed oggetti divini si comunicano; un perfezionamento insomma e completamento della natura, secondo la dottrina de' teologi cattolici, i quali costantemente insegnano l' elemento soprannaturale essere perfettivo del naturale. Le quali cose mi prendo fidanza di esporre alla Signoria Vostra, per ubbidire al gentile invito che Ella me ne fa nella pregiata sua lettera. E le aggiungerò, quanto a ciò che Ella mi dice, accordarsi meco il sig. Gioberti in più cose, che si scorge veramente da diversi tratti dell' opera sua, ch' egli vide il « N. Saggio ». E l' aver dato in parte al medesimo favorevol suffragio, certo egli è per me un fatto assai onorevole, pregiando io l' altezza dell' ingegno e anco la bontà dell' animo che dimostra nell' autor suo la « Teorica del soprannaturale ». Ma non mi posso tenere dal dire a Lei nello stesso tempo in tutta confidenza, che parmi di ravvisare anco nell' egregio sig. Gioberti quello che pur mi tocca continuamente vedere in tant' altri valent' uomini, che scrissero pro e contro la mia filosofia, cioè che troppo presto si credono d' aver colto il mio pensiero e tutta abbracciata la dottrina da me proposta alla loro meditazione. Forse che la facilità apparente di questa filosofia gl' inganna, onde non si danno il tempo di andar più addentro della corteccia. Certo, non basta l' appigliarsi ad alcune sentenze, nè basta l' aver inteso alcuni brani del sistema: è necessario por mente al tutto, e por mente a ciascuna parte, giungere al fondo delle questioni principali; ed in questo fondo non veggo esser discesi ancora gran fatto molti, e pure molti (io vorrei dir tutti) giungere vi potrebbero, se non si avvisassero d' esservi giunti (1). E qui, a ragione d' esempio, io mi persuado che il teologo torinese non avrebbe posto così in generale nell' essenza l' elemento incomprensibile delle cose, se egli avesse posto attenzione a quanto io dissi in più luoghi circa l' essenza, la sostanza, la sussistenza, la materia, ecc.; nè avrebbe disconosciute quelle dottrine ontologiche che nel mio sistema vanno intimamente collegate all' Ideologia, e che finora veramente furon da me piuttosto qua e là toccate, che trattate alla distesa, non avendo io pubblicato per anco nè l' Ontologia, nè le scienze che l' accompagnano, le quali sono la Dinamiologia, l' Agatologia e la Cosmologia . E qui basti dell' argomento principale del libro, che pur merita di essere ben accolto da noi, siccome ricchezza accresciuta all' italiana filosofia. Solo aggiungerò, prima di chiudere la presente, essemi dispiaciuto non poco l' aver trovate, in leggendo l' opera del sig. Gioberti, qua e colà accennate certe dottrine politiche, le quali non mi sembrano nè vere nè utili al genere umano. Tale si è quella, peraltro speciosissima, che sembra attribuire il diritto di governare ai migliori «(facc. 225, 226, 450) »; principio impossibile a ridursi in pratica, e ingiustissimo oltre a quanto si può credere; il quale divelle fino dalle radici ogni diritto non pur di dominio, ma ben anco di proprietà . Sono certissimo che l' egregio Gioberti non ne vuole le conseguenze, direttamente contrarie a quella rettitudine di mente e di animo, e a quell' amore del bene che il suo libro costantemente manifesta; e però, propriamente parlando egli disdice quel suo principio tutte le volte che toglie (e il fa con ingegno ed eloquenza) a difendere la verità, la giustizia e la religione. In un' opera di recente da me pubblicata, e probabilmente a Lei nota, io dimostrai darsi veramente un diritto di dominio ed un obbligo di sudditanza. Quando adunque questo diritto di dominio sia verificato nella realtà del fatto, egli è uopo rispettarlo, allo stesso modo come è uopo rispettare l' altrui campo, l' altrui casa, la veste, il pane altrui, eziandiochè questi beni siano in mano delle persone peggiori che ci vivono. Sappiam tutti che bella cosa sarebbe, o parer potrebbe, se le proprietà fossero de' soli buoni, i quali non ne userebber che bene; ma per quantunque sia, o paja bellissima questa cosa, ne vien egli di conseguenza che si possano spossessare i malvagi de' loro averi, per trasferir questi nelle mani de' migliori? E pure così si ragiona, o anzi si sragiona dai pretesi riformatori delle politiche società, i quali vorrebbero surrogare, com' essi dicono, la capacità elettiva al diritto ereditario. L' utilità pubblica, ecco il fonte ond' essi tutti i diritti pretendono derivare; ma s' ingannano oltre misura. Anteriore alla pubblica utilità (nome vago e capzioso), e ancor più di essa utilità veneranda, si è l' onestà e la giustizia, il rispetto cioè dei diritti di tutti: e finalmente la stessa utilità pubblica è andata in fumo, allorquando si comincia in suo nome a rapire l' altrui, e a permutare o le proprietà o i dominj. I quali concetti falsi e dannosi tanto più rincrescono a rinvenirsi nella « Teorica del soprannaturale », quanto che l' ingegno, la dottrina, la nobiltà dell' animo e il carattere sacerdotale del suo autore ci danno ampio diritto di pretendere da lui, ch' egli sappia diligentemente discernere l' apparenza del bene dal bene stesso, e cautelarsi contro a' lusinghevoli sofismi della giornata, i quali invescano assai facilmente coloro, che avendo il cuore inclinato all' affetto degli uomini, non hanno pari a quell' affetto la vigilanza della mente e l' ardore della sovrumana verità. [...OMISSIS...] L' amore della verità ci induce a rispondere col presente articolo alle difficultà mosse dal sig. abate Gioberti alla filosofia rosminiana. Ne compendiamo le principali in pochi sillogismi, e soggiungiamo ad esse le soluzioni. Il Rosmini dice, che l' Essere ideale, qual risplende per natura nella mente umana, è un' appartenenza di Dio - Ma ogni appartenenza di Dio, è Dio - Dunque l' essere ideale è Dio. Distinguo la minore - Ogni appartenenza di Dio, è Dio, se la si considera in Dio, e non la si precide da tutto il resto che forma la Divinità, concedo; se la si precide dal resto che forma la Divinità, nego: ed allora le si dà il titolo di appartenenza di Dio, per indicare appunto che unita al resto che forma la Divinità è Dio, ma non così precisa dal resto. Iddio non si può dividere, perchè è un Ente semplicissimo - Ma la recata distinzione divide Iddio - Dunque una tale distinzione fa quello che non si può, è falsa. Distinguo la maggiore, ed anco la minore. Distinguo la maggiore - Iddio non si può dividere realmente , concedo; mentalmente, nego. Infatti colla mente umana si dividono i suoi attributi, la sapienza, la giustizia, la potenza ec.. E così si divide l' idea dell' essere (che gli scolastici chiamano l' essere comunissimo ) da Dio sussistente. Di più distinguo la maggiore ancora così - Se da Dio si divide qualche suo attributo, o qualche cosa che la mente umana concepisca in lui, per modo che si pretenda, che quella cosa così divisa e precisa sia ancora Dio; la divisione non si può fare. Ma se si dice, che quella cosa così precisa non è Dio, ma un essere mentale ed universale, che si chiama un' appartenenza di Dio, per indicare il fonte onde procede; questa divisione si può fare. Distinguo poi la minore così - La recata distinzione divide Dio mentalmente, e in modo che a ciò, che si precide da Dio, non si applica più la denominazione di Dio, il che si può fare senza inconveniente, concedo; la recata distinzione divide Iddio realmente, ovvero mentalmente, ma in modo da applicare la denominazione di Dio a ciò che si considera come preciso da Dio, il che non si può fare, nego. Ogni cosa o è Dio, o una creatura - Ma l' Ente ideale non è una creatura, perchè gli si danno gli attributi dell' eternità, immutabilità ec.. - Dunque l' Ente ideale è Dio. Distinguo la maggiore e la minore. Distinguo la maggiore così - Ogni cosa che realmente sussiste è o Dio, o una creatura, lo concedo, (benchè s. Tommaso osservi che le forme e gli accidenti sono piuttosto concreati che creati, dicendosi le sole sostanze propriamente create [...OMISSIS...] «S. I XLV, IV »); ogni cosa ideale lo nego: perchè le relazioni p. e. tra Dio e la creatura, hanno un termine increato che è Dio, e un termine creato che è la creatura, onde non possono dirsi propriamente create, ma piuttosto conseguenti alla creazione. E così l' idea, ossia l' essere ideale, che è il mezzo del conoscere, è un' entità precisa mentalmente da Dio, e quindi la mente lo considera sotto due relazioni, o in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, e intanto non è creatura, ma ritiene delle qualificazioni divine, benchè niuna qualificazione, come nè pure niun attributo preciso da Dio si possa dire Dio, perchè gli manca ciò che è a Dio essenziale, cioè l' essere completo e d' ogni parte infinito: o in quanto è preciso, e intanto si può chiamare creatura a quel modo che una tal denominazione conviene a tutto ciò che ebbe principio o per la creazione, o in conseguenza della creazione; come s. Tommaso chiama la verità, che risplende nell' intelletto umano, creata «(S. I/XVI, VII) ». Distinguo la minore così - L' Ente ideale non è una creatura in quanto ritiene dell' essere divino da cui fu preciso, lo concedo: benchè non gli possa perciò competere la denominazione di Dio, perchè da Dio niente si può dividere colla mente che si rimanga Dio, giacchè se si potesse far ciò, si porrebbe la divisione in Dio stesso. L' Ente ideale è creatura in quanto è preciso da Dio nel modo detto, lo concedo pure, perchè ciò non significa altro se non che la precisione ha avuto principio, quando ha avuto principio l' uomo. Ciò che non è reale è nulla - Ma l' essere ideale non è reale - Dunque l' essere ideale è nulla. Nego la maggiore, perchè ognun sa che l' idea del pane non è il pane reale, e che tuttavia quella idea non è nulla; e così si dica d' ogni altra cosa. Che se sotto la denominazione di reale si vuole intendere ogni entità, anche l' ideale; in tal caso il vocabolo reale non è più adoperato in opposizione all' ideale, come si adopera nella proposizione, e però si cambia il valore alla parola. Poichè quando si contrappone il reale all' ideale, allora, come indica la proposizione stessa, si contrappongono due concetti l' uno all' altro, e però il reale opposto all' ideale non può essere l' ideale, e la cosa opposta all' idea non può essere l' idea, perchè altrimenti i concetti si confonderebbero. Rimarrà dunque che l' idea presa in opposizione alla cosa non è la cosa, e che l' ideale preso in opposizione al reale non è il reale. Il determinare poi che cosa sia l' ideale è appunto quello che si cerca di fare coll' Ideologia, e quando anche non si riuscisse a farlo, rimarrebbe egualmente vero che l' idea del pane non è la cosa pane, cioè il pane reale che si mangia, e che nutre, giacchè l' idea non si mangia nè nutre. Se gli elementi, di cui si fa risultare la cognizione del reale, non hanno in sè la detta cognizione della cosa reale, non la possono dare, perchè nemo dat quod non habet - Ma il Rosmini fa risultare la cognizione della cosa reale dall' idea dell' essere, e dal sentimento, che non contengono questa cognizione, perchè il sentimento è cieco, e non racchiude cognizione alcuna, e l' idea non racchiude la cognizione del reale, ma solo del possibile - Dunque egli non ispiega bene la cognizione del reale. Nego la maggiore e la minore. Nego la maggiore, perchè talora due elementi coll' unirsi insieme producono un terzo effetto, che non è nè nell' uno, nè nell' altro di essi elementi; il che si avvera continuamente anche nelle cose fisiche; p. e. l' azoto e l' ossigeno producono l' aria atmosferica, che non si trova nè nell' uno, nè nell' altro di essi. Nego la minore, perchè egli è falso che il Rosmini faccia nascere la cognizione del reale dai due soli elementi dell' essere ideale, e del sentimento; ma vi aggiunge anzi un terzo elemento che è l' atto dello spirito semplicissimo, che intuendo da una parte l' ideale, e dall' altra percependo il reale, s' accorge che nell' ideale è il tipo dell' attività reale percepita nel sentimento, e lo afferma a sè stesso, e così produce a sè la cognizione del reale mediante questo giudizio primitivo. Infatti la cognizione del reale consiste nella unione di que' due elementi operata dallo spirito, e dallo spirito semplice e identico. E però, sebbene ciascuno di essi non dia la cognizione del reale, tuttavia uniti la danno, appunto perchè la cognizione del reale non è altro che l' atto dello spirito che li congiunge, e congiungendoli ne afferma il rapporto. Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue - Ma il Rosmini pretende che il reale non si percepisca dall' uomo nel primo intuito del suo spirito - Dunque è impossibile che l' uomo giunga mai a conoscere il reale. Distinguo la maggiore - Il ragionamento è impossibile, se nel primo intuito l' uomo non vede in confuso tutto ciò che poscia colla riflessione distingue, concedo se si tratta di cognizione formale, cioè di un ragionamento che non esce dall' ordine delle idee, ed è perciò che nell' essere ideale, oggetto del primo intuito, vi hanno indistinti tutti i principj del ragionare, perchè i principj appartengono tutti all' ordine delle idee; nego se si tratta di cognizione materiata, perchè la materia della cognizione viene somministrata dal sentimento. D' altra parte sarebbe contro il buon senso il sostenere che nelle idee ci fosse la realtà della cosa, per es. che nell' idea dell' albero ci fosse l' albero stesso reale; giacchè in tal caso un' idea sarebbe un albero, o un albero sarebbe un' idea, il che è assurdo.

Il razionalismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Federigo Del7Rosso, professore di pandette nella regia università di Pisa, e al signor dottore in teologia abate Gio. Fantozzi, i quali poco fa s' aggiunsero difensori alla santa causa del vero e della divina religion nostra (1). E che la causa presa a difendersi contro gli sconosciuti teologi, dopo che da tant' altri (2), da questi due valent' uomini, non sia la mia personale, ma quella della verità e della sana dottrina, provalo anche il non esser io a lor conosciuto di volto, nè di letteraria corrispondenza; e il non aver essi temuto d' affrontare quella sottilissima maldicenza (parlo di cosa pubblica), che non pur si pratica colle stampe, ma ancora, a guisa di lubrico serpe, s' insinua per le rime e per gli pertugi, nelle case de' grandi del secolo che più professan pietà, e in quelle dei religiosi e fin delle religiose, e le contamina di suo veleno. Imperocchè quegli uomini dotti, e di soda religione forniti, non occultarono già al pubblico vilmente i loro nomi; chè il difensore della verità non ha cagion di vergogna; e la verità stessa, massimamente poi la cattolica verità, conforta siffattamente il suo campione, che gli fa piacere l' obbrobrio che dovesse per lei sostenere. Gli stessi ringraziamenti poi e le stesse lodi da me si debbono al chiarissimo sig. canonico e teologo don Lorenzo Gastaldi (3), e all' ottimo mio confratello e missionario apostolico don Gio. Battista Pagani (4), i quali, animati dallo stesso zelo purissimo per la sana dottrina, negli opuscoli coi quali la difesero, impugnando l' error contrario, esposero pure lealmente i loro nomi, e quasi le loro fronti agli insulti di quelli occulti, che di soppiatto coi mezzi più illegittimi le fanno guerra. Se dunque si dovessero allegare i teologi italiani , questi per fermo potrebbero addursi in mezzo per italiani teologi, ed altri che scrissero nella stessa sentenza, di cui si conoscono i nomi onorati e la dottrina; nè parrà mai ragionevole che s' arroghino di essere soli rappresentanti de' teologi italiani alcuni pochi, di cui s' occulta il nome, si sentono i vanti, si ammira l' ignoranza, si abborriscon gli errori tali da far credere, che piuttosto che de' teologi, degli increduli beffardi sotto le loro maschere si nascondano (1). Conciossiachè cotestoro, benchè invitati replicatamente a manifestarsi, continuano a tenersi carissime le loro tenebre, e a mandar fuori i loro scritti senza data di luogo e di tempo (2), e senza nome, ovvero con nome finto e vanaglorioso, o con nome segnato a sole iniziali, le quali, giudicandosi dallo spirito d' errore da cui sono raggirati, si dovrebbe credere che mentiscano anch' esse. Nel qual loro procedere continuano a dimostrare la falsità dello zelo che ostentano per la religione, imitando nuovamente gli eretici nel disprezzo delle leggi della Chiesa e de' sommi Pontefici, giacchè Clemente VIII, e di nuovo ultimamente Leone XII, ebbero decretato che non si stampi alcun libro, il quale non porti in fronte il nome, il cognome e la patria dell' autore, o, se vi è giusta ragion di tacerlo, il nome almeno del censore ecclesiastico che abbia esaminato il libro ed approvatolo (1). Ed or, a malgrado che noi, rispondendo ad Eusebio, l' abbiamo di tale disubbidienza alla Chiesa ammonito (2), i suoi seguaci e discepoli non per tanto vanno innanzi dello stesso tenore, facendo così conoscere se sia la Chiesa che stia loro in sul cuore, le cui leggi conculcano ad occhi aperti; o più tosto quel reo partito in cui si sono ostinatamente collegati, da alcuni sostenuto, il confesso, sol per cieca consuetudine, e, per passion presa, a corpo morto difeso. Ma quello che è più singolare si è, che, quantunque incogniti, menan alti clamori, che io non tratti con esso lor dolcemente. Che significato ha mai questo lamento in bocca di persone occulte? Chè, appunto da ciò stesso che stanno celati, ogni discreto può ben convincersi, che a disvelare quel veleno di razionalismo pratico che fa lor dire tanti errori, non mi muove animosità personale; e che se talora adopero, traendolo in aperto, delle maniere forti di dire (entro i confini però del giusto e del vero), queste non feriscono persone determinate, ma sono v“lte ad eccitare gl' incogniti, qualunque sieno, ed a scuoterli, acciocchè veggano, se non traviarono ancora del tutto, quanto irreligioso, quanto deforme e pernicioso a sè stessi sia il loro procedere, quanto erronea la loro dottrina, e salutarmente se ne vergognino. Certo non potevo io credere al cominciamento di questa lizza, nè l' avrei creduto giammai quand' anco me l' avesser giurato egregie persone, che ci covasse sotto un impegno di molti congiurati alla diffusione d' un irreligioso sistema: alla possibilità di questo fatto non ci avevo pensato mai. Laonde, allorchè a' miei orecchi pervenne il rumore d' un opuscolo che censurava un' opera mia, non avendolo io ancor veduto, diffidai grandemente di me medesimo, conscio d' essere troppo fallibile, e mi consolai insieme colla mia fede; mi consolai pensando che il cuor mio e l' anima mia non avea professato, nè professava altra dottrina da quella in fuori della Sede apostolica, quand' anco mi potesse essere sfuggita dovecchessia qualche espressione od opinione inesatta per ignoranza od inavvertenza (1), ed ero troppo disposto a dir loro con sant' Agostino, [...OMISSIS...] (2). Ma veduto poscia il libello del finto Eusebio, insiem col pubblico che ne portava simil giudizio, nè pur io vi scorsi altro che un meschinello che s' era riscaldato non poco il capo. Nella Risposta adunque e gli additai gli errori contro la sana teologia ch' egli evidentemente prendeva, e gli mostrai che tutti i dottori ch' egli citava, probabilmente sull' altrui fede, dicevano espressamente il contrario di quello ch' egli loro metteva in bocca, e sopra tutto mi lamentai com' egli avesse addotti tanti brani delle mie opere tronchi, alterati, evidentemente male interpretati ed intesi, lasciandogli poscia aperto il campo ad una ritrattazione, qualora fosse di buona fede; la quale, se sempre è onorevole e doverosa a quelli che sbagliansi a pubblico danno, niente poi dovea costare ad uno incognito. E però io speravo ch' egli avrebbe dato al mondo questa prova, che ciò ch' egli avea scritto in un modo cotanto alieno dal vero e dal convenevole, non era stata l' opera dell' impostura, nè ci covava alcun reo disegno. Ma andò fallita la mia speranza. In quella vece ammutolì ben egli, ed una sola scusa non fece o alle dottrine falsamente attribuitemi, o agli altri suoi propri sbagli. Del che, pazienza; chè il suo silenzio potea valere in vece di parole di pentimento. Ma quale fu poi il mio stupore e il mio disinganno al vedere uscire ben presto in pubblico uno sciame di altri anonimi, i quali, dissimulando in tutto o nella maggior parte, e più sostanzial delle cose, le ragioni evidentissime colle quali io avea convinto Eusebio d' innumerevoli falsità di fatto e di dogma, si fecero a ricantare le stesse menzogne, e ad inserire gli stessi semi, alla cattolica fede sì funesti, di pelagianismo e di razionalismo? Questo avvenimento m' aperse gli occhi, e mi spiegò tanti altri fatti della teologica storia degli ultimi secoli, di cui io non avevo mai c“lto bene il segreto. Certo nè io conobbi allora, nè conosco adesso chi sia l' uomo che si ascose sotto il finto nome di Eusebio Cristiano, nè di conoscerlo nutro vaghezza. Quanto poi agli altri anonimi, che gli sottentrarono nel tristo arringo da lui aperto, e dov' egli cadde, niuno d' essi conosco, almeno con certezza, non prestando io intiera fede alle voci che pur ne corsero. Anzi, troppo persuaso a mie spese, che i calunniatori non mancano, quanta non ho io ragion di temere, che anche le persone additate siccome autrici di quegli indegni libercoli, sieno segno di scellerata calunnia? Comecchessia la cosa, che lascio al giudizio di Dio, e vorrei nasconderla, se per me si potesse, a quel degli uomini, egli è troppo chiaro che non trattasi più di un individuo accidentalmente ingannato; trattasi di molti associati nei medesimi sentimenti, collaboranti al medesimo fine; trattasi di una fazione non surta adesso, di un sistema di dottrine tradizionali, il cui effetto, se prevalesse, sarebbe quello (ne abbiano essi coscienza o no), di scavare, come accennammo, il fondamento alla religion rivelata, qual è il dogma del peccato d' origine, di render vana la morte di Cristo, vani i sacramenti da lui istituiti, il che è quanto dire di rovesciare il Cristianesimo, la cattolica Chiesa, e quella stessa pietra, su cui ella è fondata. Non dirò io esser questo lo scopo conosciuto e voluto dagli scrittori anonimi di cui parlo, ma dirò che questo è l' effetto inevitabile di loro dottrine; ed egli è oggimai necessario che sia pienamente conosciuto al pubblico: nell' avvenuto scorgo la Provvidenza che il vuole. Scrivo adunque, ubbidendole; scrivo, rispondendo a degli scrittori inetti che non meriterebbero ch' altri entrasse con essi a tenzone, mentre taccio con altri, benchè dotti, che mi onorano di loro osservazioni in altri argomenti scientifici, perchè coi primi pericola la causa della fede e non co' secondi; scrivo senza aspettazione di lode che in altre materie potrei forse raccogliere; scrivo, interrompendo il corso d' altre mie doverose occupazioni, e privando a tempo il pubblico di quello che da me aspetta e che gli promisi: scrivo, a malgrado dell' indifferenza di questo secolo in opera di religione, che, penetrata ne' buoni stessi alla loro insaputa, son presti a darvi biasimo dell' entrar che facciate in questioni teologiche, per quantunque importanti, importanza che essi non veggono; scrivo a malgrado di que' prudenti, che temon sempre, e consiglianvi o fuggir tali brighe, più solleciti d' una falsa pace, che della madre della pace vera, la verità; scrivo, non ignaro delle persecuzioni che tale scrivere seco adduce, rassegnato a patir quelle che mi s' aggiungeranno, come a Dio piacerà, alle patite sin qui; scrivo, conoscendo quanti sieno per farsi a me giudici colla leggerezza che è il carattere dei tempi, senza precedente dottrina, senza usare di bastevole studio, senza ponderare le mie parole, senza intenderle; scrivo in somma ripugnandomi l' inclinazione, il dover comandandomelo, non per odio d' altrui, non per amor di me stesso, se ben m' intendo; ma solo per la causa di Cristo, della sua croce, della sua Chiesa, de' suoi sacramenti, a cui l' uomo inimico sempre fe' guerra, ed ora la trama più sottil forse e più insidiosa che mai coll' insinuare il più cavilloso razionalismo nel seno stesso della Chiesa. Chi avrà letto la « Dottrina del peccato originale » contro il finto Eusebio, e le « Nozioni di peccato e di colpa », contro il primo articolo dell' « Esame critico7teologico », ed avrà meditato le osservazioni che que' due miei scritti contengono, già si sarà pienamente convinto che pur troppo oggidì si spacciano presso di noi delle dottrine razionalistiche, corrodenti i visceri del Cristianesimo. Laonde intenderà agevolmente la cagione, il bisogno di questo terzo opuscolo, che continuandosi a que' primi apertamente le sveli, e quasi le denunzi a' pastori della Chiesa. Ci danno poi occasione d' innalzare questo terzo grido ai custodi d' Israello, i nuovi articoli usciti, che senza saper replicar cos' alcuna a quello che noi abbiamo risposto, seminano gli stessi errori, tenendosene sempre occulti gli autori. Uno di essi, che si mantella sotto le lettere iniziali C. B. P., ne stampò due a Firenze (non avendoli potuti stampare in Roma) all' insegna di Clio (1.41) contro i teologi piemontesi compilatori del « Propagatore religioso », che avean reso al finto Eusebio quella giustizia che si meritava. Fu risposto al primo vittoriosamente dal signor teologo Gastaldi. Mi giunse or solo alle mani il secondo, benchè stampato da più d' un anno; chè l' autore, o quelli che il fecero per lui stampare, secondo la tattica loro propria di operar sempre per vie segrete, ne ritrassero tutti gli esemplari in Roma; ed ivi solo, per quanto io so, cautamente il diffusero, sperando che, non essendo ivi io presente potessero farvi qualche breccia, prima che ne pervenisse a me la notizia, quasichè nella capitale del mondo cattolico si potessero con tutta facilità vendere i pruni per melaranci. A' quali articoli di C. B. P. uscì compagno l' articolo secondo (1) dell' « Esame critico7teologico », non so se anteriore, posteriore o contemporaneo, perchè l' autor di questo, più pudico ancora del suo confratello, nascose col proprio nome anche il luogo e il tempo fin della stampa. Ed a questi pubblici attacchi non si cessa mai d' accompagnare i privati, secondo il costume anche qui delle sette ereticali: lettere artificiose, maldicenti parole, [...OMISSIS...] , per usare le parole che s. Girolamo rivolse ad Elvidio, [...OMISSIS...] ; non finendo poi di amplificare con aria di religiosa riverenza i grandi uomini, che sono quelli che, sotto coperta di straziar me, strazian la Chiesa; i quali per pura modestia si turano il viso; chè forse non li offenda del sol la luce. Ma deh che mai fanno con tali vanti di grandezza, se non invitare gli occhi del pubblico a misurarne la piccolezza? e in vece di crescer credito alle ree dottrine, discreditarle? Perocchè, di che statura sien quelli che le seminano, fingendosi miei oppositori, ognuno il può ben vedere, anche ignorandone i nomi, giacchè non occultan perciò nè l' intrinseca erroneità delle loro scritture, nè i difetti accessorii, la triviale erudizione, il tuon magistrale con cui pronunciano tante inezie, e quelle stiracchiate argomentazioni, su cui C. B. P. specialmente (che per brevità d' or innanzi citeremo colla sua prima lettera C) sospende quasi sull' eculeo il lettore; che da vero, volendo io celiare, se me ne restasse vaghezza in tanta gravità di cose, direi che quel mio gaio parente di Girolamo Tartarotti, aggiungerebbe, vivendo, qualche ottava per celebrarle, al suo famoso poemetto delle « Conclusioni ». Il signor C. poi va sì d' accordo coll' Anonimo autore dell' « Esame critico7teologico », che lo ricopia, se non è ricopiato, ne' sofismi, negli sbagli, nei bassi costumi, nelle frasi pedantesche del dire; sicchè rifiutato l' uno, è rifiutato anche l' altro; nè gli errori e i costumi d' entrambi differiscono poi da quelli del finto Eusebio, di cui prendono a sostenere la causa perduta, quantunque insieme l' onorino del titolo di linguacciuto (1), e con gravità l' esortino « « ad adoprare più blandamente »(2) ». Esaminando adunque tali opuscoli e le loro accuse, darò un nuovo saggio del rincrescevole fatto, che giova avverare, cioè che anco nelle scuole teologiche, anche in questa nostra Italia, le razionalistiche dottrine, se non s' accorre al riparo, vanno dannosamente introducendosi. Ma prima d' additare al pubblico questi nuovi documenti di fatto, prima di dimostrare come i recenti teologi accusino di bajana e di gianseniana la dottrina stessa cattolica, affine di far prevalere il razionalismo nelle scuole della sacra teologia; io debbo scaltrire il pubblico, di nuovo, contro la lor mala fede, che è il principale, anzi l' unico nostro avversario, alle seguenti cautele richiamando tutti quelli che bramano conoscere il vero. 1 Che ogni qual volta gli occulti teologi espongono le nostre opinioni, essi non sono degni di fede; ed io rigetto tutte in fascio quelle ch' essi ci appongono, perchè non ve n' ha forse una sola che non sia da essi inventata, o alterata, tale quale la producono: 2 Che io chiedo all' equità pubblica di essere giudicato sui miei proprii scritti e non sui laceri brani ch' essi n' adducono e commentano con suprema malizia: 3 Che venga osservata la dissimulazione che essi fanno degli argomenti irrepugnabili da me addotti contro di loro negli scritti precedenti, ai quali essi mai niente risposero. Dopo di ciò merita, che si osservi la cavillosità del loro argomentare, massime quando maneggiano quell' arma che dicevamo così favorita agli eretici, d' apporre altrui falsamente la taccia o il sospetto dell' eresia contraria a quella a cui essi pendono: un esempio schiarirà meglio quanto vo' dire. Alla faccia 361 dell' « Antropologia », io scrivea, che [...OMISSIS...] Nella « Risposta poi ad Eusebio », faccia 253 scrivea pure: [...OMISSIS...] Or il C. sente in questi due brani odore di Giansenismo! Perocchè nota, ecco il cavillo, che con inesattezza di parlare io adopero le parole contrario e contraria , in luogo di contraddittorio e contraddittoria , come appunto pure fecero i Giansenisti, di che conchiude altresì, che io confondo una cosa coll' altra: [...OMISSIS...] . Ma dove riesce questa sì frivola cavillazione? Ad accusare non più me, che i santi dottori della Chiesa, e i Concilii ecumenici, che han fatto sempre lo stesso uso della parola contrario . S. Tommaso in un luogo de' molti dice: [...OMISSIS...] ; e il sacro Concilio di Trento adopera il medesimo modo di favellare ogni qual volta scrive, [...OMISSIS...] . Onde applicando le parole con cui tosto appresso il C. riprende una maniera, a suo parere, sì impropria, dovrebbesi dire: [...OMISSIS...] Siamo adunque nuovamente ridotti a difendere s. Tommaso e il sacro Concilio di Trento contro il C., come li abbiamo dovuti difendere contro il finto Eusebio, e gli altri innominati, senza alcun pro finora per essi, ma con qualche pro, io voglio sperare, pe' fedeli, a cui vantaggio scriviamo. Quanto dunque al « « confondersi l' una cosa coll' altra, » » io dimando, se ne' luoghi citati del sacro Concilio, di s. Tommaso, e del minimo discepolo e figliuolo della Chiesa, il Rosmini, la parola contrario abbia dell' equivoco, ovvero esprima men chiaramente un sentimento cattolico? Non vi può essere nessuno che ne dubiti; giacchè la parola contrario negli addotti luoghi non ammette che un solo senso, e questo cattolicissimo. Dunque il finto Eusebio ed il C. non possono accusare di confondere una cosa coll' altra nè il Concilio di Trento, nè il Dottore angelico, nè quanti usano delle loro maniere di favellare. Ma se non v' ha confusione d' idee nell' uso che della parola contrario fanno il sacro Concilio ed i dottori della Chiesa, tuttavia, insiste il signor C., vi ha [...OMISSIS...] . Prima di rispondere, farò osservare che qualora ciò fosse (e non gliel accordiamo certamente), non tratterebbesi più d' inesattezza che abbia odore di giansenismo, ma di difetto grammaticale; poichè, riuscendo la proposizione chiara e vera, cessa ogni possibile censura sulle cose, e non restan inesatte che le parole. Così il C. confonderebbe la teologia colla grammatica. Ma non si può conoscere a pieno la frivolezza de' cavilli che usano i recenti nostri teologi, se non rivedendo tutto per disteso il processo che il C. fa addosso a quelli che ad imitazione dei Giansenisti, usano la parola contrario nel senso dell' Angelico e del sacrosanto Concilio; i quali tutti, nella povera persona mia, compariscono per rei convenuti. Egli comincia assai bene; perocchè stabilisce, che [...OMISSIS...] . - Che è questo che dite su? Potrebbe egli essere un artificio ereticale quello di seguire una regola sicurissima , ed un canone ricevuto da tutte le scuole? L' imputar questo agli eretici, è egli un confutarli, o non più tosto uno sgagliardire la causa cattolica esponendola alla derisione? Sarebb' egli forse questo il vero vostro scopo, mio signor teologo? Chi vuole abbattere efficacemente i gianseniani e gli altri eretici, non dee riprenderli di seguire una regola sicurissima e da tutte le scuole cattoliche ammessa, anzi dee mostrar loro che se n' allontanano, anche dove fanno le viste di seguitarla. Ma che ha poi da fare questo colle colpe che il C. trova nell' uso della parola contrario fatta da me, non sull' esempio de' Giansenisti, ma su quel della Chiesa? - Non manca la relazione. Acciocchè il peccato, di cui mi vuol reo, d' aver seguita la Chiesa nell' uso della parola contrario , appaia più smisurato, egli osserva, che quand' anco in vece di contrario , io avessi usato contraddittorio , non gli sarei sfuggito di mano. Perocchè avrei sempre usato d' un miserabile artificio de' Gianseniani che in perfidia e in mala fede non hanno pari; i quali, per eludere le bolle pontificie, prendono spesso a far uso di una regola sicurissima , e di un canone ricevuto da tutte le scuole! Per più sicurezza adunque, che non gli sguizziamo, ci fa sapere, che quand' anco noi avessimo parlato, com' egli stesso c' indetta, e la santa Chiesa avesse usato il suo barbaro contradictorium , in vece del latino contrarium che sempre usò; saremmo gianseniani egualmente. Ma veniamo più alle strette. - Che inesattezza di parlare è ella l' adoperare contrario in vece di contraddittorio , in que' luoghi ne' quali l' una e l' altra parola vale il medesimo? - Ve lo dirà il C.. Se è un primo artificio de' Gianseniani l' argomentare che una proposizione è vera, quand' è contraddittoria ad un' altra condannata, regola però sicurissima , e canone ricevuto da tutte le scuole; quegli eretici hanno poi un secondo artificio che il C. così sagacemente disvela: [...OMISSIS...] . - Gli resterebbe adesso a provare che noi abbiamo scambiata qualche proposizion contraria , con qualche proposizione contraddittoria alle condannate; ma questo è quello che egli si dimentica di fare. Se nelle proposizioni del sacro Concilio, di s. Tommaso, e nelle mie, alla parola contrario si sostituisca contraddittorio , diventan forse altre proposizioni di senso diverso? Mai no. Dunque non è il caso, in cui una proposizione venga all' altra sostituita. Egli non dissente dall' accordarcelo; anzi perciò appunto conchiude, dopo sì lunghe premesse, che la colpa nostra non è che una inesattezza di espressione sfuggitaci (2). - Ma se voleva dir questo solo, a che trar fuori i maligni artifizii degli eretici? Se la conclusione del suo discorso dovea essere, che noi abbiamo commessa un' inesattezza grammaticale, con che logica conseguenza deduce, che noi, cioè il sacro Concilio e gli altri miei socii, siamo sospetti d' eresia? - Doh? acutezza d' ingegno! Sillogizza egli così: Voi altri siete inesatti nell' uso delle parole, senza alterazione però della dottrina. Ma quella inesattezza di parole fu adoperata altre volte dagli eretici. Dunque sembra che voi altri vogliate stabilire quella inesattezza, acciocchè poi gli eretici se ne prevalgano contro le verità definite. - Possibile tanta stiracchiatura? - S' ascoltin di nuovo le proprie parole, colle quali conchiude: [...OMISSIS...] . Il sospetto è grave. Ma via, che poche linee appresso, ci fa grazia soggiungendo che è affatto improbabile che noi abbiamo voluto stabilire una regola sì rea (2). Ma non essendo però certo il contrario, rimaniamo tutti sospetti. Ma via, avvi almeno qualche inesattezza grammaticale nell' usare contrario per contraddittorio? - Nessunissima. A parte la giovanile pedanteria, che in qualche testo di scuola va rinvergando le arbitrarie distinzioni del senso delle parole. Ecco qual è la differenza vera e primaria tra la voce contrario e la voce contraddittorio . L' etimologia della voce contraddittorio dimostra che ella s' istituì a significare un detto contrario ad un altro detto . La voce poi contrario , non ha questa limitazione di significar solo la contrarietà dei detti o delle proposizioni; ma stendesi ad esprimere egualmente la contrarietà che hanno fra loro e i detti, o l' altre cose. Quindi dirassi acconciamente, che il caldo è contrario al freddo; ma non così, che il caldo è contraddittorio al freddo. All' incontro di due proposizioni contrarie si dice con egual proprietà che sono contrarie, ovvero contraddittorie, poichè contraddizione non significa altro che la contrarietà appunto di due proposizioni. E` questa la prima ed original differenza che corre tra le due voci contrario e contraddittorio; e da essa si posson dedurre tutte le altre, di cui qui noi non abbisogniamo. La conclusione adunque si è, che qualora si tratta di proposizioni contrario e contraddittorio valgono il medesimo; là dove quando si tratta di cose, impropriamente s' adopera la voce contraddittorio ma si dee adoperare la voce contrario . Ora noi parlavamo di proposizioni. Dunque l' osservazione del C. è vana. Conciossiachè non si possono dare proposizioni che veramente sieno contrarie fra loro (il che significa tutt' altro dall' esser diverse e dall' esser opposte ) (1), come sono quelle che io adducevo, le quali non sieno medesimamente contradditorie: poichè la loro contrarietà consiste appunto nell' avere contraddizione a differenza della contrarietà che aver posson le cose, la quale si chiama semplicemente contrarietà. Finiamola adunque con un verso del Petrarca, [...OMISSIS...] A tali cavilli sono astretti di ricorrere i teologi che hanno preso inclinazione al razionalismo: innumerevoli conferme se n' avranno in quanto diremo in appresso. Ma oltracciò hanno bisogno d' aggiungere a' cavilli un' altr' arma, nel maneggio della quale sperano assai, voglio dire, le falsità. Prendiamone intanto un esempio dal recente articolo del signor C.. Tratta innanzi la proposizione XLVI (2) di Bajo (giacchè a queste sempre ricorrono, siccome a quelle, di cui non essendo definito il senso preciso dalla bolla di condanna, possono facilmente abusare), così egli scrive: [...OMISSIS...] . Ma il vero si è, che nè il Propagatore nè il Rosmini ha mai insegnato nulla di simile. Dunque con questa falsità non fa il C. che accrescere il numero di quelle innumerevoli, che abbiamo notate ne' suoi predecessori e maestri co' due scritti a questo precedenti, invitandoli a giustificarsi, senza che abbiano più osato zittirne. Dando adunque il suo luogo alla verità, il « Propagatore » dimostrò, che tanto se la parola volontario nella citata proposizione di Bajo si prende in senso di volontario semplice , quanto se si prende in senso di volontario libero; quella proposizione non può mai applicarsi a condannare la dottrina della Chiesa da noi seguita. Questo non è certamente un insegnare, che quella parola si debba prendere in senso di volontario semplice, come asserisce il C.. Scoperta la bugia; egli è uopo che si vegga anche com' essa venga manipolata strada facendo moltiplicandosi, e da sè medesima fecondandosi. Da prima il teologo nostro, in vece di esporre la indicata alternativa, FINGE che i due membri di essa sieno due argomenti diversi adoperati successivamente dal Propagatore; e lo riconviene di contraddizione. E certo, che l' uno di quegli argomenti non può stare insieme coll' altro. Poichè se il voluntarium della proposizione di Bajo vuol dire volontario semplice , esso non può voler dire libero , e viceversa. Compiacendosi quindi di questa sua bell' INVENZIONE, scorrazza e trionfa a sua posta per molte faccie del suo articolo! (2) Dopo aver così finto, che il Propagatore rechi due argomenti successivi, nell' un de' quali supponga che il voluntarium significhi volontario semplice , e nell' altro che significhi volontario libero , sopprime quest' ultimo membro dell' alternativa, e dichiara avere il Propagatore INSEGNATO doversi prendere il voluntarium in senso di volontario semplice! (3) Per quello che riguarda a me, sono trattato colla stessa onestà. Dice che anch' io insegno , doversi prendere in senso di volontario semplice la parola voluntarium nella proposizione di Bajo (1). Se non che il suo mentire riesce più sguaiato; poichè 1 lungi dall' aver io insegnato, che il voluntarium di Bajo si debba prendere per volontario semplice , ho dichiarato espressamente il contrario. Mi si permetta di riprodurre le mie parole: [...OMISSIS...] . 2 Perchè il dire che io ho insegnato doversi prendere il voluntarium della proposizione per volontario semplice, cozza con quello ch' egli stesso poche faccie innanzi avea confessato, scrivendo, [...OMISSIS...] . Ecco adunque dimostrata in pratica quale sia la morale del razionalismo , quella morale che fu condannata in teoria da Innocenzo XI e da altri sommi Pontefici: si può mentire e calunniare ogni qual volta sembri necessario a sostenere il proprio partito. Ma ond' avviene poi, che i teologi nostri tanto si sdegnino al solo immaginare (ed è tutta loro immaginazione, come vedemmo), che a talun piaccia intendere la proposizione di Bajo, [...OMISSIS...] d' un volontario semplice? Sarebbe forse un assurdo, l' intenderla così? Sarebb' egli un cadere nel Bajanismo? Direbbe forse un errore colui che dicesse, che alla definizione del peccato appartiene il volontario in genere? quasichè coloro che esigono alla ragion del peccato il libero , possano poi negarle, senza contraddirsi, il volontario semplice già compreso nel libero? No, che il dir questo non è errore, se pur non si vuole tacciar d' errore sant' Agostino, che, prendendo così appunto la parola volontario , tolse nel libro I delle sue « Ritrattazioni », cioè nell' opera che sopra tutte l' altre del santo Dottore dee fare autorità, a dimostrare, che [...OMISSIS...] . Perocchè ivi egli dice, che tanto chi pecca con volontà libera, quanto chi pecca con volontà necessitata, sempre pecca con volontà , soggiacendo questi secondi alla necessità in pena d' altri peccati liberi che precedettero. Dimostra dunque prima, che peccano con volontà quelli che peccano liberamente dicendo: [...OMISSIS...] . Dimostra poscia, che peccano con volontà quelli che peccano necessitati così soggiungendo: [...OMISSIS...] . Di che si raccoglie contro l' assunto del nostro nuovo teologo 1 che la parola volontà , e di conseguente volontario , non ha il solo senso di libero, com' egli pretende; 2 che la proposizione di Bajo merita di essere condannata ugualmente anco se colla parola volontario in essa adoperata s' intenda esprimersi il volontario in genere; 3 che l' intenderla così, e l' averla per condannata anche in questo senso, può essere un errore d' interpretazione, non mai un errore contro la sana dottrina; se pure non si dimostra prima, che sant' Agostino erri in tali materie. E ciò posto, perchè dunque, noi torniamo a chiedere, i nuovi teologi tanto s' allarmano solo immaginando, che il volontario di quella proposizione si voglia intendere per volontario in genere? N' hanno la loro ragione; ed è perchè, così intesa, ella ferisce nel cuore il loro erroneo sistema, tendente ad esaltare indebitamente la natura umana, pretendendola immune da qualsiasi vizio originale (2); sicchè e la libertà non abbia un assoluto bisogno della grazia del Salvatore, almeno per osservare compiutamente la legge naturale, e la ragione non abbia un assoluto bisogno della rivelazione, acciocchè possa l' uomo ottenere il suo fine: alle quali dottrine conduce lo spirito razionalistico, che hanno preso a loro guida. E veramente se colla condanna di quella proposizione è stato solamente deciso, che a costituire un peccato è necessario il libero , essi si credono licenziati ad affermare, che l' atto di libera volontà che pose Adamo peccando è tutto quanto il volontario che entra a formare il peccato originale de' posteri, senza che rimanga un bisogno al mondo di riconoscere un vizio intrinseco nella volontà di questi, ne' quali non può essere certamente il libero. Ma se s' intende in quella vece essersi deciso, che a costituire un peccato è necessario il volontario (libero o no); in tal caso non possono più dire che quella proposizione non riguarda menomamente il vizio naturale inerente alla volontà de' bambini. Conciossiachè ella potrebbe benissimo riferirsi alla volontà viziosa di questi; e tanto più che rimarrebbe facile a chicchessia d' argomentare in questo modo. Egli è di fede, che il peccato originale in Adamo, e il peccato originale ne' suoi discendenti, sono peccati numericamente distinti (1). Se dunque sono distinti numericamente i peccati, devono esser distinti del pari gli elementi che li compongono e li costituiscono. Ma il volontario è un elemento costituente il peccato per la proposizione XLVI di Bajo condannata. Dunque dee esservi un volontario distinto che costituisce il peccato di Adamo, e un altro volontario numericamente distinto dal primo, che costituisce il peccato del bambino da lui discendente. La quale argomentazione irrepugnabile vale, si noti bene, pel solo peccato , non per la colpabilità del peccato , che tutta si dee desumere dalla libertà del primo padre che lo commise. Sebbene noi qui non abbiamo veramente bisogno d' insistere sul senso del voluntarium , che trovasi nella proposizione di Bajo; giacchè ad ogni modo sembra chiaro, che, come in ogni discendente di Adamo, ci ha un peccato proprio , così dee esserci un volontario proprio , cioè uno stato della volontà peccaminoso ed empio; non potendo la volontà di un uomo, per esempio di Adamo, essere nè l' elemento costitutivo, nè il soggetto del peccato originale, in quant' è proprio del suo discendente, e però distinto di numero da quel di esso Adamo. Come adunque Eusebio e i suoi compagni possono confessare sinceramente la fede cattolica che riconosce un proprio peccato ne' posteri, quand' essi escludono ogni infezione ed ogni vizio dalla volontà di questi, e però riducono il peccato (pel quale non intendono che un atto libero ) alla mera imputazione estrinseca dell' atto libero e colpevole di Adamo? A cansare ogni rimprovero, pongono essi mano a due spedienti. Col primo cercano di tranquillare i teologi, facendo lor credere essere intieramente alieno dalla loro dottrina il distruggere il dogma del peccato originale; e consiste in dichiarare, che ammettono per elemento volontario costitutivo del peccato proprio del bambino la stessa volontà libera di Adamo; e però che ben riconoscono essere il volontario un elemento necessario a costituire il peccato, e anzi si lagnano come il Rosmini creda ch' essi gliel voglian negare (1). Ma essendo tuttavia impossibile il non riconoscere un manifesto assurdo nell' ammettere che il peccato proprio d' un individuo, per esempio d' un bambino, abbia per suo elemento costitutivo il volontario proprio di un altro individuo, per esempio di Adamo: ed il Cristianesimo ammettendo sì de' misteri, non mai degli assurdi (2), essi ricorrono al secondo spediente, col quale credono di tranquillare i filosofi, confessando loro, che la voce peccato, quand' essi parlano dell' originale, la pigliano in tutt' altro significato, [...OMISSIS...] (3). Così realmente essi distruggono il peccato originale, confessandolo nelle scuole teologiche , ma rendendolo un assurdo; e poi correggonsi nelle scuole filosofiche , cioè dichiarando che la parola peccato applicata all' originale de' bambini non significa più peccato. Ma badisi bene, che quando un dogma è reso un assurdo, egli è bello ed annullato in tutte le intelligenze umane; e quand' esso è ridotto ad una parola, basta un frego sulla carta ed è cancellato. No; i dogmi della Chiesa non consistono in meri vocaboli; sono ciò che i vocaboli significano, e costituiscono l' oggetto della nostra credenza: la Chiesa colle sue parole non cerca di illudere gli uomini. Laonde, come S. Gregorio Nazianzeno diceva, che [...OMISSIS...] ; così noi possiam dire, che la verità cattolica al tutto manca ne' nostri teologi, perchè manca « in eorum sententiis », quantunque si studino ad ogni possa di far apparire che ella vi sia « in sono verborum ». E dee parere pure, a chi un poco riflette, la strana cosa, che si diano degli uomini i quali vogliano far credere, che un peccato proprio possa esistere senza una volontà propria peccaminosa . Certo, il profondo Estio non solo parlava cattolicamente, ma in modo conforme al senso comune, dicendo che a stabilire il dogma del peccato d' origine ne' bambini non basta nè il solo volontario in Adamo, nè il solo volontario ne' bambini; ma che entrambi questi volontarii s' esigono; quel d' Adamo che è libero esigendosi a spiegarne l' imputazione ossia la colpabilità , quel de' bambini a spiegare la sostanza del peccato che viene imputato (2). Quindi egli è più chiaro del sole, che « Ad rationem et definitionem peccati requiritur voluntarium », non solo inteso il voluntarium per libero , qual fu in Adamo, ma inteso anche per volontario semplice e non libero, qual ora è ne' bambini che nascono, checchè altri si cianci. E s' abbia qui il lettore, se ancor ne dubita, una sopraggiunta d' altri argomenti, acciocchè nessuno più s' ostini a negare una sì preziosa verità del cattolico insegnamento, o se la nega, sia inescusabile. Cominciamo dalla Scrittura. La Scrittura dice non solo che, [...OMISSIS...] ; ma ella usa altresì come formola solenne, quest' altra: [...OMISSIS...] , formola consacrata anche dal Concilio di Trento e da tutta l' ecclesiastica tradizione (3). Ora i teologi nostri, che non riconoscono altro costitutivo del peccato originale de' bambini se non il volontario libero di Adamo, debbono di conseguente negare all' Apostolo ed alla Chiesa che i bambini sieno [...OMISSIS...] , e in quella vece sostenere che sieno [...OMISSIS...] . Ma or che cosa dicevano altro gli antichi Pelagiani? Non era questa appunto nel fondo la loro dottrina? Uno de' loro primi padri, Teodoro vescovo di Mopsuesta, non ebbe scritto appositamente un' opera in cinque libri partita « contra asserentes peccare homines NATURA non VOLUNTATE? (4). » E chi mai erano questi « asserentes peccare homines natura »? Secondo Teodoro, erano certi eretici dell' Occidente, che andavano contaminando la Chiesa, uno de' quali, da lui chiamato Aram ( imprecatio, maledictio , se pure il nome non è storpiato dai copisti) si prende da lui direttamente a impugnare. Nè, a dir vero, la franchezza di Teodoro, d' onorare del titol d' eretici quelli occidentali ch' egli impugnava, andò senza effetto; perocchè ne fu gabbato lo stesso Fozio quattro secoli dopo, che veramente si persuase, scrivesse Teodoro « adversus Occidentales hac labe infectos », com' egli s' esprime dando conto di quell' opera (5). E che perciò? Non ha egli la calunnia, come si suol dire, sempre corte le gambe? E qual altro frutto raccolse Teodoro dalla sua, fuor di quel dell' infamia? qual altro frutto raccolse dall' aver egli, eretico, chiamati eretici i cattolici, e nominato imprecazione o maledizione ( «ara») il dottor massimo della Chiesa, s. Girolamo? Erano adunque i cattolici che sostenevano, come dice Teodoro, [...OMISSIS...] . Così Teodoro duramente alquanto esponeva il sentir de' cattolici, siccome eretici da lui tradotti al giudizio pubblico e combattuti. Nè egli fa maraviglia, se esponesse i loro sentimenti con espressioni un po' dure solendo così fare tutti quelli che tolgono ad impugnarli, sperando di riuscirvi più facilmente, più che infedelmente gli espongono. Per altro egli era vero, che la cattolica Chiesa insegnava [...OMISSIS...] (2). In questo trovava l' assurdità Teodoro, e in questo la trovano i nostri teologi; i quali, per evitarla, vengono a dire che gli uomini non sono improbi per natura (la quale anzi è sana, sanissima), ma solo per la volontà libera del primo padre ben inteso, così essi aggiungono poi, che non trattasi d' un peccato secondo tutto il valore della parola, ma secundum quid , e quadamtenus (1), il che, a parlar chiaro, significa un peccato per cotal maniera di dire usitata, non già un peccato reale ed effettivo; del che rimarrebbe più che contento Zuinglio, che insegnava del pari, il peccato originale ne' bambini dirsi solo peccato per metonimia (2). Per altro, l' obbiezione di Teodoro precursore de' Pelagiani, di cui questi poscia fecero si grand' uso, che il peccato si debba sempre porre in essere dalla VOLONTA`, e non possa dalla NATURA; nasceva, a mio parere, dalla poca meditazione sulla umana natura. Quell' obbiezione in fatti rimane confutata assai facilmente, benchè di tanta apparenza, rispondendo loro in questo modo: « Sì, egli è vero quello che voi altri dite, che il peccato dee sempre essere costituito dalla volontà di colui nel quale si trova, perocchè, essendo il peccato proprio, anche la volontà che lo costituisce dee esser propria. Ma voi errate nel tirare da questo principio la conseguenza, che dunque l' uomo non possa essere peccatore PER NATURA. Vi avviene di cadere in questo errore, perchè non avete osservato con estensione bastevole la condizione della umana volontà: voi vi persuadete, che tutta la volontà si riduca agli atti di essa, ma la cosa non è così. Innanzi agli atti suoi vi ha la potenza stessa della volontà, la quale forma parte della umana NATURA. Se dunque questa potenza riceve una QUALITA` E DISPOSIZIONE IMMORALE, l' uomo è improbo ad un tempo PER VOLONTA` e PER NATURA, poichè, come si diceva, quella è parte di questa. Che poi questa disposizione immorale possa dirsi peccato (abituale); egli è facile a provarsi quando si consideri, che il peccato è un' inordinazione della persona umana , e che la volontà immoralmente disposta è quella che costituisce propriamente la persona dell' uomo. »Tutto questo discorso è coerente; e con esso riman dileguato quell' apparente assurdo, che gli eretici rinfacciano all' insegnamento della Chiesa circa il peccato originale; e giustificato appieno questo insegnamento. All' incontro i moderni teologi razionalisti, per isfuggire da quell' assurdo, fanno una transazione cogli eretici, colla quale, abbandonando loro la sostanza del dogma, si contentano di salvare alcune frasi, come coloro che, dando i denari a' ladroni, salvan la borsa (1). Ora l' accennata risposta, che, ben intesa, chiude la bocca agli eretici, chi ne considera il fondo, non è mia; ma è de' Padri e de' Dottori ond' io la trassi. Per non essere infinito, mi limiterò a mostrare com' ella si trovi, argomentando da' principii di S. Tommaso. S. Tommaso rassomiglia il peccato originale de' posteri al peccato della mano dell' omicida. La mano è mossa al peccato dall' omicida stesso; e così i posteri, motione generationis , sono mossi al peccato dalla natura peccatrice di Adamo generante (2). Il movimento peccaminoso della mano è come una continuazione del movimento peccaminoso dell' anima dell' omicida; e lo stato peccaminoso de' posteri è come una continuazione, mediante l' abito rimasto nell' uomo che ebbe peccato, del movimento peccaminoso di Adamo prevaricatore. Ma qui nasce una grave difficoltà. La mano non è veramente peccatrice; ma si dice tale per sineddoche, o per metonimia come direbbe Zuinglio, o quadamtenus come dicono i nostri anonimi. Nè pure i posteri adunque, secondo tale esempio, saranno in senso proprio e vero peccatori. Tale difficoltà si vince benissimo argomentando dai principii di S. Tommaso. Il principio fondamentale, che egli pone è questo, [...OMISSIS...] Ritengasi bene questo principio, che è il fondo dell' argomentazione dell' Angelico, e non badisi materialmente alle parole. Argomentando da un sì chiaro e fecondo principio, che si deduce? Si deduce, che la similitudine della mano dell' omicida, benchè in sè stessa opportuna a illustrare il concetto, per accidente poi in qualche cosa non calza, come accade sempre colle similitudini. Ma il principio riman generale: « Il peccato è ricevuto secondo che quello a cui si comunica può essere o no soggetto di peccato. » Resta a dimandarsi: la mano può ella esser soggetto di peccato? Rispondesi: propriamente parlando no; ma per un cotal traslato può essere considerata come tale, a preferenza dell' asta e della spada (1). All' incontro poi, la volontà personale de' posteri è indubitatamente soggetto di peccato assai meglio della mano, perchè ella non è tale in linguaggio figurato, ma in senso proprio. L' infezione morale adunque, trovando nelle persone umane a cui si comunica, veri soggetti distinti di bene e di male morale, vi è ricevuta come tale e diviene in essi un vero peccato. Tutta questa dottrina dell' Angelico, intorno all' essenza ed alla comunicazione del peccato dimostra, 1 ch' egli considera i bambini come riceventi dalla mozione del generante l' atteggiamento peccaminoso; 2 che ricevono quell' atteggiamento come la mano riceve il movimento peccaminoso dall' omicida; ma che in essi è peccato più proprio che non possa essere nella mano; perchè essi sono veri soggetti idonei di peccato distinti dal generante; mentre la mano non è soggetto di peccato distinto dall' omicida, ma dicesi tale per un parlar figurato; 3 che i bambini sono soggetti di peccato, perchè hanno una volontà personale, onde a questa è comunicata l' inordinazione in cui il peccato consiste. Dalla qual maniera, che usa l' Angelico a spiegare, in che guisa i posteri sieno peccatori per natura , si può agevolmente dedurre, che se il loro peccato vien messo in essere dalla natura , è ad un tempo la loro natura morale quella che, essendo suscettibile di peccato, propriamente ne rimane affetta, la qual natura morale è la loro propria volontà personale: onde essi sono costituiti peccatori per volontà; e quindi cessa l' assurdo obbiettato dagli eretici. Nel che sta la sostanza della risposta nostra a Teodoro. Ma ora passiamo a vedere come i recenti teologi scavano sotto anche le fondamenta al dogma del peccato originale, e ad altri molti ad un tempo, distruggendo il concetto della volontà semplice , e altra volontà non riconoscendo nell' uomo che la volontà libera: quindi escludendo ogni altra specie di moralità, fuor di quella che dall' uso della libertà si produce. Il C. prende a far tutto ciò in un lunghissimo tratto del suo libro (1), nel quale, senza un bisogno al mondo, travaglia e suda a dimostrare, che nella citata proposizione di Bajo la parola volontario non significa altro che libero . Per riuscire a tale dimostrazione, bastava ch' egli avesse recate a confronto le tre proposizioni condannate 46, 47, 4.; nell' ultima delle quali si afferma, che [...OMISSIS...] ; dove dichiarasi volontario il peccato originale ne' bambini, perchè questi nol disdicono e non l' impugnano col loro libero arbitrio . Bajo ricorreva adunque al (preteso) arbitrio de' fanciulli per ispiegare come il peccato in essi fosse volontario; e però il volontario che Bajo esigeva nel peccato de' bambini era un libero7negativo , cioè era il non fare della loro libertà. All' incontro, egli non vedea necessario a costituire il peccato de' bambini il libero7positivo , che solo nella libertà di Adamo autore del peccato si rinviene, e quindi le proposizioni: [...OMISSIS...] . Così sarebbe rimasto dimostrato, che la parola volontarium ne' detti articoli intesa, ha il valore di libero; avvertendo però, che in generale quella parola, secondo la mente di Bajo, talora significa un libero7positivo , un atto, vera causa dell' azione peccaminosa [...OMISSIS...] ; e talora significa un libero7negativo , un non7atto della volontà, pel quale il peccato domina nell' uomo [...OMISSIS...] . Con tale confronto, egli avrebbe pur conosciuto in che stia precisamente l' errore bajano; cioè nel costituire l' essenza del peccato originale de' bambini nel non7atto del loro libero arbitrio, quasichè fossero obbligati di far quello che è loro impossibile; e perchè nol fanno, incolpar si dovessero; il che è ad un tempo un errore contro la fede, ed un assurdo contro la ragione. Ma il C., in vece di mettersi per la via piana e facile a dimostrare il suo intento, piglia un' ampia girata con iscialacquo di volgarissima erudizione, tutt' a risparmio di logica. S' impegna egli a provare, che il voluntarium negli articoli citati di Bajo significa libero; perchè la parola voluntarium correva nell' uso comune de' teologi in senso di libero . Acciocchè un tale argomento avesse forza da stringere, dovrebb' essere dimostrato pienamente, non già che la parola voluntarium si usasse molte volte per significare libero , ma che così si usasse sempre; di maniera che non vi fossero esempii di scrittori filosofici e teologici, ne' quali ella s' adoperasse in senso di volontario semplicemente o in genere, prescindendo dalla effettiva libertà. Certo non ci vuole una gran testa a capire, che se non si fa ciò, non si stringe che aria. Tuttavia egli s' appaga di trar fuori una cinquantina forse di testi, ne' quali, secondo il suo giudizio, la parola volontario vale altrettanto che libero; conchiudendo poi, che dunque anche negli articoli di Bajo ella dee aver avuto questa medesima significazione! Il fatto però si è, che la parola volontario non significa altro che volontario , cioè cosa voluta, cosa appartenente alla volontà. Tale è il suo primitivo significato, come l' origine e la formazione della parola dimostra. Ora ciò che è volontario , ciò che è voluto, può esser voluto in due modi, perchè la volontà opera in due modi, cioè necessariamente , e liberamente (1). La parola volontario esprime il genere , il necessariamente e il liberamente esprimono due differenze specifiche di questo genere; sicchè vi è un volontario necessario ed un volontario libero; e la parola volontario s' accomoda egualmente bene ad esprimere l' uno e l' altro; perchè il genere giustamente si predica di tutte le specie. In pari tempo si vuol notare, che gli atti che fa la volontà necessitata , sfuggono più facilmente alla osservazione ed alla riflession nostra; ed all' incontro si osservano in noi con assai più di facilità gli atti liberi, ne' quali sentiamo di collocare manifestamente la nostra propria energia personale (1). Di più, gli atti volontarii7liberi diventano la materia ordinaria de' nostri discorsi, perchè, essendo essi in nostra balía, possiamo e dobbiamo governarli secondo le leggi e i precetti morali, e mettiamo in essi somma importanza, dipendendo appunto da essi tutta quella prosperità e felicità che noi ci possiamo procacciar da noi stessi (aiutati da Dio) in questa e nell' altra vita. Dalle quali due cagioni procede, che quando noi parliamo di atti volontarii , intendiamo spessissimo favellare di atti volontarii7liberi; e non ci apponiamo questa parola liberi per brevità, contentandoci di dirli semplicemente volontarii . Conciossiachè il contesto del discorso fa già intendere da sè che noi intendiamo parlare di quelli. Questo che accade nel parlar comune quanto all' uso della parola volontario, accade simigliantemente quant' all' uso della parola peccato , che esprime il genere delle immoralità7personali, e però tanto la specie del peccato necessario7incolpevole , quanto la specie del peccato libero7colpevole; ma nel parlare ordinario tuttavia la si prende a significare il peccato7colpevole , per le stesse ragioni onde si usurpa la parola volontario significante il genere ad indicare la specie del volontario7libero, cioè perchè il peccato colpevole attrae di lunga mano più l' attenzione degli uomini, ed è l' oggetto de' comuni discorsi (1). Ma quando trattasi di scienza, e si vuol tornare alla rigorosa esattezza delle parole, affine di non confondere insieme perniciosamente i concetti affini; allora si dee restituire a quelle il proprio significato, usando le parole che segnano il genere come peccato e volontario , a significare il genere; e le parole che segnano le specie, come colpa e libero , a significare le specie e non altramente. Indi non è maraviglia, se, a malgrado delle citazioni del C., s' incontri bene spesso ne' filosofi e ne' teologi questa proprietà di parlare; e quanto alla parola volontario , che egli pretende usarsi per libero, è pure un fatto innegabile ch' ella si trova spesso adoperata per volontario semplice e generico. Mi si perdoni se discendo a cose assai comuni. Certo niuno che abbia a fior di labbra saggiata la teologica scienza può ignorare, che quando si tratta scientificamente del volontario , esso si suol prima definire in generale, senza farvi entrare esclusivamente la libertà; e poi lo si divide nelle sue due specie di necessario e di libero . Il qual metodo logico di procedere tiene al suo solito S. Tommaso (1); onde a principio definisce il volontario in modo, che si possa applicare tanto al necessario quanto al libero, dicendo così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è chiaro, che volontario si chiama tanto l' atto necessario, quanto l' atto libero della volontà, perchè l' uno e l' altro est a propria inclinatione , e tende in un fine conosciuto. Ma di poi passa il santo Dottore a distinguere il volontario necessario , come sarebbe l' atto con cui l' uomo tende al fine e al bene universale (6), dal volontario libero , a cui spettano gli altri atti posti in balia dell' uomo. Non si puó adunque dubitare, che il primo e proprio significato della parola volontario sia quella di volontario in genere, non essendo la necessità e la libertà che due suoi modi accidentali. Tale significato si fa manifesto dalla ragione stessa e dall' etimologia della parola, dalla definizione de' citati Padri della Chiesa, e dall' autorità del Dottore angelico, a cui consentono tutti i teologi. De' quali in cosa così nota recherò due soli, in aiuto degl' imperiti, il Busembaum e il Viva. Il primo scrive: [...OMISSIS...] . Domenico Viva egualmente, lungi dal confondere il volontario col libero , ne dà due definizioni distinte, e ne mostra a lungo la differenza, e la definizione che dà del volontario in opposizione del libero è appunto questa, [...OMISSIS...] , che è quella stessa di S. Tommaso, che il nostro C. pretende doversi applicare non alla semplice volontà, ma alla libertà (5). E tuttavia, digiuno come si mostra delle nozioni elementari della sacra teologia, egli non dubita d' impegnarsi a dimostrare, che voluntarium non significa altro che libero; e si persuade che la sua dimostrazione sia pienissima coll' arrecare qualche dozzina di testi, in cui egli dice senza provarlo, che vi sta dentro la parola volontario usata in senso di libero! Riesce tanto più inconcepibile quella sicurezza di affermare che volontario si usi sempre per libero , se si osserva che più volte gli viene in sulla penna la proposizione 39 di Bajo, [...OMISSIS...] ; nella quale si contiene l' errore, che il voluntarie significhi liberamente sempre, anche congiunto colla necessità: il qual solo esempio rende inutile affatto la sua fatica materiale di razzolare da' teologi e fin dagli eretici tanti passi, ne' quali si trova la parola volontario . Anzi egli avrebbe dovuto ben imparare da quella proposizione, che è insegnamento della Chiesa avervi due volontarii, l' uno necessario e l' altro libero; e che l' errore condannato in Bajo nasceva appunto dal confondere que' due volontarii in un solo, pretendendo egli che si potesse chiamar libero anche quello che era necessario . Laonde la sola differenza fra Bajo e il C. consiste in questo, che Bajo non riconosceva nella volontà dell' uomo caduto, se non il modo dell' operar necessario che falsamente chiamava libero col pretesto che non era violentato; laddove il C. non riconosce (se dee aver senso il suo discorso) che un operar solo volontario mai necessitato e sempre libero; sicchè la parola volontario non possa ammettere che quest' ultimo significato (1). Ma l' inettitudine del ragionare che fa il nostro C., vedesi ancor più se si esaminano i molti testi che egli reca a provare il suo falso assunto. Dal qual esame, che ognun può fare da sè, manifestamente risulta, 1 che a dimostrare che la parola voluntarium ebbe sempre il significato di libero, egli reca più testi, ne' quali si parla di azioni libere ed imputabili, quasi che alcuno avesse mai negato, che le azioni libere si possano chiamare volontarie , dicendosi anzi da noi, che la parola volontario conviene ugualmente ai due modi di operare della volontà, il libero ed il necessario; e per esempio, tanto all' amore che portano a Dio i celesti comprensori, quanto a quello che gli portano i terreni viatori; benchè quelli il facciano attratti necessariamente, e a un tempo spontaneamente, dalla vista del sommo Bene; e questi mossi dalla loro libera elezione: 2 Reca alcuni testi ne' quali, così precisi dal contesto, non si potrebbe definire se il voluntarium si prenda per libero, o solamente per volontario in genere abbracciante i due modi di operare della umana volontà (1): 3 Reca alcuni testi, ne' quali si suppone che i bambini non facciano atti di volontà, e ciò perchè si suppone che non facciano atti di ragione. E qui si noti, non doverci noi far maraviglia, che alcuni autori non sieno giunti ad osservare, che i bambini quasi appena ch' esistono comincino ad usare di loro ragione e di loro volontà, benchè non possano nè riflettere, nè liberamente operare. L' osservazione continuata a farsi sull' umana natura per tanti secoli, ha finalmente fatto conoscere ciò che non si conosceva in altri tempi. Egli è ora certo, secondo ch' io stimo, che il bambino fino da' primi tempi di sua esistenza conosce e vuole la madre, conosce e vuole il cibo; e però non manca in lui il volontario , sebbene non siavi ancora il libero . Se adunque alcuni autori argomentavano che i bambini non facessero nessuna maniera d' atti volontarii, dalla supposizione che non avessero alcun uso di ragione; egli è facile il rispondere, che, trovata falsa quella supposizione, rimane parimente falsa la conseguenza che essi ne deducevano. 4 Reca alcuni passi, ne' quali si dice, o sembra che si dica, che ogni atto umano è un atto libero . Ma se per atto umano s' intenda un atto proprio del solo uomo, e non comune alle bestie, egli è chiaro che atto umano si dee dire ogni atto della volontà (difinita questa per la facoltà che opera dietro la cognizione) (1), sia esso libero o necessario. Così l' atto, onde la volontà tende al bene in comune, necessario , a giudizio d' ogni dottore; l' atto col quale i beati amano Dio, ed i dannati lo odiano; gli atti della volontà che precedono la riflessione e seguono la cognizione diretta , sono certamente atti umani. Che anzi è umano anche ogni atto d' intelligenza, non solo ogni atto di volontà (2). Qualora dunque S. Tommaso restringe l' atto umano all' atto libero, si dee conciliarlo seco stesso, che pur ammette indubitatamente degli atti della volontà umana necessitati, ed egli è facile il farlo, osservando, ch' egli definisce que' soli atti umani, su' quali si fonda il merito ed il demerito, ad essi riferendosi tutta la legge morale obbligatoria, scopo della sua trattazione (3). 5 Reca alcuni passi di Luterani, Calvinisti ecc. senza accorgersi che cotesti eretici negavano l' operar libero dell' umana volontà, e che quindi tant' è lungi, che la parola voluntarium in loro bocca valesse il libero , che anzi la stessa parola libero da loro si abusa a significare il semplice volontario, o spontaneo! 6 Finalmente, se questo C. sa poco il latino e l' italiano, non vuol pretendersi che sappia di greco; nè dee far maraviglia che, sbagliando nell' assegnare alla parola voluntarium il suo vero valore, molto più la sbagli, quando presume di assegnarla alla parola greca «ekusion», sostenendo che altro non significhi che libero! (4) Non credo io dover essere inutile il metter qui sotto gli occhi del lettore un brano del Petavio, nel quale questo teologo, 1 dà il vero valore della parola «ekusion», 2 e espone la dottrina di S. Tommaso sui due valori della parola volontario, valendo ora un volontario libero detto anco volontario perfetto , ed a un volontario non7libero, detto volontario7imperfetto . Il brano di cui parliamo è questo: [...OMISSIS...] . Or vada il C., e veda se gli conviene attribuire il suo volontario libero alle bestie! La conclusione si è, essere un errore tanto il dire con Calvino, Giansenio e Bajo, che la volontà dell' uomo nel presente stato di natura scaduta non opera mai in altro modo che per necessità, quanto il dire, ciò che cercano insinuare i moderni teologi tendenti al razionalismo, che la volontà non opera mai in altro modo che per libertà. La Chiesa, con tutti i teologi suoi, tenendo la verità che sta nel mezzo, se da una parte insegna, che l' uomo al presente opera bene spesso con libertà, dall' altra riconosce altresì ed insegna, che talora egli soggiace alla necessità, dichiarando però che in quest' ultimo caso nè merita nè demerita. Al numero XLV del suo articolo (3) il C., desideroso di far credere che il Pelagianismo abbia il merito di distruggere l' orribile mostro del Bajanismo, ne parla come se quella dottrina fosse la contraddittoria appunto di quest' ultimo errore, quella nè più nè meno a cui Bajo fè guerra. Ma il vero si è, non essere già il Bajanismo quello che abbatte legittimamente il Pelagianismo, ma esser la dottrina cattolica che abbatte e sterpa l' uno e l' altro errore. [...OMISSIS...] . Sul qual passo chiamo il lettore ad osservare, 1 Che, acciocchè il santo Dottor della grazia mescolato a Calvino e a Giansenio vada più uniforme in tal compagnia; piace al C. di chiamarlo Agostino, in vece di seguir l' uso comune, che il chiama sant' Agostino; il che non meriterebbe di essere osservato, se il contesto e lo spirito dell' autore non dimostrasse un' affettata mancanza di rispetto al santo Dottore; 2 Che, opponendo egli i Pelagiani alla dottrina di Bajo, che tanto detesta, non aggiunge nè pure una mezza parola di disapprovazione della dottrina di quegli eretici; 3 Che, essendo verissimo che i Pelagiani non a Bajo, com' egli vuol supporre, ma alla dottrina cattolica, contrapponeano il principio, che « « ogni peccato dee esser libero » »; il nostro C. subdolosamente asserisce [...OMISSIS...] , volendo così far credere, che quella sia un' obbiezione che ponea loro in bocca Bajo, quasi che dei Pelagiani non fosse veramente; sperando così di cessare da sè l' odiosità dell' eresia pelagiana nell' uso continuo che egli fa di quella loro cara obbiezione, siccome fanno altresì i suoi compagni, affine di poter distrugger sotterra il dogma del peccato originale, come facevano quegli eretici; 4 Che, dicendo egli che Bajo [...OMISSIS...] , senz' aggiungere alcuna spiegazione, viene ad insinuare, che la dottrina di Agostino sia appunto quella di Bajo, con ingiuria gravissima a questo santo Dottore. La quale ingiuria viene da lui ripetuta più sotto, dove, volendo dimostrare come Bajo erroneamente risponda alla detta obbiezion pelagiana, egli non fa altro che riportare per risposta di Bajo le stesse precise parole di sant' Agostino, e queste, quasi fossero di Bajo, e contenessero la stessa dottrina di quel condannato dottore, interpolandole anche di sue chiose, e riprendendo il Rosmini perchè anch' egli consenta in quella medesima dottrina che è di sant' Agostino e di Bajo! Ecco questo brano singolare (avvertasi che le parole che cominciano, « Frustra putas, etc. » sono di sant' Agostino (1), e le parole italiane sono del nostro C.): [...OMISSIS...] . Questo brano comincia così: [...OMISSIS...] Ascrive adunque a Bajo quanto vi si contiene. Ma nel brano non si contiene altro che la soluzione che dà sant' Agostino ad una obbiezione di Giuliano pelagiano. Dunque il C. attribuisce a sant' Agostino, che scrive contro i Pelagiani la precisa dottrina di Bajo; dando torto a sant' Agostino e di conseguenza ragione ai Pelagiani! (2). Di poi nelle sue chiose, apposte alle parole di sant' Agostino, come se fosser parole di Bajo stesso, egli attribuisce a Rosmini il Bajanismo, perchè egli fa la stessa distinzione che fece e fa sant' Agostino colla Chiesa cattolica contro gli eretici pelagiani, la distinzione cioè contenuta, a sentenza del nostro C., nelle citate parole di sant' Agostino, fra i peccati liberi, unde liberum est abstinere , e i peccati non liberi, unde liberum non est abstinere; venendo così a dichiarare infetta di Bajanismo quella distinzione con cui il campione più grande della cattolica Chiesa, da tutta la Chiesa seguito in tale materia, combatte il pelagianismo; e con cui solamente quest' eresia può essere trionfalmente combattuta! Ora, che cosa è egli questo, se non un favorire sott' acqua, e difendere l' eresia più di tutte l' altre terribile a' tempi nostri, il pelagianismo cioè, e la sua necessaria prole, il razionalismo? Certo il pretendere o l' insinuare destramente che la dottrina di sant' Agostino sia quella di Bajo, è quanto un pretendere che la Chiesa romana, cioè la cattolica, abbia condannato sè stessa (1). Non poche volte i romani Pontefici dichiararono solennemente che la santa Sede non tiene altra dottrina circa il libero arbitrio e la grazia, che quella dell' aquila fra i dottori. Lo dichiarò il pontefice Ormisda, scrivendo al vescovo Possessore: [...OMISSIS...] ; lo dichiarò il pontefice Giovanni II, scrivendo: [...OMISSIS...] . Lo dichiarò Clemente VIII quando alle celebri Congregazioni de auxiliis non prescrisse altra norma, a cui dovessero riscontrare la sanità della dottrina moliniana, se non quella della dottrina di sant' Agostino, rendendone per ragioni che da tal DUCE capitanata ebbe già combattuto e vinto la Chiesa, e che alla dottrina di lui niente mancava di ciò in cui versavano le suscitate questioni e finalmente [...OMISSIS...] . Lo dichiarò infine più recentemente Innocenzo XII nel celebre suo breve del 6 febbraio 1694 ai dottori di Lovanio, simigliantemente dicendo di sant' Agostino, che [...OMISSIS...] . Lo stesso attesta il venerabile cardinal Baronio circa il professare che fa la Chiesa Romana la dottrina di sant' Agostino intorno la grazia e il libero arbitrio che lodando il decreto con cui Clemente VIII prescrive che non si debba partire dalla dottrina di sant' Agostino: [...OMISSIS...] . Lo stesso della santa Sede attesta il Petavio, [...OMISSIS...] . Lo Suarez finalmente non dubita di confessare: [...OMISSIS...] . Onde a ragione dice il Bossuet, che [...OMISSIS...] . Ora chi è dunque costui, che, rinnovando gli sfregi fatti in altri tempi dagli eretici al santo Dottore (3), osa dargli posto a lato di Calvino e di Giansenio, e affermare mendacemente parole di Bajo, e in Bajo dannate, quelle che sono d' un sì grande splendor della Chiesa? Chi è costui, che ingiuria sfacciato la Sede apostolica nel suo Dottore! Conciossiachè ella, maestra costante di verità, condannando Bajo, continuò sempre, giusta la tradizione antichissima in quella prima cattedra conservata, ad aver Agostino a maestro. Ella se ne dichiarò altamente, noi n' abbiamo portate altrove le ripetute dichiarazioni. Deh, che mai possono fare cotesti cozzi contro la pietra? Che posson fare questi attacchi contro la gloria di colui, che, vinto dalla grazia un dì, ne glorificò la possanza, e ne divenne l' umile banditore e a tutto il mondo il maestro? Del quale ora, dopo quattordici secoli, così Iddio compensando l' umil suo servo, rinverdiscono l' ossa, e dall' Africa ridimandate all' Italia vi approdano portate in solenne trionfo a ribenedire quella terra; e la pastorale sua verga inaridita, rigermogliando, di freschi fiori, con bel prodigio, si copre (4). Ma torniamo allo scopo a cui mirano i Teologi razionalisti in deprimere S. Agostino, e in escludere l' operare necessitato dell' umana volontà, lasciandole solo l' operar libero, che è sempre quello d' esaltare indebitamente l' umana natura; escludendo da lei ogni infezione o vizio originale, vediamo com' essi frammischiano alla dottrina cattolica diversi errori. Al C. dà grandissima noia che si chiami co' Padri e coi teologi della Chiesa, il vizio originale: « una colpa naturale, » un peccato che s' imputa alla natura umana (1). Le traduce egli per bajane, e decreta loro il bando come a quelle che troppo bene esprimono il dogma che si vuole distrutto. Or che a ciò tenda questo sbandeggiamento delle maniere più comuni ed efficaci della cattolica teologia, si fa più aperto da ciò che scrive il nostro C. dal numero XC sino alla fin del suo Articolo. Quivi si può ravvisare uno studio incessante d' intessere a sottil trama insieme cogli errori di Bajo le cattoliche verità intorno all' originale peccato, acciocchè queste sieno ravvolte, se esser potesse nella stessa condanna di quelli. Da prima reca in mezzo un brano di Bajo, che contiene veramente l' errore di riconoscere imputazion ne' bambini, non perchè il peccato originale era libero in causa, ma perchè da essi non è contrariato con un atto di loro propria volontà, [...OMISSIS...] . Ma incontanente soggiunge a questo un altro brano di Bajo; [...OMISSIS...] . Ora qui l' errore trovasi colla cattolica verità mescolato: questa si contiene nelle parole di S. Agostino quello nell' abuso, che Bajo ne fa. Separiamo dunque la cattolica verità annunziata dal S. Dottore, dall' errore di Bajo, provvedendoci così contro il malizioso artificio di chi vuol confondere insieme tali cose, per dannarle entrambi. La cattolica verità da S. Agostino annunziata si è, che il male della concupiscenza tiene il fanciullo non battezzato nella morte dell' anima; e ve lo terrebbe sempre s' egli non ricevesse il battesimo: [...OMISSIS...] . La qual dottrina è insegnata da S. Agostino e ripetuta le mille volte, [...OMISSIS...] . E la dottrina stessa si contiene nelle parole del sacrosanto concilio di Trento. [...OMISSIS...] . Ora se questa è la dottrina cattolica, qual' è poi l' errore di Bajo? quale l' abuso che Bajo fece delle parole del santo dottore? L' errore è indicato in quel QUAPROPTER, col quale comincia il brano arrecato. S. Agostino dice, il bambino dannato pel suo proprio peccato: questa è verità. Ma Bajo dice, il bambino dannato, perchè gli viene imputato a colpa il suo peccato e gli viene imputato a colpa, perchè quel peccato aderente a lui, domina in lui senza ch' egli s' opponga al medesimo con un atto di sua volontà: quest' è l' error condannato. E` sempre l' errore dell' imputazione , sempre il pretendere, che ogni peccato anche necessitato sia colpa, è un volere sostituire la colpa al peccato, un dire che alla COLPA non è necessario il LIBERO: [...OMISSIS...] . Ora teniamo conto di questa distinzione tra la dannazione ammessa da S. Agostino e dalla Chiesa, come aderente al peccato del bambino, e l' imputazione ammessa da Bajo come aderente allo stesso peccato e non proveniente dalla libertà d' Adamo che lo commise, e seguitiamo ad analizzare il ragionamento del nostro C. il quale aggiunge anche un terzo brano di Bajo, in cui è riprodotta la stessa confusione tra la verità cattolica della dannazione de' bambini, e l' errore bajano della imputazione a un principio non libero. Perduta dunque di vista la distinzione tra la parte vera e la parte falsa insieme tramischiata dice, che il Rosmini non sembra veramente appaciarsi con Bajo perchè [...OMISSIS...] . E certo, quando non si voglia dire altro che questo, il Rosmini non s' astiene dall' affermarlo; perchè quelle parole, che [...OMISSIS...] sono parole non di Bajo, ma del dottor della grazia; a cui il Signor C. si mostra tanto nemico da confonderlo sempre cogli eretici. Il dottor della grazia non altro esprime con quelle parole che un dogma infallibile della Chiesa. Sotto il nome di Bajanismo dunque i teologi razionalisti combattono anche il dogma dell' originale peccato, pel quale i cattolici credono, che il peccato d' origine detiene in istato di morte, come dicono le parole di S. Agostino, il fanciullo, e lo terrebbero nella morte eterna, se non venisse a salvarnelo il santo battesimo. E` dunque manifesto il reo effetto di stabilire il Pelagianismo col pretesto di confutare il Bajanismo. Adesso si vede perchè i teologi razionalisti si perdano in tanti andirivieni di parole, ed in tante contraddizioni: la coscienza gli inquieta. Sono arditi perchè non sono soli. Il signor C. è una cosa col finto Eusebio, di cui si fa patrocinatore, uomo tanto addentro ne' segreti dell' eterno, da potere scrivere: [...OMISSIS...] che è appunto l' argomento di Pelagio contro il peccato d' origine tante volte ribattuto da quell' Agostino, che con Bajo si vuol confuso (2). E` una cosa coll' altro anonimo stampato alla macchia di cui dice, che il libro meriterebbe per avventura di essere più divulgato e conosciuto (3), anonimo che osa mettere in bocca a S. Tommaso queste parole: [...OMISSIS...] colle quali parole viene negato anche espressamente il peccato originale. Tutti questi, ed altri ancora vi hanno preceduto, o signor C., a distruggere il peccato d' origine: e perchè la Chiesa non gli ha ancora repressi con ispeciale decreto, voi credete che l' abbiano fatto impunemente, e n' avete assunto, più audace e di lor più maligno, il patrocinio. Certamente che voi troverete delle simpatie nei biblici della Germania, e in tutti i razionalisti de' tempi nostri, di questi tempi orgogliosi che non fanno che esagerare le forze dell' uomo fino a disconoscere il bisogno ch' egli ha della redenzione, e del battesimo; troverete delle simpatie ne' deisti e in tutti gli empi che aspettano, che l' uman genere vada avanti per la via del progresso, senza Dio, senza battesimo, senza bisogno di grazia, ma con tutte queste simpatie, da qualsiasi parte ve le pensiate riscuotere, non giungerete però al fine di contraffare la parola immutabil di Dio, che affidata specialmente a Pietro dee conservarsi intatta sin alla fine dei secoli. Or questa parola è stata quella che ha detto, [...OMISSIS...] , e però il peccato d' origine [...OMISSIS...] , come dice non Bajo, ma la Chiesa. [...OMISSIS...] le parole son dette allo stesso proposito da S. Agostino, [...OMISSIS...] . Prosegue quindi collo stesso argomento ad investire non noi, ma la Chiesa, perchè ammetta, che sieno detenuti nella morte del peccato i bambini non battezzati, in questo modo: [...OMISSIS...] . Che accusa è questa? Il dire « a seguitare Bajo anche nel materiale delle parole »suppone già provato per innanzi, che Bajo sia stato seguito nel formale, cioè ne' suoi sentimenti. E in quella da voi fu provato, che il Rosmini ammette colla Chiesa, che [...OMISSIS...] , che gli attribuì la dannazione, anche eterna se non vengono redenti dal Salvator col battesimo. Dobbiamo dunque dirgli di nuovo, come S. Agostino a' Pelagiani. [...OMISSIS...] (2). Ma se il teologo che esaminiamo come un tipo dei teologi razionalisti, attaccò questo dogma, sotto specie, che contenga il formale della bajana eresia, ora quali argomenti adduce poi a provare, che il Rosmini abbracciandolo, seguita Bajo anche nel materiale delle parole? Primo argomento: che egli cita, è il testo « regnavit mors » di S. Paolo. Anche con S. Paolo se la prendono. Anche S. Paolo pute di bajanismo? Secondo argomento: che [...OMISSIS...] Il che suppone che sia un seguitar Bajo lo spiegare S. Paolo con S. Agostino dalla santa sede seguito. E quello che il Rosmini ha mostrato con S. Agostino, l' ha egli mostrato bene o male? Se male, perchè non lo dite accennando dove stia il difetto? Se bene, perchè togliete a riprenderlo? [...OMISSIS...] quasichè il dire coll' apostolo, che negli uomini tutti che nascono vi ha peccato abituale e originale, vi ha dannazione, se il Salvator non la toglie, sia un errore, a cui sia bisogno soggiungere un correttivo, quand' egli è pure il dogma fondamentale del cristianesimo, quello che voi in tutt' i modi vorreste distruggere. Colla stessa astuzia dice poco appresso, che [...OMISSIS...] . Nessuno, se è cristiano cattolico, dirà mai, come fingono costoro di temere, che le cose da voi riprese come infette di Bajanismo, sieno semplicemente innocue, quasichè indifferentemente si potessero o ammettere o rifiutare; e molto meno nessuno dirà, che sieno punto o poco malvagie; ma ogni cristiano cattolico dirà, che sono di fede; che il dichiararle malvage è un proscrivere ciò che crede la Chiesa; e il far loro grazia di chiamarle innocue, è una maniera degna di chi vuol seminare di coperto la rea dottrina. Pelagio appunto soleva usar questa tattica, di far credere che fossero mere opinioni quelle ch' erano punti di fede. Nel numero, che viene appresso (1), pigliando a ricapitolarsi, il C., riproduce la confusione tra la dannazione annessa al peccato originale ne' posteri, per sentenza della Chiesa, coll' imputazione , riferita al bambino in vece che al libero autor del peccato, nel che sta l' errore di Bajo. E dopo aver detto, come Bajo stabilì, che a costituire l' essenza del peccato non è necessaria la libertà, senza punto aggiungere, che la libertà è solo necessaria a costituire il peccato7colpevole, e che per aver questo negato, Bajo incorse nella condanna; dopo aver detto ancora, come Bajo considerò la macchia d' origine per vero peccato, non riferendolo alla volontà libera del primo padre, anche qui, senza aggiungere, che Bajo errò perchè parlava di colpa, la quale non può stare senza riferirsi alla sua causa, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ecco attribuito di nuovo a Bajo, quel che è della Chiesa cattolica. Sono i soli pelagiani quelli, che il negano. [...OMISSIS...] , così scriveva appunto contro i Pelagiani S. Agostino, [...OMISSIS...] . Laonde la Chiesa riconosce la necessità del battesimo de' bambini, acciocchè evitino la condannazione del peccato e la morte eterna, e però nel corpo stesso del D. Canonico trovasi registrato questo luogo di S. Agostino, [...OMISSIS...] e quell' altro ancora: [...OMISSIS...] . Perchè dunque dichiarare bajana la dottrina, che fa i bambini soggetti all' eterna condannazione se non vengono rigenerati? perchè togliere così la necessità del battesimo? perchè adulare in tal modo l' umana natura? perchè ingiuriare alla redenzione, ed alla grazia di GESU` Cristo sotto coperta di difendere la cattolica fede? E veggasi inesausta astuzia! Dopo aver posta la questione [...OMISSIS...] quasichè questa fosse la dottrina di Bajo e non della Chiesa, soggiunge immediatamente: [...OMISSIS...] . Egli vuol dunque far credere, che l' Accademia della Sorbona, abbia involto nella riprovazione la dottrina della Chiesa intorno alla condanna annessa al peccato d' origine ne' bambini! Ma la frode riuscirà troppo palese a ciascuno, che ponga mente alla connessione delle sue parole e alla sconnessione dei sensi: quel perciò , col quale egli passa ad annunziare la censura della Sorbona, non attacca colle parole precedenti; e la conseguenza al tutto discorda dalle premesse. Nelle premesse c' è la dottrina della Chiesa intorno alla condanna, che trae dietro a sè necessariamente l' originale infezione, e quindi la necessità del Battesimo per la salute [...OMISSIS...] : nella conseguenza c' è la condanna della dottrina erronea intorno al poter demeritare nello stato di natura decaduta con atti necessari [...OMISSIS...] dottrina appartenente all' imputazione, e non alla semplice dannazione: e di più riguardante atti di peccato distinti dall' originale, nel quale il bambino non peccat , nè egli è peccante, come dicono i teologi, benchè sia peccatore. Costante è dunque la mira, a cui collimano tutti i sofismi di cotesto occulto scrittore; ed è perfettamente la stessa degli altri occulti dommatizzanti: fingono d' assalire una persona particolare, per assalire la fede di Cristo; la falsità, e le astutezze sono le medesime: si vuol distrutto il dogma che tanto oggidì pesa alla superbia degli uomini e che è la base della Cristiana umiltà, quello dell' originale peccato. Al qual tristo intendimento, affin di pescar sempre nel torbido, confonde di nuovo sformatamente le idee. Poichè egli espone l' errore di Bajo, dicendo che [...OMISSIS...] . A cui la Chiesa risponde: Siete voi stesso in errore, e in error gravissimo Signor C. così ragionando. Nella proposizione XLVI che voi citate [...OMISSIS...] , la chiesa decise che è necessaria la libera volontà a costituire una COLPA; nella proposizione XLVII, che [...OMISSIS...] , la Chiesa decise conseguentemente, che il peccato de' bambini, non può essere considerato come una COLPA, se non si riferisce alla libera volontà d' Adamo che lo commise. E perchè dunque confondete la colpa, il peccato, la pena del peccato? perchè attribuite quel che disse la Chiesa della colpa alla pena del peccato? Con questa vostra fallacia, venite a proscrivere la dottrina della Chiesa coll' autorità della Chiesa. Se dunque debbo ripetere quel che ho già detto, sappiate che nell' uom che nasce vi è la pena del peccato , ed il peccato (che è insieme una pena) distinto numericamente da quel d' Adamo. Il peccato poi essendo necessario e non libero nel bambino appunto come una lepra od altro mal fisico, non è colpa in se stesso, come voleva Bajo; ma la qualità di colpa gli s' applica, considerandolo siccome effetto della libera volontà d' Adamo « in quo omnes peccaverunt »: Questa è la riprovazione della dottrina bajana, la quale riguarda la colpabilità, e non il peccato ne' pargoli. Ma qual è poi la riprovazione della dottrina della Chiesa che fate voi, Signor C.? Si è il pretendere, che il peccato ricevuto da' bambini, benchè in essi necessario e non libero, non tiri dietro a sè la conseguenza penale della dannazione e della morte eterna. Vedete dunque, che tra la dottrina che condannate voi per bajana, e la dottrina che condanna la Chiesa, vi ha tanta distanza quanta ve n' ha appunto tra la dottrina infallibile della Chiesa, e la dottrina erronea di Bajo e di Pelagio. Il che si vedrà ancor più chiaramente distinguendo queste due questioni. 1 Prima questione riguardante la penalità (il male eudemonologico) annessa al peccato: Quale è la cagione prossima della dannazione de' bambini non rinati? - E la Chiesa risponde: « non il peccato d' Adamo, ma il peccato lor proprio ad essi inerente, il qual li perde « tantummodo quod inest », come l' esprime non Bajo, ma S. Agostino. 2 Seconda questione riguardante l' imputazione a colpa del peccato de' bambini: Come si può giustificare la divina giustizia pel peccato ereditario, e per la pena che trae seco ne' fanciulli non rinati? - E la Chiesa risponde: convien ricorrere alla colpa del primo padre, da cui fu liberamente il primo fallo commesso, cagione vera di tutto il resto. Illustriamo l' una e l' altra risposta con delle ecclesiastiche autorità. Dice la prima che la pena a cui i bambini non rinati soggiacciono è conseguenza del peccato loro inerente . Quest' è ammesso da tutti universalmente i teologi della cattolica Chiesa i quali per ispiegare la pena a cui soggiacciono quanti individui dell' umana specie son generati, (eccettuata sempre MARIA Santissima) non ricorre già di colpo al peccato d' Adamo, ma al loro proprio peccato per vizio di generazione da essi contratto (1): ed anzi dalle penalità, che essi soffrono, traggono argomento a conchiudere, che in essi stessi ci dee avere un peccato non certo commesso con libera volontà, ma per necessità di natura ricevuto. Il santo Dottore suscitato da Dio nella Chiesa ad umiliare la pelagiana superbia, così appunto argomentava contro questi eretici razionalisti: [...OMISSIS...] . Trovava dunque giusto il gran Padre che conseguitasse la penalità a quel peccato, che era ne' bambini, numericamente distinto dal peccato di Adamo, a quel peccato che essi non avevano commesso per proprio volere, ma nella propria volontà per natura aveano ricevuto, e ciò perchè mal morale e mal fisico, secondo l' ordine delle idee dell' eterna giustizia, debbono sempre trovarsi insieme. Altra volta diceva, che sono puniti i bambini pel peccato d' origine non in quanto è altrui (e intanto è colpa), ma in quanto è proprio (e intanto è morale infezione): [...OMISSIS...] (dove sta la necessità). E se non fosse così, dic' egli, le penalità a noi applicate non avrebbero la sua ragione, non bastando che Adamo abbia peccato, se non abbiamo peccato anche noi in lui, senza nostra volontà, cioè in quanto eravamo individui che dovevamo germinare da lui per naturale generazione. Onde prosegue: [...OMISSIS...] , ed altrove incalza i Pelagiani nuovamente dicendo, [...OMISSIS...] . La qual dottrina si ripete da S. Tommaso, il quale si fa l' obbiezione, che se i bambini sono puniti pel peccato di Adamo, il sarebbero pel peccato altrui, non per il proprio, e così vi avrebbe ingiustizia. A cui risponde quello stesso, che avea risposto prima il Dottor della grazia, esser essi puniti pel peccato proprio, per quel peccato che in loro trasfuso per generazione sta loro inerente (2). Onde gli autori dell' opera intitolata « « Concordantiae dictorum et conclusionum D. Thomae de Aquino » » vedendo che talora il santo dichiara il peccato d' origine volontario in Adamo, ed è in que' luoghi nei quali il considera come colpa , e talora il dichiara volontario anche ne' posteri, ed è in que' luoghi ne' quali il considera come semplice peccato, a togliere quest' apparente contraddizione, ed a conciliare il Santo dottore seco medesimo, rispondono: [...OMISSIS...] . Il che premesso, tolgono via l' obbiezione dall' ingiustizia della penalità soggiungendo: [...OMISSIS...] . E nel vero, sarebbe inesplicabile, come per la sola colpa d' Adamo potessero soggiacere i posteri al male fisico, qualora essi stessi non ricevessero in sè il mal morale, posto il quale, quello dee venir dietro come appendice. E non è egli un assurdo manifesto il supporre che i bambini che nascono non sieno corrotti, come vogliono gli scrittori, che rifiutiamo, ne' guasti nella volontà (4); e voler che debbano tuttavia scontar la pena, non già pel proprio peccato, ma solamente per la colpa del primo padre a loro resa comune? Che giustizia ci avrebbe qui? [...OMISSIS...] , dirò anch' io con S. Agostino, [...OMISSIS...] . Se dunque viene imputata la colpa prima a' posteri, ella non vien loro imputata, se non perchè in essi passa il peccato, il morale disordine: [...OMISSIS...] , mi continuerò col medesimo santo, [...OMISSIS...] . Non già che l' anime de' posteri fossero in Adamo peccante; ma vi erano i semi carnali, che doveano poi, per la generazione, infettare moralmente l' anime intellettive che avrebbero avvivati i corpi separati da quel d' Adamo. Quelli adunque i quali pretendono che le penalità a cui soggiacciono gli uomini non sien sequele del loro proprio peccato, ma sol della colpa Adamitica, e che, come fa il nostro C., condannano, per erronea quella dottrina; mirano direttamente a distruggere il peccato originale trasfuso nei posteri; perchè lo rendono inutile a spiegare i mali, a cui gli uomini vanno sommessi, riputandoli questi alla sola colpa di Adamo, senza bisogno d' altro intermezzo (3). Egli è dunque il Pelagianismo, che sordamente introducono cotestoro, quel Pelagianismo che tentò di continuo introdurre nella casa di Dio il serpentino suo capo, e che cercò d' entrar per ogni fessura del tempio strisciandosi e contorcendosi; ma tutto indarno fin qui. Ecco a ragion d' esempio siccome Ugone Vittorino descriveva a' suoi tempi la stessa rea opinione, che ora si riproduce nel cuor d' Italia, [...OMISSIS...] . - Anche il nostro C. confondeva poco fa la dannazione che è la pena dovuta, col peccato a cui è dovuta; e ciò che decise la Chiesa del peccato, l' applicava alla dannazione pena di lui. Andiamo avanti, e sentiamoli a parlare anche con un po' più di coerenza del nostro C. [...OMISSIS...] Non possono cioè, disconfessare, che questo è un distruggere il peccato originale. Ne ammettono però l' imputazione posticcia e senza base, come fanno i moderni razionalisti, e dicon con essi: [...OMISSIS...] , cioè distruggono del tutto il peccato colla solita ragion pelagiana. Nondimeno, non hanno essi coraggio d' escludere il nome del peccato simili anche in ciò a' nostri. [...OMISSIS...] Ma ne andrà ella soddisfatta la Cristiana teologia? Il grand' uomo, che noi citiamo, giudica risolutamente di no, e il giudica colla Chiesa: [...OMISSIS...] . Laonde anche S. Paolo dice, che la morte entrò nel mondo, perchè prima v' era entrato il peccato; sicchè quella in ciascun uomo è effetto immediato di questo, non del peccato originante, ma dell' originato; e il sacrosanto Concilio di Trento, dopo altri Concili definì; che ne' posteri d' Adamo non entrarono solo le penalità del peccato; ma il peccato stesso fondamento di quelle (1); perchè quantunque il peccato passato ne' bambini non sia libero; tuttavia è un morale disordine, che trae naturalmente seco anche il fisico. Aggiungerò una prova che ci somministra la ragione teologica. S. Tommaso, e dopo lui un gran numero di teologi, opinano, che i bambini che muoiono senza battesimo sieno privi della pena del senso, soggiacendo solo alla pena del danno. E, onde raccolgono questa lor conclusione? Se si pon mente al modo del lor ragionare, non da altro, che dalla condizione del bambino. Non gli attribuiscono cioè una pena adeguata al peccato colpevole di Adamo, che sarebbe pena di danno e di senso insieme, ma adeguata al peccato suo proprio. E` dunque chiaro, che considerano la pena non come un' immediata sequela della colpa del primo padre, ma del peccato messo in essere nel fanciullo coll' atto della generazione. Lo stesso si argomenta dal chiamarsi minima dai Dottori e non già nulla, la malizia del peccato originale del bambino (2); e dall' indurre che fa quindi S. Agostino, che dee esser minima altresì la sua pena (3). Se al bambino fosse applicata la colpa d' Adamo, nè minima la malizia sarebbe, nè minima pur la pena. Nè si può dire, che glien' è applicata una parte e non tutta; poichè o di tutta dovrebb' egli esser reo o di nulla. Che se non c' è ragione d' applicargliela tutta, dunque nè pure una parte. Il che conferma quanto sia falso il sistema de' nostri Anonimi, che senza riconoscere nel bambino alcuna inordinazione, pensano di ricorrere ad una semplice relazione con Adamo (cosa d' altra parte al tutto mentale), ad una estrinseca imputazione, la quale se valer potesse, o dovrebbe aggravarlo di tutta la colpa Adamitica, o pure di nulla. Ora veniamo all' altra questione - come si possa giustificare la divina giustizia; della condizione dei bambini. In quanto al mal penale, l' abbiamo veduto giustificato pel peccato passato in essi. Rimane dunque la dimanda: come i fanciulli senza atto di libera loro volontà debbano ricevere il peccato? Rispondesi, che questo peccato passa per generazione, e che [...OMISSIS...] , (così scrive Raimondo Sabunde), [...OMISSIS...] . E` dunque una cotal legge della natura, che il corpo del generante corrotto, generi un corpo corrotto, e che il corpo corrotto attragga a se l' inclinazione della volontà essenziale, onde l' uomo da quell' ora non è più atto a tener la bilancia della giustizia in molti de' suoi giudizii, ne' quali il ben sensibile viene a collisione col retto e col giusto; il che è mal morale, e peccato, se trovasi così piegata la stessa punta dell' anima sede dell' umana persona. Ma non poteva Iddio impedire questo effetto necessario e dalle leggi stesse della natura e della generazione, procedente? Potea, ma nol fece per giusto gastigo (oltre la gloria della sua misericordia, che ne volea trarre per la redenzione). Or qui ricorre l' imputazione, e la pena dovuta alla colpa. Era dovuto al colpevole Adamo ch' egli fosse lasciato col guasto di sua natura: questo guasto di sua natura, giustamente lasciatogli, si propagò ne' posteri, non già per miracolo, ma da se stesso, e così si propagò necessariamente, insieme la primitiva giustissima punizione: e i posteri si trovarono ravvolti nella pena del primo lor padre, la quale affettava giustamente quella natura che il primo padre, e poscia i figliuoli di lui di mano in mano per generazion propagavano. Onde si dicono colpevoli [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Dove si osservi bene, che la colpa personale d' Adamo è già tolta interamente: non esiste più. Che cosa è dunque la causa efficiente, che mette in essere il peccato ne' posteri? Non la stessa colpa d' Adamo che operi immediatamente in essi, la quale non può operar, non essendoci; ma è la pena d' Adamo, effetto della sua colpa, che in lui generante rimase; cioè, è il guasto fisico di sua natura, che comunicò generando alla stirpe e con esso surse il guasto morale. Laonde non si trasfonde immediatamente la colpa d' Adamo di padre in figlio, quasi che sia la colpa come un liquore che travasar si possa di vaso in vaso; ma sì la pena per dirlo di nuovo, è la natura guasta che si travasa; ond' anco i giusti generano de' peccatori, perchè in sè portano ancor la pena: [...OMISSIS...] , come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] : il che viene a dire: « Perciò il giusto genera de' peccatori perchè la generazione non è già un atto della giustificata persona, ma è un atto della corrotta cioè giustiziata natura. »Ma ereditando la pena del peccato, cioè la natura guasta; questa mette in essere il peccato nel nuovo individuo, l' inordinazione del corpo traendo seco un' inordinazione nell' anima (3), nella stessa volontà personale, dove ogni guasto è morte, e giustamente s' appella dalla Chiesa peccato: colpa poi in quanto quella inordinazione si considera come una cotal continuazione ed estensione dell' atto libero, con cui Adamo prevaricò, del quale è veramente effetto. Ecco dunque come tutti i mali morali e fisici dei posteri hanno veramente la prima loro ragione e giustificazione nella libera colpa di Adamo, ma tenendo tuttavia tra loro quell' ordine, che l' Apostolo nella sua lettera a' Romani accuratamente descrive dicendo: [...OMISSIS...] , è il primo anello, la colpa di Adamo, che introduce nel mondo il peccato, il quale così passato ne' posteri forma il secondo anello: E viene a dire: Non è più la colpa d' Adamo, ma è il peccato già introdotto nel mondo per la colpa d' Adamo quello che introduce le penalità a sè dovute, tra le quali principale è la morte: [...OMISSIS...] , le quali ultime parole ci richiamano all' origine, cioè esprimono la congiunzione de' due estremi anelli la morte e la colpa del primo padre, mediante l' anello di mezzo, il peccato ne' posteri. L' attribuire dunque al peccato inerente ne' bambini la dannazione, non è mica un negare che il loro proprio peccato sia una pena della colpa Adamitica, la quale riman sempre come la suprema ragione di tutti i mali della misera umanità (2). E qui potrei cessarmi dal parlare di ciò che dicono i nuovi teologi contro l' antica e costante dottrina della Chiesa circa il peccato d' origine, se lo scopo di questo scritto, che è di metter riparo, quanto per me si possa, o più tosto d' eccitare altri maggiori di me per autorità e per dottrina a metterlo, al pericolo del razionalismo che assai tempo minaccia d' invadere le nostre scuole di teologia, non mi tirasse a fare un cenno della più vicina origine ch' ebbe in Italia quel sistema che agli occhi nostri distrugge l' originale peccato. L' articolo, intorno al peccato originale inserito da Alessandro Zorzi nel suo « Prodromo della nuova Enciclopedia Italiana », Siena 1779, quando uscì riscosse l' attenzione, e meritò la censura di gravi teologi. Ma sopravvenuta la morte dell' autore, e le guerre, rimase dimenticato ai più. Ora si può dire che i più moderni teologi razionalisti ritraggono da quell' articolo del Zorzi senza però mai citarne il fonte, benchè ne copiino le espressioni e le parole. Dicevo, che de' gravi teologi ripresero quell' articolo giudicandolo distruttivo del dogma, e n' accennerò in prova il Zovetti ed il Cesari (1), il quale nella vita di Clementino Vannetti amicissimo al Zorzi, di cui anche scrisse la vita, narra questo fattarello col Vannetti appunto avvenutogli: [...OMISSIS...] Abbiamo qui dunque il giudizio uniforme di tre dottissimi uomini del Cesari, del Zoretti, e del Vannetti: udiamone un quarto e sarà Alfonso Muzzarelli (2). Quest' uomo distinto scrisse un Opuscolo (3) a posta per confutare il sistema de' nostri teologi intorno al peccato d' origine, e vi s' introduce con queste parole: [...OMISSIS...] Passa poi a provare l' erroneità della sentenza dei nostri Anonimi, che il peccato originale non sia, se non « « una pura privazione dei doni indebiti alla natura umana » » ed ecco alcune delle sue ragioni: 1 Sparirebbe la difficoltà d' intenderne la natura, difficoltà riconosciuta da tutti i padri: [...OMISSIS...] . 2 In quella definizione non si riscontra la nozione di peccato e di colpa. Egli distingue queste due nozioni e prova che il peccato originale ne' bambini dev' esser vero PECCATO; poi passa a provare che dee esser vera COLPA; e che tal non sarebbe con quella definizione. [...OMISSIS...] 5 E` riprovata da' sommi teologi come eretica l' opinione del Cattarino e del Pighio. Dunque anche quella degli anonimi nostri [...OMISSIS...] Con queste ed altre ragioni il Muzzarelli rifiutava l' opinione del Zorzi e de' nostri più moderni, intorno al peccato d' origine. La quale fu immaginata per buon fine a principio, cioè per allontanarsi via più dal Giansenismo, da cui gli autori di essa non vedeano come meglio proteggere se stessi e gli altri, che inventando un nuovo sistema, e difendendol poi con tutta la sottigliezza e lo zelo che ispira l' odio dell' errore in chi crede. Ma a farli eccedere dall' opposto lato contribuì: 1 il non cogliere essi il vero senso, in cui furono proscritte alcune proposizioni di Bajo, e 2 il non saper trovare risposta nell' antico sistema contro a ciò, che era veramente in quelle proposizioni proscritto. Vediamo l' una cosa e l' altra ad un tempo. I Il Zorzi cita la proposizione LXXIX di Bajo, Falsa est doctorum sententia primum hominem potuisse a Deo creari et institui sine justitia naturali intendendola di una giustizia veramente naturale, senza riflettere, che Bajo chiamava naturale la giustizia soprannaturale e che per questo fu condannata (1). Il Zorzi del pari cita la proposizione LV di Bajo [...OMISSIS...] , intendendola materialmente, mentre egli è certo che la Chiesa non altro proscrisse in essa, se non l' errore, che Iddio non avesse potuto creare l' uomo nell' ordine meramente naturale, come ho altrove mostrato. [...OMISSIS...] II Il Zorzi teme, che ponendosi nel bambino, che nasce una positiva avversione da Dio, che noi dichiariamo per togliere ogni equivoco: « « un atteggiamento ritroso al bene ed a Dio e pendente al male ». ( Tratt. della Coscienza f. 37) » il che esprime meno di un' avversione positiva, frase usata da' teologi, ne avverrebbe che giunto all' uso della ragione dovrebbe odiare attualmente Iddio, che è la proposizione di Bajo: [...OMISSIS...] . Ma la conseguenza è falsa se « « l' avversion da Dio » » s' intenda, come la intendono i teologi cattolici. Un « « atteggiamento ritroso al bene » » è meno di un abito vizioso (1). E pure nè anche un abito vizioso toglie il libero arbitrio, come ottimamente prova S. Tommaso (1); quanto meno un semplice atteggiamento della volontà verso il ben sensibile disordinato. Nè ell' era già sfuggita all' angelico quell' obiezione (il che conferma, d' altra parte, che per l' avversione che ponea nel peccato originale egli intendea qualche cosa di positivo), ma se l' era sciolta dicendo, che l' avversione in cui quel peccato consiste non necessita di peccar sempre, ma sol qualche volta (2), se non soccorre la grazia. Il Rosmini poi aggiunge un' altra risposta, poichè, distinta prima la volontà dal libero arbitrio , dimostra che questo può dominare su di quella, anche se quella è naturalmente male atteggiata e disposta «( Antropol. L. III, c. ., e 10) ». Si teme ancora, che col porsi il peccato d' origine in una positiva avversione da Dio, sembri che esso si riponga nella concupiscenza, la quale è di fede non esser peccato dopo il battesimo. Ma perchè schifano tali teologi di definir chiaro ciò che si deva intendere per concupiscenza? Certo se con tal parola s' intende semplicemente « la facoltà d' appetire il bene sensibile »; come talun d' essi la definisce; anzichè peccato, ella è cosa buona e non solo potea essere nello stato di mera, ma sana natura, ma vi fu anche nello stato di grazia, in cui fu Adamo costituito. Se poi s' intende un vizio nella facoltà d' appetire il bene sensibile, non ancora può stare in essa propriamente il peccato, poichè la speciale facoltà d' appetire il bene sensibile, non è la volontà e quindi non è la sede del peccato. Se poi s' intende per concupiscenza un vizio inerente alla facoltà d' appetire il bene in generale, in tal caso si dee distinguere. O questa facoltà si considera nella suprema sua parte; (cui per distinguere da ogni altra attività, il Rosmini chiamò volontà personale ), o si considera nelle sue parti, inferiori alla suprema. In queste non può stare il peccato. Nella suprema poi è ancora a distinguersi. Il vizio che la inclinava ad appetire eccedentemente il bene sensibile, servendo così alle potenze inferiori è ciò che S. Tommaso considera come la parte materiale del peccato d' origine e tien luogo di conversione alla creatura; ma questo stesso vizio in quanto è avversione da Dio, cioè in quanto è alieno dall' ordine morale costituisce il formale del peccato originale; e qui è dove S. Agostino ripone il reato della concupiscenza, la quale avversione da Dio viene tolta e annullata interamente dalla grazia battesimale, che ricongiungendo l' uomo al Creatore, gli dà una nuova volontà o potenza suprema di volere il bene soprannaturale e di dominare sulle potenze inferiori. Ma su questo torneremo più avanti. Passiamo a vedere come il Zorzi si persuade di dimostrare il nuovo sistema, e ciò che dico del maestro si può applicare a' discepoli. Egli ci adopra autorità e ragioni. Quanto alle autorità, egli ne ha tante, che dopo aver detto che « « i buoni teologi dietro la scorta di S. Tommaso » » convengono nell' accordare ai bambini morti senza battesimo una natural beatitudine, e, dopo avere esposta questa natural beatitudine in tre proposizioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . Queste sono le solite frasi de' teologi razionalisti, non certo scrupolosi in punto di veracità. Egli è vero, che giocano di sottigliezze affine di tirare i testi del Concilio di Trento, e di S. Agostino principalmente, ad un senso alienissimo dal vero, dall' ovvio, da quello che ad ogni uomo di buona fede corre tosto alla mente. Una di queste sottigliezze si è il pretendere, che quando il sacro Concilio con S. Agostino parla d' un decadimento, e d' un guasto dell' uomo che nasce, debbasi SEMPRE intendere d' un guasto relativo allo stato soprannaturale in cui fu Adamo costituito, non d' un vero guasto della natura umana in se stessa considerata. A dar valore a tal sistema, recano in mezzo qualche parola del Concilio, o qualche lineuzza di S. Agostino, che da sè sola sarebbe suscettibile dell' una e dell' altra interpretazione, usando poi la mala fede di dissimulare i passi più chiari, e di lasciar da parte il contesto di ciò che precede e che sussegue ne' passi dubbi, i quali, considerati nella serie de' concetti, cessan per lo più di esser dubbi. Essi vi arrecheranno quelle parole del Concilio in cui si definisce, che Adamo perdette per sè, e per noi, l' innocenza, la giustizia, la santità; e tosto conchiuderanno: [...OMISSIS...] . Ma in primo luogo, altro è l' innocenza e la giustizia e altro è la grazia santificante: altro è la colpa e l' ingiustizia , ed altro la perdita della grazia : questa è una conseguenza di quella, non più. In secondo luogo, perchè tacere, che il Concilio dopo aver detto d' Adamo [...OMISSIS...] . Si dirà dopo di ciò, che l' uomo col primo peccato sia decaduto solo rispetto all' ordine soprannaturale in cui fu costituito, ma rispetto all' ordine naturale? E` ella dunque cosa conforme alla natura dell' uomo, l' esser esso soggetto all' ira ed all' indegnazione di Dio? Si dovrà considerar l' uomo in stato d' intatta natura, benchè sia schiavo del demonio? O il demonio lascerà intatti quelli che gli sono dati in balía come schiavi? Apparterrà alla pura natura il servire al diavolo? O si potrà dire che sia peggiorato tutto l' uomo (TOTUMQUE ADAM), se la natura dell' uomo nulla ha sofferto, nulla perduto, non avendo perduto nulla del suo, ma solo toltole il vestimento de' doni a lei superiori? Appresso, il Concilio dice che Adamo dopo il peccato (ancorchè si sia convertito) l' uomo rimase macchiato, inquinatum illum; ora, la natura umana per essere nuda e sola, è ella per questo macchiata? Dichiara ancora, che Adamo trasmise a' posteri non solo la pena, ma anche il proprio peccato. E in Adamo, il peccato fu egli la sola perdita della grazia? Cessando l' atto peccaminoso d' Adamo, non restò alcun altro male in lui, se non tale privazione? Ma che è mai la privazione della grazia se non una pena e conseguenza del peccato, e non il peccato? Ora Adamo non trasfuse le pure pene; ma il peccato stesso. M' andrei troppo a lungo, se volessi tutto analizzare ciò che dice intorno a ciò il Concilio di Trento, che quasi ad ogni parola fa intendere, quanto l' uomo sia rimasto degradato sotto l' ordine naturale; non essendo cosa, che più intacchi e guasti LA STESSA NATURA del peccato. Quanto poi a S. Agostino, dice che NON SEMPRE parla del decadimento dell' uomo in rispetto al suo stato soprannaturale; spesso anzi parla di un decadimento e di un guasto assoluto, che intacca la natura, e questo è indubitato. Quando scriveva contro i Pelagiani, che ammettevano le divine scritture, a convincerli dell' esistenza del peccato originale, egli usava dell' uno e dell' altro argomento; cioè provava il peccato, in cui l' uom nasce 1 sì dal confronto tra lo stato presente dell' umanità, e quello in cui la divina scrittura ci dipinge costituito l' uomo da Dio a principio; e 2 sì dal confronto tra lo stato presente, e ciò che la natura stessa dell' uomo addimanda per non esser monca e deforme, qual non potrebbe mai uscire dalle mani di Dio. All' opposto qualora egli pugna co' Manichei, che non ammettevano le scritture, usa solo questa seconda maniera d' argomentare, come sola loro adattata. Quantunque poi già nella « Dottrina del peccato originale » abbiamo recati de' luoghi di S. Agostino attissimi a convincere chicchessia, che il Santo dottore riguarda il presente stato dell' uomo siccome guasto e corrotto anche rispetto all' ordine naturale, tuttavia non sarà inutile che aggiungiamo due altri argomenti, atti a finire ogni question sulla mente di S. Agostino intorno alla qualità del guasto, che di presente trae seco l' umana natura. Il primo si è che S. Agostino non crede che si possa rispondere a' Manichei, i quali dimandano perchè l' uomo nasca soggetto a tanti mali, cioè dimandano: [...OMISSIS...] , non crede, dico, potersi rispondere a queste domande de' Manichei, se non ricorrendo al peccato originale (1). Il che mostra chiaro, ch' egli giudicava che Iddio non avrebbe mai potuto creare con un tal guasto la natura umana, come gl' Anonimi nostri pur vogliono sostenere; e sfida i pelagiani di risponder validamente, senza ricorrere al peccato d' origine, all' istanza de' manichei, [...OMISSIS...] I razionalisti moderni più audaci degli antichi pelagiani, rispondono a questa sfida dicendo, che tali cose non sono propriamente mali, ma conseguenze necessarie della natura umana. Ma S. Agostino non credeva possibile, che gli eretici del suo tempo avesser fronte da rispondere così, esponendosi alle fischiate di tutto il mondo, onde gli invita a produrla se ne hanno l' animo, così loro dicendo: [...OMISSIS...] . Il dire adunque che il guasto con cui nasce al presente l' individuo umano potesse trovarsi in un uomo creato così da Dio, ell' è cosa, secondo S. Agostino, da ghignate di fanciulli e da sardelle; e tuttavia ell' è degna de' teologi nostri, tanto men verecondi di quegli antichi pelagiani. Il secondo argomento, io lo traggo da tutti que' luoghi, e sono moltissimi, di S. Agostino, ne' quali egli prova l' esistenza del peccato d' origine dal sentimento del pudore, costantemente affermando, che ciò di cui l' uom si vergogna, non potrebbe mai essere opera stessa di Dio (3); argomento che non avrebbe forza, qualora fosse vero, come vogliono i nostri moderni teologi, che Iddio avesse potuto creare l' uomo con tutto il guasto ch' egli porta di presente dal suo nascimento. Questi due tra gli altri argomenti moltissimi convincer possono della vera mente di S. Agostino, a cui s' attiene la sede Apostolica, tutti gli uomini di buona fede. Ciò nondimeno i teologi inclinati al Razionalismo giunsero a mettere il pudore fin nel Paradiso terrestre! Così fecero i P. P. Arduino, e Berruyer; e così fanno ora dopo di loro, i razionalisti biblici della Germania, e così fanno e devono fare tutti quelli che interpretano malamente la condanna della proposizione 55 di Bajo; [...OMISSIS...] . Le autorità di S. Tommaso (1), del Gaetano (2), del Soto e del Bellarmino, ch' essi vanno non citando, ma rosicchiando, furono esaminate nella « Dottrina del peccato originale », e trovate espressamente a loro contrarie (1). Fra gli scolastici, si potrebbe trovar taluno nel primo aspetto a lor favorevole, ma non così, se si considerano diligentemente. Mi servirò qui nuovamente delle riflessioni che fa intorno a ciò Alfonso Muzzarelli: [...OMISSIS...] (2). Il Zorzi ci rimanda ancora in fine del suo articolo all' opera di Bernardo Maria De Rubeis, quasi che questo dottissimo domenicano fosse tutto per lui, e n' adduce un breve testo, in cui il De Rubeis nega, che ciò che v' ha d' aderente all' anima del bambino nel peccato originale sia qualche pravo giudizio o qualche prava conversione « in bonum « commutabile » », il che sarebbe un atto, perchè il giudizio è un atto della mente e la conversione nel bene è un atto dell' affetto; nè niuno di noi certo dirà che ci fu ne' bambini un atto compiuto di tal sorte. E pure di quelle due linee tratte da un buon volume in quarto, egli n' ha abbastanza per farlo passare per suo! In queste simulazioni e dissimulazioni vedesi la passione di un partito, e colla scorta della passione non si trova la verità. Fatto sta, che il celebre De Rubeis è affatto alieno dal moderno sistema intorno al peccato d' origine, che ci vogliono vendere per antico, e a provarlo esporrò qui il suo vero sentimento. Prova il De Rubeis a principio, che ne' posteri vi ha un peccato abituale, simile a quello che rimase in Adamo dopo la sua prevaricazione. Affine dunque di conoscere qual sia il peccato de' posteri si fa a ricercare qual sia il peccato abituale d' Adamo, e prima lo riscontra col suo peccato attuale. All' uno e all' altro conviene la definizione general del peccato: « un pravo amore » [...OMISSIS...] . Ma questo genere si divide nelle due specie così: [...OMISSIS...] . Dove si noti, che nel peccato abituale qual è quello d' Adamo e del bambino, il celebre teologo scorge « un affetto permanente del peccato »; il quale, domanderò io a nostri teologi moderni, se possono crederlo un elemento della natura umana, da trovarsi altresì nello stato di quella pura natura, in cui Iddio può crear l' uomo. Andiamo avanti. Questo affetto pravo, che suscitò Adamo in se stesso e che rimase in lui fino alla sua conversione, spogliò l' uomo della santità e della rettitudine, e d' altri beni: [...OMISSIS...] . E seguitando a dichiarare l' effetto che rimane nell' anima dopo il peccato attuale, quell' effetto cioè che peccato abituale si dice poco appresso soggiunge: [...OMISSIS...] . Dopo di che viene a dire con espressive parole in che fa egli consistere il peccato abituale e di conseguente l' originale de' posteri, [...OMISSIS...] ; e ne fa tosto appresso l' applicazione a' bambini, come pure dimostra ampiamente esser questa la dottrina dell' Aquinate (2): all' incontro nè la sottrazione che fa Iddio della grazia santificante, nè la mera privazione di questa è peccato, come contendono i teologi razionalisti, negandolo apertamente quel teologo, che allegano essi medesimi come autorevole. La sentenza dunque d' Alessandro Zorzi seguito dai recenti è una novità nella Chiesa, e in vano si cercherebbero gravi autorità a mantenerla. Nè hanno più polso le ragioni, con cui si studiano sorreggerla: esaminiamole pigliandole dal P. Perrone. I ragione . Il Concilio di Trento definì il peccato originale « morte dell' anima ». Ma la morte è la privazione della vita, e la vita dell' anima è la grazia santificante. Dunque il peccato non è altro, che la privazione della grazia santificante; senza bisogno alcuno di supporre altro vizio nella natura. Risposta . La grazia è la vita soprannaturale dell' anima, allo stesso modo, dice S. Agostino, come l' anima è la vita del corpo. Ora quando si dice, che l' anima è la vita del corpo non si vuol dir altro, se non che l' anima è la cagione formale della vita del corpo. Per altro la vita del corpo non istà meramente nell' anima considerata da sè sola; ma essa vita è un effetto delle mutue azioni dell' anima da una parte sul corpo, e del corpo dall' altra in sull' anima. Di più, trattandosi qui di spiegare come il corpo sia vivo, e come sia morto, trattandosi di definire che cosa voglia dire la vita del corpo, e che cosa voglia dire la morte del corpo, è necessario riporre la vita in un atto dello stesso corpo, onde S. Tommaso sull' orme d' Aristotele definì propriamente la vita, dicendo, che l' anima est ACTUS CORPORIS organici ; (1) [...OMISSIS...] . Ciò posto, che cosa è la morte del corpo? E` la cessazione di quel suo atto, onde mettendosi in comunicazione coll' anima, vive. Ora la cessazione di quest' atto è ella cosa meramente negativa? Mai no; perchè il cessar da quell' atto che fa il corpo, è una intima disorganizzazione, è per lui un vero interior disordine. Applichiamo dunque la dottrina intorno alla morte del corpo a spiegare la morte dell' anima, che è il peccato. Come la morte del corpo è la cessazione dell' atto con cui il corpo vive in comunicazione coll' anima; così la morte dell' anima è la cessazione di quell' atto dell' anima, con cui questa vive in comunicazione con Dio. E come la cessazione di quell' atto del corpo è un disordine ed intima disorganizzazione del corpo stesso; così la morte dell' anima importa un disordine ed una intima disorganizzazione, per così dire, dell' anima, onde non è più atta all' atto della vita, [...OMISSIS...] cioè il peccato. Il peccato adunque, che secondo il Concilio di Trento è « la morte dell' anima »non si può far consistere nella semplice privazione della grazia santificante, qual ella sarebbe quella dell' uomo creato da Dio in istato di pura, ma sana ed intera natura; ma si dee far consistere in un disordine inerente all' anima, che la rende incapace ed indegna di comunicare con Dio e viver di lui. In secondo luogo, la morte importa un male dell' umano individuo, cessandogli quella cosa che più di tutti è necessaria alla sua costituzione. Ma non così può dirsi della mera privazione della grazia santificante; questa non è necessaria alla natura dell' anima; ma è una sopraggiunta, sicchè l' anima anche priva della grazia, può avere tutto ciò che esige la sua natura, ed altresì la vita sua propria e la perfezione naturale, come decise la Chiesa contro Bajo (2). Dunque la semplice privazione della grazia santificante non può ricevere il nome di MORTE dell' anima, se non si suppone nell' anima stessa un disordine che la renda incapace ed indegna di essa, come dice Francesco Suarez, il Bellarmino, e tanti altri. L' ordinazione ed il proposito fatto da Dio di elevare ad una sfera soprannaturale la natura umana, non può già fare, che l' ordine soprannaturale diventi perciò una parte della natura umana; sicchè la natura umana senza la grazia sia mancante di una cosa alla sua costituzione o natural vita e perfezione necessaria; perocchè quell' ordine e quel proposito divino non muta la natura delle cose, non cangia i costitutivi dell' anima e le sue naturali esigenze. Vero è che quando l' anima ha già la grazia, come l' aveva Adamo, l' atto con cui la grazia si perde non è altro che il peccato, e in questo senso il rimaner privo della grazia e l' essere in peccato cioè nella morte spirituale è il medesimo. Ma riman sempre vero, che il peccato consiste nell' atto dell' uomo con cui caccia da sè la grazia, atto che rimane poi come abito, e non nella semplice mancanza della grazia, che in tale condizione è solo l' effetto del peccato, non il peccato medesimo. In terzo luogo la grazia nel modo detto cagiona la vita soprannaturale dell' anima , ma l' anima innocente nell' ordine naturale, come sarebbe quella del bambino che nasce, se fosse vero il sistema de' nostri teologi, non sarebbe mica priva di ogni vita morale. Ell' avrebbe una vita morale nell' innocenza e nella rettitudine naturale. Onde non si avvererebbe, che ora l' anima del bambino avesse quel peccato che è mors animae secondo il Concilio di Trento in senso semplice e incondizionato. In quarto luogo, riponendosi la definizione del peccato che è morte dell' anima nella semplice privazione della grazia santificante ne verrebbe, che colui che ha già perduta la grazia santificante non potrebbe più peccare. E non varrebbe il dire, che costui, peccando, mette un ostacolo maggiore all' ottenimento della grazia; perchè in tal caso il peccato, ostacolo all' ottenimento della grazia, non sarebbe più la semplice privazione della grazia santificante, senza alcun difetto realmente inerente alla natura dell' anima che la renda peccatrice; verrebbero dunque con tale risposta a contraddirsi. 2 ragione . Col nuovo sistema si spiega con tutta facilità come si propaghi il peccato di padre in figlio: [...OMISSIS...] . Risposta , questa ragione non prova altro, se non che il sistema è nuovo nella Chiesa, e perciò al tutto falso ». Perocchè avendo sempre creduto tutti i Padri, i Dottori, i teologi, i sommi Pontefici, i Concili che [...OMISSIS...] ; avendo la stessa gran mente di S. Agostino confessato che, [...OMISSIS...] ; deve pur esser falso un sistema, da cui risulterebbe tutt' il contrario di ciò, che ha tenuto sempre la Chiesa (3). E onde nasce mai il Razionalismo, se non dalla voglia di spiegar tutto colla ragione? Che bisogno c' è che voi spiegate i dogmi della Chiesa, se le vostre forze intellettive non ci arrivano? Non è ella forse questa la ragione, per la quale i sociniani e razionalisti hanno distrutti tutti i misteri? 3 ragione . Rimovendosi col nuovo sistema dal dogma della propagazione del peccato tutto ciò che è opposto alla retta ragione, rimangono sciolte le difficoltà degl' increduli e de' filosofi. Risposta . Le difficoltà che gl' increduli ed i filosofi contrappongono ai dogmi della Chiesa si rendono certamente impossibili colla distruzione de' medesimi dogmi; ma non è questo uno sciogliere le loro difficoltà, ma un fare ch' esse trionfino della rivelazione. Certo, se voi siete da tanto da sciorre le difficoltà de' filosofi contr' a' dogmi della chiesa, senza distrugger questi, farete assai bene a darne la soluzione, facilitando loro il ritorno all' ovile di Cristo col rimovere dalle loro menti gli ostacoli. Ma se la vostra intelligenza non giunge fino a questo, altro non vi resta che di creder voi, e di esortar pur essi a CREDER CIECAMENTE alla parola di Dio che è per sè luce bastevole, senza più. [...OMISSIS...] , dice S. Agostino (1). In terzo luogo col sostituire ai dogmi da credersi dei sistemi razionalistici, che li distruggono; voi non conciliate i filosofi colla Chiesa, ma esponete la Chiesa a' loro dileggi. Poichè essi si persuaderanno, che la Chiesa si contenti di ciance, e che i suoi dogmi non sieno che baie di teologi accozzanti insieme parole, e parole senza significato. E veramente la voce peccato nel vostro sistema, non significa peccato. Vi sfideranno dunque i filosofi a dar loro una definizione del peccato, che sia universalmente ricevuta dagli uomini, e non foggiata da voi stessi al vostro bisogno presente, a cui si possa ridurre il preteso vostro peccato originale. E voi che farete? che risponderete? Non potete applicare a cotesto vostro peccato originale nè l' « actus humanus malus » di S. Tommaso, perchè questa definizione conviene al peccato attuale d' Adamo, non a quel del bambino; nè il « flagitiosus amor voluntatis » del Padre De Rubeis, perchè voi negate al bambino ogni affetto disordinato; nè il « mors animae » del Concilio di Trento, perchè la morte è il maggior difetto positivo che aver possa la natura umana, e voi negate a questa natura qualsiasi positivo difetto; nè altra definizione insomma ricevuta nell' uso; perchè nessuna conviene al vostro preteso peccato. I filosofi da voi istruiti dileggeranno dunque la Chiesa, come poco sincera, poco verace, anzi frivola e che cerca illudere il genere umano, quand' ella fa suonare quelle grandi parole circa il peccato originale chiamandolo [...OMISSIS...] , e quando vuole fino che un Dio sia morto per soddisfare alla divina giustizia, e sanarne gli uomini tutti, quasi che ella intenda d' atterrire gli uomini con istrepitose voci, ma senza concetto. Così diran certamente all' udire, che il peccato che infetta il mondo; pel quale morì l' uomo Dio, non è in fine, che la mera mancanza dell' ordine soprannaturale, essendo l' umana natura senza difetto alcuno, nè vizio di sorta. Que' filosofi mondani che crederanno al vostro detto assai facilmente, non si contenteranno essi della natura senza vizio che voi loro promettete, e della beatitudine, a cui la natura così sana come voi li assicurate ch' ella è, vien destinata? Che diligenza avranno di fare amministrare il santo battesimo a loro bambini? O come si persuaderanno, che vi sia qualche obbligazione di dover cercare di più del ben naturale, avendo già la natura umana tutto il suo, e di questo andando essi contenti? Oltre di che vi faranno essi ancora una piccola dimanda tra le innumerevoli che farsi potrebbero, la quale di nuovo v' impaccerà più che un poco, e sarà: « Il bambino che nasce come voi dite, senza vizio nella natura e sol privo di grazia, è egli si o no in possesso del Diavolo? »Che cosa risponderete loro? Se direte di sì, essi resteranno stupiti, sentendo che il demonio sia padrone di una natura che non ha vizio, e che il bambino in braccio del demonio possa godersi tuttavia, morendo, una sua natural beatitudine. Direte voi dunque di no: non vi resta altro. Ma certamente in tal caso prenderete il partito di dirlo loro in orecchi; acciocchè nessun vi senta, e la Chiesa non conosca le vostre faccie; e S. Agostino aggiungerebbe qui ancora, acciocchè la plebe cristiana non vi sputacchi, e le donnicciuole di piazza scalzate non vi diano per avventura delle loro pianelle in sulla bocca (1). Ed oltre al pericolo che vi minaccia il Santo, di dover fiutare le donnesche pianelle; i filosofi stessi all' ultimo vi daran dietro la baia scorgendovi in tant' impiccio, vi loderanno poscia per gratitudine, come Voltaire l' Abatino suo ammiratore di cui scrivea ad un suo collega che era un bon diable per raccomandarglielo (2). Sarei troppo lungo se io volessi aggiungere un saggio della maniera con cui poi si pensano di rispondere alle difficoltà innumerevoli che contrappongono loro senza numero i sacri teologi (1). Conchiuderò invece questo capitolo, notando in qual maniera essi spogliano la Chiesa d' un bellissimo e palmare argomento, che dimostra il peccato originale. Tutti i più grandi filosofi dell' antichità, hanno riconosciuto un guasto della natura l' hanno ben sovente appellata matrigna (2) ed hanno inventato de' sistemi per ispiegare un fenomeno così straniero a un ente ragionevole, così opposto ai voti dell' umanità. Rispondono i nostri, che tali testimonianze non provano il guasto originale, perchè gli antichi scrittori, se talor deprimono l' uomo, talor anco l' innalzano oltre il dovere (3). Quasichè non esistessero negli uomini veramente le traccie di due estremi, di una piccolezza cioè, e miseria infinita, e di una grandezza e ricchezza di doni maravigliosa. D' altra parte che esagerassero gli antichi filosofi la nobiltà ed eccellenza della natura umana, ella è cosa all' inclinazione umana conforme (1); e non distrugge punto l' altro fatto, che i mali a cui l' umanità soggiace secondo il giudizio naturale degli antichi sono sì gravi e sì strani da doversene almen sospettare un guasto primitivo. Si cita qualche elogio fatto all' umana natura da Platone e (lasciando anche stare che il passo diligentemente esaminato non prova ciò che si vuole) si dimentica, che Platone immaginava le anime preesistenti a' corpi, appunto per dar loro un luogo, dove avesser peccato prima di nascere, e così spiegare in qualche modo l' umana pravità e l' umana miseria che gli saltava vivamente negli occhi. Si cita Galeno che esalta la sapienza e la bontà divina in aver dato all' uom tanti doni, quasichè anche dopo il peccato non ci si trovino nella nostra natura le vestigia di un Creator ottimo e sapientissimo, e si dimentica che insieme colle lodi che dà Galeno al Creatore, sta benissimo senza contraddizione alcuna l' osservazione d' Ipocrate che [...OMISSIS...] . Non trattasi già di sapere se l' uomo abbia ancora de' pregi: trattasi di sapere se insieme co' pregi scorgasi mescolato un guasto così profondo da potersi indurre colla sola ragione, che la natura stessa è vulnerata per qualche antica caduta. E` questo il giudizio, che ha fatto il buon senso di tutta l' antichità; e che sta fermo, qual testimonio manifesto del vero, anche dopo l' osservazione de' nostri teologi. Non ha dunque creduto il buon senso naturale dei savii del paganesimo, che il guasto morale e fisico che ravvisasi nel genere umano si potesse spiegare ricorrendo alla natura dell' uomo, come potrebbe fare un ateo che non crede in Dio; ma prestando essi fede ad un ottima e sapientissima provvidenza, trovavano ripugnante, che Iddio avesse prodotto l' uomo senza sapere o volere mettere in armonia le forze della sua ragione con quelle del suo senso, da dover quelle comandare senza fatica e molestia a queste seconde, come esige il buon ordine dell' umana natura, e S. Tommaso, che ha una testa alquanto più grande di quella de' nostri Teologi dà loro piena ragione. Egli prova che ragionavano bene nell' opera contra i Gentili (1). Quivi dimostra, che dalla debolezza e dalla fallacità della ragione, dalle forze de' bestiali appetiti che l' uomo non vale talora a contenere, può benissimo indursi colla sola ragion naturale, l' esistenza d' un antico peccato, di cui tali mali sieno pene od effetti. Nè egli dimentica punto l' obbiezione de' nostri teologi da lui ben preveduta. [...OMISSIS...] e la va lungamente svolgendo; ma poi la dichiara inetta a provar cos' alcuna, [...OMISSIS...] . Onde conchiude, che colla sola ragion naturale giustamente si può rilevare, almen con probabile argomento, dalla lotta della ragione colla concupiscenza, che così non dovesse un Dio ottimo e sapientissimo averlo creato, [...OMISSIS...] . Bene dunque argomentarono i savii del Paganesimo, e male assai a detta dell' Aquinate, i nostri teologi che si sforzano incessantemente a sostituire un sistema nuovo intorno al peccato d' origine a quel della Chiesa. Ed è per questo che S. Agostino chiama i pelagiani al paragon de' pagani filosofi, che colla sola ragione avean pur veduto nell' umane miserie la prova dell' antico delitto. [...OMISSIS...] . E adduce quel bellissimo luogo di Cicerone, nel quale coll' autorità degli antichi dagli errori e dalle miserie dell' umanità argomenta che in qualche occulto reato sia involta l' umana natura. Nè tuttavia dissimulo, che B. De Rossi giudica questa prova de' filosofi non più che congetturale (2), ma giova fare su di tale sentenza le seguenti riflessioni. Le prove congetturali sono di due maniere, altre sono tali in se stesse, quando si fondano sulla probabilità degli eventi contingenti; altre sono congetturali solo inverso all' uomo che non sa dar loro la piena sua persuasione pel vacillare della riflessione e per debolezza della facoltà della persuasione benchè in se stessa la prova sia concludente, come dee esser se è prova, ed è fondata in un rapporto necessario delle idee. Ora se la prova di cui parliamo, che dal male eudemonologico, da cui è affetta l' umanità, induce un male morale ad essa aderente è congetturale , a quale delle due classi di prove congetturali crediamo noi che appartenga? Certamente alla seconda, essendo fondata a parte sui in un rapporto necessario d' idee; onde in se stessa considerata o non val punto, o conchiude a certezza. E in vero ella fondasi « sulla sconvenienza che l' umanità soffra tanto senza reato. »Ora questa sconvenienza o c' è, o non c' è: mezzo non ci ha. Se una tale sconvenienza c' è, la prova rigorosamente stringe; se non c' è, il suo valore, è nullo. S' ella dunque è congetturale, non è tale che relativamente a quell' uomo, che non ha forza o coraggio di aggiungere ad essa, come a ragione alta e spirituale, l' intera sua persuasione. Ora le prove di tal indole riescono congetturali o certe secondo la disposizione de' soggetti; il che spiega come, mentre S. Tommaso si limita a dire [...OMISSIS...] , S. Agostino assai più francamente dica [...OMISSIS...] . Ma io aggiungerò, che la detta prova in sè stessa considerata non dee dirsi congetturale , ma certa secondo la dottrina stessa di Francesco Bernardo de' Rossi. Eccone la dimostrazione. Essa prova è certa, se lo stato dell' umana natura presente si conceda sì tristo, che tale non potesse uscire dalle mani del Creatore; e perciò dimostri un decadimento morale da quello stato, qualunque esso sia, nel quale un Dio sapiente ed ottimo dee averla creata. Ora il De Rossi prova, che Iddio potea crear l' uomo nello stato di natura pura e di natura integra; ma trova in pari tempo un' immensa diversità tra lo stato di natura pura od integra dallo stato presente. Supposto l' uomo creato da Dio nello stato di natura pura o di natura integra, Iddio l' avrebbe fornito altresì degli aiuti necessarii co' quali potesse amar Iddio d' un amor naturale sopra ogni cosa ed anche questo, io aggiungerò, facilmente. All' incontro l' uomo nello stato presente dell' umanità non ha, senza la grazia, quest' amor naturale di Dio così facile e perfetto; perchè la sua volontà è moralmente piagata, [...OMISSIS...] . Quindi la differenza immensa fra l' uomo caduto e l' uomo che fosse creato da Dio in istato di pura od integra natura, [...OMISSIS...] . E quest' avversione da Dio non è già una relazione mentale o esterna, come pretendono i nostri teologi che mettono in campo l' arguzia dell' uomo vestito e dell' uomo nudo; ma importa una vera e grande differenza di forze morali nella volontà tra l' uomo caduto che ha quell' avversione, e l' uomo supposto creato [...OMISSIS...] . Onde prosegue il De Rossi: [...OMISSIS...] . Così scrive quel teologo, al quale appellano, come ad uno tutto lor favorevole, il Zorzi e il P. Perrone! Dal che intanto si può raccoglier così: L' umanità presente (non ristorata dalla grazia) si trova in uno stato di deficienza di forze morali, e n' è prova manifesta il mare delle iniquità che innonda e innondò sempre la terra. Così non può essere stata da Dio creata, nè pure nell' ipotesi, ch' egli l' avesse lasciata colla sola natura, egli l' avrebbe fornita di maggiori forze morali che non sono quelle ch' essa mostra aver di presente. Non è dunque il presente stato dell' umanità quello di prima istituzione, ma è uno stato di decadimento: giace sotto il fascio di colpe antiche; è disordinata e infelice, dunque è rea. Così i filosofi del Paganesimo (1); l' argomento è ridotto a dimostrazione. Avean dunque ragione, e con essi il senso comune. E con un testimonio del senso comune, a cui rinunziano i nostri teologi, conchiuderò questo capitolo. Poichè qual semplice testimonio del senso comune, chiedo io che mi valga l' autorità dell' illustre autore delle « veglie di Pietroburgo ». Il quale certo non era nè si inerudito da non conoscere, che alcuni filosofi dell' antichità esaltarono indebitamente l' uomo, nè sì piccol di testa da non saper conoscere, se tale esagerazione potesse distruggere l' induzione che altri filosofi, o anche gli stessi in altri luoghi delle loro opere facevano dallo stato in cui si trova l' umanità, ad una colpa originale di questo stato infelice cagione. A lui sembra evidente, che i tanti mali morali e fisici del genere umano non sieno punto limitazioni necessarie della umana natura, o difetti da queste limitazioni di necessità provenienti; ma uno stravolgimento di essa natura. Onde dando ragione a que' pagani filosofi, (ed egli sarebbe pure strano che con un raziocinio falso, come vogliono i nostri teologi, avesser colto sì giusto nel segno del vero) favella in questo modo: [...OMISSIS...] . Chi adunque sostiene, che la natura umana nello stato in che al presente si trova, non ha vizio in sè stessa nè morale nè fisico, ma solo è priva della grazia santificante; non pure s' oppone all' ecclesiastica tradizione, ma alla filosofia e al senso comune del genere umano. Altri argomenti dimostrano il disordine contro natura che è nella volontà dell' uomo che nasce, pertinacemente negato da' moderni razionalisti. Crediamo tanto più necessario comprimere coll' abbondanza degli argomenti la loro baldanza, ch' ella è tanta, che giungono ad attribuire il loro coperto Pelagianismo a tutti i cattolici (1), ad asserirlo ammesso universalmente (2) a dichiararlo dottrina di fede (3). E cominciamo dal paragonare insieme i tre errori de' giansenisti , de' razionalisti biblici della Germania, e dei teologi nostri razionalisti pratici . Benchè l' error de' primi sia opposto a quello degli altri due; tuttavia non sarà difficile scorgere, che tutti e tre, questi errori, hanno una base, un principio comune. Avviene quasi sempre, che si rinvenga un elemento comune ne' contrari errori, come già osservammo. Il principio, o la base comune consiste nel venire a riporre il peccato originale in una LIMITAZIONE della natura umana; anzichè in ciò che è guasto e disordine. Tutti e tre gli accennati erronei sistemi si fondano sopra questo primo sbaglio (1); ma spiegano poi diversamente il modo, onde attribuiscano l' appellazione di peccato alla mera limitazione della natura. Esponiamo la diversità di questa spiegazione. I giansenisti sulle tracce di Bajo dicono che la natura umana lasciata sola, senza la grazia soprannaturale, è imperfetta e monca, formando così della grazia un costitutivo all' interezza e sanità dell' umana natura (2). Questa natura così scema d' una sua parte, si dee chiamar viziata e peccatrice, perchè non si solleva colla volontà a Dio soprannaturalmente conosciuto (al che le mancano le forze), e in questa non elevazione ch' essi dichiarano volontaria, fanno consistere l' original peccato (3). I biblici razionalisti della Germania pure accordano a' giansenisti che il peccato originale consista nella limitazione della natura; ma spiegano la cosa più filosoficamente. Questa limitazione non è già peccato, come vogliono i giansenisti, perchè l' uomo in essa costituito non si leva a Dio colla sua volontà impotente; ma perchè è lontano dalla sua ultima possibile perfezione alla quale non si solleva che a gradi. Onde secondo il signor Baur il peccato è simultaneo colla natura dell' uomo, come è simultanea con quella natura la limitazione (1). Imperocchè l' uomo, in quanto è creato da Dio, [...OMISSIS...] . I nostri teologi moderni (stando alla sostanza delle loro dottrine, benchè colle parole si dichiaravano nemici di tutte l' eresie) sono obbligati a parlare in questo modo, quando vogliano esser sinceri: Avete ragione, o giansenisti e razionalisti biblici, nel cercare nella LIMITAZIONE dell' umana natura il peccato originale: anche noi facciamo lo stesso; ma spieghiamo la cosa in modo diverso dal vostro. Noi diciamo che la natura umana presentemente ha tutto il suo senza difetto alcuno; ed aggiungiamo, che ha il peccato, unicamente perchè le manca l' ordine soprannaturale, che ella dovrebbe avere; quindi definiamo il reato di cui è presentemente l' uomo aggravato [...OMISSIS...] . Anche noi dunque diciamo co' razionalisti biblici che l' uomo non ha alcun difetto, ma aggiungiamo che gli manca la grazia, e in questo sta il peccato. Diciamo anche co' giansenisti, che questa grazia è dovuta all' uomo perchè la natura umana non sarebbe intera senza di essa, ma unicamente perchè Iddio a principio ha fatto liberamente il decreto di concederla all' umanità, e in virtù di questo decreto le è dovuta. Or Adamo colla sua prevaricazione spogliò la natura umana di questa grazia per sè stessa non dovuta, e non fece alcun altro male all' umana natura. Noi dunque, suoi figliuoli, nascendo senza grazia, siamo peccatori, figliuoli dell' ira, inimici di Dio e almeno negativamente avversi a Dio, [...OMISSIS...] . Nell' uomo dunque che nasce non v' ha alcun difetto morale, v' ha sola la limitazione naturale , che importa il non aver la grazia soprannaturale; e questa è peccato formale, perchè non dovrebbe esservi « juxta ordinem a Deo constitutum ». La stessa limitazione, la stessa mancanza di ciò, senza cui la natura può esser perfetta, è peccato, o non è peccato, secondo il decreto di Dio. Se Iddio non avesse decretato di dar al figliuolo di Adamo la grazia, non sarebbe per lui peccato l' andarne privo; ma avendo decretato di dargliela, se il padre la conservava; è un peccato del figliuolo l' andarne privo a cagion del padre, che gliela perdette. Non dipende dunque dalla cosa in sè, ma dal positivo decreto di Dio l' esser peccato la nudità della grazia, che per se non è punto peccato; ma Iddio il rese peccato col suo decreto! Se non che ci sarebbe senso nel dire, che un decreto con cui Dio decretò di dare agli uomini un dono, sia obbligatorio anche per quegli uomini, a cui questo dono non è dato? quel decreto di Dio poteva essere obbligatorio pel bambino che nasce? ovvero, contribuì il bambino a invalidarlo? Nulla di ciò. Tutto si fece all' insaputa del povero bambino. Iddio fece il suo Decreto ab eterno senza consultarlo. Il padre peccò pure senza farglielo sapere, nè il figliuolo che ancora non esisteva acconsentì punto al peccato del padre. Nacque nella sua persona innocente, senza difetto alcuno nella sua natura; ma nacque privo di ciò che la sua natura non esigeva, e che non dipendeva da lui l' avere o il non avere. Non vale. Incontanente che viene al mondo gli si dice; « sappiate che voi siete formalmente peccatore, inimico di Dio, figliuolo d' ira, a Dio avverso! »Che stupore per una simile creatura a tale intimazione! A riceverla cioè da persone, che l' assicurano in pari tempo che la sua natura è in tutte le sue parti perfetta ed immacolata, non punto obliqua la sua volontà, che non ha altro in somma, che quella necessaria limitazione, che esclude l' ordine soprannaturale! Deh, come crederà sinceramente di portare in sè un vero peccato, unicamente perchè Iddio aveva intenzione di dargli de' doni maggiori di quelli che non esiga la sua natura, e non glieli diede a cagione che suo padre impedì un sì liberale divino consiglio? Ora che Iddio privi tutta l' umana stirpe de' suoi gratuiti favori, pel peccato del suo capo, a cui gli avea largheggiati acciocchè a tutta la stirpe si propagassero, niente v' ha, che pugni colla ragione. Ma che questa semplice privazione, acquisti in conseguenza del decreto divino, la ragione di vero peccato formale in chi nasce da Adamo senz' alcun difetto nella sua volontà naturale; questo non s' accorderà mai colla ragione umana; che l' esser una cosa peccato non dipende da un decreto positivo di Dio, come il fanno dipendere i nostri teologi (1); nè tampoco dipende meramente da un fallo altrui; dovendo essere ogni peccato vero e formale, un mal morale personale (2); onde convien ricorrere a mutare la significazione della parola peccato (1), o per dir meglio a distruggerne affatto la nozione. Veniamo ad esporre altre ragioni teologiche, che dimostrando inammissibile il sistema de' nostri moderni razionalisti, confermino la verità difesa, che il peccato originale cioè non pure priva l' uomo della grazia santificante, ma guasta di più la natura dell' uomo nella parte sua più eccellente, la parte morale. S. Tommaso dimanda, perchè passi di padre in figlio il peccato originale, e non gli altri peccati (2), e risponde: perchè il peccato originale offende la natura , non che la persona; quando gli altri peccati non offendono che la persona . Infatti trapassa per generazione solo quello che appartiene alla natura, non quello che è meramente e strettamente personale. [...OMISSIS...] Conviene dunque cercare, che cosa S. Tommaso intenda per giustizia originale . Sotto l' espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose: 1 l' elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto: 2 la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale: 3 l' ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. [...OMISSIS...] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l' umana persona nella natura umana esistente. Che cosa è l' umana persona? E` il più elevato principio, che sia nell' uomo, la sua volontà suprema. Indi la prima parte della giustizia originale cioè la sommissione della mente a Dio, era per essenza sua personale. Egli è di qui che s' intende ragione, perchè, restituita all' uomo nel battesimo questa parte personale della giustizia; rimanga tuttavia l' uomo difettoso e privo dell' altre parti di essa giustizia originale , cioè della sommissione delle potenze inferiori alla ragione, e del corpo all' anima. Il qual difetto spiega, dice S. Tommaso, perchè anche l' uomo giustificato trasmetta generando il peccato d' origine. [...OMISSIS...] Ammessa questa dottrina, si dee pure ammettere, che la parte inferiore dell' uomo è guasta, ragione unica per la quale genera un individuo guasto. Se nella parte inferiore non vi avesse natural disordine, e il peccato consistesse, come vogliono gli Anonimi nella semplice privazione della grazia santificante che appartiene alla parte superiore dell' uomo; l' uomo giustificato, rimastosi già senza difetto, dovrebbe generare del pari individui immuni da ogni difetto, e da ogni peccato. Lo stesso si può argomentare dall' altra dottrina di S. Tommaso intorno ad un uomo formato altramente, che per generazione: questi non avrebbe il peccato, perchè il principio che lo formerebbe non essendo guasto, come è guasto il principio generativo, non potrebbe mettere in lui il guasto del peccato ancorchè avesse la sola natura perfetta priva di grazia (2). Nel che s' osservi attentamente, come S. Tommaso spieghi in modo diverso la trasfusione del guasto originale in quant' è COLPA, e in quant' è PECCATO. Quando egli toglie a spiegare come si propaghi la colpa sempre ricorre alla volontà peccatrice d' Adamo, perchè al guasto originale de' posteri non può applicarsi il nome di colpa, se non si considera nella causa libera che lo produsse. Laonde dice: [...OMISSIS...] . Da tutti i quali luoghi apparisce, 1 che il santo dottore distingue nell' originale infezione due cose, un difetto morale, che noi chiamiamo peccato, ed una colpa; 2 che a spiegare come trapassi la colpa sempre ricorre alla libera volontà d' Adamo, perchè niun difetto benchè morale riceve la nozion di colpa, se non è prodotto da una libera volontà. Resta a vedere come spieghi la trasfusion del peccato ossia il difetto morale della natura. Prima che ne esponiamo la maniera, vogliamo far notare, che il peccato e la colpa originale passano ad un tempo per generazione, perchè non si dà fra tali due cose DISGIUNZIONE REALE; ma tuttavia diversa è la maniera di spiegarne la trasfusione: cioè una diversa ragione è quella che fa passare il difetto morale della natura , da quella che fa passar la colpabilità di quel difetto. Quando si tratta di spiegare la trasfusione di quello, S. Tommaso non ricorre più alla volontà libera e prevaricatrice d' Adamo, ma alla generazione . La caduta d' Adamo il corruppe nella parte sua superiore che è la volontà, e nella parte sua inferiore che è principalmente la facoltà generativa. La corruzione della volontà libera d' Adamo è quella che spiega la trasfuzione della colpa ne' posteri; la corruzione della facoltà generativa è quella che spiega la trasfusione del peccato . Udiamo adunque il Santo Dottore: [...OMISSIS...] . Ora questa vis activa in generatione , che S. Tommaso nomina tante volte, come quella che trasmette il peccato, non è già la volontà prevaricatrice d' Adamo, ma una facoltà tutto diversa. E pure la COLPA non viene che dalla volontà prevaricatrice d' Adamo; ma il peccato viene da quella forza attiva; benchè essa non sia soggetto di colpa, nè di peccato; e l' uomo possa adoperarla senza peccare (2). Ma pel guasto, che ha la carne generante produce una carne che sconcerta l' ordine morale dell' anima del generato, e così mette in essere il suo proprio peccato, il quale però non riceve appellazione di colpa se non riferito all' atto libero della disubbidienza adamitica (3). E notisi che alla trasfusione del peccato non basta nè la volontà prevaricatrice d' Adamo, nè tampoco l' esser formato della sua carne: no, questo non basta; conviene che c' entri la forza generativa , perchè [...OMISSIS...] . Ora in costui formato dalla carne d' Adamo prevaricatore perchè mai non passerebbe il peccato? Forse perchè non ci sia in Adamo la volontà prevaricatrice? No. Forse che la carne d' Adamo non sarebbe priva de' doni gratuiti? Sarebbe priva certamente. Non basta dunque che la carne sia priva de' doni gratuiti, e che la carne che l' uom veste sia carne d' Adamo; ma si esige di più, acciocchè sia messo in atto il peccato, la forza generativa , che non è un atto di volontà peccatrice, essendovi anco ne' giusti. La ragione di ciò non si rinverrà mai nel sistema de' nostri Anonimi; ma nel nostro si troverà luminosissima. Così pure nel sistema de' nostri teologi moderni conviene rinunziare affatto a quella ragione, che spiega sì bene perchè il Signor GESU` Cristo, figliuolo di Adamo verissimo secondo la carne, non ebbe tuttavia l' OBBLIGAZIONE di contrarre il peccato originale. La tradizione tutta risponde con S. Agostino (1) e con S. Tommaso (2), che non l' ebbe, perchè non fu generato dal seme infetto, perchè ricevette bensì da Adamo la carne, ma non per via di generazione. E alla natura umana, che volle assumere il Verbo, non era dovuta la grazia; anzi fu predestinata all' unione personale col Verbo, e il Cristo fu unto per libero decreto del Padre. Se dunque non era dovuta alla carne che il Verbo poi assunse la grazia, perchè tuttavia l' umanità di Cristo non fu obnoxia al peccato? Se il peccato non è che la mera privazione della grazia in relazione alla volontà prevaricatrice del primo padre, la carne d' Adamo in qualunque modo da lui si tragga sarà obnoxia peccato . Niente di ciò: anzi benchè alla natura umana non sia dovuta la grazia; pure insegna la dottrina cattolica, che il Nato dalla Vergine non solo non contrasse, ma nè pure dovea contrarre il peccato. Dunque il peccato non è la mera privazione della grazia; ma esso è l' obice che impedisce la grazia, il quale obice è posto dalla seminale generazione, la quale non fu quella di Cristo operata per ispirito Santo. Essendo dunque l' originale vizio ne' posteri e peccato e colpa, due cose ci vogliono acciocchè trapassi coll' una e l' altra qualità: 1 la generazione seminale, 2 la relazione alla volontà di Adamo, che viziò la generazione, poichè [...OMISSIS...] . Ma se si trattasse di trasmettere una mera privazione de' doni soprannaturali, sarebbe vero quello che dicono i nostri teologi, [...OMISSIS...] . Ma questo appunto dimostra l' erroneità del loro sistema. S. Tommaso, e tutti i dottori, tutti i teologi, non hanno creduto inutile una tale questione, anzi difficile, difficilissima. S. Tommaso ha creduto di dover ricorrere ad una [...OMISSIS...] ed ha creduto che non ogni forza o virtù fosse atta a trasmettere il peccato, ma solo quella che opera [...OMISSIS...] . Certo che per trasfondere una privazione semplice non fa bisogno d' una forza, o vita attiva, d' una mozione, e d' una mozione determinata. E` dunque manifesto, che S. Tommaso (a cui non si può negare il buon senso, nè attribuire che siasi abbandonato alla fantasia , o che siasi lambiccato inutilmente il cervello (4); non sarebbe ricorso ad una forza, o virtù attiva di operare per ispiegare la produzione del peccato ne' posteri, se avesse stimato che in questo non ci avesse niente di positivo, ma fosse una mera privazione de' soprannaturali favori (1). Finalmente col sistema degli Anonimi pare almen che si cozzi in un altro errore, quel della proposizione LVI di Bajo, [...OMISSIS...] . Imperocchè nel peccato original de' bambini battezzati non v' ha più certamente l' atto del peccato, già trapassato in Adamo, nè pure v' ha il reato tolto coll' acque battesimali. Che cosa dunque resta, ci dicano, i nostri Anonimi? Nel loro sistema non resta più niente, come dice Bajo, niente più che spieghi veramente la trasfusione del peccato; mentre nel sistema della Chiesa in vece d' una carne naturalmente sana che produce una carne sana, rimane una carne inferma e guasta che produce una carne del pari inferma e guasta, la qual trae la volontà dell' anima dall' eguaglianza della giustizia (2). Ma qui gli avversarii ci fanno un mondo di obbiezioni, alle quali tutte noi vogliamo rispondere, registrandole per ordine, e soggiungendo a ciascuna la sua risposta. Obbiezione 1 E` vero che S. Tommaso dice che all' essere del peccato d' origine concorrono due cose, 1 un difetto naturale , e 2 che questo difetto sia stato in potere della natura mercè la libera volontà del suo corpo, nel che consiste la ragione della colpa (1). Ma S. Tommaso chiama quel difetto naturale , non lo chiama già peccato . Risposta . Quel difetto è chiamato da S. Tommaso ugualmente difetto naturale , o peccato naturale . Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] (ecco la colpa), [...OMISSIS...] (non si ferma alla colpa, c' è qualche altra cosa da aggiungere) [...OMISSIS...] (e non solo privata de' doni maggiori). [...OMISSIS...] ; perchè, come disse altrove ne' posteri, il peccato originale « deficit a ratione culpae ». Laonde S. Tommaso al peccato dei posteri, astraendo dall' attual peccato d' Adamo, attribuisce ugualmente le appellazioni or di « defectus naturalis », or di « peccatum naturale ». Obbiezione 2 S. Tommaso chiama l' accennato difetto naturale [...OMISSIS...] . E` dunque in se stesso una semplice limitazione della natura, non un peccato. Risposta . Ci sono de' difetti, cioè delle mancanze che conseguono necessariamente alla natura umana, e questi sono mere limitazioni della natura; ma vi sono de' difetti che conseguono accidentalmente alla natura; e questi non sono mere limitazioni. Che la natura umana sia fallibile , questo è un difetto necessario, e solo per accidente ella può essere difesa e premunita contro l' errore, e il peccato. Ma che la natura erri, o pecchi realmente, questo è un difetto che consegue a' suoi principii accidentalmente. Dato poi che sia venuto in essa questo accidentale difetto, qual fu il peccato, ch' ebbe luogo nel primo padre; esso difetto si rende necessario nella natura: tale è il disordine abituale della volontà ne' posteri, o il peccato originale. Onde il peccato originale originato è un difetto naturale [...OMISSIS...] ; perchè i principii della natura umana, che è quanto dire i suoi essenziali costitutivi non esigono di necessità che la natura umana sia senza peccato. Se dunque il peccato si considera in Adamo che lo commise, egli è un difetto [...OMISSIS...] ; se si considera trasmesso ne' posteri dopo commesso, egli è un difetto [...OMISSIS...] . Laonde S. Tommaso dichiara, che l' inordinazione della volontà che non può domare le potenze inferiori, [...OMISSIS...] per mezzo della colpa (1), non della natura umana semplicemente. Nel che egli è uopo considerare, che S. Tommaso, come abbiamo già notato, nella giustizia originale distingue una doppia rettitudine di volontà , cioè una rettitudine di volontà soprannaturale , che nasce essenzialmente dal dono della grazia santificante: e la mancanza di questa è un difetto che consegue i principii della natura umana necessariamente, è una limitazione; ed una rettitudine di volontà naturale , che potrebbe esser nell' uomo anco senza la grazia santificante, se Iddio l' avesse creato in istato di natura integra, senza la grazia: e la mancanza di questa rettitudine naturale è un difetto che consegue la natura umana per accidente. Onde un suo interprete preclarissimo, a cui appellano gli stessi nostri avversarii, dopo distinto l' amore di Dio soprannaturale, e l' amor di Dio naturale che si conteneva nell' originale giustizia, dice, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che nel peccato originale rimase perduto non che l' amor di Dio soprannaturale, ma anche il naturale: [...OMISSIS...] . Di entrambi questi amori rimasero dunque privi anche i posteri d' Adamo spogli della originale giustizia. Ora il difetto dell' amore naturale di Dio, l' impotenza di amarlo naturalmente , quanto si conviene; è un difetto che consegue i principii della natura umana corrotta; e non mai quelli della natura umana, nell' ipotesi che fosse creata da Dio senza grazia, ma in pari tempo senza vizio. Obbiezione 3. Benchè S. Tommaso dica, che i difetti naturali, che peccato originale si dicono, sieno [...OMISSIS...] ; tuttavia dice anco che questi difetti potrebbero trovarsi in una natura non iscaduta per cagion di peccato, ma formata da Dio medesimo, nel qual caso non avrebbero ragione di colpa . [...OMISSIS...] Risposta . La conclusione che voi tirate dal testo addotto di S. Tommaso non procede in modo alcuno, perchè in quel testo S. Tommaso non parla del formale del peccato originale, ma solo del materiale . A convincervene vi basti quest' altro luogo di S. Tommaso medesimo: [...OMISSIS...] . Ora rileggete il testo addotto, e vedrete se il S. Dottore ivi parli dell' insubordinazione della volontà a Dio, che è il formale del peccato; ovvero se parli solo dell' inordinazione delle forze dell' anima, che è il materiale . Dell' insubordinazione della volontà , voi scorgerete che non vi fa motto alcuno, non dice se non che Iddio potea creare [...OMISSIS...] (2). S. Tommaso dunque non insegna nel testo addotto che Iddio avesse potuto creare un uomo la cui volontà non fosse subordinata a Dio, il che è il formale, l' essenziale del peccato; ma solo che avrebbe potuto crearne uno passibile, mortale, concupiscibile; il che forma nel presente ordine di cose la pena, l' effetto, e il materiale del peccato; ma nell' ordine ipotetico in cui Iddio l' avesse creato tale, sarebbe un difetto, a cui non si potrebbero nè pure applicare tali appellazioni. Laonde si dee conchiudere che dove S. Tommaso parla del peccato intero, racchiudente tanto la parte formale, quanto la materiale, egli nol dice difetto naturale, o conseguente i principii della natura, se non intendendo della natura decaduta, come ho detto nella risposta all' obbezione precedente; dove poi parla della sola parte materiale del peccato, egli concede che possa dirsi un difetto della natura stessa, e che l' uomo potesse esser creato da Dio in tale stato, benchè anche ciò per via di mera congettura, o con qualche limitazione, come vedremo (1). E in fatti egli è troppo assurdo l' attribuire a S. Tommaso l' insegnamento, che Iddio avesse potuto creare un uomo avente un FORMALE PECCATO, quale egli dichiara essere LA MANCANZA DI SUBORDINAZIONE A DIO DELLA VOLONTA` (2). Obbiezione 4. Quel naturale difetto col quale Iddio avrebbe potuto crear l' uomo, S. Tommaso lo chiama peccato originale; onde per esso non intende, come voi dite, la sola parte materiale del peccato. Risposta . Può tirarne questa conclusione solo colui che non conosce la maniera di parlare del Dottore angelico. Esponiamola, e sarà tosto dissipata l' obbiezione. L' espressione giustizia naturale , come l' usa S. Tommaso, comprende 1 la subordinazione della volontà a Dio; 2 la subordinazione delle potenze inferiori alla volontà buona. Il peccato originale poi è la perdita dell' originale giustizia; e però sotto tale espressione egli intende pure 1 l' insubordinazione della volontà a Dio, che perdette per propria colpa la grazia santificante, e così rimase abitualmente insubordinata e spossata, e 2 l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione. [...OMISSIS...] , dice Francesco de Sylvestris, [...OMISSIS...] . Ora talvolta S. Tommaso dà il nome di peccato originale alla sola parte materiale del peccato, come dà il nome di giustizia originale alla sola seconda parte che si può dir materiale di questa giustizia. Tutto ciò c' insegna l' accennato interprete de Sylvestris, il quale, dopo esposta la dottrina di S. Tommaso che, [...OMISSIS...] ; si fa l' obbiezione: in qual modo S. Tommaso possa dire che resta il peccato originale dopo il battesimo, mentre la concupiscenza che rimane non è peccato, perchè non è [...OMISSIS...] ; e per rispondere a quest' obbiezione e spiegare in che senso S. Tommaso dica che rimanga il peccato dopo il battesimo, ricorre alla maniera di parlare da lui usata, mostrando che secondo questa, la giustizia originale , come pure il peccato originale ha due sensi: [...OMISSIS...] . Onde quando S. Tommaso dice, che il peccato originale è [...OMISSIS...] . Quando poi dice che resta il peccato originale dopo il battesimo perchè resta la concupiscenza, deesi intendere che manca solo la seconda parte dell' originale giustizia, [...OMISSIS...] . Ora si dee osservare, che la seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente cosa morale, ma è morale solo in quanto dipende dalla prima parte; e così del pari la privazione della seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente peccato, ma è peccato in quanto dipende e sta unito colla privazione della prima parte della giustizia originale, ed anche allora è ciò che forma la parte material del peccato. Quando dunque nell' uomo non manca la prima parte, quando non manca la RETTITUDINE DELLA VOLONTA` SUPREMA, allora la mancanza della sola seconda parte di essa giustizia non è più veramente peccato, e nè pure materia di peccato (cessandole la qualità di materia col cessarle l' unione colla forma); e tuttavia si suol dire ancora peccato per denominazione continuata, cioè perchè fu prima tale, e così pure si dice materia di peccato: dicesi poi reliquia del peccato, perchè inclina al peccato; [...OMISSIS...] . Quando dunque S. Tommaso dice peccato a quel difetto col quale potrebbe Iddio creare l' uomo, lasciandolo alla sua condizione naturale; egli parla al modo stesso come parlò l' Apostolo, quando disse che [...OMISSIS...] . Ma il Concilio di Trento dichiarò che non è quel peccato [...OMISSIS...] . Onde noi dicemmo che tale specie di peccati [...OMISSIS...] . Così l' obbiezione che ci si faceva rimane annullata. A conferma poi della stessa verità si osservi, 1 Che non si troverà mai un passo in S. Tommaso, nel quale egli insegni che Iddio poteva crear l' uomo « con una volontà a lui insubordinata ed avversa »; nel che sta il formale del peccato originale; ma dove parla de' difetti naturali, co' quali Iddio potea crear l' uomo, mostra d' intendere costantemente dell' insubordinazione delle parti inferiori alla ragione, cioè della concupiscenza presa in questo senso, o della mortalità, della passibilità ecc.; 2 Che in quei luoghi, ne' quali si ferma il Santo a mostrare, che que' difetti naturali non sarebbero COLPA se l' uomo fosse stato creato con essi, parla di que' soli difetti che non sono ESSENZIALMENTE morali, com' è l' insubordinazione e l' avversione della volontà a Dio, ma di quelli soli che acquistano la qualità di morali e di colpevoli da questo che hanno proceduto in origine da un peccato colpevole, come nel passo seguente: [...OMISSIS...] . In questo brano si vedono distinti i DIFETTI di cui si parla, 1 dal peccato libero di Adamo, 2 dalla privazione della grazia, e si dicono effetti dell' uno e dell' altra. Non sono adunque per se stessi il peccato, nè la privazione della grazia, la privazione della grazia e il vero peccato prese insieme sono cose che appartengono alla parte superiore dell' anima, e mettono in essa un' inordinazione. Prova dunque S. Tommaso, che meritano il nome di COLPA anche quei naturali difetti, che non sarebbero da sè peccato, unicamente perchè vennero dal libero peccato, e non si trasmettono soli, ma si trasmette per generazione anche il peccato, e venendo essi comunicati in tale compagnia pigliano anch' essi la natura di peccato e di colpa in quanto sono effetti intimamente legati col peccato. Così si debbono intendere tutti que' luoghi, nei quali S. Tommaso si estende a provare che que' difetti non hanno la nozione di peccato in sè stessi, ma la mutuano dal peccato libero che fu loro causa; divenendo anco un male fisico morale, se è prodotto dalla malizia della volontà. Obbiezione 5. Conceduto anche, che i naturali difetti di cui parla S. Tommaso quando dice, che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con essi, non sia ciò che v' ha di formale nel peccato originale; ma solo ciò che presentemente forma la parte materiale di esso peccato, cioè la pugna della carne collo spirito, egli è da concedersi che con questa pugna l' uomo privo di giustizia non può amare Iddio sopra tutte le cose, nè naturalmente, nè soprannaturalmente. Dunque l' uomo creato da Dio con questa pugna, benchè non potesse amare Iddio sopra tutte le cose; tuttavia non avrebbe in sè peccato; stantechè Iddio non può creare l' uomo in peccato. Dunque nè pure l' anteporre la creatura al Creatore sarebbe peccato, se non dipendesse dalla libera volontà. Quello dunque che non è colpa, nè pure è peccato. Risposta . I teologi inclinati al Razionalismo cercano di descrivere la concupiscenza inferiore quale presentemente esiste nell' uomo nel modo il più mite: e giungono a dire, ch' ella non impedisce assolutamente l' uomo dall' eseguire tutta la legge naturale, e quindi, dico io, nè pure il dee impedire secondo essi, dall' amare naturalmente Iddio sopra tutte le cose (che è certamente il primo precetto anche della legge naturale), e questa a malgrado di tutte le più forti tentazioni; benchè concedano, che ella renda all' uomo tale virtù ed innocenza naturale assai difficile. Ma questo è il primo errore dei teologi razionalisti apertamente confutato da S. Tommaso in più luoghi. Il S. Dottore dà alle forze della concupiscenza due gradi; l' uno e il maggiore nell' uomo non battezzato, il quale è tale, che l' uomo non può colle proprie forze resistere a tutti i suoi assalti, ma dee cadere dopo qualche tempo di resistenza, almeno nascendogli forti tentazioni, in peccato mortale; l' altro e il minore nell' uomo battezzato; il quale è sempre vincibile colle forze, che l' uomo ha acquistato dalla grazia battesimale, usando i mezzi, che questa grazia gli presta, ma non sì, che non gl' incontri di essere da quel grado di forza leggermente ferito, cadendo ne' peccati veniali; da' quali nessun giusto, senza special privilegio, interamente si libera «( Dottrina del pecc. orig. XCVIII 7 CI) ». Ora s' attribuirà forse a S. Tommaso l' opinione che Iddio potesse crear l' uomo con quel grado di concupiscenza, col quale ora nasce, di maniera che fosse necessitato a peccare contro la legge naturale, e contro il Creatore? Qual torto non si farebbe con ciò al santo Dottore? Si adduca un solo testo dal quale apparisca ch' egli così la pensi, se si può: questo testo non fu mai addotto, nè mai s' addurrà: se ne possono all' incontro addurre molti che spiegano quant' egli sia lontano da un tale assurdo. Se S. Tommaso concede, che l' uomo lasciato alla natural sua condizione sentirebbe la pugna della carne colla mente [...OMISSIS...] , questo non determina ancora il grado della pugna: non è un dire che l' uomo creato da Dio nell' ordine naturale potesse avere quella stessa terribil lotta che ha di presente, perocchè di presente, [...OMISSIS...] . Dove mai dice questo S. Tommaso dell' uomo creato da Dio senza peccato e lasciato da lui all' ordine della natura? Di presente l' uomo che non può resistere alla molteplicità degli assalti della concupiscenza, benchè resister potrebbe a ciascuno, quando cade stretto in tali angustie ACCONSENTE, che senza qualche consenso non si dà certamente peccato, all' incontro nell' uomo creato da Dio senz' ordine soprannaturale non pone mai il santo Dottore alcun NECESSARIO CONSENSO AL MALE, ma solo un SENSO; perocchè dice [...OMISSIS...] . Non intende adunque di dire che Iddio potesse creare un uomo colla stessa lotta, colla quale or nasce l' uomo caduto, l' uom peccatore; ma con un' altra specie di lotta, che nè sarebbe peccato, nè l' indurrebbe mai necessariamente a peccato alcuno. Dunque l' uomo presente, secondo S. Tommaso, è moralmente guasto nella natura, a differenza di quell' uomo, che Iddio potesse creare nell' ordine naturale; il quale sarebbe sì limitato , ma non guasto . E perchè splenda ancora più chiara la dottrina dell' Angelico, si consideri, che l' obbiezione, che ci fa, parla d' una concupiscenza, colla quale l' uomo non potrebbe sempre amare Iddio sopra tutte le cose, nè pure naturalmente. Tale è certamente la concupiscenza, che, secondo S. Tommaso, trae seco uscendo alla luce l' uomo di presente. Ma si osservi, che una tale concupiscenza non è meramente quella che abbiamo designato come la seconda parte del peccato d' origine, e che spesso concupiscenza si dice; ma ell' è una concupiscenza che abbraccia tanto la prima (l' insubordinazione della volontà a Dio) quanto la seconda parte di esso peccato (l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione). Poichè anche in questo senso si usa spesso la parola concupiscenza da S. Agostino, da S. Tommaso, e da tutta l' ecclesiastica tradizione. Ora, quando sotto il nome di concupiscenza s' intende non solo la semplice parte materiale del peccato d' origine, ma anche la formale, allora si verifica, che la concupiscenza è il peccato stesso originale, allora è una concupiscenza « cum privatione originalis justitiae », presa l' originale giustizia per l' ordinazione e la dirittura della volontà che è uno de' due sensi assegnatile. E questa concupiscenza è quella che ha forze sì potenti da captivare l' uomo sotto il peccato, e da trarlo nel consenso del peccato, se lungamente senza grazia dimora. Che alla concupiscenza vengano sì sformatamente accresciute le forze dalla stortura della volontà superiore, dov' è il formale del peccato d' origine, l' insegna espressamente S. Tommaso, e lo spiega così: [...OMISSIS...] , parole che S. Tommaso dice per dimostrare che presentemente l' uomo privo della grazia santificante non può rimanere a lungo senza mortalmente peccare. La concupiscenza adunque che impedisce l' uomo dall' amare Iddio sopra tutte le cose è quella che è unita colla parte formale del peccato, consistente nell' insubordinazione della volontà a Dio. Ma abbiamo veduto rispondendo alla quarta obbiezione, esser mente di S. Tommaso, che coll' insubordinazione della volontà a Dio, Iddio non potrebbe costituire mai un uomo. Dunque cade l' obbiezione quinta (1): dunque è falso che Iddio potrebbe crear l' uomo con una tale concupiscenza; o che il preferire qualche creatura al Creatore, l' amar più quella che questo, potesse mai non esser peccato; o che la natura umana presentemente sia solo spogliata de' doni gratuiti e non anco ferita nelle parti sue naturali, non certo ne' principii essenziali, ma quanto alle perfezioni accidentali (2). Obbiezione 6. Almeno voi dovete accordare, che « il sentire una qualche lotta della carne collo spirito »consegue dai principii della natura umana, e quindi si troverebbe in un uomo creato da Dio senza la grazia santificante. Risposta . Questa obbiezione eccede i confini della questione. Noi avevamo tolto a provare che l' uomo presentemente non solo è spogliato della grazia, ma è ferito moralmente nella sua stessa natura; e questo è provato coll' autorità di S. Tommaso, disciolte tutte le obbiezioni che si potevano fare per eludere l' autorità sua di tanto peso nella cristiana teologia. Ma per soprappiù rispondo anche a questa sesta obbiezione, osservando, che si possono distinguere tre necessità venienti dalle potenze inferiori: 1 necessità, di meramente sentire, [...OMISSIS...] . 2 necessità, di provare tentazione nella volontà di guisa che la volontà viene incitata ad amare qualche cosa contro l' ordine morale, [...OMISSIS...] . 3 necessità, di consentire alla tentazione o tentazioni moltiplicate, [...OMISSIS...] . Quest' ultima è la trista necessità dell' uomo caduto, che descrive S. Tommaso quando dice, che l' uomo, senza la grazia divina, non può a lungo astenersi dal peccato mortale. Questa necessità non indica solo la nudità della grazia santificante , indica una profonda mortal ferita nella stessa natura morale dell' uomo. Fu provato, che a questa Iddio non potrebbe abbandonare un uomo da lui creato, ciò sconvenendo alla sua infinita bontà e santità. La seconda necessità è quella che si trova nell' uomo caduto, ma rigenerato, è la madre feconda delle venialità. Anche questa è una trista necessità, un vero male morale. Nè pure a questa, diciam noi, potrebbe Iddio abbandonare l' uomo che uscisse senza grazia dalle sue mani (2). Quanto poi alla prima necessità, quella di sentire meramente ciò che è sensibile, senza che la volontà sia eccitata a preferire il bene sensibile al suo dovere, non volendolo il libero arbitrio (1): questo non è certamente un male morale, nè un morale difetto. Dove la volontà non entra affatto con atti disordinati, non ci può essere immoralità: ogni immoralità supponendo qualche attività volontaria. Ora, se questa necessità di sentire sia in qualche parte condizione della natura umana lasciata a sè stessa ed eccellentemente compaginata, questa non è questione teologica; ma meramente filosofica. Si può opinare l' una e l' altra cosa senza pregiudizio della fede. E però si può opinare che Iddio potesse crear l' uomo nell' ordine della natura con questa necessità di sentire, se si tiene ch' ella sia una necessaria limitazione della natura, e si può opinare il contrario, se si tiene che l' uomo anche naturalmente, supposta la natura sua perfetta nell' ordine naturale, dovesse avere un libero arbitrio così signore della volontà da impedire a questa, col suo imperio, anche i primi spontanei movimenti, le prime tendenze attive verso il bene sensibile, opposte all' ordine morale, o a prevenire l' atto stesso del senso. Aggiungerò due osservazioni: 1 Alcuni teologi avvisano, che l' uom primo costituito in grazia non soggiaceva nè pure alla necessità di sentire, [...OMISSIS...] dice il De Rubeis, [...OMISSIS...] . Quello che è certo si è, che la sensazione non avrebbe attratto e nè pur cominciato ad attrarre necessariamente la buona volontà: questa avrebbe potuto impedire ogni lusinga della sensazione sopra di sè con un amore assoluto e non comparativo al proprio dovere. Onde S. Agostino, [...OMISSIS...] . 2 Que' teologi i quali sostengono possibile lo stato di natura pura , intendendo per esso una condizione, nella quale l' uomo sentirebbe la pugna della concupiscenza colla volontà buona, a tale che questa non potrebbe sempre resistere, ed amare Iddio per lungo tempo sopra ogni cosa, questi teologi, dico, nello stesso tempo che dichiarano possibile questo stato dell' uomo, non intendono di lasciar veramente l' uomo ignudo di aiuti gratuiti; ma anzi dicono, che Iddio supplirebbe al bisogno con aiuti ordinarii e speciali, i quali però essendo transeunti e non abituali non impedirebbero che si potesse quello dire « stato di natura pura. »Così Tommaso di Lemos, [...OMISSIS...] . Aggiungiamo alle addotte, altre testimonianze ancora, le quali dimostrino che il parlare di tutta la tradizione ecclesiastica esprime continuamente non già solo uno spogliamento de' doni gratuiti, ma un guasto profondo nella stessa natura. 1 Un gran numero di scrittori ecclesiastici antichi e moderni dicono chiaramente, che la volontà dell' uomo che nasce è curva verso il male, di guisa che convien ritorcerla indietro affine d' addurla alla rettitudine della legge divina, come appunto si farebbe d' un pallone storto. S. Ilario di Poitier commentando quelle parole del salmo [...OMISSIS...] . Si parlerebbe egli d' un vizio opposto alla legge di Dio, da cui conviene togliere il cuore; per dire che il cuore è naturalmente retto? Tanto più che trattasi d' un cuore che già ha la grazia colla quale può staccarsi dal vizio della natura. Che cosa sarebbe questo vizio nel sistema de' nostri Anonimi? La natura spoglia della grazia? no. Che dunque? 2 Se la natura non fosse che spogliata della grazia, basterebbe vestirla di questa, e sarebbe tolto il suo difetto. Ma non così le scritture ed i padri descrivono la giustificazione dell' uomo. S. Paolo parla della deposizione dell' uomo vecchio, e della vestizione del nuovo. Che uomo vecchio ci sarebbe a deporre, se la natura non ha alcun male in se stessa? Dovrebbe bastare di rivestire l' uomo vecchio, senza deporlo, anzi conservandolo tutt' intero. Al tenor dell' Apostolo consuonano i padri. S. Ilario di Poitier così descrive la giustificazione: [...OMISSIS...] . Se la natura umana è di presente senza difetto, che cosa avrebbe ella da deporre? Nulla: avrebbe solo da vestir la grazia. Medesimamente le Scritture, i Concili e i Padri non dicono solo che diventa novo, ma prima dicono che viene seppellito nella morte di Cristo, [...OMISSIS...] , dice S. Leone, [...OMISSIS...] , che è il costante insegnamento di S. Paolo, [...OMISSIS...] (esprime la remozione di ciò che v' ha di male nell' uomo), [...OMISSIS...] (esprime il vestimento della grazia di cui l' uomo viene coperto, deposta la reità del peccato) (3). 3 I Padri non parlano solo de' doni che abbiamo perduto col peccato di Adamo, parlano d' un male positivo, che abbiamo ricevuto dentro di noi. Così S. Gregorio Nazianzeno: [...OMISSIS...] . Questa pravità, questa malvagità non può certo significare un semplice spogliamento della grazia: è qualche cosa che si riceve dentro di se, non qualche cosa che si lascia. Medesimamente il mal dell' uomo si chiama da' Padri un veleno comunicatogli dal serpente, e un veleno non indica una semplice perdita del bene, ma un vero acquisto del male. Così Origene nel commento sulla Cantica, esponendo le parole del Salmo XLII, v. 1, [...OMISSIS...] . La tradizione ebraica parla costantemente d' un veleno nascosto nel frutto vietato, che guastò la costituzione intera dell' uomo (2). 4 Quindi anche il peccato originale si chiama costantemente un morbo , un languore della natura, un contagio , una tabe: parole tutte non significanti un mero spogliamento del vestimento soprannaturale, ma un vero guasto nella naturale costituzione fisico7morale. Così S. Basilio: [...OMISSIS...] . E S. Ambrogio di Cristo, [...OMISSIS...] . S. Anselmo poi, [...OMISSIS...] . 5 I santi Padri di più distinguono espressamente fra lo spogliamento de' doni supremi, e le ferite della natura, e attribuiscono l' uno e l' altro effetto al peccato originale: applicandogli la parabola del Samaritano non solo spogliato dai ladri, ma ancor ferito. Così S. Ambrogio: [...OMISSIS...] ; dove anche chiaro apparisce che S. Ambrogio non mette la morte, l' uccisione dell' uomo nel semplice dispogliamento della grazia, ma nella disorganizzazione morale prodotta dalla ferita del peccato. 6 I padri e i dottori dicono oltracciò, che l' uomo nasce lordo, macchiato (4), immondo, infetto, espressioni tutte che lungi dall' esprimere una semplice privazione della grazia, indica una positiva deformità rimasta nella natura umana. Così il Venerabile Beda: [...OMISSIS...] . E prima di lui S. Ambrogio: [...OMISSIS...] . Da' quai luoghi si vede, come il gran vescovo milanese fissava l' occhio sulla corruzione annessa alla generazione per ispiegare il contagio del peccato astraendo dalla nozione di colpa. Prima però ancora di S. Ambrogio, lo stesso Origene, quando parlò guidato dalle parole della scrittura, descrisse il peccato originale come una verissima sordidezza della natura umana non pur nuda, ma sozza: [...OMISSIS...] . 7 Sono i santi Padri eloquentissimi a descrivere i mali profondi, che il peccato d' origine produsse nella natura. Ecco alcuni de' loro passi. S. Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] ; passo recato anche da S. Agostino contro i Pelagiani (6). S. Atanasio: [...OMISSIS...] . Ci si dica, quando volessero dire solamente che nell' uomo ora è solo la privazione della grazia, colla qual privazione Iddio potrebbe crearlo, non avrebbe potuto dirlo schiettamente? E che di più facile? O avrebbe detto in quella vece che tutte le cose sono ora contaminate, tutte perturbate? Che il paradiso sia chiuso all' uomo senza grazia, s' intende; ma perchè aperto l' inferno? perchè nemico il cielo? Come si potrebbe significare più vivamente il guasto dell' umana natura, che dicendo l' uomo corrotto, e divenuto simile a' giumenti? potrebbe Iddio creare un uomo corrotto? e a vili giumenti somigliante? o l' uomo che fosse senza la grazia, ma colla natura del resto perfetta, potrebbe mai a' giumenti paragonarsi? E se la natura fosse rimasa senza difetto e sol priva dell' ordine soprannaturale, come potea dire S. Gregorio di Nazianzo: [...OMISSIS...] . Anzi dovea dire: « non son caduto che dall' ordine soprannaturale: del resto ho tutto il mio: sto ancor bene: sono ancor sano: non sono dannato ». E come Cristo avrebbe salvato tutto l' uomo, se tutto non fosse perito? se fosse perito solo quanto all' ordine soprannaturale, v' avea una parte nell' uomo, che non avea bisogno di Cristo, e quest' era tutta intera la natura umana, nella quale, secondo i nostri teologi, non v' ha difetto alcuno. Ma il parlar della Chiesa è ben altro: ella non si stanca di ripetere il concetto, che Tertulliano così espresse: [...OMISSIS...] . Del pari, potea esprimersi con più di chiarezza la corruzione della natura umana ed il bisogno della ristorazione operata da Cristo, di quel che facesse S. Cirillo di Gerusalemme in quelle parole, [...OMISSIS...] . . E non si contentano i Padri e i maestri in divinità di esprimere con parole traslate il guasto intimo, che nell' ordine naturale recò all' uomo il primo peccato: lo dichiarano anche in parole proprie. L' esser privo meramente di grazia non costituisce alcuna malizia; ma la tradizione tutta vede nell' anima dell' uomo espressamente LA MALIZIA, il disordine morale. S. Ilario di Poitier dice: [...OMISSIS...] . La qual malizia è così descritta da S. Bonaventura: [...OMISSIS...] , or non si ferma qui il santo, come gli Anonimi fanno, ma seguita: [...OMISSIS...] . Ora la natura umana senza alcun vizio contratto, ma sol privata dell' ordine soprannaturale, sarà ella d' indole così maligna, da dover esser priva dell' abito di tutte le virtù, prona ad ogni genere di colpa, soggetta alla concupiscenza, schiava e schiava del demonio? Il dirla tale per se stessa, non sarebb' egli un rovesciare, non che altro, nel Manicheismo? Questo appunto dicevano i manichei impugnati da S. Agostino. Ma udiamo anche Gersone, com' egli descriva la malizia, che col peccato d' origine l' uomo ha contratto: [...OMISSIS...] . Tale è la definizione di Gersone. Ora la natura pura avrà ella un' abituale avversione a Dio? quest' abito può egli esser creato da Dio stesso colla natura? o l' abito non è sempre cosa distinta dalla natura che lo riveste? La natura umana, secondo Gersone, non solo ha deposto l' abito della grazia, ma vestito altresì quello dell' avversione a Dio, il quale la rende inchinevole a negare la giustizia a chi è dovuta. Pur seguitiamo ad udire il Gersone. [...OMISSIS...] Di che poi conchiude così: [...OMISSIS...] . Ora avrebbe potuto Iddio creare un uomo nel qual fosse « carentia utriusque partis justitiae », secondo che s' esprime Gersone? quei teologi cattolici che sostengono la possibilità dello stato di pura natura, o come si potrebbe chiamare di natura non intera, aggiungono, come vedemmo, che Iddio supplirebbe al bisogno con degli aiuti speciali, ma in tal caso, cessa la questione (2): questi aiuti speciali sono appunto quelli che dimenticarono nella penna i nostri Anonimi; e così s' allontanarono dalla sana e comune dottrina. 9 S. Giovanni Crisostomo rassomiglia la corruzione dell' anima pel peccato alla corruzione e dissoluzione del corpo, e l' attribuisce al primo peccato [...OMISSIS...] . Questa somiglianza tra la corruzione dell' anima pel primo peccato e la corruzione del corpo torna frequente negli scrittori ecclesiastici; mi valga in esempio un brano di Raimondo Sabunde [...OMISSIS...] . Dalle quali maniere di parlare si scorge 1 che i dottori cattolici non ripongono la morte dell' anima nella mera privazione della grazia, ma in un guasto simile a quello della disorganizzazione del corpo; 2 che l' anima così corrotta e macchiata dal peccato, com' è di presente, non poteva uscire dalle mani del Creatore. 10 Sono del pari gli antichi maestri costantemente intesi ad assegnare la sede dell' original peccato nella volontà, descrivendo il disordine, e l' impotenza di questa al compiuto bene. Così S. Gregorio Nisseno: [...OMISSIS...] . S. Macario d' Egitto (an. 370) distingue espressamente tra la perdita della grazia che dà diritto alla visione beatifica, e il possesso della propria natura che s' ha per la volontà ben ordinata; e dice non solo quella perita pel peccato, ma ben anco questa: [...OMISSIS...] , che è la grazia santificante. Questa perdita della possessione della propria natura fu oggetto d' una definizione di Papa Celestino, il quale in uno de' celebri suoi capitoli dice: [...OMISSIS...] . Il che Teofilatto ascrive agli affetti pravi, che opprimono l' uomo. [...OMISSIS...] . Sarà ella questa la natura pura dell' uomo? Sarà dunque l' uomo, per condizione di sua natura, venduto al peccato, sotto il dominio del peccato oppresso dagli affetti pravi in guisa da non potere rilevare il capo? Se questo fosse natura, non sarebbe la natura per sè mala de' manichei? 11 Quindi è anco, che si rassomiglia il peccato originale ad un vincolo, che lega l' umana natura, il che è troppo più che lasciarla nuda, ma libera. Così S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Così pure S. Gregorio Nazianzeno del Battesimo [...OMISSIS...] . E Clemente Alessandrino usava la stessa maniera di favellare: [...OMISSIS...] . Al che s' accorda il parlare di Teodoreto. [...OMISSIS...] L' esser legata è ella cosa propria della natura umana? il legame rappresenta qualche cosa di sopraggiunto alla natura, non certo una condizione della natura stessa. Essendo dunque di presente legata la natura dell' uomo, essa natura dovette esser liberata e disciolta da Cristo, frase comune presso i Padri, in esempio della quale bastino recare queste parole dello stesso Teodoreto, [...OMISSIS...] ; che ripetono quello che avea insegnato Cristo di propria bocca, allorché disse. [...OMISSIS...] . 12 Un altro argomento validissimo, per conoscere intorno a ciò la mente di S. Agostino, si è l' osservare com' egli rispose ad una obbiezione di Giuliano. Abusando questi d' un luogo di S. Basilio, argomentava così: [...OMISSIS...] . Ora se S. Agostino avesse tenuto il sistema de' nostri Anonimi, quanto gli era facile rispondere a Giuliano, che nè la natura, nè la volontá umana ritiene alcun male dalla prevaricazione d' Adamo, ma solo è priva de' gratuiti favori? Ma non venne e non potea venire nella mente d' Agostino una tale risposta, e in quella vece rispose accordando che [...OMISSIS...] . Ammetteva dunque tutta intera l' antichità, ammetteva con essa S. Agostino, un vero male annesso alla natura umana, che Iddio solo potea da essa separare. Se questo male fosse un constitutivo della stessa umana natura, di maniera che creata da Dio priva dell' ordine soprannaturale, ella dovesse seco portarlo; già s' ammetterebbe una natura subbietto essenzialmente del male: che è appunto l' errore de' manichei. 13 Ora non solo dicesi la natura legata, e serva del peccato, ma di conseguente anco schiava del demonio. S. Ottato Milevitano: [...OMISSIS...] . Nè dicano già i nostri Anonimi, che questa è una maniera traslata di favellare, perchè S. Agostino risponderebbe loro, ció che rispose a Giuliano, che tentava di evadere per simili scappatoi, [...OMISSIS...] . Che anzi tanta si riputò l' influenza del nemico sull' uomo peccatore, che allo stesso peccato che porta in se si diede nome di serpente (3). 14 Finalmente anche dalle pene che trae seco il peccato d' origine può inferirsi lo spogliamento della grazia e il guasto della natura. Perocchè alla grazia compete il diritto della visione divina, ed all' incontro, [...OMISSIS...] . Ma colui, che muore col peccato originale non solo perde la vision beatifica o il regno celeste; ma ancora la vita dell' anima, perchè resta in lui il peccato definito dal sacro Concilio di Trento mors animae . Onde il Papa Siricio: [...OMISSIS...] , scrisse ad Imerio, [...OMISSIS...] . Vero è che noi siamo altamente persuasi, che oltre la redenzione di quegli uomini, a cui s' applicano per mezzo del battesimo i meriti della passione di Cristo, anche gli altri uomini, che muoiono senza colpa mortale partecipano della liberalità del Salvatore, il che noi chiamamo donazione di Cristo. E di questa sentenza molte autorità si potrebbero addurre, non solo de' Padri, ma delle Scritture, tra gli altri il testo del salmo citato dall' apostolo, che dice, non solo aver Gesù Cristo condotta sua schiava la schiavitù, cioè gli schiavi del demonio da lui redenti, ma ancora aver ricevuto dei doni da distribuire agli uomini: [...OMISSIS...] . Il che era figurato in Abramo, che fece Isacco suo erede, e dimise con dei doni i figliuoli delle schiave. Ed è d' altra parte di fede, che il beneficio della risurrezione è un dono fatto da Cristo a tutti gli uomini, anche ai non redenti. Onde noi già mostrammo, in un opuscolo su questo argomento, che i bambini morti senza battesimo possono benissimo, dopo la risurrezione, godere d' una naturale felicità, ma non perchè questa si appartenga loro di diritto, ma perchè è conveniente alla somma generosità di Cristo, ed alla sua gloria. Questa felicità dunque gratuitamente loro largita non può addursi a provare che il peccato originale non importi alcun disordine nell' umana natura, come vogliono i nostri teologi razionalisti, ma vale solo a provare la ricchezza e la bontà e l' amore di Cristo verso gli uomini. Lasciato dunque da parte quel che viene da Cristo come gratuito suo dono, e considerata la natural pena del peccato originale ne' bambini, questa è la morte, non pur del corpo, ma dell' anima, che nell' altra vita consisterebbe in uno stato d' eterna inazione, conservata solo all' anima intellettiva l' immota intuizione dell' essere, per la quale esiste. Il peccato originale dunque, cui l' uomo riceve coll' esser generato, è un male morale , e questo necessario . Dunque si danno de' mali morali necessarii. Questo male morale necessario viene nella sua origine rimota da un atto di libera volontà commesso dal primo padre: dunque il male morale è necessario nella sua prossima cagione, ma ha in pari tempo per cagione rimota anch' esso, la libertà. Che anzi la libertà umana dee essere sempre la cagion rimota de' mali morali necessarii, perchè altrimenti si farebbe autore di essi Iddio, o la natura mala, cadendo nel Manicheismo. Tali sono le dottrine della Chiesa: i teologi razionalisti le accusano di Calvinismo e di Giansenismo: di cui sono un documento gli ultimi opuscoli anonimi. Noi ci faremo ad esaminare di nuovo la questione in tutta la sua generalità. Due sono i principali errori de' calvinisti e de' giansenisti intorno all' umana libertà: Essi sostengono 1 Che l' uomo nello stato di natura caduta abbia perduto interamente ogni libertà, di maniera che egli al presente operi sempre necessariamente; operando il bene quando prevale in lui il peso della grazia, e operando il male quando prevale in lui il peso della concupiscenza, senza poter fare altramente; 2 Che operando con una tale volontà necessitata, l' uomo nello stato presente meriti, o demeriti. Tutti gli errori essendo abbinati, come sono sempre abbinati gli estremi, quali saranno gli errori opposti ai due errori calviniani e gianseniani sopra enunciati? I seguenti: 1 Che ogni atto dell' umana volontà sia essenzialmente libero, e la parola volontario non abbia altro significato che quello di libero , e che non sia nè pure atto umano quello che non è libero; sicchè l' uomo operi sempre con una libertà d' indifferenza; 2 Che perciò nella sfera delle cose morali non v' abbia che il merito e il demerito; non potendosi dare moralità buona o cattiva, che sia necessaria. Questi dunque sono i due estremi. Che cosa sente la Chiesa cattolica? Ella cammina dirittamente nel mezzo, e decide contro i primi: 1 Che la libertà d' indifferenza non è perita nell' uomo; 2 Che non si dà merito o demerito nello stato di natura caduta se non allora che l' uomo opera colla detta libertà di indifferenza. Decide ancora contro i secondi: 1 Che l' uomo non opera sempre con libertà d' indifferenza, ma che talora egli opera con una volontà priva di coazione, ma non priva di necessità; senza però che allora meriti nè demeriti; 2 Che quando la volontà umana soggiace alla necessità, se tale necessità è moralmente buona, viene da Dio; se ella è moralmente cattiva, viene da un abuso precedente della libertà umana, fatto o dall' uomo stesso in cui quella trista necessità si ritrova, ovvero dal primo padre; di maniera che ogni qual volta vi è la necessità nella causa prossima (la volontà istante), vi è o vi fu la libertà nella causa rimota (la volontà che liberamente produsse quel malo stato della volontà). Ora chi imprende a difendere la dottrina della Chiesa cattolica, converrà, per ragion di chiarezza, che incominci a distinguere due questioni. Poichè 1 Altro è il dimandare, se, considerata la sola natura della volontà umana, questa abbia due maniere di esser disposta, e di operare, l' una necessaria, e l' altra libera; e posto che sì, se operando il male morale colla volontà libera in causa, ma all' istante necessitata, o avendo allo stesso una suprema propensione, ella contragga od abbia in sè qualche specie di deformità morale; e 2 Altro è il domandare, se, posto il presente ordine di cose e la caduta adamitica, Iddio permetta di fatto, che la volontà umana soggiaccia talora alla necessità del male. La prima è questione astratta e filosofica; la seconda è questione di fatto e teologica, questa è legata con quella, non è quella. Noi cominceremo dalla prima: considereremo la volontà umana in sè stessa, e cercheremo se per sua natura questa volontà abbia i detti due modi di operare e di esser disposta, il necessario ed il libero; e se aderendo al male morale necessariamente, ella contragga o no qualche deformità morale. La prima parte di questa questione si dee sciogliere affermativamente per consenso di tutti i teologi cattolici e de' filosofi. Che la volontà dunque di sua natura abbia i due detti modi di operare il volontario ed il libero, non è a spenderci altre parole. Resta solo che vediamo se, dato che la volontà aderisca necessariamente al male, ella contragga da questa adesione per ciò solo una deformità. S' avverta che qui si tratta di un male morale che sia tale per essenza, com' è l' odio di Dio o del prossimo, l' amore della menzogna, l' amore disordinato di se stesso, e simili, e non che sia male solamente perchè vietato dalla legge positiva; giacchè in quest' ultimo caso non può aver luogo la questione, cessando ogni legge positiva qualora la volontà non possa adempirla. Sosteniamo dunque, che posta l' adesione al male morale della volontà, questa, anche se come soggetto o causa prossima di quell' adesione (1) soggiace alla necessità, dalla stessa e sola adesione contrae una deformità morale. Ed eccone brevemente le prove. I E` di fede che l' anima volitiva contrae necessariamente il peccato originale, e ne riceve una macchia, una deformità (1). Dunque non si può negare, che il male morale che aderisce all' anima, anche con necessità, perciò solo che le aderisce, la deformi; II Non vi sarebbe possibilità di precetto vetante il male , se il male non fosse tal cosa che deforma la volontà che in qualunque modo le aderisce; poichè male , ossia « oggetto moralmente cattivo (2) »altro non vuol dire, se non ciò che, informando la volontà, la disordina; e senza un male, un oggetto da fuggirsi, non può esservi precetto che ne ordini la fuga. Distinguansi bene le varie maniere di concepire l' oggetto. C' è l' oggetto materiale , che è la cosa considerata in se, per esempio Dio e il prossimo in se stessi; non è questo, a cui si riferisce prossimamente la legge vetante. C' è l' oggetto intellettuale , per esempio Dio e il prossimo presenti meramente all' intelletto; nè pur a questo si riferisce prossimamente la detta legge. C' è finalmente l' oggetto morale , cioè l' oggetto in quanto è amato ovver odiato: questo è l' oggetto prossimo della legge vetante. La legge vieta l' odio di Dio e del prossimo . L' oggetto prossimo della legge vetante è dunque ciò che prossimamente produce la deformità della volontà: la legge vieta quella mala adesione . L' odio di Dio e del prossimo per sè ed assolutamente la deturpa. Il male morale dunque è una deordinazione della volontà, la quale è tale in sè stessa, senza bisogno di sapersi s' ella sia stata prodotta necessariamente o liberamente. Essendo mala in se stessa, la legge la proibisce: quella malvagità è anteriore alla legge o al precetto, è fondata nella natura delle cose. Ella è quella che rende possibile il precetto. Questo viene dopo, e non parla che alla libertà , non obbliga che la libertà; la quale se obbedisce al precetto merita, e se disubbidisce, demerita. Ma se la libertà non esiste; se altro non vi ha nell' uomo che la volontà necessitata; la deordinazione di fatto non può mancare, benchè senza demerito, e quella deordinazione è una immoralità; perchè risiede nella volontà; e se questa è suprema nell' uomo, come accade nel bambino non battezzato, dicesi ed è peccato. Egli è vero, che la volontà potrebbe disordinarsi anco in quella sola parte che è libera. Questo è il caso del precetto positivo che è dato alla sola libertà; ond' anco non ammette che una specie sola d' immoralità, il demerito. E tuttavia, come dicevamo, anch' egli si riferisce ad un male reale esistente nella natura delle cose; qual' è l' inobbedienza , che si può definire la deordinazione della libertà . III Se mancasse il fondamento nella natura della cosa, se mancasse il male oggettivo, la deordinazione della volontà , o necessitata, trattandosi di cose intrinsecamente cattive, o libera, trattandosi anche di precetti positivi; se mancasse in una parola l' oggetto prossimo del precetto, nè pure potrebbe esservi colpa; appunto perchè come abbiamo detto al numero precedente non si dà possibilità di precetto, senza un male morale , oggetto del precetto. E però S. Tommaso dopo aver parlato del peccato semplice e della sua deformità intrinseca dicendo, che ella consiste nel deviare della volontà dal fine ultimo dell' umana vita, [...OMISSIS...] passa alla colpa, aggiungendo, ET IDEO (cioè essendovi precedente il male morale da evitarsi dall' umana libertà, che se non ci fosse, la colpa non sarebbe possibile) [...OMISSIS...] ; mostrando così, che anteriormente alla colpa c' è il male morale; e che perciò s' incolpa l' uomo che opera liberamente [...OMISSIS...] , perchè opera il male, perchè commette il peccato, che è l' oggetto della colpa, e della stessa legge vetante. IV Altra prova validissima io deduco dalle perniciose conseguenze della dottrina opposta. Sia vero, come vogliono i teologi razionalisti, che in quel tempo, nel quale l' uomo è privo di libertà nel suo operare, non vi avesse male morale di sorte alcuna. In tal caso quest' uomo non sarà obbligato a cercare i mezzi di accrescere le sue forze morali, non sarà obbligato neppure a domandare da Dio aiuto coll' orazione. Poichè a qual fine lo dimanderebbe? per evitare un male morale, no; chè egli non fa alcun male morale fin che è necessitato; e quando non è necessitato, egli non ha bisogno d' aiuto; può evitare il peccato colle sue forze: [...OMISSIS...] dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Nè vale il dire che il peccato, che commetterebbe negligentando d' accrescere le sue forze, è libero nella causa rimota; perocchè questa risposta supporrebbe quello che si nega, cioè che ci fosse un male da evitare; mentre si sostiene, che l' uomo costituito in necessità non fa alcun male, non ha per questo peccato, checchè egli faccia. Nè pur questa necessità è cosa cattiva, ch' egli debba cercar di evitarla, nel sistema de' nostri teologi; perchè cattiva non può essere, se non ha un oggetto cattivo, ma il suo oggetto cessa d' esser cattivo in faccia ad essa: negandosi che una volontà necessitata abbia un oggetto veramente cattivo che la deturpi. V Ebbe torto dunque, secondo questi maestri, nostro Signor GESU` Cristo, quando mise in bocca de' suoi fedeli quelle parole, « Et ne nos inducas in tentationem », parole tutt' al più utili, secondo il loro sistema, a renderci la fuga del male più facile, ma non necessaria, perchè o possiamo evitarlo colle nostre forze, o, se non possiamo, non è male; nè male è la necessità di commetterlo; rimanendo anzi per essa distrutto il male. Che anzi questa necessità in un tale sistema meriterebbe di dirsi buona, e dovremmo procurarcela. Ebbe del pari torto S. Paolo, quando consigliò a maritarsi coloro che non si potessero contenere, dicendo che « melius est nubere quam uri », giacchè, secondo i nuovi maestri, o l' uomo si può sempre contenere, o almeno chi non si può contenere, non fa male, se non si contiene; e però è inutile cercare un mezzo d' evitare ciò che non è male. Anche il sacro Concilio di Trento dee aver dato una ragione mal fondata, per non isciogliere i cherici costituiti negli ordini sacri, e tentati contro la castità, dalla legge del celibato, dicendo, che colla preghiera essi poteano bene ottener da Dio la grazia della continenza (1). I nostri maestri avrebbero dato una risposta più facile: Chi non può contenersi, non fa male ponendo l' opere della carne. In somma la dottrina che non vuole riconoscere altro male morale deformante la volontà e l' anima umana che il libero , distrugge la pietà ed apre l' adito ad ogni scostumatezza ed empietà, e questa è appunto una gran causa del lassismo in morale. VI Qui ritorna ancora, chi ben considera la questione circa i peccati d' ignoranza, che hanno una causa prossima non libera. Pelagio e Celestio che negava furono condannati dalla Chiesa (2). E condannati perchè il peccato originale si contrae pure ignorantemente e necessariamente, e pur esso è peccato, sicchè chi non riconosce peccato dove non v' è cognizione attuale , viene a negare l' originale infezione quanto colui, che non riconosce peccato dove non v' è libertà . Furono dannati ancora perchè al peccato originale riduconsi certi atti peccaminosi, in cui l' uomo, se non ha la grazia di Cristo, necessariamente cade, notar dovendosi, che qui intendesi per ignoranza non una mera nescienza , ma un errore del giudizio affascinato nelle cose morali dalla passione. [...OMISSIS...] . I quali atti, qualora del solo peccato d' origine sono effetti, non hanno altra colpa diversa che quella dello stesso originale peccato. In terzo luogo ancora furon dannati perchè venivansi con ciò ad escludere i peccati commessi per ignoranza invincibile , di quelle cose, di cui ha l' uomo dover d' istruirsi: dovere che egli non punto avrebbe, se non si desse un peccato, che non cessi d' esser peccato anche in chi ignora che sia. Conciossiachè e come mai potre' io avere obbligazione di conoscere i miei doveri, se, non conoscendoli, già non pecco? Conciossiachè se non li conosco non posso eseguirli, se non posso eseguirli, non sono più obbligato. Laonde io farò anzi bene a conservare la mia ignoranza, che mi lascia libero di far ciò che voglio senza però peccare! Laonde nella Censura fatta da molti Vescovi dell' « Apologia pe' Casisti (1) », già condannata anche dall' Apostolica sede con suo decreto del 21 Agosto 1659, si proscrissero più proposizioni, perchè [...OMISSIS...] . S. Tommaso dunque ha ragione, e han torto i moderni teologi che negano il male morale in causa prossima necessario, quando dice, che l' ignoranza vincibile non iscusa dal peccato, dando di ciò la ragione seguente: [...OMISSIS...] . VII Queste ultime parole mi conducono a por qui una settima ragione che prova l' esistenza d' un male morale nella sua causa attuale ed instante necessario, benchè libero nella causa rimota. I teologi morali si propongono la questione: se chi si mette nell' impossibilità di adempire alle sue obbligazioni pecca poi col non eseguirle. Alcuni rispondono, che non pecca in actu , ma solo in causa . Il Bolgeni si oppone, sostenendo, che pecca in causa ed anche in actu . [...OMISSIS...] . Se fosse vera la sentenza di questo autore, avremmo qui de' peccati necessarii in causa prossima. Io non di meno non posso acconsentirgli (2), ma trovo di dover distinguere. O l' atto peccaminoso che quest' uomo fa per necessità è un attuale deordinazione della sua volontà; o no. Nel primo caso c' è un nuovo male morale in lui; nel secondo, tutto il male morale sta nell' ommissione o commissione libera, per la quale s' è messo nella necessità di peccare. Poniamo il caso dell' uomo, che vinto dal talento di bere s' ubbriaca a malgrado ch' egli prevegga che nell' ubbriachezza commetterà molti altri peccati. L' ubbriacarsi è un peccato che comprende tutti i peccati da lui preveduti, li faccia o no; e in questo senso (in causa) è reo di tutti. Ma sarà egli vero, che come vuole il Bolgeni, faccia altrettanti peccati attuali, quant' egli ne farà di fatto? Ne verrebbe l' assurdo, che se de' preveduti da lui ne facesse di più, sarebbe più reo, se ne facesse di meno, sarebbe meno reo: ora il farne di più o di meno, non dipende ormai più dal suo libero arbitrio. Dico dunque, che una sola è la colpa che comprende tutti i peccati preveduti, almeno in confuso, non tutti i peccati realmente commessi nello stato di ubbriachezza. Ma poi tra questi peccati che commette ubbriaco e di cui nella causa è colpevole, ve ne posson essere di quelli che sono anche peccati in atto, benchè non colpe; ed altri che in atto non sono nè colpe nè peccati. Perocchè è solo peccato nuovo ciò che pone una nuova inordinazione della volontà. Laonde se ubbriaco facesse degli atti d' odio di Dio, e del prossimo; atti che puó e conoscere e volere anche un ubbriaco; questi disordinerebbero la sua volontà, benchè fosse trascinata a ciò dalla passione, dall' abito, o dalla mala inclinazione. Così se s' immergesse in carnalitá a cui l' eccitamento del vino il trascina, conoscendo e volendo quello che fa, chè anche un ubbriaco può conoscere e volere: la sua volontà riceverebbe un nuovo male morale: e male morale sarebbe l' inclinazione contratta a tali peccati, che in lui si rimarrebbe anche risanato dall' ubbriachezza. Ma se i peccati che fa ubbriaco non sono atti nè affetti disordinanti la volontà; come se dormendo ommettesse d' udir la messa in giorno di festa, e mancasse ad altri precetti positivi, che hanno per oggetto cose per sè indifferenti: niuna nuova inordinazione o mal morale in lui avverrebbe; eccetto quello che gli avvenne dall' atto libero, col quale si pose in quella mala necessità. Ad ogni modo nell' una o nell' altra sentenza, s' accorda ugualmente avervi un male morale, nella sua causa prossima ed attuale necessario. VIII Si dimostra la stessa tesi argomentando da diverse decisioni della Chiesa. Io mi restringo ad accennare la condanna della 2 proposizione condannata in Bajo, dalla quale si puó chiaramente inferire, che vi ha un male morale disordinante per se stesso la volontà, quando vi aderisce necessariamente o no. Essa proposizione dice: [...OMISSIS...] . Chi non intende da questa proposizione, che, secondo la Chiesa cattolica v' ha dunque un opus malum , il quale benchè ex natura sua sia malvagio; tuttavia non è demeritorio, provenendo il demerito dalla libertà e non dalla sola natura dell' opera; e che v' ha medesimamente un opus bonum , il quale benchè ex natura sua sia buono, tuttavia non è meritorio, provenendo di nuovo il merito dalla libertà (supposta la grazia), e non dalla sola natura dell' opera? E tuttavia quest' opera mala , e quest' opera buona , che se non è libera non demerita, ell' è un' opera volontaria; perocchè trattasi qui d' opere umane, d' opere ex sua natura buone e cattive moralmente, non già fisicamente: chè per essere opere buone o cattive moralmente si suppongono volute; non essendo nè buone, nè cattive nella loro entità puramente materiale (1). Adunque per far sì che un' operazione sia moralmente malvagia, basta ch' ella sia tale di sua natura; e perciò volontaria; come a fare ch' ella sia moralmente buona, basta che sia ancora tale di sua natura, e perciò all' uomo volontaria. Ma non basta già questo solo perchè si possa attribuire all' una ed all' altra il suo merito; giacchè questo ha bisogno della condizione d' una libera volontà. La Chiesa dunque condannò Bajo perchè egli distruggeva col suo sistema la distinzione tra il semplice peccato , e la colpa; e si può dire, attenendosi allo spirito ed al fondo d' una tale condanna, che contro quella eresia, ella, al suo solito, rimettesse in vigore una sì importante distinzione. IX Se il male morale coll' esser necessario cessasse per questo solo d' esser male, non sarebbe morto Cristo per salvare il mondo dal peccato. Poichè l' uman genere avrebbe potuto da se stesso esser giusto sol che adoperasse quelle forze, che restavano al suo libero arbitrio, niente nuocendogli poi il non adempire ciò che fosse superiore alle sue forze, nè lo stesso peccato originale gli avrebbe nociuto, il quale già non sarebbe stato più peccato nè male alcuno, perchè inevitabile. Laonde come l' ammettere e il riconoscere un male morale deordinante la volontà e perdente l' uomo, per se stesso, vincendo altresì la volontà soggetto o causa prossima di esso, e tenendola schiava del demonio, esalta immensamente la redenzione di Cristo e la riformazione del mondo da esso operata, e la dimostra opera d' un Dio fatto uomo; così il sistema, che riduce ogni male morale alle libere azioni fa ingiuria gravissima a Cristo, rende superflua o almeno non necessaria la redenzione del mondo, e apre il cammino al socinianismo, e all' empietà che la nega. X Ma anche la ragione naturale basta a dimostrare, che l' inordinazione della volontà è un male morale per se stesso, indipendentemente dalla ricerca se la libertà l' abbia o no come cagion prossima prodotto. Poichè la volontà è una potenza come l' altre, è una natura anch' essa, che ha le sue proprie leggi e condizioni necessarie, non dipendenti da se, o dalla sua libertà. Onde S. Tommaso colla sua solita veduta filosofica, applica al disordine della volontà, la stessa definizione, e gli stessi principii, che valgono parlando del disordine dell' altre potenze. Appunto per questa universalità di vedute, egli attribuisce alla parola peccato un senso così generale, che abbraccia anche i disordini non morali, cioè quelli che accadono nella natura, o nell' esercizio dell' arte, dicendo, che, [...OMISSIS...] . Dalla qual definizione induce, esserci tre generi di peccati, cioè peccati della natura , peccati dell' arte , e peccati della volontà; in ciascuno de' quali si verifica la definizione, perocchè ci ha peccato di natura quando la natura devia dal suo fine, ci ha peccato di arte quando l' arte devia dal suo fine, ci ha peccato di volontà quando la volontà devia dal suo fine. Si può poi conoscere, se la natura, o l' arte, o la volontà devia dal suo fine, osservando se queste potenze procedono o no secondo quella regola , che al suo fine le scorge, [...OMISSIS...] . Ora quale, dimanda egli, è la regola della volontà? Risponde. [...OMISSIS...] . Di che raccoglie quale sia il peccato della volontà dicendo, [...OMISSIS...] . Il peccato adunque della volontà, secondo l' Angelico, c' è sempre, ogni qualvolta ella si torca dalla rettitudine della legge morale, onde in universale, senza che c' entri per nulla la libertà, [...OMISSIS...] . Tutta la malvagità dell' atto volontario è cavata unicamente dall' esser quell' atto conforme alla regola o difforme da essa, ordinato o disordinato; allo stesso modo come l' atto della natura e dell' arte, dove non ci può esser libertà, è malo o buono secondo che è diritto o torto in verso alla regola sua che lo dirige al fine. Non entra per nulla la libertà prossima nel costituire il peccato, ma solo c' entra la dirittura o stortura della volontà. Ma, stabilito così da S. Tommaso in un articolo della sua « Somma », che il peccato della volontà sta nella deordinazione della volontà in verso al suo fine (5), passa nell' articolo che segue a parlare dell' accidente, in cui questa deordinazione sia libera, mostrando con ciò la differenza che passa tra il peccato della volontà di cui parla in un articolo, e la colpa di cui parla in un altro, e di cui non avrebbe parlato a parte, se avesse creduto che l' esser peccato fosse un esatto sinonimo dell' esser colpa. Nell' articolo dunque, dove egli parla di questa (1), pone per principio, che l' uomo può esser signore de' suoi atti, cioè che tutti gli atti volontarii sono in balía dell' uomo stesso, per quella forza che si giace nella sua volontà come volontà, e la libertà; e non della volontà come natura. Chè così e non altramente debbono intendersi le parole dell' angelico, [...OMISSIS...] . L' Angelico parla in generale di quello che compete agli atti volontarii come volontarii, non degli atti volontarii come naturali, essendo certo che tali atti hanno, per essenza loro, questa ordinazione e relazione d' essere sommessi alla signoria dell' uomo: il che non toglie, che per accidente avvenga poi altrimenti, perdendo l' uomo la sua signoria e libertà, o mancandogli le condizioni richieste per esercitarla, o in somma operando la volontà come natura, non puramente come volontà. L' attribuire a S. Tommaso un senso diverso, l' intendere le sue parole così materialmente, da fargli dire, che ogni singolo atto volontario è di fatto libero, è un mettere in un' aperta e indissolvibile contraddizione S. Tommaso con se stesso, che apertamente riconosce il movimento necessario della volontà (1). Attenendoci dunque al genuino senso delle parole di S. Tommaso, egli pone il principio, che [...OMISSIS...] ossia soggetto alla sua libertà. Ciò posto, raccoglie in questo modo: 1 l' atto volontario è un disordine, un peccato, ogni qualvolta devia dal fine comune dell' umana vita: [...OMISSIS...] ; 2 ma l' atto volontario di sua natura è nato ad essere in potere dell' uomo, [...OMISSIS...] . Dunque (ecco la conclusione) col peccato libero ci sono due inordinazioni, l' una quella della volontà , che è disordine dell' uomo, in quanto è uomo, in quanto la sua volontà è una natura avente le sue proprie leggi; l' altro quello della libertà , che è disordine dell' uomo in quanto è morale , intesa questa parola per idonea a dare a se stesso de' buoni o mali costumi . [...OMISSIS...] (poichè all' atto malo libero è deformata la libertà, e s' imputa perchè la sua libertà n' è la causa) (2). Si riconosce adunque e si dimostra col naturale discorso: 1 Che la volontà umana se fa un atto obliquo dal fine suo, per esempio se odia Iddio, od ama la menzogna, contrae un disordine, sia che ella aderisca così al male necessariamente, come i reprobi nell' inferno, o che vi aderisca liberamente; il qual disordine deforma e guasta la volontà umana, allo stesso modo come qualsivoglia altra potenza fisica e non libera rimane disordinata e guasta ogni qual volta ella erra dal suo proprio fine, o come dice l' Angelico [...OMISSIS...] ; 2 Che questo disordine della volontà può dirsi morale ogni qualvolta esso riguarda il fine comune della vita umana, perchè [...OMISSIS...] dice lo stesso S. Dottore, [...OMISSIS...] ; 3 Che se la volontà guasta è la suprema potenza, il supremo principio attivo dell' uomo, come accade nel peccato originale; tutto l' uomo ne riman guasto; dipendendo tutte le altre potenze di lor natura dalla prima e suprema; la personalità stessa è infetta, trovasi in istato di peccato; 4 Che se l' uomo è disordinato e guasto nel suo principio supremo, qual è la sua volontà personale, benchè ciò non sia opera della sua stessa libertà, egli non può a meno di averne qualche pena che lo impedisca dal godere una piena felicità, se questa non gli è da Dio misericordiosamente levata; perchè la piena felicità non si può dare, se non in un uomo ordinato e in tutte le sue potenze perfetto; attesochè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] ; 5 Che sarebbe un manifesto assurdo l' immaginare, che una volontà disordinata, aderente per necessità al male morale fosse ricevuta in Cielo; dove tutto è ordine e bene; nulla vi può esser di disordine e di male. Onde basta che la volontà sia disordinata, eziandio che non sia libera, come accade nel peccato originale, acciocchè ella venga naturalmente esclusa dal Cielo. Di che S. Tommaso dice, che pel peccato originale [...OMISSIS...] , cioè l' anima è soggetta ad un male eudemonologico, che rispettivamente ad Adamo, causa rimota e libera di quella inordinazione necessaria della volontà, acquista il nome di poena , come il male morale, o macchia nella stessa relazione, acquista il nome di colpa. XI Di più. Egli è di fede, che [...OMISSIS...] , cioè che non può più risorgere da se stesso, ma è necessitato di starsi in istato di peccato, se Dio nol libera, quia sponte , dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Il qual dogma fu espresso dal Concilio di Trento: [...OMISSIS...] . Questo peccato, sotto cui è servo ogni peccatore, e di cui per natura è servo tutto il mondo, è egli necessario o libero? Fu libero prima di commettersi; ma commesso, è già divenuto necessario, chè niuno più colle sue forze [...OMISSIS...] . E bene; ne vien forse, che per esser soggetto l' uomo cosí necessariamente al peccato, il peccato non sia più peccato, o non faccia più male all' uomo, non gli deformi più l' anima? Il dirlo sarebbe manifesta eresia. Dunque si deve considerare come eresia anche il pretendere, come fanno i teologi razionalisti, che non ci sia un male morale necessario, e che ogni male morale sia libero. XII Gli abiti non meritano nè demeritano, per consenso comune de' Teologi (4). Ma perchè non meritano gli abiti cattivi , non saranno essi perciò un male morale? E non sono forse una morale inordinazione della volontà? Chi mai potrà disconfessarlo? Ci ha dunque un male morale diverso dal demerito; un male necessario, com' è l' abito; che colle sole forze nostre non si può levare, almeno all' istante. Quantunque però non possa io ammettere la dottrina dell' Estio sul demerito degli abiti; tuttavia ci gioverà riportarla. Conciossiacchè ella contiene una serie d' argomenti attissimi a provare queste due cose, 1 che l' abito malvagio è male morale , ed a Dio odioso, 2 che ha seco congiunto come naturale appendice il mal fisico , che dal morale mai si scompagna. Odasi adunque come l' Estio favella, tutto a confutazione della dottrina pelagiana, tendente sempre a ridurre ogni male morale al solo atto libero, affin di distruggere il peccato d' origine, e con esso tutta le fede di Cristo. [...OMISSIS...] Non che meritino lode o vitupero, ma che deformino la volontà umana si può mostrare con gli argomenti che seguono, i quali noi esamineremo ad uno ad uno: [...OMISSIS...] . Dall' abito non vengono di necessità le azioni delle virtù e de' vizi; che se qualche volta necessariamente venissero, non meriterebbero nè demeriterebbero pur queste. Ma come queste azioni adornano o deformano l' anima; così pure gli abiti; o sieno causa di tali azioni, o sieno solo disposizioni a porle più facilmente, con meno libertà, ma con più forza di volontà. [...OMISSIS...] La vita eterna va dietro alla giustizia infusa, e la dannazione al peccato ricevuto come una natural sequela, per l' unione intima fra il ben morale e il ben fisico, il mal morale e il mal fisico. Ma come la giustizia infusa è meritoria riferita a Cristo che per noi la meritò; così la dannazione dell' originale peccato è demeritoria riferita ad Adamo che per noi demeritò. [...OMISSIS...] Il biasimo che si dà a quell' uomo si riferisce alle azioni libere colle quali egli si pose in quello stato, ma niuno negherà perciò che quello stato sia moralmente cattivo, benchè nel dormiente almeno, necessario. [...OMISSIS...] Egli è vero che la dannazione consegue ad un' anima infetta da' vizii anche considerata questa infezione in se stessa, senza riferirla alla causa libera che la produsse; ma solo riferita a questa causa, quella dannazione dicesi meritata, e ne viene così giustificato Iddio, come ottimo autore di una natura che da se stessa liberamente decadde. Quanto poi alla giustizia ed alla santità, egli è certo che trae seco, per se stessa considerata, nell' ordine eterno delle cose, la beatitudine; e Iddio non ha bisogno di giustificazione se vuol donar questa e quella, informando la volontà della sua creatura pienamente di se, senza lasciargli nè pure la possibilità morale di contraddire a sì generosa comunicazione di bene, onde lo Suarez scrive: [...OMISSIS...] , e come fece con MARIA sua madre. Il che tutto dimostra darsi una moralità necessaria informante e attraente la volontà, e la volontà cooperante e consenziente, senza l' esercizio della libertà d' indifferenza. [...OMISSIS...] Sulle quali parole si debbono fare le stesse osservazioni che sulle precedenti; cioè che il PECCATO, ed il BENE MORALE si trova indubitatamente anche nell' abito , che è cosa di natura sua necessaria, e ha la sequela del male e del bene eudemonologico; ma che, in quanto alla COLPA ed alla LODE, quella si rifonde sempre in quegli atti liberi , che quegli abiti cagionarono. Ma gli abiti son difficili ad osservarsi e a perscrutarne la natura: onde sfuggono facilmente al pensiero degli uomini, benchè non a quello di Dio. Questo non dissi io solo (1); ma l' Estio ancora il vuol ben considerato, così concludendo il suo ragionare. [...OMISSIS...] Passiamo ora ad esaminare la seconda questione. Da tutte le cose fin qui ragionate evidentemente si dee conchiudere, che la risposta affermativa a questa questione, in generale, è DI FEDE. Solamente può aver luogo l' opinione teologica in determinare alcuni casi speciali, ne' quali s' avveri o no quella necessità. Che dunque sia di fede in generale, che v' abbia realmente un male morale, nella sua causa prossima e nel suo soggetto (la volontà), necessitato, si prova, 1 Dall' esser di fede, che i demoni ed i dannati sono in istato di peccato, del qual peccato in cui perdurano la causa prossima ed il soggetto è la loro perversa volontà; 2 Dall' esser di fede, che il bambino che nasce, prima di ricevere il battesimo, ha in sè il peccato originale, male morale, consistente in un' avversione a Dio della sua volontà, la qual volontà si mette colla stessa generazione in quell' atteggiamento per l' attraimento della carne; onde anche qui la causa prossima è necessitata; e il soggetto necessitato. Da questo poi avviene, che tutto il genere umano per se stesso considerato, quale è costituito dalla generazione, dicesi dall' Apostolo MASSA CORRUPTA, di corruzione non già fisica solamente, ma anche morale; come pure vien provando l' Apostolo, colle antiche Scritture che accennano gli effetti, che provano la natural corruzione, [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni parlando della natura umana: [...OMISSIS...] . Tutto il genere umano dunque, di sua natura, e senza la grazia di Cristo, soggiace ad un MALE MORALE NECESSARIO, benchè libero nella causa remota (6); male che di sua natura lo perde eternamente, se Cristo non entra a salvarlo: indi la NECESSITA` ASSOLUTA DELLA REDENZIONE e della grazia per conseguir la salute, secondo la definizione della Chiesa: [...OMISSIS...] . Questo MALE MORALE NECESSARIO, a cui tutto l' uman genere soggiace dall' origine sua, trae seco, di sua natura, cioè prescindendo dalla virtù di Cristo che accorre a impedirlo, delle REE CONSEGUENZE MORALI NECESSARIE. Anche questo è di fede in generale parlando, e solamente entra l' opinione teologica, quando trattasi di determinare i confini di queste ree conseguenze necessarie . Alla fede appartiene. I Che l' uomo per se solo, senza l' aiuto della grazia di Cristo, non può, assalito da gravi tentazioni, star lungamente senza cadere in qualche peccato; ossia non può adempiere a pieno, di continuo, e in ogni possibil cimento, la legge naturale. [...OMISSIS...] Di che S. Paolo, non alludendo solo al peccato d' origine, ma anche a' peccati attuali, dice: [...OMISSIS...] . Poichè quantunque con tali peccati, se fossero necessarie conseguenze dell' originale, l' uomo, non demeritasse, come non demerita coll' originale; tuttavia ne contrarrebbe deformità morale; e questi peccati insieme coll' originale, di cui sarebbero un naturale sviluppo, lo terrebbero nello stato d' ingiustizia e di perdizione. II Che l' uomo colle forze sue naturali, nè colle opere può acquistarsi la giustificazione in cospetto a Dio, o la salute eterna (1), e nè pur muoversi colla sua sola libera volontà verso quella giustizia che è tale agli occhi di Dio (2); III Che l' uomo, anche così giustificato, non può perseverare nella giustizia senza uno speciale aiuto di Dio (3). Tanto impotente è l' uomo senza la grazia. Rimane a parlare della distribuzione, che fa Iddio di questa grazia del Salvatore sì necessaria agli uomini. Anche qui alcune cose sono di fede, altre appartengono alle opinioni delle scuole teologiche. Intanto egli è certo I Che Iddio non è obbligato per titolo di giustizia a dare la sua grazia a nessuno, sicchè qualor anco tutto il genere umano fosse lasciato alla sorte che gli toccherebbe in conseguenza del peccato del primo padre, e de' peccati che i singoli uomini commettessero a imitazione di lui, niuna ingiustizia vi sarebbe da parte di Dio; II Che quindi Iddio è libero padrone di scegliere quelli che vuole, a cui dare i suoi doni, e l' eterna gloria fra i perduti, il che divinamente dimostra l' apostolo colla figura de' due figliuoli d' Isacco dicendo, [...OMISSIS...] . E soggiunge, a mostrare quant' è libera e gratuita la divina chiamata; [...OMISSIS...] . Dice che la salute non viene dal volere e dal correre degli uomini: perchè non vi ha persona che senza l' aiuto di Dio, voglia e corra come bisogna. Laonde giustamente rivolto all' uomo peccatore e impotente l' Apostolo così favella: [...OMISSIS...] . E su questa gratuita elezione egli è uopo aver presente, come S. Agostino la discorre a confusione de' Pelagiani, discorso pe' nuovi teologi opportunissimo. Egli pone per primo fondamento, che qualunque essi sieno i giudizi di Dio, sono giusti, anche se l' altezza di sua giustizia fosse a noi del tutto inintelligibile, [...OMISSIS...] . Pone per secondo fondamento, che qualor anco Iddio non desse ad un uomo la sua grazia, e così costui perisse necessariamente, o pel solo peccato originale, o anche per altri peccati da questo fonte promananti, non avrebbe tuttavia ragione di lagnarsi, anche unicamente [...OMISSIS...] . E non deduce questo vero dai corti giudizii dell' umano ragionamento, ma dalle scritture, dalla fede della Chiesa cattolica, e dalla ragione teologica. Poichè osserva, che dicendo il contrario ne verrebbe l' assurdo, che la grazia fosse da Dio dovuta, e non fosse quindi più grazia. Pongasi dunque l' ipotesi, che Iddio, come potrebbe farlo, negasse ad un uomo discendente d' Adamo e quindi peccator per natura, il dono della sua grazia. Questi ed avrà l' originale infezione sopra di sè, e non potrà adempire perfettamente i divini precetti, onde dovrà necessariamente peccare (3). Ora potrà egli scusarsi al tribunale di Dio dicendo che è condannato per necessità? Non potrebbe scusarsene, per quantunque misterioso possa parer questo dogma all' umana miopia, e ripugnante all' umana superbia, [...OMISSIS...] , e soggiunge con quella immobile persuasione, che sola infonde la fede, e sol la parola dell' eterno crea nell' animo de' fedeli, [...OMISSIS...] (2). Egli è dunque di fede, che Iddio potrebbe con giustizia lasciare anche tutto il genere umano nella sua propria naturale e NECESSARIA perdizione (benchè l' umano ragionamento d' alcuni resti qui quale alocco esposto al raggio solare); ed è pur di fede, ch' ella è sua pura GRATUITA MISERICORDIA, se anco a un sol uomo accordi la grazia, colla quale egli viva bene e pervenga alla salute. E nulla di meno, dopo di ciò, III E` del pari di fede che tanta è la bontà di lui, ch' egli colla volontà sua antecedente e condizionata, ma verissima e sincerissima, [...OMISSIS...] . E l' efficacia di questa bontà s' intende chiaramente, qualora si considerino gl' innumerevoli mezzi ch' egli ha fornito di spontaneo moto al genere umano, pe' quali se l' umanità non n' avesse abusato colla più iniqua sconoscenza, potevano TUTTI I SINGOLI UOMINI pervenire all' eterna salute. E primieramente, avendo egli creati o costituiti i capi dell' umana stirpe in istato d' originale giustizia, questo stato fortunatissimo dovea trapassare in eredità a tutti i posteri, se non l' avessero que' primi, di propria loro libera volontà, perduto. Onde a tutti i singoli loro discendenti era destinato da Dio il mezzo sicuro e facile d' esser sempre santi e felici; e se ora più non sono tali, non a Dio, ma a' proprii padri, che hanno guasta l' umana natura, il debbono imputare; nè Iddio va loro debitore perciò di cos' alcuna, lasciandoli ad ogni modo con tutto il loro: IV E oltracciò egli è certo, in quarto luogo, che essendo Dio sommamente buono, nè pur avrebb' egli permesso il peccato de' primi padri, se non avesse scorto e provveduto, quanto indi dovea ricevere di splendore maggiore la sua misericordia, e quanto dovea crescere nel cuore de' suoi eletti la riconoscenza e la gratitudine di sua carità e la materia quindi alle lodi che gli avrebbero in eterno cantato. Onde S. Paolo, [...OMISSIS...] . V E` certo di più, che dopo il fatto adamitico, Iddio offeso, lungi d' abbandonare l' umana natura a se stessa, gratuitamente promise all' uomo disubbidiente un Riparatore, colla fede alla qual promessa era annessa la grazia di salvarsi: e questa fede nel Riparatore futuro doveva e poteva passare ai posteri, venendo così dato di nuovo a TUTTI I SINGOLI UOMINI un mezzo affatto gratuito di fuggire dal naufragio universale dell' eterna perdizione. Ma essi liberamente rigettarono anche questa seconda misericordia; e Iddio dovette con un castigo esemplare, cioè col diluvio, distruggere le generazioni corrotte, che avrebbero tramandato a' loro posteri non più ciò che avevano da Dio ricevuto di salutare, ma ciò che da sè avean contratto di vizioso e di pernizioso. Ora fino al diluvio non può essere perita quella rivelazione del futuro Messia consegnata a padri così longevi, che Noè era lungamente vissuto con chi avea per lunghi anni conosciuto Adamo. VI Iddio fece Noè, uomo giusto, nuovo capo della stirpe umana, e a lui consegnò il prezioso deposito di quella promessa, che conteneva la FEDE, mezzo di salute destinato di nuovo a TUTTI I SINGOLI DISCENDENTI del nuovo patriarca. Che però tutti i singoli uomini si sarebbero salvati, fino alla venuta del Messia, secondo il gran disegno della divina bontà e longanimità, se di quel dono s' avessero voluto prevalere. Ma molti rigettarono per la terza volta col libero arbitrio la profferta salvezza, facendo onta a quella infinita bontà che pur volea tutti salvi, e alla salvezza di tutti, anche prima della venuta del Messia, avea provveduto; onde, abbandonato Iddio, caddero nell' idolatria, smarrendo il limpido lume della rivelazione e della fede, e la grazia annessa. E come dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Ometto d' enumerare la vocazione d' Abramo, e i peculiari mezzi di salute dati al popolo ebreo, ed altri mezzi non mancati del tutto nè pure all' altre nazioni, benchè sien meno conosciuti; e dico in quella vece, esser certo che VII Iddio, considerata la sua potenza, poteva, senza trovar ostacolo da parte degli uomini, far tutti gli uomini salvi; nè tuttavia egli volle; ma preferì nella sua sapienza e bontà, di salvare alcuni fra rei per gratuita elezione, permettendo che altri perissero. [...OMISSIS...] . Nè agli orecchi di tutti pervenne dopo di ciò la parola di Dio; e nè pure dopo Cristo a tutti fu applicato col battesimo il merito della sua passione, come dichiarò il Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . VIII E` certo quindi ancora, che come non è contro la giustizia e bontà di Dio, che egli permetta la morte de' bambini, non battezzati, nulla togliendo con ciò ad essi, ma non dando loro del suo quanto ad altri; così non si può provare che sia contrario alla sua giustizia e alla sua bontà il lasciar morire altresì degli adulti, a cui non sia stato annunziato il vangelo, dato anche che non avessero aggiunti all' originale, peccati attuali mortali, i quali in tal caso non riceverebbero pena maggiore di quella de' bambini, [...OMISSIS...] . Che se anco degli uomini adulti, a cui non fu annunziato il Vangelo, non potendo colle proprie loro forze eseguire a pieno la legge naturale, cadessero ne' peccati, in quanto ciò avvenisse loro per necessità, non n' avrebbero colpa; ma que' peccati sarebber pena dell' antica colpa, tralci dell' originale infezione. Nè però sarebbe men vero, che le loro volontà fossero inordinate e malvagie, ed essi conseguentemente dannati della dannazione del peccato d' origine. Onde S. Agostino osserva, ch' essi non potrebbero recar per iscusa, [...OMISSIS...] ; perocchè ciò non distrugge il fatto, che vivon male, cioè, per propria volontà, [...OMISSIS...] . In somma coll' esser malvagia la volontà per natura, non per una sua propria elezion precedente, non è men vero ch' ella sia malvagia, e che vivendo male, «DE SUO MALE VIVAT »; ma è vero in pari tempo, che tal morale malvagità è pena, e sciagura, non colpa; e trae dietro a se un male fisico minore di quello che è dovuto alla colpa. Il che riesce difficile a intendere da certuni, i quali pongono il caso di cui si parla in modo alieno dal vero: immaginano cioè quell' impotenza di fare il bene in un uomo, che pur vorrebbe il bene, e che si sforza di farlo, e non può, e perciò cade. Non trattasi, si noti bene, di questo. Colui ha già una volontà incipiente buona: e però s' egli brama, se seco combatte, se prega, sarà aiutato certo da Dio. Chi ne può dubitare, essendo Iddio ottimo? Egli acquisterà certamente tutte le forze che gli bisognano; niuno Iddio abbandona di quelli che a lui ricorrono, e desiderano sinceramente di potere quel che non possono. Ora il caso di cui si parlava è tutt' altro. Trattavasi d' una volontà che non desidera punto il bene, ma al male aderisce; onde di colui che ha tal volontà si può dire col santo dottore: [...OMISSIS...] Ora, se questo è lo stato di un uomo, da qualunque cagione provenga, foss' anco dal solo vizio « quod originaliter traxit », gli è chiusa, fino che così rimane, la porta del cielo; e s' avvera sempre, che [...OMISSIS...] . Di che ognuno che ben intende conoscerà, che il mal morale e la dannazione non vien che dall' uomo, avverandosi il [...OMISSIS...] ; e la misericordia e la salvazione vien solo da Dio; avverandosi il [...OMISSIS...] . E quantunque GESU` Cristo sia morto per tutti affatto gli uomini, non solo per gli eletti, come dissero gli eretici, e dalla sua morte ricevano tutti qualche salutare influenza (3), e a tutti altresì egli profferisca il lume e la grazia, come il sole che a tutti universalmente risplende; tuttavia per proprio difetto, come dicevamo, si perdon non pochi; nè il cieco può lamentarsi del sole se nol rallegra, ma piangere piuttosto l' imperfezione e il vizio della propria natura; quantunque le viziose volontà, di cui favelliamo, nè pure compiangano se stesse per essere moralmente cieche; ma solo si lagnino della fisica pena, che al loro vizio morale s' aggiunge. E tuttavia non è da credere che questo stesso male permetta la divina bontà, se non per cavarne un ben maggiore. Poichè questa crediamo l' unica ragione per la quale Iddio, o ritenga le sue grazie, o ne dia di minori, così esigendo il bene maggiore e l' ordine della sua infinita sapienza (4). IX E` certo del pari, che a tutti quelli che hanno pur conseguita la giustificazione, non possono più mancare gli aiuti senza lor colpa, all' eterna salute, assicurata loro da' meriti e dall' orazione di Cristo (1), bastando la minima porzione di grazia, come dice S. Tommaso, a vincere tutte le tentazioni (2), e dicendo S. Giovanni, [...OMISSIS...] , il che si può spiegare: « non è mai necessitato a peccare. »Laonde non è giammai impossibile ai giustificati l' adempimento de' divini precetti, se pregano, secondo il canone del sacro Concilio, [...OMISSIS...] . X Dee ancora affermarsi, che tutti quelli che dopo giustificati pel battesimo, caddero in colpa mortale, possono di nuovo ricever la grazia, ricorrendo al sacramento della penitenza, fonte di nuova grazia aperto sempre per essi da Cristo. Oltre di che coll' orazione possono impetrare la grazia loro necessaria, quantunque non possano meritarla. La fazione però di Teologi, i cui errori in questo scritto vogliam mostrare, eccedettero anche in questo fino a sostenere cosa probabile, che la sola attrizion naturale basti a giustificar l' uomo, in manifesta opposizione al Concilio di Trento (6), onde anche tale dottrina razionalistica fu dannata dal Papa Innocenzo XI (7). XI Di più, è ancor certo non pugnare nè colla giustizia nè colla bontà divina, che il numero delle grazie, ch' egli conferisce a' peccatori ostinati, sia limitato, e determinato in modo, che scorso quel numero, egli permetta, o che sieno sorpresi dalla morte, o indurati, non [...OMISSIS...] . Dove si noti bene, che tutti quelli che vogliono o sperano, possono sempre salvarsi; non verificandosi l' induramento se non in quelli che più non vogliono e che disperano, sicchè nessuno può dire veramente: io voglio, e non posso. XII E del pari, è certo non opporsi nè alla giustizia nè alla bontà di Dio, che ad alcuni non sia annunziato sufficientemente il vangelo, avvenendo ciò di fatto; come poniamo rispetto agli abitanti d' America e d' altre isole, che vissero in esse prima che fossero scoperte, o in altre ancor da scuoprirsi; giacchè la provvidenza divina, nella sua infinita sapienza e bontà, predispose i tempi e i momenti, ne' quali a ciascuna nazione sia annunziato il vangelo; forse acciocchè abbian prima una cotal preparazione rimota, come pare dal detto di Cristo agli Apostoli: [...OMISSIS...] , prevedendo forse, che non sarebbe ben ricevuta da essi la parola di Dio, e che quindi non servirebbe che ad aggravare le colpe di quelli, a cui fosse annunziata, e da cui fosse ripulsa. XIII Indubitato è pure, che quelli, che non giungono alla giustificazione e alla fede, periscono, perciocchè, [...OMISSIS...] ; non quasichè l' infedeltà loro negativa sia colpa; ma pel peccato originale, e pe' loro peccati attuali. Laonde la fede soprannaturale è di necessità di mezzo, necessaria alla salvazione, [...OMISSIS...] . Ed anche qui la fazione de' nostri teologi detraendo alla grazia divina, soverchiamente attribuirono alla natura, ed alla libertà, volendo che basti a giustificar l' uomo questo solo, ch' egli creda di quella fede che aver si può dal testimonio delle creature, ed alla sola esistenza di Dio, senza la fede esplicita in Dio come rimuneratore del bene e del male (3); dottrina razionalistica, e giustamente anch' essa da Innocenzo XI proscritta. XIV Nè meno si può dubitare, che a tutti quelli, a' quali è proposto sufficientemente il Vangelo, sia data altresì la grazia con cui possano credervi; giacchè le parole di Cristo: [...OMISSIS...] , indicano sufficientemente quella giudiciale condanna, che suppone la colpa, la quale aver non potrebbero, se rimanesser privi della grazia sufficiente per credere. Di più, a tutti quegl' infedeli, a cui Iddio dà delle grazie attuali disponitive alla giustificazione, non può pensarsi che lasci poi mancare i mezzi necessarii di pervenire effettivamente fino alla giustificazione, foss' anco bisogno di mandar loro per miracolo un Apostolo, o un Angelo ad annunziare loro il vangelo, acciocchè [...OMISSIS...] , e così pervengano a ricevere, almeno in voto, quel battesimo che è [...OMISSIS...] . Oltre di che, anche l' orazione d' un infedele, benchè meritar non possa, può però impetrare; ed egli può altresì dimandare nella sua orazione la naturale giustizia, sentendosi rispetto a questa in quella condizione che descrive l' apostolo, dicendo, [...OMISSIS...] . Poichè non supera le forze della natura il volere la naturale giustizia, con una volontà universale, cioè ancor piccola, e priva di forza pratica a perfezionare tutto il bene che l' umana ragione dimostra. Ed una tale volontà, ossia volizione attuale, benchè inefficace ad operare pienamente il ben naturale, può però guidare l' orazione della creatura al suo Creatore naturalmente conosciuto; il quale in tal caso non mancherebbe d' aggiungere per sua pura misericordia i suoi aiuti, implicitamente in quell' orazione dimandati. Se dunque gli atti della volontà (3) d' un infedele fossero naturalmente sì buoni, da desiderare la naturale giustizia, da dimandarla, ed isforzarsi, quanto può, ad adempirla, sarebbe costui, non punto io ne dubito, da Dio soccorso. Perocchè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Ma dubito però assai, che, senza la grazia, possa la mente d' un uomo sollevarsi a sì alto pensiero di domandare al Creatore il dono della giustizia, benchè naturale. Se questo è possibile, sarà possibile a ben pochi; poichè naturalmente l' uom si persuade, essere la virtù riposta nel proprio arbitrio: e pare che solo un raggio superno ci abbia insegnato a conoscere il segretissimo e copiosissimo fonte di ogni giustizia e di ogni santità. Che se via più addentro meditar volessimo nelle divine giustificazioni, dandoci Iddio lume a ciò sufficiente, ci convinceremmo di più, che Iddio sempre mosso dalla sua essenziale bontà, ottimo ugualmente si trova e nel dare che fa le sue grazie, e nel negarle altresì; non negandole egli mai, se non per trarne un bene maggiore alle sue stesse creature; il qual bene, per le limitazioni necessariamente inerenti a tutto ciò ch' ebbe principio nel tempo, non si può ottenere senza permettere il male (1), salva almeno la legge di parsimonia, parte essenziale della divina sapienza. Le quali cose tutte rendono in fin manifesto, come alla giustizia contempera Iddio un' ineffabile, pienissima misericordia. [...OMISSIS...] , per usare ancora le parole di S. Agostino, [...OMISSIS...] . Che si dia adunque un male morale nell' uomo, necessario nel suo soggetto (l' uomo), e nella sua causa prossima (la volontà istante), benchè in origine veniente da un pravo esercizio della libera volontà, egli è un vero innegabile, dalla rivelazione insegnato, dall' esperienza e dalla ragion confermato; il qual vero nè offende la divina giustizia, nè ne impedisce la misericordia, a cui apre un campo amplissimo e gloriosissimo. Ma noia tuttavia un vero così luminoso alle pupille di quelli, che più che d' esaltare la bontà divina, si curano di celebrare la umana; onde strillano al vocabolo necessità , come se il solo pronunciarlo, fosse un distruggere quel libero arbitrio, che se in nulla fosse necessitato, certo potrebbe ogni cosa, e non avrebbe più bisogno di Dio. Oltre questo assurdo teologico, in cui s' urterebbe escludendo ogni necessità dai movimenti della volontà, s' incorrerebbe anche nell' errore filosofico (prolifico di gravi ed erronee conseguenze anche in teologia), che la natura non operasse con leggi fisse sue proprie, o che la volontà non fosse anch' essa una natura, come insegna così apertamente S. Tommaso. Una di queste leggi della volontà e dell' intendimento, come natura, fu da me espressa in queste parole, che dispiacquero a' nostri teologi inclinati al Razionalismo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole ogni uomo, che un po' si conosca di filosofia, intende chiaramente, che si dichiara la legge della spontaneità della volontà, e che non vi si parla della libertà; ma della volontà , la quale viene ivi definita per la potenza di operare in conseguenza di ciò che s' intende. Le persone poi che non ignorano le dottrine da me premesse sulla semplice libertà, sanno ancora, che la libertà , è una forza dell' anima DOMINATRICE E DETERMINATRICE DELLA VOLONTA`, avendo io definita la libertà per [...OMISSIS...] . Coll' esporre dunque le leggi psicologiche, secondo le quali si move la volontà lasciata a se medesima, non si nega, nè si distrugge quella potenza superiore ad essa che LIBERTA` si chiama, e che è nata a dominare la volontà modificandone ed infrenandone gli spontanei movimenti. Quindi dopo aver noi parlato di questi spontanei movimenti della volontà semplice , passammo a parlare della libertà, definendo quando ella possa impedire que' moti spontanei, e quando non possa. Dicemmo poi, che essa può sempre farlo, qualora abbia tempo d' accorrere, e la rapidezza de' movimenti inferiori spontanei della volontà semplice eccitata non la prevengano, e così esprimendoci: [...OMISSIS...] . Il sig. C. all' intendere che la volontà si muova per una legge fisica dietro i bisogni pronuncia questa sentenza: [...OMISSIS...] . Ma, con sua pace, fa piuttosto meraviglia che egli non sappia, o non abbia imparato dalla lettura dello stesso libro che censura, che le leggi fisiche a cui obbedisce la volontà possono dalla libertà esser dominate, purchè non manchino le condizioni necessarie all' operazione di questa potenza, che tiene in sua balía gli atti stessi della volontà spontanea. E fa meraviglia ancor maggiore, che lo stesso nostro censore confessi poco appresso in altre parole, quel vero, che riprende in noi così acerbamente. Poichè alla facciata .4 del suo opuscolo, nota ( i ) dice così: [...OMISSIS...] . Dove in prima convien notare ch' egli traduce il praecipue di S. Tommaso per, al più . Siamo qui obbligati di mandare il teologo a consultare il Dizionario. S. Tommaso dicendo, che la consuetudine produce necessità PRINCIPALMENTE negli atti repentini, riconosce poter intervenire una necessità di operare anche in qualche altro caso non repentino , e così dice più di quello che diciamo noi, attribuendo noi sempre la necessità alla fretta con cui opera la spontaneità, quando tal fretta non lascia tempo alla ragione od alla libertà di accorrere e sovvenire all' uomo. In secondo luogo con ciò ritratta quello che avea detto prima, quando parlando del passo di S. Agostino che S. Tommaso interpreta della necessità in repentinis praecipue scrivea con una piena generalità di parole così: [...OMISSIS...] . Convien dire che S. Tommaso non sia un Dottore cattolico , secondo il nostro C., giacchè, per sua confessione interpreta quel passo diversamente da quel che fanno i dottori cattolici. Finalmente ognuno può vedere, se la dottrina di S. Tommaso d' accordo con quella di S. Agostino, che [...OMISSIS...] sia o non sia uguale a quella da noi esposta ne' passi surriferiti, ne' quali si riconosce necessità là dove [...OMISSIS...] . Se non che il C. con tuono quanto insultante, altrettanto menzognero continua così: [...OMISSIS...] . Io dimando compatimento al lettore cortese, se in questo e in altri scritti vo dicendo delle cose trite e soverchiamente comuni. Ma egli consideri (di nuovo il protesto) che la carità mi spinge a scrivere a mio mal cuore, ed a ripetermi e a diffondermi; ben sapendo che gli scrittori razionalisti non possono nuocere colle loro perniciose dottrine agli uomini pienamente istruiti; ma a quelli soli (e ne' nostri tempi sono troppi) pe' quali scrivono e di cui allettano, favellando religiosamente gli orecchi. A questi che nè sono teologi, nè sanno il loro giudizio sospendere, oppure lo sospendono a prò dell' errore e a danno del vero, vuole la carità di Cristo che si sovvenga quanto si può per me, e perciò adduco in questo e negli altri scritti copiose prove di quelle primarie verità che s' impugnano da' contrarii. L' una delle quali è questa appunto, che la passione giugne a legare in certi istanti l' umana libertà, e a trascinar seco la spontaneità del volere; benchè a nessuno di quelli che fedeli a Dio, vivono sotto la sua protezione avvenga giammai che sieno quinci condotti a peccati mortali tanto da essi odiati. A provar questo vero adunque, oltre l' autorità di S. Agostino, e di S. Tommaso, che il nostro C. questa volta volle accompagnar della sua, aggiungerò quella d' un solo Teologo pregiato da tutti senza eccezione, voglio dire di Domenico Viva della Compagnia di Gesù. Il quale scrive appunto nella nostra sentenza così: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque C. P., dopo molti andirivieni, è obbligato a concederci finalmente che esiste un modo necessario d' operare della volontà umana, e concede che questa sia dottrina de' dottori cattolici. Ma tempera poi questa concessione dicendo: [...OMISSIS...] . Le quali parole richiedono nel caso nostro diverse osservazioni. Primieramente è da ricordare, che già prima lo stesso nostro autore avea riconosciuto darsi un volontario necessario non solo nella perdita totale della ragione nell' ubbriachezza e nella mania; ma ancora ne' moti repentini. Avea confessato che S. Tommaso insegna, che [...OMISSIS...] . Di poi è da considerarsi, che le parole di S. Tommaso da lui addotte per provar le sua tesi, [...OMISSIS...] non riguardano lo stato di pazzia o di ubbriachezza, nel quale la ragione è perturbata per un eccitamento fisico, come falsamente pretende il nostro teologo. S. Tommaso parla di un eccesso momentaneo di passione veemente d' amore, o d' ira, o d' altra simile perturbazione, volendosi dire in fatto che l' uomo nel momento della passione venuta all' estremo, diviene siccome pazzo, secondo il detto che [...OMISSIS...] ; onde Cicerone del furore afferma, che [...OMISSIS...] , e in generale i latini scrittori usano la parola insanire per esprimere l' effetto d' ogni veemente passione (3). In terzo luogo qual è il valore e la forza di quell' espressione dell' angelico [...OMISSIS...] ; espressione ripetuta poi da' teologi? Nel brano stesso del « Trattato della Coscienza » citato dal Signor C. se ne dà la spiegazione e l' analisi; pure, dopo averlo riferito, egli si fa dimandare: [...OMISSIS...] . Rispondiamo che non vi si ravvisa certamente, nel senso, che pretende il Signor C., perchè non vi si dee ravvisare; ma vi si ravvisa nel senso di S. Tommaso, e della comune de' teologi. Poichè nè S. Tommaso, nè i teologi parlano, come egli suppone, di un uomo, che « sia interamente uscito di senno »qual è colui che si manda all' ospizio de' pazzarelli; ma parlano d' un uomo, che nell' istante che opera non può far uso di sua ragione all' intento di vincere l' impetuosa passione. E nè pure è da credere, ch' essi parlino d' un uomo « in cui cessi da ogni suo ufficio la ragione »; poichè anzi essi parlano solamente d' un uomo, in cui la ragione cessa dal suo ufficio di deliberare; parlano di un uomo a cui la passione ha tolto intieramente l' uso morale della ragione, o, in altre parole, in cui è sospeso quest' uso della ragione morale , com' io più spesso mi esprimo, chè così dee spiegarsi sanamente il [...OMISSIS...] di S. Tommaso. Poichè egli è certo che basta che la ragione non possa accorrere, e in tempo utile deliberare, acciocchè l' uso della ragione sia interamente tolto, quanto fa al caso, benchè la ragione non cessi da ogni altra sua funzione. Laonde [...OMISSIS...] , come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] , dal qual passo si vede chiaramente che S. Tommaso parla della ragione Deliberante , non della ragione presa in universale quando dice, [...OMISSIS...] , le quali perciò si debbon tradurre « che impedisce affatto all' uomo di deliberare a favore della giustizia. » E per vero niuno dica mai che pecchi colui (prescindendo dalla reità che può avere in causa) che non può coll' uso di sua ragione venire in soccorso alla volontà soprafatta dalla passione. Ora che quest' uso morale della ragione possa mancare, senza che perciò venga meno necessariamente ogni altro uso di essa, scorgesi osservando quant' accade negli stessi ubbriachi e negli stessi pazzarelli come pure ne' bambini. E` un pregiudizio volgare e crudele (e dovrebbe una volta cessare) il credere, che gli ubbriachi, i pazzi ed i bambini non facciano alcun uso affatto della loro ragione, e lo chiamo un pregiudizio non solo volgare ma anche crudele; perocchè ad esso si devono pur troppo imputare i barbari trattamenti che s' usavano una volta verso i miseri pazzarelli, de' quali non riguardati oggimai più come esseri ragionevoli, si faceva impunemente ogni strazio, ed ogni abuso: e lo stesso press' a poco è a dirsi degli ubbriachi. Non v' era nè pure chi pensasse seriamente all' educazione de' bambinelli, salve le sole madri che contraddicendo col provvido loro istinto alla comune ignoranza e barbarie; credevasi inutile studiarsi a dirigere e sviluppare le loro razionali facoltà che si negavano in essi o senza attività si credevano, e dovea solo forse allo scoccar de' sett' anni incominciare tutto improvviso l' uso della ragione . Il che era vero, presso a poco, se per uso della ragione si fosse inteso l' uso della discrezione del bene e del male , come pur dicevano i savi teologi, il che è quanto dire l' uso della riflessione e della libertà, l' epoca quinci del merito e del demerito. All' incontro l' uso della ragione in universale presa come potenza a cui appartengono le funzioni del percepire, dell' universalizzare, del giudicare, dell' analizzare, del sintesizzare ed altri tali, incomincia, vel crediate o no, nei bambini pure col primo riso, con cui salutan la madre. Negli ubbriachi parimente e ne' pazzarelli, sieno maniaci o monomaniaci, l' uso della ragione non è mai tolto del tutto, anzi v' è egli attivissimo; ma per isventura non regolato nelle cose necessarie al vivere e non preceduto da una sufficientemente ponderata deliberazione: percepiscono dunque, universalizzano, fanno de' giudizii e de' raziocinii e talora anco giusti; ma spesso anco sbagliati: e quando riescono troppo di frequente sbagliati in quelle cose ordinarie, nelle quali non falla il comune degli uomini, allora si hanno per pazzi. Che se si dimanda di più la causa onde avviene che l' uso della ragione proceda in essi così sregolato, l' osservazione di un tal fenomeno e la meditazion vi dirà che i loro giudizi sono traviati dalla loro propria volontà, la quale è la potenza che d' ordinario muove e conduce il ragionamento; vi dirà ancora che quella loro volontà poi che travia in essi il ragionamento è fieramente predominata e tiranneggiata dalla attuosità delle immagini, dalla potenza degl' istinti, dalla forza delle opinioni fisse, e dalle abitudini e dalla urgenza seduttrice delle passioni. Sotto alla qual crudele tirannide dell' animalità esaltata, irritata e prevalente la luce liberatrice della giustizia manda ancora i suoi raggi: e talora consiglia quegli infelici, talor li consola (1). La maniera poi onde la passione del sensitivo istinto domina cotanto e trascina la volontà ce l' insegna S. Tommaso, che insegna che non può la passione muovere la volontà direttamente, ma sì indirettamente (2), ed ella fa ciò sottraendo alla libertà le forze dell' anima; perchè dall' anima, come da loro radice, traggono la loro attività tutte le potenze; e l' anima ha una virtù unica e limitata; ond' avviene che se questa virtù sia distratta parte o tutta da una sola potenza, poniamo da quella del senso e dell' istinto animale, si rimane meno od anche nulla all' altre potenze, poniamo alla libertà, allora questa si dimostra indebolita, sfibrata, inerte, ed oppressa dalla veemenza dell' istinto sensitivo cresciuto a tal grado di vigorìa da rapire a se tutta l' anima. [...OMISSIS...] . Di più la passione sensitiva, dice S. Tommaso, trae la mente a fare de' torti giudizii sul valore delle cose, e quindi s' ha un altro modo, pel quale si sregola la volontà, [...OMISSIS...] . Ma qui si deve osservare, che se, dopo che l' uomo ha fatto un giudizio falso sul bene, dopo che, poniamo, ha giudicato che un oggetto sia più buono ch' egli non è, la volontà l' ama di più che non dovrebbe; la volontà stessa però aveva già prima fatto un altro atto col quale avea determinato quel falso giudizio, e quella falsa stima dell' oggetto. Perocchè sebbene la prima apprensione delle cose (percezione, sintesi primitiva) si faccia istintivamente, il giudizio però del loro valore morale ed eudemonologico, si fa sempre per un giudizio diretto dalla volontà, la quale perciò è la causa di tali giudizii (3); e sono sani e retti quando la volontà è sana e retta, e immune dalla violenza di quella passione che, come dice l' Angelico, talora trae a sè sola tutta la forza dell' anima. La mancanza adunque dell' uso della ragione, di cui parla S. Tommaso, che rende l' azione involontaria e, come noi diciamo, non libera, e quindi inetta a meritare, si è quella, per la quale la ragione legata dalla passione non può piú accorrere a deliberare in favore della legge, il qual fatto psicologico da noi viene descritto nelle parole non intese, ma censurate dal C., le quali furono queste: [...OMISSIS...] . La ragione del qual ultimo fatto è quella appunto data da S. Tommaso là dove con tanta sapienza scrive, [...OMISSIS...] . Nel brano arrecato io enumero i varii aiuti, che rendono l' uomo possente a vincere la seduzione di sue passioni ed istinti; e tra questi pongo la meditazione del proprio dovere, e l' animo ben disposto . Da questo il Sig. C. induce che io dunque insegno tutte le azioni essere necessarie, quando si fanno senza meditazione e senz' animo ben disposto! All' incontro le azioni necessarie sono da me descritte così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si pone a prima condizione dell' atto necessario , che [...OMISSIS...] come accade ne' primi moti. Ma posciachè, quando l' uomo già ottenne il dominio della propria volontà col grand' uso e coll' abito della virtù; l' uomo previene anche i primi moti e gl' insulti impetuosi delle passioni e degl' istinti tenendo questi abitualmente infrenati; perciò non mi sono contentato d' esigere universalmente a costituire un' azione necessaria, che la passione sia urgentissima e repentina, ma ho soggiunto di più ch' ella non sarebbe ancor necessaria, ch' ella potrebbe essere tuttavia libera, qualora si trattasse d' un uomo abituato al bene sì fattamente, da aver già conseguito una piena signoria di sè stesso. Coll' aggiunta di questa seconda condizione si rende ancora più difficile ad avverarsi il caso dell' azione necessaria; e mentre il comune de' teologi si limita a riconoscerla tale dove una passione si renda eccessiva, io feci di più osservare, che la violenza della passione inducente necessità non si dee misurare dal grado assoluto della sua forza, ma dal grado relativo alla virtù dell' uomo in cui ella opera; poichè un uom virtuosissimo dominatore di sè, giunge in tempo a domare eziandio la passione urgente ed al sommo pressante. Ora quelle condizioni, che io posi acciocchè una azione si possa credere necessaria , il sig. C. asserisce che furono apposte acciocchè l' azione si possa dir libera, capovolgendo tutto il mio sentimento. Sicchè mentre io dico, che l' azione non è mai necessaria, se la passione non sia urgentissima d' una parte e dall' altra se l' anima dell' uomo non sia sgagliardita (1); egli mi fa dire all' opposto che [...OMISSIS...] . Egli dunque non intese che l' abito buono non fu da me posto qual condizione dell' azione libera, ma quale aiuto, pel quale l' azione diviene libera anche quando ella tale non sarebbe per l' urgenza della passione: nè intese pure che l' avere uno spazio di tempo nel quale poter sospendere il giudizio pratico, in considerazione della legge che la proibisce, sono condizioni che indubitatamente avverare si debbono in tutte le azioni libere, essendo assurdo il dichiarar libera un' azione, se chi la fa non ha tempo da sospendere il subito giudizio pratico che la produce, nè da considerar la forza e l' autorità della legge che la divieta. Scorgesi in fine che il nostro teologo dimenticò nell' enumerare le condizioni da me richieste, acciocchè un' azione possa credersi necessaria, la principale di tutte, senza la quale sono nulle le altre, la condizione espressa in quelle parole: [...OMISSIS...] . Dopo aver dunque il nostro teologo fatto supporre, che le condizioni da me richieste, acciocchè un atto sia necessario, sieno in quella vece da me richieste, acciocchè un atto sia libero, e dopo aver taciuta la principale o la sostanziale di queste condizioni, che cosa fa egli? Come rivenisse allora dal mondo nuovo, continua così: [...OMISSIS...] . Ma non solo non è da omettersi; ma lo si doveva dire prima; perocchè se fosse stato detto era resa impossibile la censura. Ma il lasciar fuori da una sentenza la parte principale e così renderla erronea e inveire contro di essa come erronea; e finita l' invettiva uscir fuori colla parte taciuta fino allora, e trovarvi un nuovo errore cioè trovare che la parte taciuta contraddice al sentimento precedente falsamente supposto; ella non è questa l' opera d' un uomo amico del vero, ma d' un cavilloso sofista, che tende a stabilire una dottrina erronea sullo scredito della vera (2). I teologi razionalisti per far prevalere il loro sistema falsificano dunque continuamente l' altrui. Il sig. C. giunge a scrivere così: [...OMISSIS...] . In questo passo il nostro teologo nasconde nel silenzio il preciso caso di cui si tratta. Non si tratta già in universale dell' uomo che opera dietro la concupiscenza e l' altre passioni, com' egli fa credere; ma unicamente e precisamente dell' uomo stretto dalla necessità che gli toglie la facoltà di deliberare a favor della legge. Cangiando la questione fa comparir Bajo un lassista, mentre finqui fu tenuto per rigorista, e dichiara il Rosmini ancora più lassista di Bajo! Affine di restituire la verità, metterò sotto gli occhi de' lettori un solo degli innumerevoli passi dal nostro teologo taciuti, e sarà quel che trovasi alla faccia 169 del « Trattato della Coscienza », che così dice: [...OMISSIS...] . I teologi razionalisti impegnati a dimostrare, che la dottrina cattolica sia l' eretica di Giansenio, e che l' eretica de' Pelagiani sia la cattolica, usano anche un altro artifizio. Solleciti di occultare le vere differenze che distinguono la dottrina eretica dalla cattolica, qualora s' abbattono ad alcuna di quelle differenze per confondere la mente de' suoi lettori s' accendono di zelo e con una cotal piega di artificiose parole togliono a far credere, che quella differenza che caratterizza la sana dottrina, sia un errore così sformato, a cui nè pure giunsero gli eretici fin qui conosciuti. Diamone un chiaro esempio. Uno degli errori di Bajo si fu che i moti della concupiscenza, intesa come un mero istinto animale, meritino in senso proprio l' appellazion di peccato, e si riducano al peccato d' origine anche nascendo CONTRO IL CONSENSO DELLA VOLONTA`. [...OMISSIS...] . La dottrina all' incontro della Chiesa Cattolica non conosce peccato di nessuna guisa, fin che la volontà dell' uomo ripugna; perocchè il peccato è « una declinazione (attuale, ovvero abituale) della volontà personale dalla legge. »Onde, se la volontà dell' uomo ripugna positivamente, e ripelle i moti carnali, egli è chiaro, che non può averci peccato , nè dopo, nè tampoco avanti il battesimo; perchè la volontà potenza superiore al senso è qui personale; e però quella, onde si dee desumere la condizione morale dell' uomo. Ma il Bajo disconosciuta questa dottrina, cadde nell' errore, che, avanti il battesimo, sieno peccato anche i movimenti disvoluti e disdetti dalla volontà, anche [...OMISSIS...] , errore che si contiene, almeno esplicitamente, nella condanna fatta dalla Chiesa del Bajanismo. La Chiesa, in pari tempo, non disconosce o nega alcuno de' fatti antropologici; e però nè pur quello che la volontà talora, ridotta a certe angustie e non soccorsa dalla ragione deliberante, sia tratta a consentire spontaneamente a' movimenti istintivi del senso, senza che le sia possibile ripugnare. Ma questo fatto non può già accadere in quelli, che trovandosi in istato di grazia, sono da questa sempre ne' lor bisogni fedelmente soccorsi, com' io ho dimostrato (nel « Trattato della Coscienza » facc. 165 e segg.). Laonde nell' uomo giustificato non ha mai luogo un necessario acconsentimento della volontà a un male conosciuto, perchè trattasi d' una volontà, come dice S. Agostino, dalla grazia liberata. All' incontro in quelli, che o non sono ancora rinati nell' acque battesimali, o mediante le volontarie loro colpe contrassero un abito di peccare, rimangono in istato di peccato, può accadere quel caso funesto, pel quale l' impeto delle passioni e di più tentazioni quinci e quindi assalitrici, tolgano il tempo all' arbitrio di venire in soccorso, onde vinti rimangono. I quali atti non essendo liberi sono peccati in causa, o che questa causa sia il peccato d' origine in essi non ancora rimesso, come S. Agostino tante volte ripete, o che sieno altre colpe nelle quali essi liberamente s' immersero, indebolendo così la propria libertà; con questa differenza però, che se la necessità venne dalla originale infezione, questi atti disordinati, al peccato originale si riducono, e sono uno con questo, e quindi non si possono dir colpe se non riferendole alla libera prevaricazione di Adamo, là dove, se la necessità fu figliuola delle loro proprie libere colpe che ingenerarono la consuetudine; le conseguenti cadute partecipano dalle dette colpe precedenti la denominazione pure di colpe, e diconsi colpe in causa. Tale è la sana dottrina, ed ognuno intende quanto differisca da quella di Bajo, il quale attribuisce la nozione di peccato anche a ciò che nasce contro la stessa volontà; quando la sana dottrina non attribuisce tale denominazione, se non a ciò, a cui la volontà consente, quantunque necessariamente, se questa necessità fu libera in causa. Ma i nostri teologi introducendo la maggior confusione d' idee, fanno in quello scambio, credere che la dottrina cattolica da noi professata, sia peggiore della bajana. Dopo avere il C. recato quel passo, dove noi descrivevamo il fatto della volontà affascinata dalla passione, alla qual cede miseramente, dicendo: [...OMISSIS...] . Per restituire la verità così violata è necessario fare le seguenti osservazioni: 1 Bajo disse, che non s' imputavano i moti della concupiscenza a' battezzati che non consentono, ma aggiunse che s' imputano insieme col peccato di origine a' non battezzati benchè non consentano; e la Chiesa Cattolica dice, che quando la volontà è contraria non s' imputano que' moti mai nè a' battezzati, nè a' non battezzati; 2 Bajo trova un' imputazione a colpa anche negli atti necessarii, e noi all' opposto diciamo che non si dà imputazione a colpa, se non là dove si dà libertà, e però, se si avvera il caso, che la volontà sia tratta a consentire necessariamente non si dà colpa, se non nella causa libera di questo disordine. E` ella questa dottrina peggiore della bajana? Il nostro teologo alla facc. 136, dopo citato quel passo di Bajo [...OMISSIS...] , ripete la stessa accusa così: [...OMISSIS...] . Non è il Rosmini, ma è la Chiesa, che senza il consenso non riconosce peccato alcuno, e che quando la volontà è necessitata a consentire a' subitanei movimenti non riconosce tuttavia colpa, se non nella causa libera che l' ebbe addotta a sì trista necessità. Ma qui a proposito del consenso il nostro teologo crede di ravvisare una contraddizione tra ciò che si trova scritto intorno al consenso nella « Risposta ad Eusebio » e ciò che si dice di esso nel « Trattato della Coscienza ». Ma questa pretesa contraddizione non è altro che un suo novo abbaglio. Egli asserisce che nella « Risposta ad Eusebio » si dichiari, che il consenso sia sempre un atto personale, quando all' opposto nel « Trattato della Coscienza » si ammette una volontà, che stretta dagl' impulsi istintivi, consente necessariamente alla passione, onde dice: [...OMISSIS...] . Ma o non ha osservato, o dissimula che nella « Risposta ad Eusebio » non si parla d' ogni maniera di consenso, ma di un consenso libero , leggendovisi: [...OMISSIS...] nel « Trattato della Coscienza » all' incontro si parla di un consentire necessario della volontà, il che toglie ogni contraddizione (2). E per vero tra lo spontaneo consentire della non anco libera volontà, di cui si parla nel « Trattato della Coscienza » e il libero consenso, di cui si parla nella « Risposta ad Eusebio », vi ha un immenso divario. La LIBERTA` è una facoltà superiore alla VOLONTA`, poichè è « la potenza di eleggere fra le volizioni. »Qualora adunque la volontà da se sola opera senza la direzione superiore, che consiste nella libertà che elegge, ella si lascia andare spontaneamente dietro alle sensazioni, e si dice che a queste consente , secondo l' etimologia della parola, che viene a dire sente con esse, si adatta ad esse. Ma il consenso della libertà è tutt' altro; questa facoltà non consente immediatamente ALLE SENSAZIONI, ma consente ALL' UNA DELLE DUE VOLIZIONI buone e cattive, fra cui elegge, e questo è appunto il consenso sempre personale, di cui parla S. Tommaso, e di cui noi, attenendoci alla sua guida, parlammo nella « Risposta al finto Eusebio ». Ma nella stessa « Risposta » fu distinto un cotal consentire necessario della volontà, e non della libertà, mostrando ivi esser questa maniera di dire usata da' teologi colla testimonianza dell' Estio (3): il che tutto dissimula il nostro censore. I teologi razionalisti diminuiscono col loro sistema la virtù e l' efficacia della grazia del santo battesimo. Questo si vede anche nell' opuscolo che abbiamo preso ad esaminare, come un recente esempio della dottrina teologica razionalistica. In un luogo si attribuisce ai dottori cattolici (questo è il perpetuo loro stile d' attribuire ai dottori cattolici in corpo i propri sensi) la sentenza, che non pone alcuna distinzione tra ciò che può la concupiscenza originale nel non battezzato, e ciò che può nel battezzato. Questo è manifestamente un diminuire l' effetto salutare del battesimo, per voglia d' esaltare l' umana natura, incorrotta, com' ei la crede, che, secondo la sostanza del suo discorso, non ha di questa medicina del battesimale lavacro bisogno assoluto e solo gli bisogna il battesimo, come diceva Giuliano d' Eclana, per ricuperare i soprannaturali ornamenti (1). Ecco quali sono le sue parole: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque attribuisce ai dottori cattolici la sentenza, che non ci sia differenza alcuna tra gli uomini battezzati e non battezzati circa il potere che hanno gli uni e gli altri contro gli assalti della concupiscenza, di maniera che, rispetto a questi, l' effetto del santo battesimo sia del tutto nullo. Ma è ella veramente questa la dottrina cattolica? Non è anzi un calunniare i dottori cattolici l' affibbiarla loro? Vediamolo diligentemente. Se dunque fosse vero, che i Dottori cattolici, (il che è quanto dire la Chiesa, perchè si prendono tutti i dottori in corpo senza eccezione), non riconoscessero alcuna differenza tra i battezzati e i non battezzati, quanto alla vigoria dell' umana volontà e libertà in vincere le passioni della concupiscenza; a che si ridurrebbero gli effetti del santo battesimo? A che vogliono ridurli i teologi razionalisti? Alla remissione del peccato originale? Ma questo peccato che essi diconlo peccato secundum quid e quadamtenus non è nel loro sistema che un peccato di mero nome, ed erano più conseguenti i pelagiani che schiettamente negavano il nome di peccato alla semplice privazione della grazia. All' infusione della grazia soprannaturale? - Ma che cosa è questa grazia, in bocca de' teologi razionalistici, i quali negano ch' ella abbia virtù di attenuare le forze della concupiscenza, e d' accrescere quelle del libero arbitrio, non facendo riguardo essi a questo distinzione alcuna tra battezzati e non battezzati? Il sacrosanto Concilio di Trento decise quanto segue: [...OMISSIS...] . Ora i cuori di quelli, ne' quali è diffusa la carità dallo Spirito Santo e a' quali questa caritƒ diffusa in essi è aderente ( illis inhaeret ), questi cuori che sentono in se stessi la figliuolanza di Dio, e, come dice l' Apostolo, chiamano, animati dallo Spirito Santo: Abba Pater , saranno essi egualmente deboli e fiacchi contro l' ingenita concupiscenza, come quelli che non hanno punto ricevuto col santo battesimo il dono di Dio? Io me ne appello a tutti i fedeli di Cristo, alle anime che amano Iddio; e sono certo, che s' ottureranno gli orecchi come a bestemmie ingiuriose a Cristo ed al Santo Spirito, udendo tali parole del nostro teologo anonimo, e de' suoi confratelli «(V. la mia Risposta al finto Eusebio n. 106) ». Ne' celebri capitoli intitolati: [...OMISSIS...] leggesi tra le altre cose della grazia santificante così: [...OMISSIS...] . Ed ora da che può esser liberato il libero arbitrio, in virtù della grazia, se non da' suoi nemici, che si riducono in fine sotto il nome di concupiscenza? Con qual verità dunque i teologi razionalisti asseriscono che i dottori cattolici insegnino, che circa il potere di astenersi dalle azioni peccaminose non v' ha differenza tra battezzati e non battezzati? Non è questo un passare da un estremo all' altro, e per evitare l' errore di quelli che distruggono nell' uomo, o prima che sia rigenerato, o prima e dopo, il libero arbitrio, cadere nell' errore di quegli altri, che spogliano dalla sua virtù liberatrice e santificatrice la grazia di GESU` Cristo, la qual viene infusa nel santo battesimo? Facciamo un semplice e spassionato paragone tra la dottrina di tali teologi e quella già condannata dalla Chiesa ne' pelagiani, e apparirà manifesto il loro inganno ed il loro errore. I pelagiani dicevano, che la natura umana nasce presentemente senza vizio alcuno e colla sola privazione de' doni gratuiti (1): e il medesimo dicono i nostri teologi moderni. Ma come si salvano dunque, cioè credon salvarsi, dalla condanna di questi antichi eretici? Ritenendo la stessa loro sentenza, ma vestendola d' altre parole. Gli uni e gli altri convengono, che la natura umana nasce senza vizio, con tutti i suoi pregi naturali, e solo priva dei doni gratuiti. Questa è la sentenza comune, ora viene la differenza nelle parole. Quegli antichi confessavano ingenuamente, che nè la privazione de' doni gratuiti, nè le naturali limitazioni, nè i difetti naturali procedenti da quelle, erano peccato , e in questo dicevano bene. Furono adunque condannati, perchè negavano il peccato originale. Questi moderni, tementi la condanna stessa, dicono che quella privazione de' doni gratuiti è peccato, e in ciò dicono male. Ma col dire in tal modo un errore di più, saranno dunque assolti dalla condanna antica? Non credo io. Similmente s' osservi quanto agli effetti del battesimo. Sì gli antichi pelagiani che i moderni teologi dicono, che l' effetto del battesimo consiste solamente nel restituire alla natura buona l' ordine migliore della grazia [...OMISSIS...] questa è la sentenza comune. Ma gli antichi eretici confessano ingenuamente, che l' innalzare semplicemente la natura umana all' ordine soprannaturale, non è lo stesso che assolverla dal peccato; e dicevano bene. Furono adunque dannati perchè negavano che i bambini si battezzassero « in remissionem peccatorum ». I moderni teologi dicono all' opposto, che innalzare la natura all' ordine soprannaturale, è lo stesso che rimetterle il peccato originale; e dicono male. Ora di nuovo, eviteranno questi la condanna, solo col dire un errore di più di quelli? L' eresia consiste in semplici parole o nel senso e nella dottrina, qualunque sieno le parole che si adoperano per esprimerla, o per coprirla? Non verrebbe esposta la nostra santa fede al dileggio degli increduli qualora ella si facesse consistere in puri giochi di parole? Non sarebbe esposta al ridicolo la sacra teologia, qualora potessero dire con qualche verosimiglianza, che i teologi ritenendo le parole sanno di mano in mano modificare e cangiare con sottigliezze e vocaboli, le più essenziali e fondamentali dottrine del cristianesimo? Se si cerca, qual sia la dottrina sana della Chiesa intorno alla naturale possibilità dell' uomo, ed a quella possibilità di viver bene che egli acquista coll' infusione della grazia, conviene indubitatamente rispondere, che la Chiesa decise: [...OMISSIS...] , cioè aver tutti gli uomini perdute due cose, 1 l' innocenza e giustizia, e 2 la possibilità naturale di viver bene; onde S. Innocenzo papa rispetto a questa seconda perdita, così s' esprime: [...OMISSIS...] . Contro alla qual dottrina della cattolica Chiesa offendono apertamente coloro che al battesimo negano la virtù di ristorare le forze del libero arbitrio infiacchite contro la concupiscenza e dichiarano, esser queste uguali nel battezzato e nel non battezzato, come fanno i recenti teologi. Dopo di ciò la Chiesa ancora decise, che [...OMISSIS...] . Fin qui va la questione della dottrina generale. Dopo questa, viene poi la questione del fatto, la quale dimanda: « quando si verifichi, che l' uomo operi il male senza libertà e però senza demerito. » La possibilità intanto di questo fatto la Chiesa l' ammette e suppone pur colla condanna delle proposizioni di Bajo: [...OMISSIS...] , dalle quali e da altre somiglianti, scorgesi, come abbiam provato innanzi, che la Chiesa riconosce ed ammette un operare volontario, ma necessitato, di modochè la parola voluntarium , giusta tali decisioni della Chiesa, non sempre significa liberum , come contende il nuovo Teologo. Questo dunque appartiene ancor alla dottrina della Chiesa cattolica. Ma per venire alla questione di fatto: « quando si verifichi che l' uomo operi senza libertà e però senza merito nè demerito, » oltre il sapere in generale che qualche volta si verifica, il che, come dicevamo, è già parte del cattolico insegnamento; conviene di più determinarne per quanto si può i casi precisi. Al che ottenere vi hanno due lavori a farsi. Poichè altro è determinare i casi, ne' quali l' uomo opera necessariamente in generale, descrivendo le condizioni e le circostanze, sotto l' influenza delle quali egli procede colla necessità; ed altro è poi nel fatto reale accertarsi che tali condizioni e circostanze abbiano luogo in questa o quell' azione particolare. A ragion d' esempio alcuno dirà, che la passione può in alcun istante pigliar tant' impeto ed una così veemente uscita, ch' ella tolga all' uomo la libertà. Ma il dir questo non è mica un dire che in un dato fatto particolare di Tizio o di Cajo siasi avverata questa condizione, non è un dire, che la passione in Tizio od in Cajo sia stata realmente così urgente e così pressante in una data azione da trascinare la spontaneità ed impedire l' arbitrio della volontà. Anzi ella è cosa difficilissima o piuttosto impossibile il definirsi questo con piena certezza nel caso reale, e a Dio solo suol essere pienamente noto. Laonde l' uomo che opera con passione, grandemente s' illuderebbe s' egli leggermente credesse d' aver operato con necessità, anzi in luogo di scusarsi dee certamente condannare se stesso, non solo per le colpe attuali, che gli cagionarono quella torbida e violenta passione, non solo per le occasioni, a cui probabilmente s' espose, e per gli irritamenti a lei conceduti, non solo per non esser ricorso bastevolmente agli ajuti, co' quali avrebbe dovuto e potuto prevenire la sua caduta, ma ben anco per l' atto posto quando essa passione irruente in lui, videsi traboccata nel precipizio: e ciò perchè se da una parte questo gli mostra che tutto è disordinato in lui fin la stessa sua volontà, che è egli stesso; dall' altra perchè egli ha sempre troppa ragione di temere che la stessa sua libertà non fosse legata del tutto, essendo questo, come dicevamo, oltre modo difficile, se non impossibile a definirsi. Dal che apparisce, che lo stabilire semplicemente colla Chiesa cattolica che la passione aiutata dalla consuetudine delle colpe e lasciata andare innanzi ne' suoi riscaldi senza la debita vigilanza, possa talora addur l' uomo a sì stretto passo, al quale egli sdrucciola necessariamente; non è già un dare ansa e sicurtà agli uomini appassionati od abituati a peccare; ma è piuttosto un ammonirli di non confidare nelle forze proprie, ma di ricorrere a G. Cristo liberatore, di cui hanno un bisogno assoluto, per andar salvi dalla crudele tirannide del demonio e dalla loro propria concupiscenza. A torto dunque i teologi di cui parliamo sostengono, che le forze del battezzato, e del non battezzato sono ugualmente capaci di resistere al male; scagliando acri invettive contro quelli che dicono il contrario, asserendo che coll' ammettere una necessitá di cader ne' peccati, senza la grazia di Cristo, aprano la porta alla dissolutezza, con troppo basse parole dicendo, che questa è [...OMISSIS...] . L' estenuare gli effetti del sacramento del battesimo, col quale gli uomini s' incorporano a Cristo, e sono sollevati dalla condizione della natura guasta, all' ordine delle cose soprannaturali, e al regno di Dio favorisce oltremodo la tendenza di questo secolo d' incredulità e di diserzione dalla fede cattolica. La filosofia divisa dalla religione indefessamente lavora a introdurre nel mondo un sistema di Razionalismo che tenga luogo d' ogni religione positiva. Il protestantismo che non può resistere a' suoi assalti si associa ogni dì più con esso allo stesso intento, e rifondendosi in una pretesa religion naturale va cessando d' esistere come credente ad una positiva rivelazione. Predicatori inspirati dall' umana superbia scuotono la fede delle plebi stesse, e già, nelle nazioni protestanti, si trascura l' amministrazione del battesimo, se ne altera la materia e la forma, non considerandosi oggimai questo principal sacramento che come un semplice rito, onde si trovano già moltissimi adulti non battezzati, e degli altri si dee giustamente temere, non forse sieno stati battezzati invalidamente. I filosofi del protestantismo, ed i razionalisti biblici della Germania, con migliaia di libri e d' opuscoli diffondono per ogni canto d' Europa lo stesso spirito freddo, falso, per essenza miscredente, lusingatore dell' orgoglio umano e lo comunicano di nazione in nazione. Nella Francia cattolica entrò legalmente sotto il titolo di Scuola Normale di Filosofia. E sarà ora una dottrina indifferente, e degna di trascurarsi a' nostri giorni quella de' nostri teologi, che insinuano apertamente che il battesimo non accresce le forze dell' uomo ad evitare il peccato? Alla quale, nello spirito razionalistico, consuona pur quella filosofica, che da' sensi, a' quali s' attribuisce la conoscenza, o che dalla forza subbiettiva dell' anima fa venire all' uomo le idee, onde la verità, che nelle idee si contiene, è fatta con ciò figlia anch' essa dell' uomo, non più eterna, non più divina, quand' anco con una perpetua incoerenza si protesti il contrario. Così accade che il Razionalismo corrompa ogni dì più l' educazione della gioventù cristiana, rendendola vana e superba; insegnandole che dalla sua ragione viene la verità, dal suo libero arbitrio la virtù: la rivelazione non esserle necessaria assolutamente; anche senza il battesimo poter essa volere e vincere le proprie passioni. Questo tentativo benchè ne' nostri Anonimi s' appalesi più manifesto, non è per avventura nuovo ma antico, essendosi insinuato già, lentamente, come dicevamo, da più di due secoli; egli non è accidentale, non è momentaneo; ma è concertato in sistema, replicato, incessante. Si è taciuto finora, o almen parlato sommessamente per non rinfrescare la memoria di scandali quasi obliati. Ma io credo, che Iddio già più non voglia che si nasconda la radice del male che occultamente serpeggia: la provvidenza divina ha permesso che quello spirito infausto di Razionalismo e di Pelagianismo, che segretamente corrode i visceri del cristianesimo, toglie la virtù a' sacramenti, ed anco la passione e la morte di GESU` Cristo, scoppiasse più aperto negli opuscoli di alcuni teologi cattolici, fors' anco in buona fede da parte loro, ma con dottrina non sana. Abbandoniamo ogni causa o disputa personale, e siamo solo solleciti della purità della fede, della causa di G. C. e della sua Chiesa. Nessuno che consideri le cose spassionatamente potrà dubitare che i nostri Anonimi in sostanza rinnovano insieme uniti, e sotto color di pietà un assalto alla dottrina della Chiesa ed alla grazia del Redentore; de' quali negli scorsi secoli s' ebbero tanti esempi e basti accennare solo quello celeberrimo dei PP. Arduino e Berruyer. La « Storia del popolo di Dio » di quest' ultimo, di cui s' era promessa la correzione, uscì alle stampe ancor tale, che dovette condannarsi in Roma stessa nel 1734, e poi due volte di novo da Benedetto XIV (1) ed una terza da Clemente XIII (2) dandosi così una prova di più che lo spirito razionalista e pelagiano non teme i replicati fulmini della Chiesa. Ora si raffrontino i sentimenti de' nostri teologi con quelli del Commentario sopra S. Paolo dell' Arduino e della « Storia del popolo di Dio » del suo confratello, e si riscontrino agli originali proscritti dalla Chiesa, le copie. Lo stesso esaltamento della forza della natura, la stessa depressione della grazia di Cristo; un estenuare gli effetti del battesimo, un disconoscerne la virtù salutifera di mitigare i moti della concupiscenza, un diminuire la necessità della redenzione: niuna grazia veramente medicinale, giacchè non può esservi medicina dove non ci ha malattia; una sufficienza, una integrità, una beatitudine all' uomo dovuta senza il lavacro del Redentore. E sogliono costoro attribuire tutti gli errori che seminano, a' dottori della Chiesa, ed alla stessa Chiesa. Laonde ci dicono francamente, che, quando si tratta passar dai primi moti ad azioni peccaminose, dicono TUTTI (i Dottori cattolici) [...OMISSIS...] Ed IN TUTTO QUESTO NON RICONOSCONO DIFFERENZA TRA BATTEZZATI O NON BATTEZZATI. Tanta ingiuria che si fa al battesimo del Salvatore, mi sprona a insistere in questo argomento, che d' altra parte può esser utile a confortare la fede de' cristiani. Pur troppo questi sono bene spesso male istruiti circa gli effetti del santo battesimo, e, attesa la materialità e l' incredulità de' tempi, ripugnano sovente a credere fedelmente a quello, che v' ha di più prezioso e di più divino in tali effetti qual è la riformazione e il miglioramento dell' anima umana, di cui l' uomo non ha coscienza, benchè poscia ne sperimenti i vantaggi. Sia dunque messo in più chiara luce il medicinale effetto che viene impugnato del santo battesimo. Nella « Dottrina del peccato originale (n. XCIII 7 CI) » fu dimostrato come si conciliano le opinioni apparentemente diverse de' teologi cattolici che ripongono l' essenza del peccato originale nella privazione dell' originale giustizia , di quelli che la ripongono nella stortura della volontà, e di quelli che la fanno consistere nella concupiscenza de' non rinati: riprendiamo la descrizione e le prove dell' esistenza della malattia, a cui egli, il battesimo, è soprannaturale rimedio. Fu dimostrato, che ritorna in fondo sempre la stessa dottrina sotto diverse espressioni; e questa unica e consentanea a se stessa è la dottrina della Chiesa dichiarata così sapientemente dal Tridentino. L' identità sostanziale della dottrina insegnata da quei teologi, con varie maniere di parlare, risulta chiara tosto che si definiscano nel debito modo le tre espressioni usate di giustizia originale , di stortura della volontà , e di concupiscenza de' non rinati . Appigliamoci anche qui alla guida di S. Tommaso. Egli distingue la giustizia originale dalla grazia santificante , benchè quella in Adamo dipendesse da questa, stantechè la giustizia originale d' Adamo non era solamente naturale, ma anche soprannaturale, e perchè perdendo egli la giustizia rendevasi anche indegno della grazia, in cui era stato da Dio costituito. La giustizia originale in generale è riposta da S. Tommaso nell' ordine delle umane potenze, pel quale le inferiori ubbidiscono docili alla volontà e la volontà ubbidisce al lume della ragione ed a Dio (1). Egli è chiaro, che supponendo l' uomo creato senza la grazia santificante l' ordine delle sue potenze non sarebbe mancato in un essere opera di Dio, e la natura umana sarebbe stata intera , come acconciamente la chiamano i teologi. Ma in tal caso Iddio sarebbe stato conosciuto dall' uomo col solo lume naturale; e la sua volontà sarebbe stata sommessa a lui così conosciuto: le inferiori potenze poi avrebbero tuttavia ubbidito alla sua buona libera volontà. La giustizia originale dunque in una tale ipotesi, non potea esser più che una giustizia naturale quanto alla sostanza, risiedente necessariamente nella volontà; perchè la sola volontà è per se stessa la potenza morale, non appartenendo alla moralità le potenze inferiori, se non in quanto contribuiscono o sono da lei mosse (1) a disporre bene o male la volontà. Laonde la giustizia originale in qualsivoglia caso riducesi alla rettitudine della volontà , che non si lascia distorre dall' ordine di ragione, per niuna lusinga di bene sensibile o soggettivo. Conseguentemente S. Tommaso mette l' essenza del peccato originale ora nella privazione dell' originale giustizia, or nella stortura della volontà, rientrando queste due cose l' una nell' altra; poichè, definito in che cosa consiste il disordine della volontà [...OMISSIS...] , applica questa definizione al primo peccato così: [...OMISSIS...] . Il qual medesimo disordine nella volontà è pure ne' discendenti del primo padre, che il ricevono insieme colla natura: [...OMISSIS...] . E nondimeno non si dee già credere che quest' avversione della volontà personale sia un positivo odio di Dio, o un' inclinazione che rechi la volontà ad odiare direttamente il sommo bene come pazzamente vollero i bajani (1). Ella consiste bensì in un lasciarsi andare facilmente e in certe circostanze irresistibilmente al dolce del sentimento della natura, in vece di starsi eretta e fissa in quel lume di ragione, dal quale essa dee prendere l' ordine dell' operare e la misura del godere (2). Laonde la ragione prossima di questa deviazione abituale della volontà dall' ordine di ragione, è attribuita all' animalità che agisce con insolente violenza e trae a sè e quasi lega l' anima intellettiva; e questa efficacia dell' animalità assorbente per così dire la miglior attività dell' anima umana si origina, a quanto sembra, dall' attuosità del seme, chiamato per ciò appunto da Innocenzo III ed altri dottori infetto e corrotto. Laonde benchè solo l' anima intellettiva e volitiva sia il subietto del peccato originale, tuttavia, [...OMISSIS...] . E tuttavia è ancor da notarsi, che questo attraimento soverchio che fa la carne dell' anima intellettiva a sè non è ancor propriamente il peccato originale; ma il peccato originale è l' immediato effetto. Poichè a cagione di quell' attraimento, avviene, che l' anima intellettiva sia alquanto ottenebrata (e quest' appartiene alla piaga dell' ignoranza), e alquanto sgagliardita (e quest' appartiene alla piaga della difficoltà) e così sia st“lta dall' ordine di ragione e però da Dio, non rimanendole più forze sufficienti a mantenere costantemente in tutti gli atti suoi ad un tempo quell' ordine di ragione, come quella la cui attività è perduta in parte nell' animalità, il che GESU` Cristo espresse colle parole, [...OMISSIS...] . Ora la naturale applicazione di tanta attività dell' anima intellettiva al sentimento della vita animale, è ciò che i teologi chiamano, conversione alla creatura ; e il conseguente languore dell' anima rimasta debole all' ordine di ragione, e priva della cognizione soprannaturale di Dio, è ciò che chiamano avversione da Dio . Essi insegnano adunque che la piega o conversione alla creatura che l' uomo riceve nell' essere generato, è la causa prossima dell' avversione da Dio; nella quale sta propriamente la ragion formale del peccato, [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] ; di che deduce, che il concetto del peccato attuale e dell' originale non è dissimile, contro i teologi razionalisti, che a quest' ultimo negano l' esser peccato semplicemente (2). [...OMISSIS...] ; la qual privazione della giustizia, come abbiamo veduto, consiste nel non esser più la volontà aderente all' ordine di ragione. Di che conclude l' Angelico: [...OMISSIS...] . Nella volontà de' bambini adunque (ancora immersa nell' essenza dell' anima) ha sua propria sede il peccato originale, perchè [...OMISSIS...] . E noi pure dimostrammo, che il peccato suppone sempre qualche attualità e solo un principio attivo può avere per suo subbietto. Dalle quali cose s' intende, come anche si dica, che il peccato originale consista nella concupiscenza de' non rinati , e in che senso il dir questo ritorni in fine allo stesso, che a riporre il peccato d' origine nella privazione della giustizia, ovvero nella stortura della volontà. La concupiscenza propriamente definita in un modo generale può dirsi l' inclinazione dell' anima intellettiva verso l' animalità e il bene subbiettivo. A torto i nostri Anonimi la restringono alle sole parti inferiori dell' uomo, nelle quali è l' appetito animale, che non ha per sè solo come è nelle bestie alcuna ragione di difetto morale (1). All' incontro S. Paolo attribuisce alla concupiscenza «phronema» e «nun» (2), e il catechismo del sacro Concilio chiama la concupiscenza ANIMI APPETITIO, e non appetitio carnis; acconciamente così definendola, [...OMISSIS...] . L' Angelico poi dice, [...OMISSIS...] . Si prende dunque acconciamente la parola concupiscenza anche a significare tutta la facoltà di appetire dell' animo umano la volontà stessa spontanea inclinata a fermarsi nel sentimento animale e nel bene subbiettivo; ed è in questo senso, che nella concupiscenza de' non rinati si può collocare il peccato di origine. All' incontro se per concupiscenza s' intendesse quell' attuosità della vita e del sentimento animale che tira a sè l' anima intellettiva, ella è più tosto la causa prossima del peccato originale, cioè della mala inclinazione della volontà anzi che peccato ella stessa (1). L' anima razionale dunque ed appetitiva dell' uomo, quando l' uomo è generato « si precipita, quasi direi nella carne; e il dolce della vita animale la diletta, senza il riguardo debito a quell' ordine di ragione, che a lei essenzialmente intelligente sta pur davanti almeno implicito nel lume della ragione. » Ma si devono distinguere tre cose in questa condizione dell' anima: 1 La potenza razionale di appetire ancor immersa nell' essenza dell' anima, non pur distinguibile colla mente nostra dall' altre potenze; 2 La stessa potenza che già esce e realmente si separa colla sua azione quando emette le sue appetizioni, o volizioni; 3 E questi stessi atti speciali, che si dicono volizioni. Queste tre attività vengono l' una dall' altra, come dalla radice d' un albero vien fuori il tronco; e da' tronchi escono i rami. Gli atti particolari, le volizioni dunque sono produzioni della potenza di volere; la potenza di volere è quasi direbbesi produzione dell' essenza dell' anima, si che consegue, che, se si tratta di atti spontanei della volontà, questi sogliono trarre la qualità loro dalla potenza, ed esser buoni se la potenza è ben disposta, non buoni se la potenza è male disposta. Medesimamente la volontà come facoltà spontanea di operare, tiene la sua disposizione buona o cattiva, cioè ben ordinata o no, che prima aveva quando si giaceva quiescente nell' essenza dell' anima. di che si deduce, che l' essenza del peccato originale quant' alla macchia non si può riporre negli atti particolari della volontà; e nè pure nella volontà come potenza; ma nell' essenza dell' anima volitiva e appetitiva; onde incomincia quel male che si propaga poscia alla potenza ed agli spontanei suoi atti e però il male di quella e di questi si riduce in fine alla mala disposizione dell' anima che è lo stesso peccato originale. Ma che l' anima stessa, l' essenza dell' anima abbia questa mala disposizione in sè riesce difficile a intendersi per cagione, che quella disposizione immorale sfugge alla coscienza. Ma la fede, rivelandoci il peccato originale che tutti i cristiani credono sulla parola di Dio rivelante proposta loro dalla santa Chiesa, c' insegna indirettamente una verità così profonda; e prevenendo la scienza umana, presta un argomento della sua divinità. La scienza dell' uomo fatta per pochi, viene in appresso e discopre, dopo ricerche di molti secoli, quei veri che erano già supposti dalla fede con divoto stupore degli stessi scienziati (1). Ell' era un' arma de' Pelagiani, negare il peccato d' origine, perchè l' uomo non ne ha immediata coscienza. E S. Agostino accordava loro che il reato della concupiscenza si toglie alla consapevolezza dell' uomo; anzi volea che si distinguesse diligentissimamente tra il sentimento della carne, di cui si ha coscienza, e quella mala qualità e disposizione dell' anima di cui la coscienza ci manca e in cui il peccato originale risiede; stringendo quegli eretici a credere a quanto dice la fede, eziandio che nol dica la coscienza diretta ed immediata. In fatti delle cose che giaciono in fondo all' anima, dove sta quel peccato, o è soprammodo difficilissimo, o al tutto impossibile, l' essere consapevole. [...OMISSIS...] . Il perchè accorda a Giuliano, che l' argomento di cui egli si serviva a negare il peccato d' origine (il non averne cioè noi coscienza) era tale da illudere gli uomini grossi e carnali, ma tanto più in ciò stesso offensivo della cattolica fede; [...OMISSIS...] . Ed avverte, che il male originale non istà nella volontà del fanciullo, presa questa volontà come potenza della quale, operando noi, siam consapevoli; ma è consopito nel fondo dell' anima, dove la coscienza non giunge, e tuttavia viene il tempo che quel peccato occulto si appalesi anche di fuori, colle sue male tendenze, e colle male sue operazioni; [...OMISSIS...] . Dove si scorge, secondo il parlare di S. Agostino, che il peccato originale prima è nascosto in fondo dell' anima ed ivi quiescente, poi operante al di fuori ed in battaglia colla libera volontà, che o il vince corroborata dalla grazia di GESU` Cristo e allora l' uomo è salvo; o si lascia vincere e allora l' uomo è perduto. Ma non si creda perciò soggiunge il Santo, che quel peccato non nuoccia, anche prima di mandar fuori i suoi tralci delle male operazioni, nuoce sempre, se non è sciolto dal Redentore. [...OMISSIS...] Invano adunque Pelagio sosteneva, come fanno i moderni teologi razionalisti, che la concupiscenza non fosse altro che il sentimento carnale (2). S. Agostino rispondeva, che il sentimento è quello che ci rende consapevoli della concupiscenza; ma non è la concupiscenza di cui si parla, occulta madre di quel sentimento. La concupiscenza, quella concupiscenza cioè in cui l' essenza del peccato originale consiste, è una mala disposizione dell' anima occulta in essa, una mala qualità (3). [...OMISSIS...] Ed illustra questo concetto con un esempio che mostra lo spirito veramente filosofico del grand' uomo, [...OMISSIS...] . Riassumendo dunque in poco ciò che abbiamo detto finqui intorno alla concupiscenza ed a' suoi vari significati, 1 Se la concupiscenza si prende per quell' impeto, per così dire, onde l' anima del bambino che si concepisce s' immerge nella viva carne, che l' attira all' atto della concezione, una tale concupiscenza è la causa prossima del peccato d' origine [...OMISSIS...] e non lo stesso peccato d' origine (3); 2 L' animalità così prevalendo trae seco la parte razionale dell' anima, la volontà, che tende da quell' ora spontanea a secondare i movimenti piacevoli della carne; e soddisfarsi nel bene della natura umana come se altro non ci fosse al di là, e a questa tendenza originaria, a questa volontà, o attività razionale dell' anima prona a riporre il suo finale compiacimento nella natura, si dà pure il nome di concupiscenza; ed è in questa, che ha sede quella mala qualità , quella macola , quel reato , in che consiste il peccato d' origine: mala qualità che cessa in virtù del battesimo, benchè rimanga la tendenza alle passioni del senso, ma minuita e che non s' acquieta in questa, perchè la parte suprema dell' anima è sostenuta dall' infusion della grazia. Quella tendenza dunque che rimane specificamente diversa dalla precedente allora dicesi fomite della concupiscenza (1); 3 Dalla detta concupiscenza, o che abbia congiunta la macchia , come ne' non rinati; o che non l' abbia come nei rinati, vengono i movimenti disordinati della volontà prona al senso, che si riducono al peccato originale, se questo vige, o si riducono al fomite, se il peccato originale è pel battesimo estinto. Acciocchè dunque chiaramente s' intenda questa espressione consacrata dalla tradizione, che il peccato originale è il reato della concupiscenza; non dee prendersi la parola concupiscenza per l' atto dell' animalità che attira a sè l' anima razionale nel primo momento dell' esistenza dell' uomo, atto che poi permane; non per gli atti spontanei della volontà, che alle speciali sensazioni abbandonasi; ma per la mera disposizione viziosa a questi atti, posta in essere nella congiunzione dell' anima col corpo; che in noi è quiescente e a noi stessi ignota fin a tanto che non erompe a' suoi atti. E quella disposizione in cui consiste il peccato non è già la semplice tendenza al bene sensibile (la mera concupiscenza senza determinazione di grado) ma ella è la mala qualità , come dicemmo con S. Agostino, che trovasi in quella concupiscenza, quale è a noi innata e dura avanti il battesimo, e che col battesimo cessa. Che cosa è dunque la mala qualità della concupiscenza innata che forma il peccato? Consiste in questo, per dirlo di nuovo, che quella tendenza al diletto animale e al bene subbiettivo della natura rapendo a sè tutta quasi l' attività dell' uomo, rapisce a sè e lega anche la parte suprema dell' uomo la cima dell' anima, nella quale sta la base dell' umana persona, che pure di natura sua dee conformarsi all' ordine di ragione, e sta pure il subbietto di ogni vero peccato. Il lume adunque della ragione, benchè non cessi di risplendere nell' uomo, non è più la costante guida dell' uomo in tale stato; esso lume ha troppo poca influenza sopra un essere così propenso in verso l' animalesca e subbiettiva dilettazione. Poichè quel lume è fatto di natura sua per dirigere a Dio, e già l' uomo non si lascia più da lui liberamente dirigere; quindi dicesi che v' ha in lui mancanza di giustizia consistente nell' inordinazione della volontà, o sia nell' avversione a Dio. Quindi la definizione che dà S. Tommaso dell' originale peccato. [...OMISSIS...] (e non in Adamo, giacchè altro è il peccato considerato in Adamo, altro è il peccato considerato ne' posteri, checchè ne dicano i nostri Anonimi, che menano piedi e mani per confonderli insieme) [...OMISSIS...] ; non la concupiscenza sola, in astratto presa, ma colla mala qualità della privazione della giustizia originale, la qual mala qualità non è meramente l' assenza della grazia, come vogliono i nostri Anonimi (2) (nè l' assenza della grazia è una qualità ); ma è l' indebolimento morale della volontà dell' uomo, pel quale ella non ha più virtù di viver bene, come dice S. Agostino (1), non ha più virtù di muoversi liberamente verso il bene oggettivo (2), il che pur è un disordine morale; e questa virtù non l' ha più, perchè le è sottratta l' attività dell' anima già soverchiamente attratta e legata nell' animalità. L' attività radicale dell' anima è dunque unica, perchè unica è l' anima, ed ella si comparte a diverse potenze (3). Laonde se qualche potenza attrae a sè un soverchio di quell' attività, l' altre ne provan difetto rimanendosi indebolite e torpide a muoversi. Indi accade che la facoltà di seguire il bene oggettivo, che costituisce la volontà buona , sia fiacca nell' uomo, perchè l' animalità oggimai tira a sè troppo dell' attività dell' anima. Rimane potente all' incontro la volontà della carne , cioè quella che segue il bene soggettivo e sensibile, volontà che ha la qualità cattiva in quanto non dà l' attenzione e l' importanza debita al bene oggettivo. Di che riceve gran luce la definizione che dà del peccato d' origine Ugone di S. Vittore, che il dice [...OMISSIS...] . La mala qualità che costituisce il peccato è quella « mortalis infirmitas » della facoltà di volere il bene oggettivo. Questa facoltà di volere il bene è debole perchè l' animalità trae soverchiamente a sè l' attività dell' anima, la quale attività diviene così potente solo a volere il bene soggettivo e sensibile, onde ne consegue quella che Ugone dice « concupiscendi necessitas ». Questa è la dottrina stessa di S. Agostino: [...OMISSIS...] . - Quest' è la dottrina stessa di S. Bonaventura: [...OMISSIS...] : questa in somma è la dottrina tramandataci da tutta l' ecclesiastica tradizione. Forte è dunque la volontà dell' uomo che nasce per volere il bene subbiettivo e sensibile; debole è la volontà di lui per volere il bene oggettivo e morale. Questa debolezza della volontà pel bene è quel languor naturae (3), in cui S. Agostino cogli altri Padri ripongono l' originale peccato; perchè in conseguenza di essa nasce una infelice concupiscendi necessitas contro l' ordine di ragione (4). Poste le quali dottrine innegabili della costante tradizione della Chiesa si può ben far giustizia delle parole, colle quali il moderno Teologo, detraendo alla virtù del battesimo, mette alla medesima condizione i non battezzati, ed i battezzati, dando a quelli una libera volontà capace di viver bene coll' evitare le azioni peccaminose, quant' a quest' ultimi; benchè S. Agostino con tutta la Chiesa chiami il peccato originale, [...OMISSIS...] . Poichè tutto ciò asserisce il nostro C. e parla, in nome di tutti i dottori cattolici: [...OMISSIS...] . Si pesino bene queste ultime parole principalmente. Se, anche l' uomo non battezzato può sempre come il battezzato SENZA DIFFERENZA ALCUNA astenersi dalle azioni peccaminose, non ha dunque necessità per viver bene del santo battesimo; anzi, secondo il nostro autore, nè pure della grazia di Cristo, perchè egli sostiene che la ragione dell' uomo (non la grazia) può sempre accorrere e vincere la passione abusando delle parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Non è ella questa la genuina sostanza dell' eresia pelagiana, coperta ora più, ora meno, di artificiose parole, ma costituente il fondo di tutti gli scritti de' nostri teologi razionalisti? Non ho io ragione di rispondere a quelli, che non fanno differenza fra battezzati e non battezzati quanto alla forza del libero arbitrio per bene operare, e che attribuiscono all' uno e all' altro un egual potere di reprimere le passioni, ed evitare le azioni peccaminose, quello stesso che S. Agostino rispondeva a quegli eretici che del pari estollevano il libero arbitrio de' non battezzati (e in ciò Agostino era bocca della cattolica Chiesa) [...OMISSIS...] . Laonde se la cattolica Chiesa condannò quelli che dicono impossibili i divini precetti a' giustificati, i quali hanno l' aiuto della grazia, facendo così differenza fra le forze del giustificato, e quelle del non giustificato. [...OMISSIS...] ; d' altra parte condannò altresì quelli che li dissero possibili a' non giustificati operanti colle naturali loro forze. Onde ne' capitoli di S. Celestino Papa si legge (4), [...OMISSIS...] . Che anzi la Chiesa, lungi d' ammettere che il non battezzato che non opera colla grazia possa egualmente che il battezzato astenersi dalle azioni peccaminose, come insegnano i moderni nostri teologi; Ella dichiara incapace di ciò il battezzato stesso, se non riceve ognora nuovo aiuto di Cristo, il quale lo dà a chi lo domanda. [...OMISSIS...] è il terzo capitolo di Celestino, [...OMISSIS...] . Laonde i nostri recenti teologi razionalisti danno più forze al non battezzato, che non dia la Chiesa cattolica allo stesso battezzato. Certo, se io scrivessi pe' soli teologi tali cose, mi darei una cura superflua, essendo loro troppo noto, appartenere alla fede, che le forze del libero arbitrio in un uomo giustificato e incorporato a Cristo pel battesimo, sono di gran lunga maggiori pel bene, di quelle che dalla mera natura abbia un altro non battezzato; e d' altra parte ho già dimostrato ampiamente nella « Risposta ad Eusebio », che passano tre ragguardevolissime differenze fra il potere d' operare il bene che ha l' uomo battezzato e quello che ha il non battezzato e privo di grazia, nel quale scorgesi 1 incapacità di eseguire a pieno i divini comandamenti; 2 cedevolezza al peccato; 3 incapacità di meritare la vita eterna (1), e le contrarie doti sono nel battezzato; tutte le quali dottrine vengono affatto dissimulate dal C., come se da me non fossero state nè manco accennate, non che provate con irrefragabili autorità, scrivendo io dunque piuttosto pe' fedeli non teologi, che si cerca ingannare sotto specie di zelo per la pura dottrina, seguiterò a dir quello, che il loro vantaggio mi sembra richiedere. E questo sarà dimostrare, deducendolo dall' intima natura del peccato originale e della liberazione da esso che si fa pel battesimo, che un effetto di questo sacramento è altresì la mitigazione delle forze della mala concupiscenza e che perciò erra dannosamente colui che non vuol riconoscere differenza alcuna fra battezzati e non battezzati quanto alle forze della libertà umana in evitare le azioni peccaminose, alle quali incita la mala concupiscenza. Egli è di fede, 1 che nel battesimo si ottiene la giustificazione de' peccati; 2 che questa giustificazione non consiste nella sola remissione de' peccati; 3 che ella consegue ad un' operazione della grazia divina, che si diffonde nei cuori per lo Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Del sentimento diffuso in noi di questa grazia così parla S. Paolo, [...OMISSIS...] . Dal qual sentimento interiore nasce l' istinto dello Spirito Santo, e la facoltà di operare il bene soprannaturale meritorio di vita eterna. L' uomo battezzato è dunque congiunto con Dio, che a sè solleva l' attività dell' anima, come il senso animale dall' altra parte a sè la deprime. L' attività dunque suprema dell' anima, mediante la grazia, viene innalzata dalle cose terrene, ella è ingrandita, rinnovata, una nuova potenza comparisce nell' uomo superiore per dignità e per potere a tutte l' altre, essa diventa la cima dell' uomo, la base della sua personalità. Per questo le divine Scritture esprimono l' operazione che fa il battesimo dicendo che, l' uomo viene rigenerato; [...OMISSIS...] ; e la distruzione del peccato che ne consegue l' esprimono dicendo, che l' uomo nel battesimo muore al peccato (4), [...OMISSIS...] dove risiede la nova personalità dell' uomo; rimanendo l' attività prima, la precedente volontà, ma scaduta di posto (1), a cui perciò compete più l' appellazione di persona, onde la precedente persona infetta dal peccato è morta, cessando così dall' essere persona subbietto capace di peccato. In questa maniera la facoltà di volere e di fare il bene oggettivo è divenuta quella che S. Agostino colla tradizione chiama il libero arbitrio liberato (2). Messa adunque nell' uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita, che nella rettitudine della personale volontà si ripone; quindi è tolta la macchia del peccato, che sta nell' inordinazione, e nel languore della volontà suprema, e che è la deformità propria della volontà; quindi rimesso il reato, perchè il reato o sia il debito della pena segue la macchia del peccato, e questa tolta, è tolto quello altresì (3). Vero è che continua l' animalità ad operare sull' anima e a tirarne a sè quanto può l' attività; ma essa non la trova più così mobile e fiacca come prima; poichè, se essa la tira al basso; dall' altra banda havvi già Iddio nell' uomo che colla sua grazia la tira all' alto, e di tutto peso, per così dire, la sostiene. Quindi l' attività dell' anima è divisa, non più al solo senso lasciata andar col suo peso; anzi la miglior parte di lei, quella in cui l' uomo personalmente esiste è nella mano di Dio che se l' ha presa; e la guarda; se pure il libero arbitrio dell' uomo, che sempre ad peccandum valet , non gliela sottrae nuovamente. Di che si fa manifesto, che quella, che Ugone di S. Vittore e S. Bonaventura e dopo lui tant' altri, chiamano concupiscendi necessitas , dee nel battezzato di gran lunga mano diminuirsi di grado, e cangiar anco di specie; in una parola dee mitigarsi lo stesso fomite della concupiscenza; benchè la coscienza nol dica all' uomo immediatamente; bastando che gliel dica la fede, e l' esperienza. E in quanto al grado non può negarsi, che la tendenza dell' anima al bene soggettivo e sensibile deva riuscir minore dopo il battesimo, se una parte dell' attività dell' anima e la migliore è attratta dalla grazia che avvalora il libero arbitrio, e lo spirito vi diffonde l' affetto della carità, e dalla soavità di questo, tutta opposta alla carnale dilettazione, si trova occupata. Quanto poi alla specie; la concupiscenza dopo il battesimo varia certo specificamente dalla concupiscenza anteriore al battesimo in questo; che dopo il battesimo, non occupa più la parte superiore dell' uomo; e però non è più concupiscenza personale , ma è solo concupiscenza naturale; non è più concupiscenza con macchia e reato; ma toltole via l' una e l' altro; non è più peccato, ma solo fomite; non perde più l' uomo, ma gli dà occasion di combattere col suo libero arbitrio liberato, di vincere e di meritare. Le quali cose tutte mi si permetta di suggellare colle autorità del Maestro delle sentenze, e dell' Aquinate suo commentatore. Pietro Lombardo così scrive al nostro proposito, [...OMISSIS...] . E tosto passa a provare, che gli effetti del battesimo sono due principali, cioè 1 la soluzione del reato della concupiscenza, e 2 la diminuzione del fomite, e che nell' uno e nell' altro modo si suol dire, che il peccato originale nel battesimo si rimette. [...OMISSIS...] . E prova che la remissione del peccato originale nel battesimo suol dirsi, che si fa anche per la diminuzione della concupiscenza colla testimonianza di S. Agostino, di cui adduce questo testimonio: [...OMISSIS...] . Sulle quali parole aggiunge il Maestro delle Sentenze, [...OMISSIS...] . L' Angelico commentatore di Pietro Lombardo ammette pienamente i due effetti del battesimo, la soluzione del reato della concupiscenza e la diminuzione del fomite della stessa, e dopo aver insegnato, che ogni peccato reca due mali effetti nell' anima, l' avversione a Dio (macchia e reato), e l' inclinazione ad un simile atto (1); mostra come la giustificazione toglie l' uno e l' altro effetto (2). La qual dottrina egli applica in questo modo alla grazia del battesimo, [...OMISSIS...] . Questo è il primo effetto della grazia battesimale; il secondo poi è la diminuzione del fomite, e così viene descritto dal Santo Dottore, [...OMISSIS...] . E` dunque ingiurioso alla grazia di Cristo, è ingiurioso ai dottori cattolici, è ingiurioso alla cattolica religione il dire, che [...OMISSIS...] , di maniera che la ragione de' primi e quella de' secondi sia egualmente forte contro le lusinghe de' sensi, e possa sempre ugualmente [...OMISSIS...] : in tal caso la sola naturale ragione e libertà basterebbe da se stessa, senza la grazia, ad evitare tutti i peccati, e però a vivere giustamente, il che la Chiesa riprova (2). Convien dunque riconoscere da chi vuol tenersi nella dottrina della Chiesa cattolica; che la liberazione che Cristo fece della schiavitù del peccato, secondo la sua promessa (3) non ha un effetto solo, come voleva Giuliano d' Eclana; ma sì, ne ha due, come colla Chiesa cattolica volle Agostino d' Ippona: il quale dopo aver recate le parole del figliuol di Dio, [...OMISSIS...] . Dalle quali dottrine si può conoscere differenza immensa, che i dottori cattolici fanno tra i battezzati e i non battezzati relativamente al potere di operare il bene e di vincere il male. Perocchè nell' uomo non rinato 1 vi è una concupiscenza che è peccato (reatus concupiscentiae), perchè tiene captivata la umana persona, quando una concupiscenza con sì mala qualità , che è il peccato, non esiste più nel battezzato; 2 vi è una concupiscenza che è più intensa nel tirare l' uomo al male (fomes concupiscentiae), perchè ella sola tira quasi tutto l' uomo, anche la persona senza che abbia in opposizione a lei sufficientemente altra forza efficace, che attiri l' uomo, eccetto il troppo debole lume della ragione naturale; quando nel battezzato se da una parte vi è l' animalità che continua ad attrarre a' suoi istinti l' anima; dall' altra vi è la grazia, che possiede la parte suprema dell' uomo e avvalora il suo libero arbitrio, e però nol lascia più abbandonato alle forze della concupiscenza. Concludasi adunque, la concupiscenza dell' uomo rinato differisce di specie e di grado dalla concupiscenza dell' uomo non rinato; e quindi in quello è doppiamente accresciuta la potenza di resistere al male e di operare il bene. Consideriamo ancora la doppia serie di effetti, che ne scaturiscono. In quanto all' operare il bene, il battezzato ha ricevuto una potenza affatto nuova, cioè la potenza che riguarda il bene soprannaturale, colla quale fa le azioni de' figliuoli di Dio, che meritano la vita eterna. Questa potenza soprannaturale è ciò che rende la sua concupiscenza di specie diversa da quella dell' uomo non battezzato, e che gli dà forza di resistere al male. In fatti il non battezzato, come insegna l' Angelico (1), non può colle sue sole forze naturali astenersi per lungo tempo dal peccato mortale ove gravi tentazioni gli si presentino (2). E qui sono da distinguersi più questioni. Primieramente dico, che nel caso in cui il fomite della concupiscenza tragga l' uomo a seguire spontaneamente colla volontà sua il bene sensibile e subiettivo, dimenticato l' oggettivo e morale; senza che la libertà possa intervenire a dominare la volontà obbediente alle leggi piscologiche della spontaneità, il che indubitatamente accade ne' bambini, ne' pazzi, negli ubbriachi, e in tutti quelli in cui la forza dell' imaginativa esaltata e della passione antecede la libertà, togliendole il tempo di considerare colla ragione e di provvedersi di forza pratica; in questo caso dico, ne' non battezzati quella volontà che riman così vinta, suol essere quella stessa volontà, che è rea e macchiata; cioè che ha in sè l' originale peccato, e però gli atti d' una tale volontà cedevoli agl' istinti, riduconsi al peccato d' origine tuttora esistente e regnante, come a sua causa immediata e radice. Queste scorse della volontà quasi trascinata dagl' istinti appartengono in tal caso non già alla forma, ma alla materia dell' originale peccato, la qual materia, come egregiamente dice S. Tommaso, tien luogo della conversione al bene sensibile e soggettivo; senza che il formale del peccato d' origine, nè la colpa perciò si accresca. Laonde nè pure la colpa o il reato, riceve aumento ma s' accresce bensì nell' uomo per sì fatte passioni la disposizione al male, la quale nè anche colla morte si distrugge, ma solo colla liberazione e salvazione di Cristo. Ma ne' battezzati non accade così fino che colla loro libera volontà non hanno di novo perduta la grazia di Dio, essi non possono mai esser necessitati ad alcun atto di peccato, per quantunque forti sieno le naturali inclinazioni. Que' movimenti poi che si suscitano verso i beni sensibili nell' uomo, che è in possesso della grazia santificante, nell' età infantile, e in istato d' alienazione mentale non procedono mai da una concupiscenza macchiata e rea e personale; ma possono procedere dal mero fomite che rimane privo della macchia e del peccato personale o sia che non tocca la persona. Laonde questi sono allora figli di un' altra madre, e non si può più dire che in essi operi il peccato in senso vero e proprio, ma solamente che sieno effetti mediati e lontani di quel peccato, che non è più, ma che partendosi lasciò in essi il tristo legato del fomite che tenta, ma non distacca l' uomo da Dio. Onde nel « Trattato della Coscienza » noi spiegavamo il parlare dell' Apostolo seguendo i Padri e gl' Interpreti, dicendo che quelli, che l' Apostolo chiama peccati, sono peccati senza dannazione e senza imputazione (mentre ne' non battezzati hanno la stessa condizione del peccato d' origine), e il dire peccato senza dannazione e senza imputazione, è manifestamente un dire non peccato nel senso proprio del Tridentino, che il definisce acconcissimamente: « morte dell' anima. »Di che consegue che se ne' non battezzati sono propagini immediate di quel peccato che vige e regna e però possono insieme con lui ricevere la denominazion di peccato, ne' battezzati all' incontro sono meri effetti del fomite, che non è peccato; e al fomite si riducono, e però dal padre loro non possono ricevere la denominazione di vero peccato; nè lasciano dopo morte alcuna mala disposizione od altro malo effetto nell' uomo; perchè distrutto colla morte il fomite con tutte le sue conseguenze, l' anima del giusto rimane del tutto pura e viva in Cristo, che è « la risurrezione e la vita », eccettuate sempre le colpe veniali, a cui anche i battezzati soggiaciono. Oltre di ciò se ne' battezzati tali movimenti cangiano di natura, perchè nascono da una concupiscenza, che è diversa di specie da quella de' non battezzati; essi sono poi anche minori di numero, e meno impetuosi, come quelli che procedono da una concupiscenza diminuita ancora di grado . Ma un' altra differenza ancora, a mio parere, s' incontra fra il battezzato e il non battezzato. Talora il mero istinto animale opera da se solo, come suole avvenir nel sonno, o quando l' uomo si trova in uno stato convulsivo, a ragion d' esempio, perchè colto da idrofobia. A queste operazioni della mera animalità possono essere soggetti anche i giusti, non appartenendo esse all' ordine morale. Ma lasciando da parte questi mali della natura e venendo all' ordine morale la volontà allettata dal bene sensibile e soggettivo può lasciarsi muovere spontaneamente e necessariamente, trovandosi l' uomo in due condizioni diverse. E parlo ora dell' uomo in generale, astrazion fatta dal battezzato e dal non battezzato. Ella può esser rapita e mossa semplicemente e istantaneamente da bene sensibile, senza che l' uomo abbia tempo a considerar la legge e a confrontare l' azione oggettivamente malvagia con essa, e questo accade ne' primi moti, nel qual caso, la volontà umana opera disordinatamente, perchè in modo contrario alla sua natura che è di essere un ragionevole e morale appetito; ma questo disordine più tosto negativo che positivo non è che venial peccato. Può l' uomo in secondo luogo (sempre in generale prescindendo ora dalla grazia) vedere il bene oggettivo e morale, ma poi, attesa la forza della tentazione, essere addotto al bene subbiettivo7immorale, sottratta la forza pratica alla sua volontà, dalla seducentissima dilettazione giunta all' estremo suo termine; di che cade non perchè sia rimasta prevenuta la sua ragione e resa inetta a mostrargli il dovere; ma perchè è rimasta prevenuta e legata la sua libertà, la quale non potè aiutarlo contro lo spontaneo volere, ed a ciò che la ragione gli mostrava, attenersi. Nell' uno e nell' altro di questi casi vi può esser colpa in causa, se questa fu libera; ma in tali atti in sè considerati e prescindendo dalla causa libera, non vi è colpa; poichè si suppone in entrambi, operar l' uomo attualmente privo di libertà, benchè siavi peccato, che in relazione alla causa libera dicesi colpa. Ora sì nell' uomo battezzato che nel non battezzato, il primo caso può aver luogo indubitatamente, non però egualmente; ma più in questo e meno in quello. Quanto poi al secondo, reputo, che possa aver luogo solo nel non battezzato; e reputo che di questo caso intenda dir S. Tommaso, quando parla de' peccati mortali, a cui il non battezzato necessariamente soggiace (1). Egli dice, che quantunque l' uomo non giustificato possa evitare i singoli peccati, tuttavia, « quod diu maneat absque peccato mortali esse non potest », e il prova coll' autorità di S. Gregorio Magno (2), dandone questa ragione, [...OMISSIS...] . Dopo di che si fa l' obbiezione, che l' uomo può anche operare contro il fine preconcepito e contro l' abito, purchè ricorra alla meditazione; ma risponde, che [...OMISSIS...] . Di che conchiude che l' uomo non giustificato non può a lungo astenersi da ogni peccato mortale, perchè [...OMISSIS...] . La cosa però non procede egualmente nel battezzato; e se ne può dare questa ragione filosofica. Fino a tanto che la ragione non può accorrere, confrontando il bene soggettivo e istintivo col bene oggettivo e morale; la volontà va dietro al bene sensibile naturalmente; non gli è proposto veramente ancora un oggetto morale; né l' uomo conosce, nè sente l' obbligazione; e perciò l' operazione non viene dalla volontà personale e morale; o quel barlume che n' ha non basta a costituire una grave inordinazione, un peccato mortale. Ma qualora la ragione gli mostri attualmente e chiaramente ciò che dee fare, egli sente l' obbligazione di operare secondo il bene oggettivo e morale, che scorge. Laonde in questo caso se l' uomo non potesse resistere, sarebbe segno manifesto che v' avrebbe un languore nella stessa persona dell' uomo, non solo nella natura . Ma la persona non ha più languore dopo il battesimo, ma solo la natura. Dunque, come dissi nel « Trattato della Coscienza », non possono mai mancare all' uomo battezzato le forze, colle quali adempire alle obbligazioni da lui conosciute, purchè si giovi degli aiuti che sono in sua mano, fra i quali quello dell' orazione, dicendo il Concilio di Trento, colle parole di S. Agostino, de' giustificati, [...OMISSIS...] , alle quali consuona il Canone XXII. [...OMISSIS...] . Che se pur si avverasse che l' uomo giustificato e faciente quel ch' egli può cedesse necessariamente a qualche lusinga, ciò non potrebbe essere, che ne' primi moti, o in uno stato di ragione turbata, e ciò non farà mai con tutta l' attività voluta dal peccato mortale, a costituire il quale non basta che intervenga l' azione personale o la libera, ma si esige che l' oggetto stesso dell' azione sia personale , e però che abbia ragione di fine ultimo. Di che il cedere non sarà mai che parziale nel detto caso, da parte dell' attivitá umana, non totale: e dato che intervenga qualche disordine nell' azione personale non sarà tale da staccar la persona dall' oggetto buono e morale a cui aderisce. Onde non vi sarà che colpa veniale di cui rimane la miniera anche ne' battezzati, per usare una frase del Cardinal Pallavicino che è il fomite della concupiscenza (1). Possono adunque i giustificati, colla divina grazia, adempire tutte le obbligazioni da essi conosciute, se fanno quello che sta in loro, nè mai sono addotti dalla tentazione senza il consenso della loro libera volontà in tale strettezza e deficienza di forze da dovere arrendersi ad essa in modo da peccare gravemente; là dove a' non giustificati non è assicurata un' egual forza; quantunque sia vero, come dicevamo, che quando essi cadano sotto il fardello delle proprie obbligazioni per assoluta impotenza, non demeritano con ciò se manchi in essi al tutto la forza di evitare il peccato (1). Ma nella loro volontà, se questa è soccombuta rimane una maggior piega ed adesione al male commesso. Nè con questo è mio pensiero di negar loro la possibilità di pregare, eccitati dalla grazia. Reputo ancora, che una orazion naturale, che niente certamente può meritare, possa non di meno essere ordinata a domandare nell' ordine della giustizia naturale aiuti morali da Dio naturalmente conosciuto, ed impetrarli ancorchè non dovuti. S' aggiungono le grazie attuali, che dispongono l' uomo non giustificato, alla giustificazione; le quali Iddio certamente dona a chi vuole, secondo l' altissimo suo beneplacito, secondo quello che insegna il sacrosanto Concilio di Trento. E qui sembrami poter giovare a chiarire le idee (giacchè per questo appunto mi allungo in tali ragionamenti), l' esporre l' origine logica del Giansenismo; cioè il dimostrare, per quali passi sbagliati, l' intendimento degli autori di questa eresia traboccasse in essa miseramente. Lo sbaglio primo si fu l' aver confuso la volontà colla libertà; e il non avere avvertito che queste due facoltà operano con leggi diverse; e formano due sfere di operare; delle quali quella della libertà è superiore a quella della semplice volontà. Il moderno teologo precipita nello stesso sbaglio, quando vuol confuso il mero volontario col libero; e quando incontrandosi in alcuni luoghi in cui noi parliamo della volontà e delle leggi che ad essa presiedono; egli ci accusa (1) di negare la libertà , che pure in tanti luoghi dichiariamo essere una forza superiore alla volontà che perturba e modifica le leggi a cui la volontà da sè sola ubbidirebbe. Ora quali sono le leggi della volontà , quando quella facoltà (diversa dalla libertà) che dicesi, un appetito razionale , rimane abbandonata a se stessa? La legge si è che ella inclina a tutti quanti i beni dall' uom conosciuti, e si lascia muovere dalla loro azione; e acconsente di preferenza al maggiore, se non può aderire a tutti. E questo è infatti lo stato dell' uomo, prima ch' egli possa esercitare la sua libertà, lo stato del bambino, non pervenuto ancora all' esercizio della sua libertà bilaterale. In un tale stato la volontà è dolcemente attratta da ogni bene, perchè è la potenza del bene, ella è mossa da ogni stimolo per piccolo che si voglia perchè è mobilissima e soprammodo delicata; e per quella legge che dicesi anche spontaneità , se due agenti allettevoli contemporanei l' attirano, tende verso ad entrambi, ma a quello, che esercita su di lei una maggior forza, si volge più ardente, o con preferenza. Ora se il bambino non è battezzato, egli è attratto debolmente dal lume di sua ragione, che per se solo non esercita un' azione su di lui realmente sensibile (cioè al modo che è sensibile l' azione delle cose reali di cui ha percezione); ed è attratto fortemente dalla dilettazione del senso animale. Laonde quantunque l' intelletto umano aderisca per sua natura all' essere ideale , e quindi la volontà sia volta naturalmente anche al bene oggettivo universale, onde s' origina nell' uomo la facoltà di operare il bene morale, la quale non può in lui cessare giammai, e con essa si origina pure il libero arbitrio; tuttavia l' animalità e il bene soggettivo predomina nell' uomo in tale stato, essendo questo bene il solo agente reale che sull' anima influisca e che può a sè prevalentemente attirarla. Se dunque avvenga in progresso, che fra il bene morale e il bene subbiettivo nasca forte collisione, e la libertà non trovi in quello forze bastevoli contro questo, l' uomo seguita a veder quel primo, e ad approvarlo; ma s' appiglia coll' opera a questo secondo, [...OMISSIS...] . Nell' uomo battezzato incorporato realmente a Cristo la condizione delle cose è ben altra. Se da una parte v' ha l' azione reale del bene animale, che a sè l' attira, dall' altra v' ha un altro bene reale assai maggiore che pur l' attira o per meglio dire lo tiene; e questo è Dio, che si comunica all' anima, comunicandole la grazia e diffondendovi la dilettazione della carità e così avvalorando poi il libero arbitrio che può sempre vincere. Laonde nell' uomo in tale stato costituito accade che quantunque l' animalità da parte sua seguiti ad allettare a sè l' anima volitiva ed attiva dell' uomo anche dopo il Battesimo siccome prima, onde il fomite; tuttavia quest' anima stessa nella sua parte più eccellente è contemporaneamente tenuta e posseduta da Dio; e così il bene infinito risiede nell' anima non solo idealmente ma anche realmente. L' azione del qual bene, che è Dio, di sua natura (se il libero arbitrio non si oppone) prevale a quella della carne: prevale dico per due guise, l' una perchè Iddio occupando la parte superiore dell' uomo, la punta dell' anima, che è nata a comandare all' altre potenze, sana e santifica il principio personale dell' uomo che in quella punta risiede; ed altresì perchè l' operazione divina è più forte di sua natura di quella della carne, ed ella è sì forte che niente può separare Iddio dall' anima volitiva se non sopravviene la libertà dell' uomo stesso, la quale peccando, per sè medesima si stolga e separi da lui, che per usare le parole di S. Agostino consacrate dal sacrosanto Concilio, [...OMISSIS...] . Egli è dunque chiaro, che qualora si parli della sola volontà dell' uomo, considerandola in separato dalla sua libertà , che è la potenza nata a dirigerla, ma che sempre non si trova in esercizio, come accade ne' bambini, od è legata, o prevenuta dagl' impeti focosi dell' immaginazione e dagl' istinti de' nervi eccitati, come ne' pazzi, o in quelli che sono da veemente accesso di passioni sorpresi; in tal caso la volontà dell' uomo ubbidisce spontaneamente alle dilettazioni che la dileticano, e più a quella che la diletica maggiormente; e se un bene l' occupa nella più alta sua parte, le operazioni che da questa parte incominciano sono personali, e buone o cattive, secondo che quel bene che informa la persona dell' uomo è onesto o disonesto, e la dilettazione che da esso viene onde procedono le azioni, secondo la legge della spontaneità, è buona o cattiva ella stessa. Quindi l' aiuto che riceve il bambino col sacramento del salutare lavacro appartiene a quel genere, che S. Agostino chiama « adjutorium quo »; il qual aiuto è da S. Agostino negato ad Adamo, accordatogli il solo « adjutorium sine quo ». E così dovea essere. Poichè la volontà del bambino essendo rea e non avendo in sè il potere di giustificarsi da se stessa e di rettificarsi; nè potendo come rea che era usar bene nè del proprio arbitrio, come dicono i Capitoli di S. Celestino, nè degli aiuti superni, se non fossero tali che prima la giustificassero o alla giustificazione la disponessero; perciò conveniva, che Dio stesso operasse quasi una creazione novella e colla sua onnipotente grazia sanando e avvalorando l' anima, cangiandola cioè di mala in buona, onde di questa grazia acconciamente dice S. Agostino [...OMISSIS...] . All' incontro la volontà d' Adamo era già naturalmente retta, e però non facea mestieri di essere liberata dal male, bastando che fosse aiutata a fare il bene con quella grazia, «SINE QUA », non si può operare il bene perfetto, appartenente all' ordine soprannaturale (2). E quantunque all' « auxilium quo » di S. Agostino si riferiscano anche le grazie attuali, e sono tali per la loro interna efficacia, e per la certezza con cui realizzano l' eterna predestinazione (1): tuttavia egli prima di tutto lo fa consistere nella grazia [...OMISSIS...] ; al che è consentanea la definizione del sacro Concilio di Trento, il quale insegna che della giustificazione dell' uomo [...OMISSIS...] . Ora egli è certo, che con questa potentissima grazia del Salvatore, l' uomo non può da niuna cosa esser vinto, se liberamente non consente al male; e perciò il bambino battezzato o altri santificati nelle acque del battesimo, in cui il libero arbitrio sia impedito o legato, è in istato di certa salute; perchè prevale in lui la grazia e la carità di Cristo alla tentazione della carne e del demonio, in tanto che questa non può più distaccar l' uomo da Dio. Nè si dee credere, che non operando nel bambino la libertà , sia perciò straniera la volontà all' opera della salvazione; perocchè anzi la volontà è quella che viene santificata e informata dalla carità di Cristo, e quella che poi opera coll' aiuto di questa grazia e dell' attuale (2). Restringendoci adunque entro all' ordine della volontà, e prescindendo dall' ordine della libertà per un' astrazione, ovvero perchè si suppone la libertà inattiva come nel bambino, ha luogo il sistema delle due dilettazioni relativamente prevalenti. Nell' uomo non giustificato prevale la dilettazione della carne e lo perde; nell' uomo giustificato prevale di dilettazione della grazia di Cristo e lo salva. La volontà è tirata ed aderisce a chi l' attrae maggiormente e più altamente: tale è la legge della volontà; non quella della libertà che domina sopra la volontà. E alla volontà sgraziatamente si fermarono i giansenisti. Essi racchiusero tutti i loro pensieri entro la sfera della volontà che si definisce: « un appetito razionale; »entro la quale sfera, prescindendo da quella forza superiore che si definisce coll' Apostolo « « potere sulla volontà »(1) » e dicesi libertà; trova luogo il sistema delle due dilettazioni contrarie, che, secondo il grado di forza prevalente, esercitano successivamente, o alternativamente il dominio sull' umano appetito. Ma ella era una veduta ristretta ed esclusiva la loro. Essi errarono dunque per non avere osservato che al di sopra della sfera della volontà sta nell' uomo un' altra sfera, quella della libertà , nata ad essere signora della volontà, che è una facoltà inferiore relativamente a quella; e questo errore nacque nelle menti perchè non erano in allora ben distinte queste due attività dell' anima razionale, cioè quella di volere , e quella di eleggere fra le volizioni , la volontà e la libertà. Per la quale confusione medesima i pelagiani dall' altra parte coi nostri teologi disconoscendo le leggi della volontà , e attribuendo ogni potere alla libertà , fecero onta alla grazia ed alla salvazione di Cristo, insegnando, che anche ne' non giustificati [...OMISSIS...] . Il che è un manifesto abuso di alcune parole di S. Tommaso, le quali si riferiscono alla potenza rimota , e non alla potenza prossima , secondo la distinzione giustissima del Gaetano (2), nessuno negando che di natura sua la libertà possa accorrere, per se sola considerata; ma negandosi che possa sempre accorrere nelle circostanze dell' uomo caduto e non giustificato, [...OMISSIS...] come dichiara S. Tommaso medesimo, qual si richiede ad evitare il peccato (3). Onde vi ha la potenza, ma non la potenza propria e in assetto a produr fuori l' atto: vi ha la potenza , ma non la possibilità di operare . Di che i Padri del Concilio Diospolitano obbligarono i pelagiani a confessare, fra gli altri capi questo: [...OMISSIS...] . Là dove il nostro teologo viene a sostenere in quella vece che la vittoria contro alle illecite concupiscenze può sempre venire ex propria voluntate , che di conseguente alle forze naturali dell' uomo (battezzato o no è il medesimo) se ne deve dare la gloria! Iddio ci preservi da dottrine che cotanto alimentano l' umana superbia, e così rendono irrimediabile l' umana impotenza. Il vangelo in fatti è tutto nell' umiltà: dove non si semina questa, non si sparge il seme di Cristo. Il vangelo è nella virtù di Dio: ma la virtù di Dio non soccorre all' infermità dell' uomo, se l' uomo ricusa di sentire la sua infermità, non vuol riconoscerla nè confessarla. Il dire, che l' uomo può esser giusto da sè secondo la natura senza bisogno della grazia di Dio (1) non è un confessare la propria infermità; ma stabilire una giustizia dell' uomo contro la giustizia di Dio. [...OMISSIS...] Il Razionalismo introdotto nella Teologia trae seco l' umanismo nell' ecclesiastico ministero . Intendo per Umanismo quello spirito, che, senza dimettere le apparenze della pietà, propende sempre a giudicare in favore dell' esaltamento dell' uomo: sempre intende ad attenuarne la malizia e coprirne le piaghe, a dissimularne o negarne l' impotenza, a secondarne le naturali inclinazioni, ad adularne e giustificarne sottilissimamente le passioni ne' trovati dell' umano ingegno, e ne' mezzi dell' umana potenza, anche trattandosi d' imprese spirituali, a perdere di veduta la povertà e la virtù della croce, a dispregiare la semplicità evangelica, a modificare in mille guise le parole di GESU` Cristo, a interpretarle a voler della carne, quasi per giuoco d' ingegno, ad obliare le promesse del Principe dei Pastori, a non vivere oggimai più di fede ma d' artifizi e di maneggi, non più traendo seco forza dalla sola speranza riposta negli aiuti superni, fuori della quale speranza il più industrioso e costante ecclesiastico in vece della pace di Cristo reca da per tutto dove va la discordia, e in vece di stabilire tra popoli il regno di Dio, vi pone senza saper come impedimento; o fors' anco dopo un frutto momentaneo lascia il campo del Signore ingombro di triboli e di spine da lui stesso seminate. Coloro i quali conoscono la storia delle missioni straniere e n' hanno meditato le vicende potranno dire, quale altro spirito, se non uno spirito tutto particolare ed umano, sia stato quello che fece una sì sottile e sì costante opposizione allo stabilimento dell' Episcopato e della gerarchia in molte missioni straniere, onde avvenne, che appena nate perirono tante cristianità nell' Oriente, e specialmente nel Ton7King, nella Cocincina e nel Giappone? GESU` Cristo mandò degli Apostoli Vescovi ad annunziare il Vangelo. Così fece sempre la Chiesa. A' Vescovi prestarono aiuto grandissimo de' sacerdoti e de' laici. Ma successe un tempo, in cui alcuni religiosi, credendosi aver trovato de' mezzi migliori di propagare e di fondare il regno di Dio, esclusero l' episcopato quant' era da loro e la gerarchia, o le fecero quella guerra lunga or diretta ora indiretta che poteron maggiore (1). Qui basti di rammentare i viaggi, gli stenti, le afflizioni, gli anni ch' ebbe a patire e a spendere il P. Rhodes della Compagnia di Gesù per riuscire, avendo pure i Pontefici alla sua impresa favorevoli, ad ottenere, quanto l' esperienza gli aveva dimostrato sì necessario alla stabilità del Cristianesimo, che de' Vescovadi ed un clero indigeno fossero in quelle infelici e pereunti missioni stabiliti. Lo spirito di Razionalismo nella mente, d' Umanismo nel cuore e nella condotta, è quel sottil veleno, pura essenza, etere invisibile dell' amor proprio, che penetra ben anco in uomini molto innanzi nella virtù; i quali da esso insensibilmente condotti s' allontanano dalla verità e s' affezionano e parteggiano e quasi a sè ed altrui mentiscono lusingati di poter così far del bene e giovare alla pietà. E che altro mai se non questo umano e fallibile ragionare fu quello che in occasione de' riti Cinesi gettò fra i missionari quella sempre mai lacrimevol discordia, che tanto danno recò alle missioni della China, e cagionò la perdita di tante anime, impedì l' acquisto alla Chiesa di tante popolazioni? Che altro se non la propensione a giudicare con troppo favore della naturale sapienza ed a scusare poscia, se non anco lodare quelle debolezze che ad essa natural sapienza conseguitano fu la cagion vera di quegli errori che difesi ostinatamente (1) dovettero pur condannarsi con tante bolle de' Sommi Pontefici, e ultimamente con quella del dottissimo Benedetto XIV degli 11 Luglio 1742? Lasciamo parlare un recente scrittore lodevolissimo per lo spirito d' imparzialità, colla quale narra i principii di sì famosa questione. [...OMISSIS...] Quali funeste conseguenze traessero i nemici della religione cristiana contr' essa dalle accennate esagerazioni a favore della sapienza naturale de' Cinesi, e della giustificazione de' superstiziosi loro riti, con somma equità e moderazione si narra nelle belle lettere del Sig. Luquet che abbiamo citato. A noi rincresce troppo di trattenerci più a lungo in un argomento sì tristo, come quel de' riti cinesi; e ci basta avere solo accennato di nuovo quale sia la prole amara e funesta di quello spirito umano e razionalistico, che par talora servire alla pietà, ma in ver la distrugge. E qui egli è già tempo di chiudere il nostro ragionamento. Prima però debbo dichiarare, che tutto ció ch' io dissi in quest' opera, nol dissi coll' animo di definire, che a me non s' aspetta, ma sol per teologico raziocinio, che a ognuno è permesso. Del resto alla Chiesa, di cui mi glorio essere figliuolo e discepolo ogni mio sentimento sommetto. La Chiesa giudichi se i miei timori sono fondati: ella giudichi il mio giudizio. A me parve, e pare, per ritornare a ciò che dissi al principio, che il maggior pericolo, che or le sovrasti, sia in quel pratico Razionalismo che s' insinua per tutto, sotto apparenze di pietà, e che insensibilmente, come ruggine, la stessa sana dottrina rode e consuma. E questo pericolo è grave principalmente per due ragioni; la prima, che i ragionamenti de' razionalisti sono intesi e favoriti facilmente dal comune degli uomini, quando le verità della fede che quelli corrodono sono all' opposto profonde, arcane, talora all' umane menti ripugnanti: l' altra, che il Razionalismo teologico è sempre in sul far credere, che niun' altra via di mezzo si trovi, ma convenga seguitar lui, o cadere nell' odiosissima e rigidissima eresia del Giansenismo. E queste due cagioni, la somma difficoltà d' intendere in modo non ripugnante alla ragione il dogma profondissimo della grazia conciliandolo col libero arbitrio e colla bontà di Dio che vuol tutti salvi; e il gran timore di cadere nell' eresia de' predestinaziani (1) e de' gianseniani, eresia desolante e inducente a disperazione; ebbero tanta possa di spingere talor anche uomini santissimi sulla via apparentemente piana e fiorita che loro addittava il pratico Razionalismo (2). Indi è che vinto appena il Pelagianismo antico, surse nella Chiesa il Semi7Pelagianismo (3) a cui diedero il loro nome anche uomini, che onoriam sugli altari, o quando la chiesa non avea ancor dannata quell' eresia sottilissima o dopo dannatala, ma ritrattandosi essi innanzi morire. E tanti ebbe seguaci quell' errore seducentissimo, che S. Prospero lamentavasi [...OMISSIS...] . Benchè poi i sommi Pontefici con la Chiesa tutta decapitassero appena risorta in nuove fogge l' antica empietà, con tutto ciò qual idra andò rimettendo di tempo in tempo novelle teste. E allo stesso errore vestito di forme novelle, che non pareva il precedente già escluso, e di nuovi lenocinii provveduto, s' accostavano alcuni e dotti e pii, che altra via non vedevano di salvare a tutti gli uomini que' due beni oltremodo preziosissimi e necessarii la libertà e la speranza della salute. Laonde non è a stupirsi, se dopo le ultime eresie del secol XVI, avutane da esse occasione, lo spirito razionalistico e pelagiano ricominciasse l' antico lavoro più industrioso e più costante di quello che avea fatto o tentato ne' secoli precedenti, scaltrito dalle sconfitte avute, di migliori armi fornito d' erudizione, di dottrina, di astuzia, e di potenza ed influenza sociale, le quali a lui fabbricava la condizione de' tempi, il risorgimento delle lettere, l' incivilimento, la filosofia, la politica. Benchè queste due ultime, chi sottilmente e spassionatamente pensi la storia d' Europa de' tre ultimi secoli, s' accorgerà, che sono più tosto che sue madri, o nutrici, sue legittime figliuole, ed allieve. Poichè in questi ultimi secoli, il Razionalismo pratico introdotto prima nella teologia fu applicato all' educazione della gioventù, e recò pur troppo i suoi frutti amari alla civil società, in cui i fanciulli educati rifondonsi. Invano sperossi di neutralizzarne per così dire, il potente veleno coll' associarlo negli animi giovanili alla divozione. Fino che l' uomo è fanciullo stanno ben uniti in lui Razionalismo e divozione; perocchè ne' fanciulli anche il Razionalismo è fanciullo. Ma questo diviene adulto insieme coll' uomo, e con esso crescono la dottrina, sua prole immanchevole, l' orgoglio e l' immoralità; le quali spegnono la divozione; e spenta questa introducono l' incredulità, che perturba poi, a suo tempo, l' ordine pubblico massime fra genti cristiane. Vero è ch' ella non chiamasi da prima incredulità ma filosofia. Ma che è questo? Il falso nome sol giova ad illudere: e le masse ancora credenti onorano ingannate i filosofi, che loro promettono mari e monti di felicità, e si nutrono in seno gli increduli. Conviene persuadersi: l' educazione fu per lungo tempo in Europa e in Francia massimamente un misto di Razionalismo teologico e di devozione. Ma i principii della mente prevalgono alle abitudini della vita; e cresciuti quelli alla lunga ne cacciano queste, se sono loro contrarie, e se ne formano di omogenee. Così avvenne. I devoti giovani si cangiarono ben presto in filosofi; i filosofi in increduli; gl' increduli in rivoluzionari; i rivoluzionari in sanculotti, terroristi, cannibali: non si puó rompere la serie delle cause, perchè è in natura. Dai collegi adunque uscì la rivoluzione. Chi ben ha penetrazione, m' intenderà. Dove fu mai educata quella gioventù francese, che diede al mondo il più sanguinoso spettacolo che fosse mai? Dove i padri di essa? e dove gli avi? Ne' collegi a maximo usque ad minimum . Ma non instillavasi ne' collegi d' allora la pietà, la divozione? Qual dubbio? E nella divozione non si può certo trovar la causa del male atroce. Altrove dunque si vuol cercare il vizio d' un' educazione che si fece tanto conoscere da' suoi effetti. - Si mediti e si scoprirà il vizioso elemento, il seme funesto depositato negli animi de' giovani essere stato lo spirito razionalistico . Con tal compagno violento la divozione di collegio non potè a lungo reggere; egli spense crudelmente la sua compagna d' educazione: ed ingrato spense altresì in odio di lei i collegi stessi di cui molti buoni piansero la rovina; veggendo perire così i focolari della giovanil divozione. Ma veggendo la divozione uscire da' collegi, perchè le pratiche divote si veggon cogli occhi, non vedevano poi essi chi usciva con lei, perchè quel suo compagno feroce del Razionalismo non vedesi che colla mente, essendo un principio, un pensiero che nella mente risiede. Le quali riflessioni potrebbero per avventura riuscire salutari oltremodo ai nostri moderni teologi, se da esse apprendessero, che carezzando il Razionalismo teologico, com' essi fanno, s' accarezzano il più fiero nemico che aver possano essi stessi, non che la Chiesa, sì la fazione de' teologi razionalisti scava la fossa a se medesima, scavandola alla cattolica teologia. Perocchè, questa non può cadere, e però tutto il danno è suo proprio. Dunque parlo io così a suo favore; quanto ho scritto in quest' opuscolo a suo vero vantaggio ridonda. La fazione de' nostri teologi non pecca solo contro la sana dottrina col deplorabile impegno in cui ella è entrata, pecca ancora contro la savia politica. Deh non ne attenda gli effetti! Quanti mali avrebbe evitati, quanti guai risparmiati alla Chiesa, se avesse uditi docilmente i consigli de' due venerabili Cardinali Baronio e Bona, che scorgeano pure colle loro menti, da lontano i danni del Pelagianismo irruente! Non mancavano certo i veggenti in Israello, e se si vuole alle previsioni di que' due santissimi porporati aggiungere la previsione di un terzo splendore del sacro Collegio, nominerò il Contarini. Non avea questi ammonito certi teologi del suo tempo che indiscretamente pugnavano contro le nuove eresie, di procedere cautamente per non isdrucciolar forse nell' errore contrario? Non avea egli anche scritto: [...OMISSIS...] . Non era loro stato dato in tempo un avviso sì autorevole e savio, cioè prima ancora della metà del secolo XVI? Perchè dunque non approfittarsene? Quanto poi agli uomini di buona fede che non penetrano il fondo di questa lotta; io loro dirò così: Abborrite il Giansenismo, ma guardatevi altresì dal Pelagianismo, non credete mai questo necessario a fuggir quello. Abborrite pure da tutte quelle opinioni teologiche, che scoraggiano gli uomini a fare il bene, e ingiuriano la divina bontà; ma non appigliatevi perciò a quelle che fanno presumere gli uomini delle forze della loro natura, e li rendono negligenti a procacciarsi quelle della grazia, che attenuano la causa e il frutto della Redenzione di Cristo e scemano la virtù a' sacramenti, ed il bisogno che n' ha l' uomo figlio del peccatore. Sia pur questo il criterio che guidi la vostra scelta delle opinioni, quelle sien preferite che servon meglio a condurre le anime alla salute. La carità vi conduce pure alla verità. La morale che ne uscirà da tale scelta sarà dolce, come è dolce il giogo del Signore, ma non lassa. Chè una lassa morale non salva; sì, perde le anime. E che mai giovano alla salute dell' anima certi nuovi dogmi, non della divina Rivelazione, ma dell' umana corruzione? Che giova insegnare che l' uomo reca al mondo la natura incorrotta, e senza bisogno alcun di Battesimo, morendo bambino, l' attende al di là una beatitudine naturale, abitatore di un terzo luogo fra il cielo e l' inferno, come dicevano i pelagiani, se non a render gli uomini ingrati verso di Cristo e negligenti in procurarsi i sacramenti della Chiesa? Che giova insegnare che può l' uomo senza la grazia reprimere le sue passioni, resistere a tutte le tentazioni benchè con difficoltà, sicchè la grazia sia solo utile a ciò ma non necessaria, che giova dico se non a render la grazia meno preziosa e gli uomini men curanti di procacciarsela? Che falsa benignità non è ella questa, o piuttosto benignità crudelissima verso l' umana natura? Che giova il dire, che l' uomo, benchè senza la grazia, non è mai necessitato a peccare, e che peccando in tal caso con necessità niun mal gliene viene, niun peccato commette, se non ad aprire un fonte ampissimo d' immorali azioni, soffocata la voce della coscienza, e l' uomo reso piuttosto amante di rimanere nell' ignoranza e nella schiavitù degli abiti peccaminosi, che non di liberarsene? Che giova dichiarare la concupiscenza effetto naturale e non punto vizioso se non a levare dall' anima l' errore de' suoi disordini? « e ad exscusandas exscusationes in peccatis »? Esaltate adunque la bontà di Dio che vuol tutti salvi, e ne dà i mezzi a tutti quelli che li desiderano, e anche a molti di quelli che non li desiderano, facendo che li desiderino; ma nello stesso tempo non dimenticate, che quella bontà è santità essenziale: e che Dio è buono perchè vuol santi gli uomini, prima ancor che felici, e a ciò li aiuta, non perchè loro permetta di andare per una via larga e lubrica in Paradiso. Deh piaccia a Dio, che anche i nostri avversarii vogliano finalmente intendere con noi uniti queste santissime verità, e cessino dall' imbizzarrire sì sconciamente « sufflantes in pulverem », per usare delle parole di S. Agostino, « et excitantes terram in oculos suos! (1) ».

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

Principio supremo della metodica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Applaudì a questo pensiero l' abate Lambruschini, il quale parlandone dice così: [...OMISSIS...] . Or dunque, perchè i fanciulli troppo si stancano a porger loro proposizioni da analizzare? - Perchè si pretende con ciò che facciano due operazioni mentali ad un sol tratto, due operazioni che di loro natura sono successive e non possono essere contemporanee. L' una di queste due operazioni comprende quelle intellezioni colle quali il fanciullo viene a conoscere il significato de' singoli vocaboli; l' altra comprende quelle colle quali il fanciullo deve annodare tra loro i vocaboli per farne riuscire il senso della proposizione. Or non è chiaro che il sentimento di tutta la proposizione è un pensiero che non può esser fatto dall' uomo se non prendendo la sua materia da altri pensieri più elementari, cioè da quelli co' quali s' abbraccia il sentimento delle singole parole? Le intellezioni adunque che non hanno per loro scopo se non l' intendere una voce alla volta appartengono ad un ordine anteriore a quelle intellezioni che mirano a far intendere tutta una proposizione; e perciò queste intellezioni non possono esser fatte dal fanciullo se non lasciandogli il tempo necessario a compir prima quelle. L' osservazione dell' abate Rosi è simile a quella fatta prima dall' abate Taverna. Questi aveva osservato che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro le sentenze; quegli osservò di più che i fanciulli non giungono da prima a conoscere il valore delle congiunzioni che legano tra loro i vocaboli, dal qual legamento riescono le sentenze. L' una e l' altra osservazione non sono che casi particolari del principio nostro generale. Or, quantunque noi non intendiamo di prendere a classificare in questo trattato le intellezioni umane secondo i loro ordini, il che non può essere l' opera nè di un libro nè di un uomo, ma il lavoro de' secoli che verranno; nulladimeno dobbiamo dirne tanto che basti, affine che il concetto nostro s' intenda e n' apparisca l' importanza, e si vegga ancora la via per la quale convenga indirizzarsi a ridurlo ad effetto. A tal fine vediamo quali sieno le intellezioni che appartengono al primo ordine. La forza o virtù generale, colla quale lo spirito attualmente conosce, si chiama attenzione . L' istruzione tende a far sì che la gioventù attualmente conosca, e perciò si può chiamare un' arte di dirigere acconciamente l' attenzione dello spirito de' giovani. Prima ancora che si ecciti l' attenzione nello spirito dell' uomo, vi hanno in lui due principŒ delle future sue cognizioni, il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere . A provare l' esistenza di questi due principŒ originari nell' uomo sono principalmente volti gli scritti ideologici da me prima d' ora pubblicati (1) e però non vi spendo parole. Ma, quantunque esista nello spirito dell' uomo il sentimento fondamentale e l' intuizione dell' essere , fino a tanto che manca in esso l' attenzione (1), que' principŒ non possono formare delle attuali cognizioni propriamente dette. Nè manco, quando si suscita per la prima volta l' attenzione nell' uomo, essa ha per suo oggetto que' due principŒ congeniti, anzi si porta sugli stimoli nuovi che violentemente, mediante piacere o dolore, mutano lo stato sensibile dello spirito. Questi stimoli sono le sensazioni accidentali. Le sensazioni accidentali sono reali modificazioni del sentimento fondamentale, ma non sono intellezioni; e per ciò colle sole sensazioni non comincia lo sviluppo intellettuale dell' uomo. Quando l' uomo si muove ad applicare la sua virtù intellettiva a ciò che sente, allora è il momento nel quale il suo sviluppo, come essere intelligente, incomincia. Convien dunque esaminare diligentemente l' indole di questa prima applicazione che l' uomo fa della sua virtù intellettiva alle sensazioni, affine di poter bene determinare qual sia il primo ordine delle umane intellezioni. Questo esame presenta tre questioni; la prima: cosa sia lo stimolo che muove da principio l' attenzione intellettiva dell' uomo; l' altra: quale sia l' oggetto delle prime intellezioni; finalmente la terza: qual sia la natura di queste prime intellezioni. Quanto alla prima, sembrami probabile che non tutte le sensazioni accidentali abbiano virtù di tirare a sè l' attenzione dell' uomo; non quelle che gli nascono continuamente in conseguenza delle ben ordinate funzioni della vita, nè pur forse molte sensazioni piacevoli che soddisfano intieramente la natura del bambino che non richiede più in là di esse. Egli pare adunque che le sensazioni, che eccitano da prima l' attività umana, sieno quelle che contengono un sentimento di bisogno e che per conseguenza danno il movimento agl' istinti e alla spontaneità (1). Laonde l' attività intellettiva non si eccita per nulla, ma ella si mette in movimento quando l' uomo ha bisogno di essa; l' uomo la chiama in suo soccorso, come chiama in suo soccorso tutte l' altre potenze, quando tende o a rimovere da sè una molestia o a procacciarsi la soddisfazione di un bisogno. Quanto poi alla seconda questione, gli oggetti dell' attenzione intellettiva devono certamente essere gli oggetti di quei bisogni che la mossero. Ma per non confondere anche qui l' ordine del senso coll' ordine dell' intelligenza, conviene osservare ciò che fa l' istinto animale e poi aggiungervi ciò che fa l' intendimento. L' istinto animale dunque muove sempre da un gruppo di sensazioni: questo gruppo di sensazioni mette in movimento l' animale: l' attività animale così mossa cerca un altro gruppo di sensazioni, che è il termine del bisogno animale: questo secondo gruppo di sensazioni in parte completa il primo gruppo, in parte lo fa cessare e ad ogni modo soddisfa al bisogno. Qui non ci sono ancora oggetti: non ci sono che sensazioni che si associano: è sempre un sentimento che opera a tenore di sue proprie leggi (1). Ma l' attività intellettiva accorre ad aiutare l' uomo che come animale brama quel gruppo di sensazioni. Quest' attività non può spiegarsi in volizioni se non a condizione che prima ella percepisca e conosca; perchè la volontà è un movimento dello spirito che si porta in un oggetto conosciuto. L' intendimento dunque prima di tutto percepisce, poi l' uomo opera, cioè vuole dietro le sue percezioni. Ma cosa è questa operazione della percezione? Con questa operazione lo spirito, il soggetto, oppone a se stesso degli oggetti. Ma questi oggetti cosa sono? Sono anch' essi gruppi di sensazioni? Eccoci entrati nella terza questione, colla quale dimandavamo: quale doveva essere la natura delle prime intellezioni. Dopo ciò che si è detto facilmente viene alla mente, che avendo il bisogno animale, che ci muove a operare, ne' primi istanti per suo termine e scopo un certo gruppo di sensazioni, questo gruppo di sensazioni, e non più, debba essere il termine della percezione. E nel primo aspetto ciò non sembra ripugnare. Ma, ove si consideri che quando noi parliamo di quel gruppo di sensazioni, nello stato in cui ora siamo pervenuti di grande sviluppamento intellettivo, quel gruppo non è più un mero complesso di sensazioni, ma un complesso di sensazioni percepito e inteso coll' intendimento nostro, vediamo allora che c' illudiamo. Perocchè, se noi parliamo di sensazioni senza aggiunger loro nulla d' ideale, esse, così nude e sole nel loro essere meramente reale, non sono peranco oggetto della mente, chè questa ancora non le contempla. Or come dunque potrà la mente passare a contemplarle e intuirle? Col renderle a se stessa oggetto , ciò che prima non erano. Ma cosa vuol dire un oggetto? Qual è la nozione comune di tutti gli oggetti della mente? La nozione comune di tutti gli oggetti della mente si è quella di essere enti ; nè oggetto vuol dire altro che ente . Col percepirsi adunque dalla mente le sensazioni, esse si trasformano in altrettanti enti, perocchè quest' è la propria indole dell' operazione intellettiva; l' oggetto è parola che si riferisce a lei, e l' ente è parola che significa nella maniera più generale l' oggetto; l' ente dunque non può esistere senza una mente, nè una mente può contemplare e percepire altro che enti. Ma se le sensazioni non sono enti, come possono adunque venir concepite? Le sensazioni non sono enti, ma sono certe attualità di enti. Analizzando le sensazioni, noi abbiamo trovato che in esse vi hanno due elementi; un elemento soggettivo e un elemento extra7soggettivo. Considerate nel loro elemento soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è il soggetto: esse sono atti7passivi di quell' ente. Considerate nel loro elemento extra7soggettivo, l' ente a cui esse appartengono è un ente diverso dal soggetto (extra7soggettivo), di cui esse sono atti7attivi. L' intendimento adunque, il quale non percepisce che enti, non può percepire le sensazioni se non a condizione di percepirle negli enti a cui appartengono. Ma esse appartengono a due enti: al soggetto e al corpo extra7soggettivo; ora, qual è di questi due enti quello che forma l' oggetto delle prime intellezioni? Io sono stato gran tempo dubbioso in che modo risolvere questa questione; ma finalmente mi sono persuaso che colle prime intellezioni l' uomo percepisce le sue sensazioni avveniticce come appartenenti agli enti extra7soggettivi, cioè a' corpi esteriori. La ragione che m' ha inclinato a questa risoluzione fu la seguente. L' attenzione , come abbiam veduto, è quella forza dello spirito, che dirige l' intendimento a questi piuttosto che a quelli oggetti: l' attenzione stessa poi è diretta da bisogni sensibili. Ora il bisogno dell' uomo ne' primi istanti, ne' quali egli esiste, risguarda interamente verso i corpi esteriori, da' quali solamente egli cerca le grate sensazioni, di cui è vago, e di cui abbisogna. Egli non pone adunque la sua attività intellettuale nella sensazione in quanto ella è una passività sua propria, ma in quanto ella è un' attività degli oggetti esterni, verso i quali egli, per così dire, si protende per averne sempre di nuove e di maggiori. La sensazione come passività è già finita, nè gli bisogna l' intelletto e la volontà per gustarla; ma la sensazione come azione veniente da' corpi esterni al suo è quella, ch' egli presente, e che preimagina, ed a cui va incontro prima d' averla, bastando a tutto ciò che ne prenda sentore e che sia ad essa mosso dalle leggi del suo istinto e della sua spontaneità. Come adunque tutte le altre potenze dell' uomo corrono agli oggetti esterni, che gli apportano grate sensazioni, verbigrazia il bambino alla poppa della madre, così anche l' attività intellettiva deve essere mossa a quella stessa volta, e perciò le prime intellezioni, che fa l' uomo, vogliono essere le percezioni de' corpi esteriori. Nelle stesse percezioni nondimeno de' corpi esteriori vi ha una gradazione: non è un lavoro, che il bambino compisca in un istante. Egli è vero, che la percezione, come percezione, è un atto semplice dello spirito, che si fa in un istante, perocchè ciò che è essenziale alla percezione si riduce a un atto, col quale lo spirito pone un diverso da sè, e propriamente un oggetto, a quell' atto dico, col quale egli s' accorge, che sussiste un qualche cosa . Vi ha dunque percezione tosto che lo spirito ha detta questa parola interiore a sè stesso. Nondimeno questa parola interiore, colla quale l' uomo afferma un ente, ammette diversi modi e varietà non in sè stessa, cioè in quanto ella è un atto soggettivo dello spirito, ma in rispetto al suo oggetto, il quale può variare, potendo lo spirito affermare degli enti diversi, o per dir meglio delle entità diverse. Queste entità , che si fanno oggetti delle affermazioni interne dello spirito, ammettono variazione per due cagioni: 1 Perchè sebbene il senso presenti le entità allo spirito intellettivo, tuttavia questo non dirige pienamente ad esse la sua attenzione per mancanza di stimolo a ciò fare, e perciò non le afferma in tutte le loro particolarità e qualità, ma solo in un modo più o meno perfetto, più o meno determinato; 2 Perchè il senso stesso allo spirito non le presenta (1) d' un tratto con tutte le loro attività, ma parzialmente e successivamente, attesa la limitazione de' sensi e organi particolari. Di qui è che per lo contrario la percezione si va perfezionando più e più in due maniere, cioè: 1 In ragione, che lo spirito intellettivo ha degli stimoli, che l' obbligano a porre la sua attenzione a ciò, che v' ha di più determinato negli oggetti, che il senso gli presenta; 2 In ragione che il senso stesso gli presenta successivamente più facce, o sia più proprietà e attività dell' ente. Diciamo alcune parole sopra tutt' e due queste maniere di graduata perfezione, che ricevono le percezioni , perocchè senza por mente a questa perfettibilità delle percezioni, non si può giungere a conoscere ciò, che succede nella mente del bambino da' primi momenti della sua esistenza fino alla riflessione più libera. Cominciamo dunque dal considerare il primo modo di perfezionamento, che ricevono le percezioni intellettive, e innanzi ogni altra cosa domandiamo: qual è lo stato di massima imperfezione, in cui esse si trovano? Conosciuto questo estremo, potremo salire a considerare i gradi di perfezione, che vengono acquistando successivamente nel fanciullo. La prima parola adunque, che dice interiormente il fanciullo e la più imperfetta, si è quella che formolata da noi in parole, che egli non conosce, risponderebbe a questa « un ente io sento nel mio senso ». Con questa parola egli non determina nulla delle qualità dell' ente da lui sentito, ma fa consistere tutta la determinazione , ch' egli dà a quell' ente, nella relazione di esso coll' attuale sua sensazione, nella quale ella tiene il modo di agente . Ente e agente è dunque il medesimo in questa prima parola, in questa prima percezione; ma il modo dell' azione, che determina quell' azione, rimane nel senso, senza che egli si faccia scopo all' attenzione dell' intendimento, il quale è contento di una cognizione quasi del tutto negativa; perocchè la sua cognizione fin qui appena è nulla più che ideale7negativa; non contenendo essa che unicamente l' affermazione di un agente senza altra determinazione espressa; ma con solo una determinazione di relazione a ciò che il soggetto sente (1). Ed ella è appunto questa mirabile connessione del senso e dell' intendimento, che riesce sommamente difficile a intendersi a molti, ond' avviene, che rifiutino la nostra filosofia, perchè non pervengono a superare questa non piccola difficoltà. Desidereremmo assai, che costoro meditassero molto sull' unità e identità del soggetto sensitivo e intellettivo; compresa la quale, ogni difficoltà disparisce. Perocchè colui, che giunge colla sua mente a vedere questa identità, vede ancora incontanente come il soggetto (lo spirito umano) possa trovare nel senso la determinazione di di quell' ente che vede e afferma coll' intendimento. Ma di queste cose abbiamo parlato altrove e non dobbiamo ripeterci di continuo. Quello adunque, che l' intendimento percepisce nella prima sua e più imperfetta percezione di un oggetto, si è l' azione, che un ente diverso dal soggetto fa nel soggetto, ma nulla più; non pensa al modo di quest' azione, che vien fatta nel senso; e rimanendo questo modo fuori dell' attenzione intellettiva, rimane pur fuori della cognizione dell' oggetto ogni sua qualità o proprietà speciale. Il soggetto sa solamente, che ci è un ente agente, e sente , ma non sa , come agisca. Ben avviene più tardi, che il soggetto stimolato da' suoi bisogni vien ponendo la sua attenzione non pur sull' ente agente, ma sul modo ancora col quale agisce; ed è allora che egli perfeziona la percezione sua dell' ente, la quale diventa gradatamente più positiva. In fatti è dall' osservazione sul modo , onde un ente agisce sopra di noi e dagli effetti, che egli in noi produce, che noi veniamo rilevando le sue proprietà e qualità e tutta la sua condizione. Or questo appunto è il travaglio successivo dello spirito. Qui comincia quell' arte di osservare, che uscendo dalla culla del bambino si fa gigante nello spirito di un Galileo, e rivela ogni dì all' uomo novi segreti della natura. Questa è la prima maniera, onde cresce la percezione; cresce e si perfeziona a misura, che l' attenzione dello spirito si applica a tutte le parti delle sensazioni e tutte l' una dopo l' altra le trasporta, per così dire, dal senso nell' intendimento: voglio dire tutte, l' una dopo l' altra, le percepisce intellettivamente, le afferma distintamente con questa parola interiore. Ma l' attenzione intellettiva dopo di ciò non può osservare, se non ciò che il senso le porge. Ecco un' altra sua limitazione: ecco la seconda maniera di progresso, che è dato alla percezione: questa acquista un campo sempre maggiore, quanto maggiori sono le sensazioni, che le presentano la materia, ossia il termine della sua operazione. E l' oggetto percepito dal bambino la prima volta gli si varia d' innanzi al percepirlo, ch' egli fa altre e altre volte. Cioè, sebbene il bambino percepisca sempre quell' oggetto agente su di sè e producentevi la sensazione, tuttavia nol percepisce agente allo stesso modo nè allo stesso grado, nol percepisce producente la sola prima sensazione, ma altra e altre successivamente. Da principio adunque percepisce una semplice forza, che gli produce, poniamo, una data sensazione, per esempio, al tocco della mano; ma poi egli soffre molte e molte sensazioni, che gli discoprono molte azioni venienti da degli agenti da sè; diversi da sè; e poi anche infine trova (mediante l' identità dello spazio (1)) che tutte quelle sensazioni gli vengono da un agente unico, o che egli prende per unico, cioè da un corpo. Così da principio egli colle sensazioni del tatto, dell' odorato, dell' udito e del gusto percepirà altrettante forze e perciò enti diversi; ma ben presto egli verrà poscia accorgendosi e persuadendosi, che tutti quegli enti non sono, che un corpo solo, da cui tutte quelle azioni diverse su lui promanano, e così perfezionerà la sua percezione di quel corpo. Successivamente egli farà anche un altro lavoro col suo spirito, cioè metterà in armonia la vista col tatto. Da prima colla vista non percepirà se non un oggetto solo, una forza sola; conciossiachè tutti gli oggetti veduti sono insieme nel suo occhio, formanti una sola tavola variopinta. Ma ben presto mediante l' esercizio del tatto e dell' occhio associati imparerà a prendere i diversi colori, che nel suo spirito gli si presentano, siccome segni di soggetti distinti, non superficiali, ma solidi: e così viene a percepire coll' occhio, mediante un giudizio, i corpi esteriori. Le percezioni de' corpi esteriori adunque, che costituiscono il primo ordine d' intellezioni, si compiono mediante le seguenti operazioni dello spirito: 1 Lo spirito a ciascuna sensazione s' avvede dell' esistenza d' un agente, oggetto alla contemplazione dell' anima, nel che sta l' essenza della percezione intellettiva. 2 Lo spirito unisce molte sensazioni de' quattro sensi, il tatto, l' odorato, il gusto e l' udito, delle quali ciascuna separatamente l' avevano fatto accorto dell' esistenza d' un agente, in modo che già le attribuisce a un agente solo, comune fonte di esse: così percepisce il corpo, cioè si forma l' idea comune del corpo. 3 Lo spirito distingue nella sensazione unica della vista i diversi colori, che impara a riconoscere per segni di quei corpi stessi tattili, a cui già imparò a riferire molte sensazioni di diversi sensi. Questi sono lavori distinti dello spirito, ma il loro effetto è sempre la percezione intellettiva e perciò non costituiscono diversi ordini d' intellezioni, ma un ordine solo, il primo: è sempre la percezione stessa che lo spirito in tutti questi lavori ripete e migliora (1). Ma lo spirito rimanendosi dentro la sfera del primo ordine d' intellezioni fa ancora diversi altri lavori. E veramente la memoria imaginaria, che rimane nello spirito o si riproduce, delle sensazioni avute, non si può dire che appartenga a un altro ordine d' intellezioni, perchè non varia l' oggetto, il termine, la materia dell' operazione, ma solamente varia la potenza dello spirito operante intorno alla stessa materia. Poichè la percezione, di cui io mi ricordo o che in me riproduco coll' imaginazione, è sempre la stessa quanto al conoscere: io conosco con queste operazioni l' identico oggetto della mente, e non un altro. Parimenti l' associarsi di più percezioni, o memorie imaginarie di percezioni, è un lavoro, che non eccede il primo ordine d' intellezioni, quando trattasi d' una associazione di semplice coesistenza nello spirito, senza che l' intendimento operi alcuna analisi o sintesi tra esse. In terzo luogo gl' istinti e in generale tutta l' attività spontanea, che già si mette in moto nello spirito in conseguenza delle percezioni e delle loro memorie e imaginarie riproduzioni, sono operazioni, che non eccedono ancora i confini del primo ordine d' intellezioni, del primo stadio, in cui si trova l' umana intelligenza. In quarto luogo appartengono a questo stesso stadio ancora le idee specifiche piene, ma imperfette (1). Intendiamo per idee specifiche7piene7imperfette le cose stesse da noi percepite, considerate meramente come possibili, senza aggiungervi il pensiero della loro reale sussistenza. Se io ho percepito una melagrana, mi resta poi la memoria della mia percezione. La memoria della melagrana da me ieri veduta, toccata, assaporata, percepita intellettivamente è più che una semplice idea di essa; perocchè l' oggetto del mio pensiero non è semplicemente l' imagine di quella melagrana considerata come un tipo, una possibilità di melagrane; ma è quell' imagine riferita alla melagrana di ieri, è l' imagine propria di essa; io con quella memoria non penso solo all' imagine, ma penso alla cosa reale. Ma se io dimenticassi interamente la melagrana di ieri, e tuttavia contemplassi nella mia fantasia un' imagine di melagrana, imagine rimastami dalla percezione avutane, ma che io non riferisco più alla percezione, perocchè suppongo essermene del tutto dimenticato; in tal caso la imagine, che io contemplo col mio intendimento, non fa che rappresentarmi una melagrana possibile, non questa o quella, non alcuna melagrana reale. Or l' oggetto di un tal pensiero, che io fo, è un idea, che io chiamo specifica piena7imperfetta. Io chiamo quest' idea specifica , perchè non è legata ad alcun individuo reale, ma è tipo d' infiniti individui possibili: ella determina dunque una classe o specie d' individui. Chiamo quell' idea specifica7piena , perchè io suppongo, che ella conservi tutte le qualità, anche accidentali, della melagrana da me altre volte percepite, sicchè ella non è un' idea astratta, ma una idea che rappresenta individui forniti di tutte le loro particolarità. Finalmente chiamo quell' idea specifica7piena7imperfetta , perchè quel tipo non mi rappresenta la melagrana perfettissima, ma una melagrana, qual era quella che io ho percepita con tutti i suoi difetti o imperfezioni, che avesse potuto avere. Il passaggio, che fa l' intendimento dalla percezione all' idea specifica7piena7imperfetta, chiamasi universalizzazione . Questo passaggio è facilissimo; perocchè sono le percezioni atti dello spirito passaggeri, e però, tosto che l' oggetto vien sottratto al senso esterno, la percezione cessa. Nondimeno ella anche cessando lascia nello spirito umano due vestigi o effetti di sè: l' imagine della cosa percepita, la quale può essere suscitata nel senso nostro fantastico o da noi stessi o da accidente straniero, e la memoria della percezione avuta. I quali due effetti della percezione sono per se diversi, e quantunque fin a tanto che coesistono nello spirito si possa facilmente prender l' una per l' altra, tuttavia al cessar della memoria rimanendo l' imagine, o al cessar della imagine la memoria, o all' illanguidirsi dell' una più che dell' altra, si trovano nello spirito tra se separate. Molto più si separano e si distinguono, quando il fanciullo riceve delle altre percezioni della cosa stessa; perocchè allora l' imagine è la medesima, quando all' opposto ogni percezione ha la sua memoria distinta. Ancora, se il fanciullo riceve percezioni d' altre cose, ma similissime, come sarebbe d' altri aranci non distinguibili tra di loro se non per molta attenzione sulle piccole differenze, di cui il fanciullo nel primo tempo non cura, le memorie tuttavia si moltiplicano, e l' imagine è sempre una sola, alla quale si riscontrano gli oggetti. Per le quali cose facilissimamente avviene, che l' imagine nello spirito si distingua dalle memorie delle percezioni avute, nel quale stato di distinzione ella si fa tosto fondamento all' idea specifica piena imperfetta di cui parliamo, perocchè lo spirito vede incontanente e naturalmente nell' imagine da lui posseduta il ritratto d' una cosa non sussistente, ma possibile. Riassumendo adunque, alle intellezioni del primo ordine appartengono le percezioni, le memorie delle percezioni (le imagini da sè sole prese non sono intellezioni, ma sensazioni interiori), le idee specifiche imperfette aventi per base l' imagine, le associazioni varie di percezioni e memorie e idee specifiche imperfette, e finalmente gl' istinti e operazioni volontarie, che conseguono quel primo grado di sviluppo intellettivo. Il quale sviluppo intellettivo, quando poi comincia nel bambino? Non vi ha forse un istante di vita, nel quale il bambino non abbia delle sensazioni accidentali almeno interne (1), sensazioni che cominciano fin nell' utero materno? Ora s' accompagna egli l' operazione dell' intendimento a tutte le sensazioni, anche alle prime? Inclino a credere di no. Già dissi che le sensazioni semplici non traggono a sè l' attività dell' intendimento; la sensazione, che finisce in sè, è acquetamento piuttosto che suscitamento di nova attività. Quelle sole eccitano l' attenzione intellettiva, nel seno delle quali sorge il sentimento d' un bisogno , certo d' un bisogno d' altre sensazioni. Vero è che questi bisogni fisici, che eccitano l' attività intellettiva del bambino, devono sorgere assai presto, e con essi l' inquietudine e il tentativo di soddisfarli, il quale durerà anche esso qualche tempo prima di riuscire all' intento di chiamare in aiuto l' intelligenza, e io congetturo, che il momento nel quale l' intelligenza si apre alle sue operazioni sia segnato dal primo riso del fanciullo (1). Con questa ineffabile espressione della sua gioia, egli pare, che il bambino saluti l' alba del giorno, che a lui traluce. L' anima sua ragionevole rallegrasi della verità, che ritrova, e a se stringe quasi di slancio. Ah che il primo atto dell' intendimento deve pur essere all' anima umana un grande istante, un istante solenne, il sentimento d' una nova vita ed immensa, la scoperta della propria immortalità! E` egli possibile, che un avvenimento sì stupendo e sì repente nel bambino (quantunque l' adulto non possa formarsene alcuna idea) non si manifesti al di fuori con segni di esuberante letizia? Avete dunque ragione voi, o madri, che aspettate con sì gran desiderio, che provocate, che accogliete con sì gran tremito dei vostri visceri il primo sorridere dei vostri figliuoli. Ah! voi sole siete le interpreti veritiere di quella prima parola infantile, che in forma di riso si espande sulle labbra, e negli occhi, e in tutto il volto di quel piccolo essere intelligente; voi sole ne intendete il mistero; intendete che egli da quell' ora vi conosce, e vi parla; e voi, il primo oggetto dell' intelligenza umana, sapete voi sole rispondere a quel linguaggio d' amore, e rendervi, quasi direi, imagini e tipo della verità, che è intelligibile, e che luce per sè medesima (2). Laonde ammettendo questa conghiettura ne verrebbe che fino dalla prima infanzia del bambino dovrebbe distinguersi due età ben definite. I L' età dello sviluppo meramente sensitivo, che comincia dal primo esistere, e II L' età del primo grado di sviluppo intellettivo, che comincia dal primo riso del fanciullo. Nella prima età come non vi sono nel fanciullo che sentimenti e bisogni animali, così non vi è che un' attività animale (1). Quest' attività parte è congenita nell' animale, e io gli ho dato nome di istinto vitale nell' Opera che ho pubblicato col titolo d' « Antropologia », a cui mi convien rimettere il lettore, che abbia vaghezza di conoscere più addentro questa materia. Ivi anche vedrà come dall' istinto vitale nasca l' istinto sensuale , altro ramo dell' animale attività, di cui noi qui parliamo. Sarebbe difficile il definire se le prime operazioni dell' istinto sensuale comincino nell' utero materno, o appena che l' animale si trova al contatto dell' atmosfera, o qualche tempo dopo (1). Sembra per altro che forse il primo eccitamento a esercitare l' istinto sensuale nasca dal bisogno di nutrirsi (2). La respirazione, questa interna e lenta combustione, che comincia a farsi in lui appena uscito alla luce, consuma l' ossigeno e il carbonio, di cui ha bisogno il suo sangue; di che nasce in lui il bisogno di ripararne le perdite col cibo. Parimente le continue perdite che fa il suo corpo mediante la traspirazione, e altre separazioni, gli producono il bisogno di nutrizione. Il movimento de' labbri, co' quali egli s' attacca al seno materno, è dunque uno de' primi atti del suo istinto sensuale (3). L' istinto sensuale adunque ne' primi suoi atti è mosso dal dolore , anzichè tirato dal piacere, prendendo la parola dolore per ogni specie di molestia, per ogni penoso bisogno. I bisogni penosi rimangono sempre, anche in appresso, stimoli efficacissimi alle operazioni dell' istinto sensuale; ma ben presto questo istinto non è più nel suo primitivo stato; riceve delle modificazioni dalle esperienze che fa; chè, come ho già osservato (1), l' operare di una qualsiasi facoltà dell' uomo, oltre gli atti passaggeri, produce sempre dopo di essi un effetto stabile nell' uomo, uno stato e condizione nova, specialmente della facoltà usata. L' istinto sensuale adunque, che nel primo suo apparire non è mosso che dal dolore, ben tosto viene attratto anche dal piacere; il piacere diventa per lui un bisogno. Dopo dunque che il bambino si procacciò delle sensazioni coll' occasione di soddisfare ai più penosi suoi bisogni, e che trovò queste piacevoli (giacchè la natura benefica aggiunse per sopra più il piacere al soddisfacimento dei bisogni), cerca delle sensazioni per due motivi, per evitare la pena, e anche unicamente per godere. Da questi fonti nasce quel bisogno di sentire che accompagna poi l' uomo per tutta la sua vita, e che divien sì vario, potente e ben anco capriccioso e sregolato. Io ho già accennato che non poco sospetto, che vi abbia una comunicazione tra le anime stesse mediante le sensazioni. Questo sarebbe un fatto degno da verificarsi meglio colle più accurate osservazioni. In tanto mi sia lecito dir di più, sempre in via di conghiettura, che io inclino anche a credere, che non solo il soggetto insieme colle sensazioni, che riceve da una persona, provi un sentimento, che è effetto immediato dell' anima intelligente, che opera nelle sensazioni cagionate, ma che una simile comunicazione avvenga pure tra l' anime meramente sensitive. Quando il gatto giovanetto gioca colla pallottola di carta, o colla fettuccia appesa, io stento a credere, ch' egli vi cerchi solo il mutare delle sue sensazioni materiali, ma anzi sospetto, che egli istintivamente vi cerchi qualche cosa di animale, di vivo, di cosa che si muova da sè; e che egli invecchiando non gioca più, disingannato, perchè oggimai ha imparato a distinguere meglio ciò che è animato da ciò che è inanimato. Mad. Necker fa a questo proposito un' assai fina osservazione sui bambini: ella rende ragione appunto del perchè i bambini s' annoiino dei loro giocarelli, dicendo, che ciò nasce quando hanno esauriti tutti i nuovi aspetti e abbattimenti; giacchè fino che trovano casi nuovi par loro di vedere un moto spontaneo, un' anima nelle cose materiali; ma quando non possono cavar più niente di nuovo, allora la cosa a' lor occhi è morta, e non ha più niuno interesse (1). A questa stessa tendenza verso le cose animate si deve forse attribuire l' attrazione, che esercitano sopra certi animali le cose brillanti: dell' allodola dicesi, che s' appressa allo specchio, dell' usignuolo a tutto ciò che luce, e le gazze si sa che hanno l' istinto di rubare e di nascondere i gioielli (2). Ma lasciando questi ed altrettali fatti, nei quali gli animali s' ingannano nell' aspettar di trovare un animale in ciò che si muove, o che dà delle cangianti sensazioni, egli è indubitato, che vi ha tra gli animali della stessa specie una tutto speciale domestichezza somiglievole all' amicizia. Quanto piacer non provano a giocolar tra loro i cagnolini, i gatti, ecc.? Molti animali vi sono a mandre, a truppe, quasi famiglie e tribù e popoli. Tutto ciò che riguarda la convivenza per cagione della generazione e l' allevamento de' figliuoli pare, che supponga questo principio della comunicazione delle anime. Intanto si può mettere tra i fatti al tutto certi, che le sensazioni, che gli animali si cagionano tra loro, sono tali sensazioni, quali non possono avere da nessuno degli oggetti inanimati. L' affezione che i genitori di tutte le specie mostrano pei loro nati, è un istinto, che troverebbe facilmente la sua spiegazione nella supposizione, che ho avanzata. Una certa affinità sensuale si trova ben anche tra animali di specie diversa: il cane, il cavallo, l' elefante, ecc., prendono fra di loro una scambievole affezione: all' uomo poi si legano con stretti vincoli di domestichezza e fedele servitù molti animali. Al principio stesso di un' azione secreta, scambievole delle anime convien forse attribuire anche le avversioni, e inimicizie di certi animali verso cert' altri, come del gatto verso il topo, ecc.. Or poi data questa comunicazione delle anime sensitive, ella deve aver luogo anche nel fanciullo; ma non penso che ella giochi prima della comunicazione dell' anima intellettiva: nel primo riso adunque parmi, che l' una e l' altra incominci. Un altro principio d' operare appartenente alla sola animalità (benchè un somigliante principio si trovi poi anche nell' ordine dell' intelligenza) si è quello dell' imitazione. Noi crediamo d' averne data sufficiente spiegazione (1). Solo qui aggiungeremo, che i sentimenti animastici (2) rendono ancora più facile e chiara la data spiegazione: l' un' anima sente la sua compagna in un dato stato, a ragion d' esempio in quello di gioia (3): dalla naturale benevolenza nasce la simpatia, cioè il comporsi ai medesimi sentimenti: dalla simpatia l' istinto d' imitazione . La simpatia in tal caso è la operazione passiva, l' imitazione la sua attiva corrispondente. Fra i piaceri, che prova l' animale, e di cui ben presto diviene avido, ci ha quello dell' agire . L' attività porta molti speciali piaceri fisici, giacchè il solo acceleramento della circolazione sanguigna accresce la vita e il suo sentimento. Ma oltre i parziali piaceri fisici, che tengono dietro all' azione conveniente, vi ha un piacere inerente all' azione stessa; perocchè a chi più opera, par di più vivere. Laonde il piacere d' agire nasce e cresce dall' esperienza fino a un certo grado nell' animale, e diviene alle occasioni uno dei principii de' suoi movimenti. Finalmente anche le potenze animali si vestono dell' abitudine . La natura fisica è piena di ordine, ma quest' ordine stesso subisce alcune modificazioni in conseguenza delle abitudini. L' abitudine oltre di ciò facilita certe operazioni e le rende più piacevoli a chi le fa; rende per conseguenza più molesta l' interruzione o la privazione di esse; quindi nascono de' gusti e degli istinti d' abitudine, che in questa maniera diviene nell' animale e nell' infante un nuovo principio di attività. Riassumendo adunque quelle attività del fanciullo, che appartengono all' ordine dell' animalità, esse sono le seguenti: 1 l' istinto nascente dal bisogno di evitare uno stato doloroso; questo è l' istinto nel suo stato primitivo (1); 2 l' istinto nascente dal bisogno di sentire semplicemente e di godere sensazioni piacevoli; 3 l' istinto verso le cose animate, onde si genera la simpatia ; 4 l' istinto d' imitazione nascente dalla simpatia; 5 l' istinto e bisogno di agire semplicemente pel piacere, che trova nell' esercitare le sue forze; 6 l' abitudine. Nella seconda età l' intelligenza comincia il suo movimento: le percezioni e le idee imaginali si formano: e quindi una nuova attività si deve sviluppare: perocchè da ogni passività, l' abbiam detto tante volte, nasce nell' uomo un' attività: dall' intendere dunque deve scaturire un' attività razionale, il moto della volontà. Il primo moto della volontà consiste in quelle volizioni, che abbiamo dette affettive (2), in cui il soggetto sensitivo e volitivo vuole l' oggetto percepito senz' averlo giudicato bono, ma solamente per averlo sentito piacevole: volizioni misteriose e altrettanto difficili a ben intendersi, quanto è difficile la percezione intellettiva. Ma quantunque sappiamo, che pochi sieno quelli, che si formino un chiaro concetto di questa maniera di volizioni, e molti quelli, che sono presti a negarcene l' esistenza; tuttavia noi siamo costretti ad ammetterle appellando a que' pochi, che meditando penetreranno la natura di quelle volizioni, e della loro verace esistenza non dubiteranno. Ora si osservi, che coll' apparire l' attività intellettuale non cessa l' attività sensuale, ma lo sviluppo del fanciullo si complica, e si rende assai più difficile a descriversi per la mutua influenza delle operazioni sensuali e intellettive e per la moltiplicità de' loro atti. Ciò non ostante dobbiamo tentare una breve descrizione di ciò, che avviene nell' uomo in questa sua seconda età. Nell' età prima le prime sensazioni furono di cose inanimate e solamente più tardi ebbe il bambino i sentimenti animastici, di cui abbiamo parlato. Ma nella seconda età, in cui si mette in movimento l' intelligenza avviene l' opposto: il primo passo della facoltà conoscitiva sembra quello, come abbiamo detto, che reca l' uomo a percepire cose animate: percepisce l' anima della madre sul suo volto, e tosto simigliantemente nell' altre cose tutte cerca la vita e l' anima: di maniera che è da credere, che ben tardi il bambino giunga a persuadersi a pieno di questa gran maraviglia, che esistano degli enti inanimati (1). Ora come le sensazioni animastiche producono di lor natura nel bambino l' affezione fisica , e quindi la simpatia; così le percezioni animastiche eccitano immediatamente la benevolenza , che è già una volizione affettiva abituale ed incipiente. Infatti la benevolenza, questo affetto razionale, non si può concepire se non si suppone un essere animato, verso cui si eserciti: perocchè tutto ciò che è inanimato, se veramente lo concepiamo per tale e non associamo al suo concetto imaginariamente qualche elemento di vita, ci può ben essere caro per l' utilità, ma non possiamo amarlo o avergli quell' affetto, che benevolenza si chiama. Ora il bambino pieno di affetto e di benevolenza la trasfonde per così dire verso tutte le cose, e questo è nuova prova di ciò, che dicevamo parere a lui le cose tutte vive e intelligenti. Quando la fanciullina slanciatasi al collo della madre, dopo averla baciata con mille carezze se ne parte e va a baciare e carezzare la tavola o la scranna, ella non accarezza certo questi esseri come inanimati, ma più tosto versa in essi per così dire quell' affetto che ha verso alle cose animate senza fermarsi a considerare che quelle animate non sono. Sì, l' amore della creatura senziente e ragionevole suppone per la sua essenza un oggetto pure senziente e ragionevole, sia questo vero o creduto tale. Ecco quali sieno le prime volizioni affettive. E come la natura pose prima l' affezione sensitiva qual disposizione e principio dell' affezione intellettiva che sola è vero amore; così a fine di disporre l' affezione sensitiva pose nel tenero fanciullo una fisica giocondità degli organi riboccanti di vita, e colmi, per così dire, di piacere, quale disposizione acconcissima all' affezione sensitiva. Laonde tutto si lega e dà mano al mirabilissimo congegno della creatura umana. L' anima sensitiva già piena di dolcezza è convenevolmente disposta a ben sentire un' altra anima pure sensitiva ed affezionarvisi, nell' uomo quella naturale affezione è tosto ritrovata dalla volontà, la quale se ne compiace, e vi genera quasi in proprio nido l' amore, fonte d' altra gioia razionale, che alla primitiva animale si mesce, e con dolce circolo via meglio dispone l' uomo ad affezionarsi e ad amare (1). Certo a questi primi albori dell' intelligenza umana non v' ha nell' uomo nè merito, nè libertà, nè coscienza. Ma chi, attentamente considerando, potrà disconoscere, che vi ha già una moralità? Che cosa è la moralità se non l' atto o l' atteggiamento di una volontà intelligente verso degli esseri pure intelligenti? Se la volontà dà il suo affetto a questi esseri, cioè li ama quanto essi esigono, ella è certamente buona; ma se piglia verso ad essi un contegno di avversione e di odio, ella è cattiva. Le osservazioni adunque sulla naturale benevolenza de' bambini confermano quanto ho affermato nel « Trattato della Coscienza » sull' esistenza d' una moralità anteriore alla coscienza, come pure le teorie ivi esposte illuminano mirabilmente quanto si ritrae dal diligente osservare ciò che avviene nell' età prime. Ma vi ha di più. All' età propria delle volizioni affettive si può assegnare lo spazio di sei mesi. Dopo questa età sembra che nasca un vero giudizio sulla bontà delle cose, il quale dà luogo incontanente alle volizioni apprezzative (1). Egli è difficile a conoscere quando il fanciullo pronunzi un vero giudizio interno trattandosi di cose piacevoli fisicamente ai suoi sensi, perchè essendogli questo piacere comunicato dai sensi stessi, non vi ha necessità d' una operazione dell' intendimento per metterlo in atto. Ma trattandosi di un diletto che nasce da una cosa intesa, egli è uopo che intervenga un' operazione dello intelletto, acciocchè quel diletto si manifesti. Ora dopo sei o sette mesi si rileva già nel fanciullo l' ammirazione verso le cose belle , e però indubitatamente il suo intelletto apprezza le cose in sè, e la sua volontà dietro a un tale apprezzamento fa delle volizioni che apprezzative nominiamo. In questo caso fa una nuova comparsa la moralità , e propriamente qui comincia la stima pratica degli oggetti distinta dalla percezione verso di essi; mentre nelle volizioni affettive la stima pratica era colla prima percezione immedesimata (2). Qui splende anche il disinteresse, che accompagna sempre una stima pratica, che ha per suo regolo la giustizia. Ma veggiamo tutto ciò ne' fatti, e chi ce li raccoglie e testimonia sia la benemerita autrice dell' « Educazione progressiva » che abbiamo più volte citata, e a cui molte altre volte ricorreremo per attignervi e osservazioni diligenti e riflessioni assennate. [...OMISSIS...] Il Cristianesimo accoglie tra le sue braccia amorose il bambino, che entra in questo mondo, e chiude pietosamente gli occhi suoi, quando ne esce. Consolanti non meno che saluberrimi dogmi della Chiesa Cattolica sono i seguenti: 1 GESU` Cristo salva gli uomini mediante una occulta potenza, che esercita sul loro spirito, e che lo ammigliora, la quale si chiama grazia ; 2 Questa grazia fu annessa a certi riti esteriori, di cui è depositaria la Chiesa Cattolica, i quali si chiamano Sacramenti ; 3 Il primo di questi Sacramenti è il battesimo, nel quale l' uomo viene rigenerato , cioè riceve il principio d' una vita morale d' un ordine superiore o sia soprannaturale; 4 La Chiesa Cattolica, oltre la potestà di amministrare questi Sacramenti, ha quella altresì di benedire cose e persone, aggiungendo Dio alle benedizioni della Chiesa le benedizioni proprie, cioè delle grazie e dei favori; 5 La Chiesa prega ne' suoi membri, quando questi in comunione colla Chiesa pregano secondo lo spirito della Chiesa, e tali orazioni sono efficaci; 6 Dio ascolta sempre le preghiere ed accoglie le offerte fatte dagli uomini di buona volontà. Posti questi preziosi dogmi, ne viene, che, se il bambino nelle due prime età non è ancora atto a fare da sè atti di religione, è però ufficio de' suoi genitori il fare molti atti religiosi per lui, derivando da Dio al loro fanciullo, già rinato col battesimo, grazie sempre maggiori, valendosi de' beneficii ed aiuti lasciati agli uomini in terra dal Salvatore. La Religione adunque previene il fanciullo, fa per lui molto, prima che egli possa far nulla per essa. Felici i genitori ricchi di fede! Felice il bambino che cotali gli ha sortiti! Comunemente si crede, che il fanciullo abbia una volontà debole, come la sua natura fisica, e che coll' età si fortifichi l' uso della sua propria volontà. Questa opinione nasce, perchè si considera l' uso libero della volontà, il quale manca da prima interamente nel fanciullo, e quando ha in lui avuto cominciamento esso va stendendosi a gradi: sicchè la libertà sottomette o può sottomettere al suo impero un circolo ognor maggiore di cose. All' incontro nel bambino la volontà opera spontaneamente ed è di questi atti spontanei della volontà, che noi diciamo essere essi più forti, cioè più decisi ed abbandonati nel fanciullo, che in uomo già sviluppato. [...OMISSIS...] Noi non possiamo misurare il grado d' intensità de' piaceri e de' voleri del bambino, perchè la misura di ciò, che proviamo, è la nostra coscienza, la quale non è formata nel bambino; e ci riesce estremamente difficile l' intendere quel misterioso stato di un essere, nel quale vi sia dolore e piacere e niuno conoscimento, niuna coscienza di essi. Pure tale è il modo di essere delle bestie, e molte volte è anco il modo d' essere del sentimento umano (2). Le ragioni poi ond' è che i sentimenti, le volizioni affettive de' bambini sono caldissimi e impetuosissimi, sono due: la prima si è, che gli oggetti di tali volizioni sono semplici, onde la volontà tutta con quanto ha di forza si butta in essi. Già ho osservato, che di natura sua la volontà è infinitamente suscettiva e mobile: or di più aggiungo, che è di una grandissima violenza fornita ove le sue forze non sieno divise e distratte in più oggetti, e questi la tirino a movimenti contrarŒ in modo, che si collidano. Questo dà ancora ragione del perchè la plebe si muova di più impeto che le persone coltivate: massimamente i sentimenti dei contadini, quando pur insorgono in essi, li ho osservati oltremodo forti, o siano essi dolorosi, ovvero aggradevoli. Lo stesso carattere di volizioni decise e calde si manifesta ne' popoli antichi: è in essi vita, entusiasmo, passione appunto alla similitudine de' fanciulli. La seconda ragione della vivezza degli affetti e volizioni fanciullesche si è, che elle si portano immediatamente nell' oggetto percepito; quando gli adulti concepiscono gli oggetti astrattamente e fanno, per così dire, passare l' atto della volontà per una lunga serie di idee generali prima, che pervenga a coglier l' oggetto. Ma mi riserbo altrove lo sviluppare questa ragione degna di essere meditata. Vero è che i sentimenti e le volizioni prime ed ardenti, che dimostrano i bambini, sono facilmente rimutabili nelle contrarie: ma questo non prova, che non sieno vivaci; prova solo, che son celeri, e che la natura de' loro oggetti, per lo più tenui e leggeri, non permette loro una durata consistente, come quella che è labile e volubile. Se dunque il sentimento e la volizione del fanciullo ha tanto più d' intensità e di pienezza, quant' è minore lo sviluppo del suo intendimento, volendo allora il fanciullo con tutto se stesso, tutto il nerbo del suo volere applicando a pochi e semplicissimi oggetti; egli è manifesto, che le madri debbono cavar profitto di questa condizione dell' animo infantile, occupandosi nelle prime età assai più di educare il sentimento e la volontà che la ragione. Conviene dunque fare in modo che l' animo del bambino si empisca per tempo di quella benevolenza, alla quale è sì felicemente formato da natura. Questa benevolenza, quest' affetto universale nasce, come ho toccato, in seno alla giocondità e alla gioia, che si convien mantenere il più che si può nell' animo del bambolino (1). La qual gioia poi non dee essere procellosa, ma calma, abituale e serena. Il conservare la serenità nel fanciullo non giova solamente a formare il suo animo alla dolcezza ed alla benevolenza; ma ben ancora ai progressi del suo intendimento; il quale non può fare le sue operazioni in modo ben ordinato e perfetto, se non si trovi in uno stato sereno e tranquillo, in cui solo il fanciullo può raccogliere la sua attenzione. Il qual documento è tanto più rilevante, quanto più facilmente il fanciullo è soggetto alla distrazione cioè alla mobilità estrema de' suoi organi, de' suoi sentimenti e de' suoi pensieri. Ottimamente osserva M. Necker, [...OMISSIS...] . Le maraviglie della forza unitiva nell' animale, di questo agente che nascendo dall' unità del soggetto produce degli effetti, che emulano quelli della ragione, furono da noi descritte nell' « Antropologia ». Una delle proprietà di questa forza si è quella di far giocare contemporaneamente più potenze nell' animale, passive ed attive, e averne un risultamento unico: tali sono i prodotti dell' istinto di simpatia, di quello d' imitazione e d' altre animali operazioni, nelle quali il moltiplice vedesi ridotto ad unità, l' esteso ad una mirabile semplicità: quindi tutto ciò che sente ed opera l' animale in ciascun istante è mirabilmente ordinato: egli sente ed opera moltissime cose, che per lui sono una cosa sola. Or egli è vero che anche le operazioni dell' intendimento umano ricevono dall' unità perfetta del soggetto sensitivo7intellettivo una loro unità: egli è vero che la forza unitiva domina non meno nell' ordine del senso che in quello dell' intelligenza; anzi ella di questi due ordini ne fa un solo, appunto perchè è forza di un soggetto, nel quale il sentire e l' intendere ugualmente hanno la loro origine. Ma tra quelle operazioni dell' animale e queste dell' intelligente vi ha una gran differenza: quelle avendo l' unità soggettiva hanno tutto ciò che possono avere: queste all' incontro esigono di più un' unità oggettiva , nè senza questa si possono dire ordinate ed unite. La ragione di questa differenza si è che l' ordine animale non si riferisce ad alcun oggetto, e quando le operazioni sono unificate, tutto è unificato. Ma l' ordine intellettivo non consiste in mere operazioni, ma nel possesso di oggetti non solo estranei al soggetto, ma contrapposti al soggetto. Non basta dunque che le operazioni intellettive sieno unificate: l' unità che si domanda è quella de' loro oggetti; e questi nella seconda età del fanciullo sono del tutto slegati per se stessi; giacchè il fanciullo non pensò ancora i rapporti che hanno fra loro: e da' quali vengono uniti e armonizzati. Questa sembrami una di quelle osservazioni che non si debbono trascurare, perchè possono dare non poco lume a chi dirige l' educazione del bambino. L' importanza sua si vedrà, ove si voglia considerare qual sia l' istruzione che solo si può dare al fanciullo nella sua seconda età, e che corrisponde al primo ordine delle sue intellezioni. Ma prima di trattare di questa così elementare istruzione, giova che osservi qui una volta per sempre, che quand' io cerco la qualità d' istruzione che può darsi al fanciullo rispondente al primo ordine d' intellezioni, non intendo d' affermare, col proporre un tal quesito, che quest' istruzione gli si deva dare solo in quel breve periodo, nel quale le intellezioni di primo ordine da se stesse si sviluppano. Intendo solo di stabilire qual sia quella istruzione che si può dare sicuramente in ogni tempo della vita, perchè non chiede nelle facoltà intellettive che il primo grado di sviluppo. Così si deve pure avvertire degli ordini superiori. L' istruzione di un ordine qualsiasi è sempre opportuna nelle età superiori ed è solo inopportuna nelle età inferiori. Dico dunque che alle intellezioni di primo ordine sconnesse risponde l' osservazione sensibile7esteriore sconnessa anch' essa: osservazione pura senza alcuna giunta di ragionamento. L' istruzione di primo ordine consiste adunque nel fare osservare al fanciullo co' suoi propri sensi gli oggetti esterni, e nel fargliene prendere degli sperimenti . Ecco un grande scopo: seguendo la stessa natura formare del fanciullo un osservatore e uno sperimentatore : dirigere soavemente, costantemente, sagacemente la sua attenzione senza però mai forzarla o contrariarla. E` la natura, che conduce il bambino a osservar tutto, a far prove e sperimenti su tutto; ma tutte queste prove e le percezioni che ne riceve sono tra loro slegate, disordinate. Il primo ufficio dunque dell' arte dell' educare consiste: nel « regolare le osservazioni e gli sperimenti fanciulleschi ». Queste osservazioni e questi sperimenti conducono il fanciullo a percepire e a perfezionare le sue percezioni. La percezione, che dalla natura è stata messa a fondamento di tutta la gran piramide dell' umano sapere, dev' essere anche quella che costituisce il fondamento di tutta l' umana educazione. Ora la percezione, l' abbiamo detto, si perfeziona in ragione del numero delle sensazioni, che l' uomo ha dal medesimo oggetto, della vivezza di queste sensazioni, del loro ordine e della loro associazione, e sopra tutto dell' attenzione, che lo spirito pone alle medesime e nelle più minute parti degli oggetti. Ecco un vasto campo, in cui si dee esercitare il fanciullo, campo che non eccede tuttavia il primo gradino dell' insegnamento. Avendosi già nella sfera dell' animalità qualche cosa di complesso e di legato, la natura, che prepara questa materia così bene ordinata all' intendimento infantile, insegna già all' educatore a far presto quello che dee fare: questi dee imitar la natura. Ma quanta pazienza e quanto senno non esige tutto ciò nell' educatore! Esige, che l' adulto s' inchini a quelle cose che per lui non hanno più interesse, ma che pur ne ripiglieranno un nuovo e grandissimo, s' egli avrà cuore e mente. Questa è la dote, che manca nella maggior parte degli educatori; onde di mal animo s' inducono ad accompagnarsi alle operazioni e sperienze fanciullesche; ed anzi sturbano spesso il fanciullo innocente nel suo lavoro di un placido osservare e sperimentare (perchè a osservare e sperimentare si riducono veramente tutti i giocarelli e movimenti fanciulleschi e il gusto che il fanciullo ne prende): essi non ne intendono la sapienza; e vorrebbero occupare il bambino in altre operazioni proprie di sè adulti, nelle quali essi trovassero pur piacere ed importanza. Al qual proposito molte volte io ho considerato e domandato meco stesso, perchè il divino Maestro non abbia mai nulla ripreso nei bambini, e anzi per così dir tutto lodato, quando alla severità de' savi umani sembra pure quella prima età piena di leggerezza, e vuota di serie occupazioni. Non pare, che tale la giudicasse Gesù Cristo. Anzi egli sembra che questi vedesse nelle esercitazioni fanciullesche tutt' altro che un perditempo, un far nulla; ma più tosto un' attività grandissima del loro intendimento, avido, aspirante a conoscere, ad abbracciarsi col vero, un' avidità, per la quale « « l' anima semplicetta che sa nulla » » e che è pur fatta per sapere, buttasi con impeto sul mondo sensibile, per rapirne ovechessia cognizioni e notizie, incessantemente osservando, e in mille maniere esperimentando questi e quegli oggetti, quanti pe' sensi gli si presentano (1). Convien dunque con una somma pazienza farsi compagno al fanciullo in questo gravissimo e continuo studio dell' innocente sua età; ed aiutarlo in esso regolandolo. Non è mio intendimento di determinar qui quale potrebbe esser l' ordine , nel quale venissero posti sotto i sensi al fanciullo gli oggetti sensibili; mi basta di osservare che è buono studiarsi un ordine, e che da un ordine, e più ancora da un ordine buono posto dalla sapienza dell' educatore nelle percezioni del fanciullo, se n' avrebbe di buone conseguenze, le quali preludessero e accelerassero il suo futuro sviluppo. Toccherò solo d' alcuni avvisi, i quali mi sembrano poter dare buono indirizzo a' savi educatori ed educatrici della prima età del fanciullo. Il primo si è di porre, al possibile, regolarità nella vita del bambino. [...OMISSIS...] Or questa regolarità di vita continua ad essere sommamente vantaggiosa anche nelle seguenti età dell' infanzia. Al fanciulletto convien certamente dare in abbondanza oggetti da vedere, da toccare, da farvi intorno prove, esperimenti, in una parola da percepire, e da percepir sempre meglio. Ora a ciò si scelgano quelli che più attraggono la sua attenzione, cioè gli oggetti che possono soddisfare i suoi bisogni, le sue voglie, dargli piacere: perciocchè son questi gli stimoli della sua attenzione. Ancora gioverà di presentare al fanciullo degli oggetti semplici, regolari e ordinati, facendogli vedere per esempio i sette colori della luce l' uno dopo l' altro, come pure il bianco ed il nero, e ancor meglio i colori armonici, nel succedersi dei quali egli troverà gran piacere (2), facendogli parimente udire i sette suoni, prima da sè l' un dopo l' altro, poi gradatamente ne' loro salti armonici e ne' loro accordi; per trastullarsi poi dandogli de' solidi regolari, alle cui forme e misure proporzionate egli avvezzi l' occhio e la mano, e le si scolpiscano nell' imaginazione, ecc.. Dopo di ciò, ma molto dopo, si potrebbe avvezzare il bambino a più colori, a più suoni, a più figure armonicamente disposte; ma sempre gradatamente, non passando ad un altro gioco, se non quando comincia a mostrar noia del primo. Chi non vede che ricevendo nel suo spirito tante imagini ben ordinate, queste, oltre altri vantaggi, prestar debbano acconcia materia alle sue future riflessioni, e agevolare le operazioni intellettive ch' egli è chiamato a fare in appresso? Senonchè il suo animo stesso ne risentirebbe uno squisito vantaggio morale, conformandosi insensibilmente all' ordine ed educandosi al bello. L' intelligenza del fanciullo si apre col riso che segna il principio della seconda età. Come l' opera della prima età del bambino era quella di svegliarsi alla vita e di trarre in comunicazione i propri sensi cogli stimoli e corpi stranieri al proprio; così l' opera che il bambino dovette compiere nella seconda età, si fu quella, quanto all' ordine sensibile, di mettere in armonia le sensazioni del tatto con quelle della vista, e quanto all' ordine intelligibile di dare il primo movimento all' intendimento, mediante le percezioni e le idee imaginali. Egli non arriva ad apprender interamente l' uso della mano e a regolare i movimenti di essa in conformità delle cose vedute, se non in otto mesi all' incirca; ed ha già quasi un anno, allorquando si fa a ciampicare i primi passi ed a balbutire i primi suoni articolati, che sono segni d' una età nuova che gli spunta insieme col secondo anno di sua esistenza. Gli comincia dunque la terza età col linguaggio: l' apprendimento de' segni delle cose è veramente un nuovo e gran passo dell' umana intelligenza: la prima parola che intende e che pronuncia il fanciullo, è un' epoca importante di tutta la sua vita: di questa età sono proprie le intellezioni di second' ordine. Prima di entrare a parlare di queste, io voglio anche qui avere avvertito che, come l' istruzione che appartiene al primo ordine non dee cessare collo spirare della seconda età, ma continuarsi in progresso; così simigliantemente l' istruzione del second' ordine, benchè propria della terza età, riesce sempre utile, e talora necessaria in tutte le età successive. Quando l' attenzione del fanciullo si volge a contemplare le intellezioni del primo ordine ch' egli s' è già procacciate mediante lo sviluppo della prima età, i pensieri che nascono da questa contemplazione si chiamano intellezioni di second' ordine. Le intellezioni del second' ordine sono i rapporti che passano tra le intellezioni del primo ordine. Ma si noti bene, questi sono i rapporti primi e immediati, non già i rapporti de' rapporti. Per conoscere adunque quali sieno le intellezioni del second' ordine, tutta la difficoltà consiste nel ben distinguere quali sieno i rapporti immediati tra le prime intellezioni, separando questi rapporti da tutti quelli che si trovano da poi tra i rapporti primitivi. Conviene adunque osservare che non tutte le intellezioni, che il fanciullo si procaccia nella terza età, sono intellezioni di second' ordine; perocchè sebbene sia impossibile ch' egli si procacci delle intellezioni proprie delle età avvenire, tuttavia è possibile ch' egli si formi di quelle che appartengono alla età precedente. Ch' egli non possa formarsi delle intellezioni proprie delle età avvenire è tanto chiaro, quanto è chiaro ch' egli non può pensare a que' pensieri ch' egli non ha formati; e quant' è chiaro perciò, che le intellezioni di second' ordine non possano in nessuna maniera aver luogo nel fanciullo, che non ha quelle di prim' ordine; perocchè quelle non sono che il pensiero di queste. Che poi durante la terza età si possa formare delle intellezioni proprie dell' età precedente, ed anzi ch' egli le si formi effettivamente, s' intende, quando si abbia fermato chiaramente questo principio, che « l' attività dell' uomo non si muove se non eccitata da stimoli, e solo in tanto, e non più, in quanto questi hanno la potenza di eccitarla ». Di qui avviene, che di ogni passo dello sviluppo intellettivo si dee cercare una ragion sufficiente non già nella supposta attività interiore del fanciullo, ma in un eccitante esteriore. Io ho dimostrato nell' Ideologia essere un errore quello di alcuni, che imaginano esistere nel bambino una attività atta a fare tutto ciò, a cui si estendono le potenze del bambino. Questi non osservano la natura, ma la inventano. A provare quanto sia gratuita la loro supposizione basta il fatto seguente. Di tutte le potenze che si mettono in movimento nell' infanzia, la più attiva di tutte è quella dell' imaginazione. Se vi potesse esser dunque potenza, a cui dovessimo attribuire un movimento indipendente dagli stimoli, sarebbe fuor di dubbio l' imaginazione. Ora il fatto di cui parlo prova il contrario; cioè dimostra costantemente, che l' imaginazione infantile tanto suscettiva alle impressioni è inetta a inventare da sè stessa. [...OMISSIS...] Ora gli stimoli, che eccitano l' attività intellettiva nella prima età, abbiam detto, che non sono altro che i primi bisogni fisici i quali danno moto a tutta l' attività dell' uomo per averne aiuto a soddisfarsi e però muovere anco a ciò l' attività intellettiva, che fa allora quel primo passo, che solo può fare. Ora poi que' bisogni son pochi e soddisfatti nient' altro esigono; onde quelli non ispingono l' intendimento umano a tutte le percezioni ed idee imaginali ecc., che aver potrebbe, ma solo alle necessarie. A ragion d' esempio il sentimento fondamentale e l' idea dell' essere in universale è una materia all' attenzione intellettiva che non manca mai; e pure l' attenzione intellettiva non si porta su quella materia, quando anzi la meditazione, che l' uomo fa sopra il sentimento fondamentale e sopra l' essere in universale, è delle ultime, e come si suol dire delle più difficili. Onde ciò? Non certo perchè considerate le riflessioni da sè l' una sia più difficile a farsi dell' altra: chè non v' è ragione a dir ciò. Ma l' uom riflette tardissimo a questi oggetti, perchè tardissimo ne ha lo stimolo: niente per lungo tempo a ciò lo muove, niun bisogno ne ha, niun desiderio, e non farà mai operazione alcuna senza ragione sufficiente. Ho già osservato altrove (2) che quando l' uomo riflette sopra le riflessioni precedenti, l' atto del riflettere può cadere sopra due cose diverse, cioè sopra gli oggetti conosciuti colle precedenti riflessioni, o sopra le intellezioni stesse, cioè le operazioni dello spirito. Ogni intellezione adunque presta una doppia materia alle riflessioni susseguenti, gli oggetti conosciuti e gli atti, con cui si sono conosciuti. Ora sebbene questa materia sia data al nostro spirito nello stesso tempo, tuttavia le riflessioni, che fa lo spirito sopra gli oggetti conosciuti, sembrano molto più facili, e si fanno molto prima delle riflessioni dello spirito sopra gli atti, co' quali si sono conosciuti. Insomma lo spirito riflette piuttosto sulle proprie cognizioni, che non sopra se stesso conoscente, e sopra i suoi atti conoscitivi. La ragione di ciò è quella che dicevamo: a lui si presentano più presto e più efficaci gli stimoli, che traggono a riflettere sugli oggetti da lui conosciuti, che non siano gli stimoli che rivolgano la sua attenzione sopra se stesso e i suoi atti. Ora non può toccare la sua perfezione il metodo pedagogico, finattantochè non si avrà diligentemente determinato quali intellezioni competano alle età diverse del fanciullo per cagione, che in quella età sola esse hanno la materia e lo stimolo necessario a produrle; e quali intellezioni parimenti competano alle età diverse, per ragione che in quella sola età esse hanno lo stimolo necessario a produrle, quantunque la materia l' avessero già anche in età precedente. Sono adunque due gli sviluppi delle intellezioni umane. Alcune non si formano prima, perchè prima manca loro la materia . Alcune non si formano prima, perchè manca allo spirito lo stimolo , ond' egli non volge la sua attenzione alla materia, che pur avrebbe, e però non le forma. Quelle, a cui manca la materia , sono del tutto impossibili a formarsi. Quelle, a cui manca lo stimolo , non sono veramente impossibili, ma tuttavia non si formano per l' assenza dello stimolo. Il metodo pedagogico sarà dunque perfetto solo allora che: 1 Non esigerà mai, che il fanciullo faccia delle intellezioni prima d' avergliene dato la materia . 2 Non esigerà mai che il fanciullo faccia delle intellezioni, alle quali gli manca lo stimolo . Le materie vengono date successivamente, e questa successione è quella, che forma gli ordini diversi delle intellezioni. Gli stimoli pure vengono dati successivamente, e sono quelli che rendono possibili in ciascun ordine quelle intellezioni, di cui il fanciullo ha già la materia. Ma già ritorniamo a considerare le intellezioni del second' ordine, e prima dimandiamo quale sia lo stimolo, che muove ad esse l' attenzione umana. Riman dunque ancora ad acquistarsi dall' uomo dopo la prima età un gran numero delle intellezioni del primo ordine, le quali egli acquista nelle età succedenti. Onde molte intellezioni, che nella seconda età si sollevano nella umana mente, sono ancora di quelle di primo ordine. Lo stimolo e l' aiuto, onde l' attività dell' intendimento umano passa a formare le intellezioni del second' ordine, è il linguaggio o vocale o composto d' altri segni quali si vogliano. Conviene attendere alla natura di questo stimolo. Acciocchè l' intendimento umano passasse dalle intellezioni di primo ordine a quelle di second' ordine, non basta mica ch' egli torni a mettere l' attenzione su quelle prime; per quante volte egli pensasse alle intellezioni avute, egli non formerebbe delle intellezioni nuove, ma solo risveglierebbe la memoria delle anteriori; se nuovamente contemplandole non traesse delle altre cognizioni, in una parola, se non venisse a conoscere i rapporti , che hanno tra esse; i quali rapporti non poteva scorgerli nel primo ordine d' intellezioni. Ora il linguaggio, che il fanciullo ode dalla società, fa appunto questo: 1 Muove l' intendimento umano a riflettere sulle prime intellezioni; 2 E riflettendo a cavarne cognizioni nuove, cioè le cognizioni di rapporti, che legano insieme le cose conosciute nel primo ordine, le quali cognizioni de' rapporti sono appunto le intellezioni di second' ordine. Noi dobbiamo vedere brevemente, onde venga al linguaggio tanta efficacia. Convien premettere che vi hanno delle predisposizioni nella natura, che inclina l' uomo a parlare. Tutto ciò, che passa nel sentimento dell' uomo, dà un cotal guizzo agli organi della voce, che porta l' uomo, e l' animale in genere, a mandar fuori istintivamente de' suoni. Ma le cognizioni danno all' uomo de' sentimenti, e le voci, che questi producono, sono quelle, che formano la materia del linguaggio (1). Il produrre adunque dei suoni di seguito alle cognizioni è una necessità naturale, un bisogno per l' uomo, quantunque questi suoni non siano ancora linguaggio, come diceva, ma solo materia al linguaggio. Un' altra predisposizione al linguaggio posta dalla natura nell' uomo si è la simpatia e l' istinto d' imitazione (2), onde egli è inclinato a ripetere i suoni uditi; inclinazione, che in grado minore trovasi pure in molti animali (3). Ripetere però i suoni uditi non è ancora parlare, ma solo eseguire la parte materiale del linguaggio. Una terza predisposizione al linguaggio nasce dallo sviluppo intellettivo, che ebbe il bambino durante il breve tempo della sua seconda età. Sono stati i bisogni fisici, che trassero all' atto, come abbiam veduto, l' intendimento, invocandolo qual ausiliare al soddisfacimento delle loro tendenze. L' intendimento accorse, fece tutto quello, che egli potè, e non potè far di più che percepire, universalizzare (4), e volere le cose percepite. Ora i bisogni continuano, e provocano di continuo l' aiuto dell' intendimento: egli è sempre in atteggiamento di far quanto può in lor soccorso, e può far più di prima. Anco nell' ordine unicamente animale, per la forza sintetica (1), l' uomo cerca d' aiutarsi con tutto ciò, che gli sta da presso, cose e persone, fonti a lui di sensazioni. L' uomo adunque volgendo l' attenzione sua intellettiva a tutte le cose sensibili, che lo circondano, per giovarsene, egli la mette, quest' attenzione, anco al linguaggio che ode, e che non è da principio per lui se non una serie di sensazioni dell' udito. Ma egli ben presto si accorge, che può trarre da questi suoni, uditi e scambiati, dei grandi vantaggi, e farsi ubbidire dalle persone, cioè prestar soccorso: ond' è, ch' egli pone tutta l' attenzione ad apprendere come può usarne per giungere a questo suo fine. In questa maniera il linguaggio diviene nuovo stimolo, occasione ed aiuto all' attenzione intellettiva del bambino. Ma veggiamo quali siano le intellezioni nuove, a cui si solleva il fanciullo mediante il linguaggio che egli sente, e gli vien comunicato dalla società (2). Queste intellezioni sono di due maniere. Alcune sono intellezioni di primo ordine, che il fanciullo prima d' ora aver non poteva, perchè mancava lo stimolo necessario alla sua attenzione, acciocchè questa si volgesse a formarsele. Altre sono intellezioni di second' ordine, che il fanciullo non potea aver prima d' ora, perchè gli mancava non solo lo stimolo, ma ben anco la materia. Il fanciullo da prima per la forza unitiva lega insieme la sensazione, che a lui produce un nome, che vien pronunciato, colla sensazione dell' oggetto che quel nome significa (1), sicchè al risuonar di quel nome si risveglia in lui subito la percezione avuta di quell' oggetto o l' idea imaginale. Questo fatto dimostra che il linguaggio deve dare al fanciullo un' attitudine maggiore a richiamarsi le memorie e le idee che ebbe delle cose (2). Quando egli non avesse quest' aiuto del linguaggio, le dette memorie ed idee non si potrebbero in lui risuscitare se non per due cagioni: 1 per ricadergli sotto i sensi le cose stesse o loro parti; 2 o per qualche accidentale movimento delle fibre del suo cervello. Ma il linguaggio l' aiuta non poco in ciò: perocchè o al sentire d' una parola o al rivenirgli alla mente, gli tornano insieme le memorie e le idee degli oggetti. Divien dunque il linguaggio una specie di memoria artifiziale, e giova ad accrescergli l' uso della facoltà della reminiscenza . Le cose assenti adunque, che non potrebbero tornare alla mente del fanciullo se non per accidente, vengono richiamate facilmente coll' uso del linguaggio, e sembra che solo per l' uso del linguaggio egli si possa formare il pensiero dell' assenza delle cose. Conciossiachè le memorie delle percezioni gli mostrano le cose nel luogo e nel tempo, nel quale le percepì, e quindi come presenti; le idee imaginali gli mostrano la cosa possibile. Ma il linguaggio l' avvisa anche che la cosa da lui altre volte percepita esiste tuttavia, ma non è presente. Si accorge allora, che può esistere la cosa stessa tanto alla presenza de' suoi sensi quanto fuori della sua presenza, in luogo nel quale non cade sotto i suoi sensi: il che è già un gran passo; perocchè con questa operazione egli s' avvede che la sostanza dell' oggetto non è l' attività da lui sentita, è qualche cosa che sussiste, eziandio che non sia da lui sentita (1). Questo passo poi spinge lo spirito alla cognizione delle cose invisibili. Or poi le cose assenti sono in numero infinitamente maggiore delle presenti; e però considerato il linguaggio anche sotto questo solo rispetto, egli apre la via al fanciullo d' accrescersi molto più del doppio le sue prime cognizioni. Ma un passo maggiore egli fa quando per l' aiuto che gli presta il linguaggio passa alle intellezioni di second' ordine. Per vedere come ciò avvenga e per trovare le diverse maniere di queste intellezioni di second' ordine dobbiamo analizzare l' operazione che fa il fanciullo quando perviene a segnare le intellezioni coi vocaboli. Da prima il vocabolo non è che una sensazione, la quale egli unisce con delle imagini mediante la seconda funzione della forza unitiva (1), ond' avviene che al prodursi di quella sensazione del suono si risveglino nel bambino le imagini a quelle congiunte. Di poi nasce viceversa, che avendo il bambino già congiunto imagine e suono, al rinnovarglisi la sensazione che risponde all' imagine sia inchinato a completare il sentimento pronunciando il suono che n' è l' altra parte per la quarta funzione della forza unitiva (2). Nasce in terzo luogo che il bambino che vien soccorso alle sue grida unisca il sentimento attivo del suo gridare colle sensazioni passive del soccorso, e però usi quelle istintivamente, perchè per lui le grida diventano una cosa sola colle piacevoli sensazioni che subito gli si porgono, unione che si effettua in ogni animale per la stessa funzione quarta della forza unitiva. In queste tre operazioni non gioca ancora che la sola animalità. Passiamo a considerare il vocabolo come stimolo d' operazioni intellettuali. Ma ben presto il vocabolo è una sensazione che s' associa colla percezione intellettiva , in presenza della quale si pronuncia, e serve ad eccitare su di questa una maggiore attenzione, a rendere più viva la percezione. In questo stato il vocabolo è una parte della percezione stessa complessa ossia accompagnata da diverse sensazioni. Qui gioca l' intelligenza, ma ancor quella di primo ordine; il vocabolo non è percepito egli stesso se non come un elemento sensibile che entra nella percezione. Il vocabolo s' attacca, in primo luogo, a memorie di percezioni e serve a richiamare il pensiero degli oggetti assenti altra volta percepiti: gioca ancora l' intelligenza di prim' ordine, ma un grado più di prima. Il vocabolo qui è una sensazione che richiama una percezione, nella quale esso non entra, e diventa anco in breve tempo una percezione che richiama un' altra percezione. In secondo luogo, il vocabolo s' associa a idee imaginali , di maniera che serve a richiamar queste. In questo caso il vocabolo è una sensazione o anco una percezione, al ricever della quale il bambino volge la sua attenzione intellettiva a quell' idea, e con tanta celerità e unità di azione, che gli sembra di vedere l' idea nel vocabolo, tosto che l' ode. I vocaboli, che richiamano la mente o alle percezioni passate o alle idee imaginali, non si può dire che facciano fare all' intendimento di quelle riflessioni, le quali costituiscono un ordine nuovo d' intellezioni, ma solo di quelle colle quali l' intendimento rivede le intellezioni di primo ordine. Vero è, che passando un rapporto tra il vocabolo e la idea imaginale o la memoria della percezione avuta, questo rapporto appartiene alle intellezioni del secondo ordine, che fu da noi definito « intellezioni, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine ». Ma si deve osservare che il vocabolo può richiamarci l' idea imaginale, senza che noi concepiamo intellettivamente il rapporto tra esso e l' idea; bastando, che vi abbia un nesso fisico, ond' avviene, che l' attenzione scossa dal suono si volga all' idea. Vi ha ancora una terza operazione, che il vocabolo fa fare alla mente, senza però che con essa la mente si formi delle intellezioni di secondo ordine. L' operazione, di cui parlo, somiglia nei suoi effetti all' astrazione, ma non è l' astrazione, quantunque l' astrazione le venga tosto appresso. Quando adunque il bambino sente a nominare con un vocabolo delle cose simili, per esempio, a dir « cavallo »ogni qual volta passa un tale animale per via, non astrae incontanente le note comuni del cavallo (quali egli è in caso di notare); ma crede che il cavallo che passa sia il medesimo di quello che altra volta egli vide e sentì nominare cavallo, perchè non osserva ancora le differenze del cavallo, che vede, e del cavallo che ha veduto. Quel vocabolo adunque gli richiama la percezione e l' idea imaginale del cavallo altre volte veduto: lo prende pel medesimo cavallo veduto altre volte (1). Ora chi sottilmente non considera questa operazione del bambino, vedendo, che il bambino, ad ogni cavallo che passa per via, pronuncia il vocabolo cavallo, crederà facilmente, ch' egli abbia già astratta la specie cavallina da' cavalli individui; ma egli s' ingannerebbe, fino a tanto che non si assicuri, che il bambino abbia notata colla sua mente qualche differenza tra cavalli successivamente da lui veduti, per la quale egli abbia conosciuto, che l' uno non è l' altro, e che ciò non ostante l' uno e l' altro sono cavalli, cioè hanno un che d' uguale, onde portano un egual nome (2). Esercitano adunque tre uffizj i vocaboli, senza che tuttavia si producano ancora con essi delle intellezioni di second' ordine. La produzione di queste è il quarto dei loro uffizi e principalmente l' astrazione, che noi dobbiamo diligentemente analizzare. I soli nomi propri, nell' accettazione degli uomini, segnano percezioni o memorie di percezioni avute: tutti gli altri vocaboli segnano degli universali. Tuttavia i pronomi dimostrativi questo, quello ecc., uniti al nome comune lo applicano, o restringono a significare percezioni cioè oggetti reali percepiti. Se si esamina il resto dei vocaboli che compongono una lingua, lasciati da parte i nomi propri, non se ne trova nemmeno uno che sia istituito o che si adoperi a significare idee imaginali . Quando adunque abbiamo detto che uno dei primi usi che fa il bambino del vocabolo si è quello di richiamare nella sua mente le idee imaginali, allora parlammo d' un uso proprio del solo bambino diverso dall' uso che fanno del vocabolo gli altri uomini, e ciò perchè il bambino non conosce ancora il preciso valore e l' uso comune del vocabolo. E che la cosa sia così, si conoscerà osservando, che sarebbe inutile del tutto inventare dei vocaboli a significare idee imaginali. Perocchè le idee imaginali sono infinite; e differiscono l' una dall' altra per distinzioni così minute, che niente importa agli uomini il notarle, e sarebbero anzi di grandissimo ingombro alla speditezza del parlare e del pensare. Primieramente le percezioni d' una stessa cosa variano nell' uomo stesso, secondo che l' uomo percepisce più o meno della cosa: come le percezioni variano le imagini, e le idee imaginali, che a quelle s' appoggiano. Egli è dunque impossibile l' avere per ciascuna di queste idee un vocabolo. In secondo luogo variano tali idee nei diversi uomini. Laonde se un uomo significar volesse coi vocaboli le proprie idee imaginali, non potrebbe egli essere acconciamente inteso dagli altri uomini, che non hanno quelle idee appunto. In terzo luogo basta considerare quello che dicea Platone « che ogni cosa reale e finita si muta, si strugge e si rigenera di continuo ». Poniamo un cavallo: egli è diverso da sè stesso ogni po' di tempo che trascorra: egli porge dunque una nuova idea imaginale: basterebbe che a quel cavallo incanutisse un sol fiocco di pelo, o s' allungassero d' una linea gli orecchi, perchè dovesse avere un nome nuovo il suo tipo, la sua idea piena. E` dunque impossibile che i vocaboli significhino tali idee imaginali o piene: sebbene il bambino, che non n' ha altre per avventura nella mente, le rinfreschi al suono del vocabolo, per l' analogia che esse hanno colle idee astratte, a significare le quali adoperano i vocaboli gli altri uomini. Non essendo le idee piene contrassegnate da vocaboli, rimangono inosservate: ed i filosofi stessi saltano di piedi pari dalle percezioni alle idee astratte senza accorgersi delle idee piene , che stanno tra le une e le altre, come noi facemmo osservare (1). Convien dunque considerare che non v' ha nè pur un sol vocabolo nella lingua (eccetto i nomi propri, i pronomi dimostrativi, e alcuni avverbi di luogo e di tempo) che non esprima idee astratte (2). Quegli adunque che parlano al bambino, provocano del continuo la sua attenzione a collocarsi non pure in un universale , ma in un astratto , e questa è quell' operazione per lui nuovissima, che lo porta alle intellezioni di secondo ordine, e che noi dobbiamo con somma accuratezza ora esaminare. Quando il bambino sente le tante volte chiamare cane il cane di casa, e sente chiamarlo cane oggi e domani, quand' era piccino e mangiava latte, e quando divenne grande e mangiava pane, quando aveva la coda e gli orecchi, e or che ha mozza quella e questi, e sente chiamar cani tutta la canatteria della strada, sieno cani grandi o piccioli, o di un pelame o d' un altro, e fermi o correnti, e placidi o rabbuffati; allora viene un tempo nel quale la sua mente in tanta varietà di oggetti fissa quell' unica cosa, per la quale a tutti il medesimo nome di cane si addice. Egli in una parola astrae a forza di udire la parola stessa applicata sì diversamente ciò che forma l' elemento comune dei cani (la canina natura) e adopra questo elemento comune (che è un' astrazione) a distinguere poi gli oggetti, a' quali il nome di cane dar si convenga. Non è già che egli sappia rendersi conto di questa sua operazione, o ch' egli si sia formato un concetto giusto della nota distintiva de' cani. Egli ha fatto quest' operazione senza rendersene conto, e si è formato un concetto qualunque di ciò che distingue la specie de' cani dall' altre specie d' animali, o di ciò almeno che egli crede che formi questa distinzione. Gli errori che può prendere giudicando qual sia la nota distintiva del cane, non tolgono punto la verità di ciò che noi diciamo, non impediscono che egli abbia effettuato veramente l' operazione mentale dell' astrarre, eziandio che l' elemento da lui astratto non esista, e sia finto dalla sua imaginazione, o non sia quello che costituisce la natura de' cani. Anzi da prima il bambino non astrae mai quel preciso elemento, a cui dall' uso comune è affisso il vocabolo, ma suole sempre astrarre un elemento più comune, o sia più generico (1). Questi errori si correggono dal bambino collo scoprire nuove differenze che lo fanno accorto avere egli dato al vocabolo un significato troppo esteso verso quello che gli danno gli altri uomini; egli allora restringe questo significato, e restringe insieme l' astrazione che gli annette, e ciò determinando meglio il carattere o elemento astratto, da generico rendendolo specifico, o da un genere più lato formando un genere meno esteso. Convien dunque assicurarsi che il fanciullo, nell' uso de' vocaboli, sia giunto a conoscere che in più oggetti v' ha un elemento comune, e che prende nella sua mente questo elemento, qualunque esso sia, come segno a distinguere quali sieno le cose, a cui quelle denominazioni convengono. Allora solamente lo si può dir pervenuto all' operazione delle prime astrazioni, che sono intellezioni di second' ordine. Se sono presenti più cavalli e a ciascuno di essi dà il nome di cavallo , egli è certo che ha fatta già l' astrazione; perocchè non può essere che prenda l' uno per l' altro. Se dà lo stesso nome anco a cose successivamente a lui presenti, ma disparatissime, come al cane o a un uccello, è ugualmente certo che la sua mente già pervenne all' astrarre, non essendo possibile ch' egli prenda l' una per l' altra, che creda quelle diverse cose una cosa medesima: conosce adunque pluralità d' individui e identità in qualche cosa di essi, che lo persuade a dar loro lo stesso nome. Medesimamente, i nomi plurali delle cose mostrano che la sua mente giunse all' operazione di astrarre (1). In questa mirabile operazione adunque, a cui la mente viene mossa dal bisogno d' intendere e viene aiutata dalla contemporaneità del suono cane colla presenza de' cani e cogli atti de' parlanti, il bambino fa quanto segue: 1 Nelle moltissime idee imaginali ch' egli si è formato in veggendo e sentendo tanti e sì diversi cani, soggiacenti a tante modificazioni (e ad ogni cane modificato risponde un' idea imaginale), egli trascura del tutto di badare alle differenze, e concentra la sua attenzione nella somiglianza, in ciò che tutte quelle idee hanno di comune; 2 Divenuto oggetto del suo esclusivo pensiero quell' elemento comune, egli se ne serve di segno a cui conoscere quali sieno gli oggetti ch' egli deve richiamarsi alla mente ogni qualvolta ode il suono cane (1). E qui si noti, ch' egli non congiunge già il suono cane unicamente con quell' elemento, ma l' unisce con tutti gli oggetti in cui egli ravvisa quell' elemento. Quell' elemento adunque è già astratto nella mente del fanciullo, ma non è ancora nominato . La parola cane non indica meramente quell' astratto, ma indica tutti gli oggetti dove quell' astratto dimora: la parola cane non si può intendere senza che la mente si sia formato l' astratto che ella suppone e che la determina; e tuttavia non si può dire che cane sia un nome astratto, ma un nome comune . Da questo si scorge che gli astratti hanno due forme nella mente: l' una innominata, fondamento dei nomi comuni; l' altra nominata mediante i nomi astratti. Chi dice bianco sostantivamente dice un nome comune , che suppone nella mente l' astratto, ma non lo nomina, perocchè il sostantivo bianco non dice altro se non « un oggetto bianco »: la bianchezza è unita all' oggetto, ma la mente ha l' idea astratta di bianchezza, e se ne serve per intendere la parola bianco . Chi dice bianchezza , dice un nome astratto, pronuncia non più l' oggetto in cui si trova la bianchezza, ma questa qualità sola precisa dall' oggetto, considerata da sè. Quindi al fanciullo riesce prima intelligibile il vocabolo bianco , che quel di bianchezza, benchè questo secondo lo intenda ben presto dopo aver inteso il primo. Per intendere tuttavia il secondo, cioè il vocabolo bianchezza, la mente del fanciullo deve fare un' operazione di più. Nel vocabolo bianco , l' astratto è nella mente, ma vi è unito all' oggetto (sebbene sempre astratto da questo): nel vocabolo bianchezza, l' astratto è affatto diviso dall' oggetto, è divenuto un oggetto mentale egli stesso direttamente espresso nella parola: quando si dice bianco, si dice un oggetto che, oltre la bianchezza , ha delle altre qualità alle quali non si pone una speciale attenzione, ma si sa però che vi sono in generale e che vi devono essere, acciocchè l' oggetto sussista; quando si dice bianchezza , questa qualità semplice esclude qualsiasi altro pensiero. La bianchezza esprime dunque un modo d' astrazione più perfetto del sostantivo bianco . L' astratto può esser preso da ciò che è accidentale nella cosa: tale è quello di bianchezza; e può esser preso da ciò che è sostanziale nella cosa: tale è quello di corporeità . Talora il nome astratto manca nella lingua, e non vi ha che il nome comune; a ragion d' esempio, nella lingua italiana vi ha il nome cane , e manca quello di canità . La mancanza di questi nomi astratti dimostra che sono posteriori ai nomi comuni. Si può provare anche con altri argomenti che i nomi astratti sono stati inventati dopo i comuni: un argomento è quello che somministra l' etimologia; infatti ogni astratto sembra derivato dal comune; bianchezza, per esempio, viene da bianco . Gli antichissimi scrittori ci offrono un' altra prova di ciò che affermiamo. Le lingue che usano sono un acconcio specchio dello sviluppo delle menti nei loro tempi: e si può dirittamente indurre dallo stato di quelle il grado di sviluppo di queste. Negli scrittori antichi orientali, come pure nei greci filosofi, e specialmente in Platone, si suole usare il nome comune sostantivato per indicare l' astratto: si dice il simile , il dissimile, il giusto , il bello, il santo, ecc., per dire la simiglianza , la dissomiglianza, la giustizia, la bellezza, la santità, ecc. (1). Vedesi da ciò chiaramente che quelle parole furono le prime usate, e che quando la mente che si sviluppava, ebbe bisogno di esprimere l' astratto diviso da ogni concreto, invece d' inventare vocaboli nuovi, trasportò quegli che già aveva a significare queste astrazioni: il che è legge costante nelle nazioni, quando queste vanno innanzi col loro intellettivo sviluppo, di maniera che la lingua primitiva loro più non basta; prima di risolversi a coniare nuovi vocaboli, si appigliano al partito di alterare e distendere le significazioni dei vocaboli antichi (2). Or quando il fanciullo si è formato un astratto, egli ha il fondamento di una classe, in cui ridurre gli oggetti. Quando egli è giunto a formarsi, per es., l' idea di ciò che è comune tra gli oggetti che sono denominati cani, allora egli non vede un solo di questi oggetti che non lo collochi subito nella classe dei cani. Senza quell' astrazione egli non poteva fare questa classificazione. La classificazione adunque delle cose è un' operazione della mente che vien dopo l' astrazione, la quale ne è il fondamento; e che però appartiene alle intellezioni di un ordine più elevato del secondo, al quale appartengono le astrazioni , di cui parliamo. Ma chi bene osserva, tuttavia conoscerà che vi hanno certe prime classificazioni, le quali si fanno contemporaneamente e con un medesimo atto dello spirito. Elle non sono distinte, ma implicite. Quando lo spirito s' accorge, mediante la ripetizione che ode farsi del nome cane, che in molti cani vi ha un elemento comune; allora con questo accorgersi fa ad un tempo due cose: 1 osserva in tutti quegli oggetti l' elemento comune, e 2 lo astrae , togliendolo a segno della classe degli oggetti chiamati cani . Ora il riconoscere in tutti quegli oggetti uno stesso elemento è già un cotale classificarli, il che finisce di fare contrassegnandoli con un nome. Laonde quantunque sia vero che un uomo, che ha già formati gli astratti, quando egli vede un oggetto nuovo e lo classifica, fa un' operazione posteriore, che appartiene ad un ordine di intellezioni più elevato di quello delle astrazioni medesime, che danno la base alla sua classificazione; tuttavia non può negarsi che nell' opera dell' astrarre v' abbia qualche cosa che s' assomiglia al classificare. Al second' ordine d' intellezioni appartiene ancora la cognizione dell' esistenza di Dio. Iddio però, con quest' ordine d' intellezioni, non si conosce che come compimento necessario dell' essere e come causa del tutto per una funzione dello spirito che noi nominammo integrazione . Egli è incredibile con quanta facilità e prontezza il nostro spirito s' accorga che tutto ciò che cade sotto i sensi è contingente, e che questo non può stare senza qualche cosa di necessario che gli dia l' origine. Ben pochi sanno rendersi conto esplicito di questa elevazione subitanea della mente (1); ma ella non è men vera: ogni popolo e in ogni sua età riconobbe la necessaria esistenza di un Dio, cioè di un ente necessario, prima causa del tutto, come cosa del tutto patente: l' uomo più idiota vede un tal vero come un vero evidente, non ne cerca la ragione, la sua persuasione è immediata; e chi gli domandasse conto di una tale sua credenza sarebbe a lui occasione di maraviglia, e fors' anche di scherno o di riso, come scempio o beffardo. Quindi è che anco i fanciulli intendono facilissimamente il vocabolo Dio come significante un ente massimo cagione del tutto, ed assentono assai volentieri a chi ne afferma loro l' esistenza. Il qual assenso dei bambini non reputisi ch' egli abbia natura d' una mera credenza gratuita alla parola di chi loro parla. No; in questo fatto essi non credono ciecamente, ma veggono. Se ciò non fosse, per lo meno si maraviglierebbero grandemente del concetto di Dio che gli si vuole imprimere, e questo concetto non riescirebbe loro tanto naturale e tanto facile a riceversi, che, appena concepitolo, già credono che Dio esista. Tuttavia non potrebbero i fanciulli accorgersi da sè della divina esistenza senza il linguaggio. Essendo Iddio invisibile, senza una parola che fermasse la loro attenzione, non potrebbero fissarne il concetto. Ma che cosa è la cognizione di Dio ne' bambini? - Ella è una concezione ed una credenza . - Dico una credenza per distinguerla dalla percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esiste, perchè ne sente in sè l' azione, egli n' ha la percezione . Quando l' uomo giudica che una cosa esista senza sentirne sopra di sè l' azione, benchè ne abbia certo argomento razionale, egli n' ha la credenza . Alle facoltà passive rispondono altrettante facoltà attive (1): allo sviluppo di quelle un grado proporzionale di sviluppo di queste. Quando adunque si abbia ben definita la natura e l' estensione dello sviluppo, che in una data età del fanciullo prese il senso e l' intelletto, si può indurre qual sia la natura ed estensione dell' istinto e della volontà. Se il conoscere il grado di estensione di queste prime facoltà passive è necessario per attemprarvi e commisurarvi l' istruzione da dare al fanciullo; il conoscere il grado di estensione presa da queste facoltà attive è ancora più importante, perocchè è cognizione necessaria per attemprarvi e commisurarvi l' educazione pratica da dare al fanciullo; la quale non può far uso che di quella parte di attività che in esso è già desta e messa in movimento (1). Ora nella terza età il fanciullo, mediante il linguaggio e i bisogni e gl' istinti nuovamente appariti in conseguenza dello sviluppo delle due età precedenti: 1 Accrebbe immensamente e perfezionò le sue percezioni, memorie di percezioni e idee imaginali. - A ciò risponde una estensione corrispondente dell' istinto e di volizioni affettive e apprezzative . 2 In ogni età l' uomo concepisce anche le cose assenti. - Questo dà luogo alla passione del desiderio . Egli è vero che anco verso le cose presenti può esservi il desiderio di goderle, se sono buone; ma io credo probabile che il desiderio di godere le cose presenti venga nell' uomo ben tardi, supplendovi da principio l' appetito e l' istinto naturale , che inclina l' animale ad esse. La memoria delle percezioni avute non è propriamente una concezione di oggetti assenti, e può cagionar solo nel primo tempo un cotal sentimento spiacevole, che la percezione sia passata, ma desiderio no: perchè per esso solo non si ha il pensiero che la percezione possa rinnovarsi. - Ove all' incontro in noi si susciti il pensiero di un oggetto buono e assente, tosto dietro a questo pensiero tiene la spontaneità della volontà col desiderio di esso. - La terza età dunque è altresì quella, nella quale ha la sua nascita il desiderio. 3 Ma un' attività maggiore si suscita nella volontà in virtù delle prime astrazioni. Come l' intendimento applica esclusivamente la sua attenzione ad un elemento comune a più oggetti, così se questo elemento è buono, la volontà lo vuole: se è cattivo, lo abborrisce. - Ora ella è immensa la differenza tra quelle volizioni che hanno per oggetto un individuo sussistente tutto quant' è, o anco una specie7piena d' individui (2), e quelle volizioni che hanno per oggetto un elemento comune a più individui, un astratto. Nel primo caso, la volontà ama un oggetto buono ( bonum ), nel secondo caso, la volontà ama la ragione degli oggetti buoni ( rationem boni ), la loro bontà. Le volizioni che hanno per termine solamente un oggetto buono determinato, si acquetano in esso, e però l' efficienza loro finisce tosto. All' incontro, le volizioni che hanno per termine un elemento comune, nel quale sta la ragione, per la quale quel genere di oggetti son buoni, non si acqueta nel loro oggetto che è un astratto insufficiente ad appagare, ma si serve di questo astratto, primo termine della volizione, come d' un segno al quale conoscere gli oggetti buoni, e discernerli dai cattivi. Quivi dunque l' attività della volontà trova uno spazio immenso dove spiegarsi, perocchè quell' elemento buono che vuole, si realizza in infiniti oggetti, dei quali l' uomo, qui pervenuto, va in cerca senza posa. Indi è che altrove mostrai, la facoltà di astrarre essere quella che somministra all' uomo le regole, colle quali egli giunge a discernere e rinvenire i beni (1). 4 Fra gli astratti primi v' ha la quantità sia continua , sia intensiva delle cose sensibili. Onde avviene che per mezzo di questo astratto il fanciullo conosce ciò che è più grande da ciò che è più piccolo (2), e ciò che produce, a ragion d' esempio, più piacere da ciò che ne produce di meno. Questa conoscenza del quanto delle cose dà luogo in lui ad una nuova classe di volizioni, cioè alle volizioni appreziative (3) ed alle elezioni; che già in quest' età cominciano (4). Un altro de' primi astratti , che separa il fanciullo dalle cose, sommamente importante al suo sviluppo, si è quello dell' animalità . Se il fanciullo potesse riflettere sopra il proprio sentire, e pensare, egli avrebbe dell' anima propria un' immediata percezione; la quale sarebbe un' intellezione di prim' ordine, perciò più elementare di quella che si ha dell' anima considerata come causa di movimento degli esseri animati. - Ma sebben l' anima7sentimento sia oggetto d' una intellezione di prim' ordine, tuttavia egli è ancor troppo difficile a farsi una tale intellezione pel fanciullo; perocchè alla sua attenzione manca lo stimolo, che la diriga sul proprio sentimento e su questo la fermi. La sua attenzione è come un figliuolo che scappa sempre di casa; gli oggetti de' suoi bisogni, e le esterne sensazioni tra le quali il suono dei vocaboli, lo trae dall' interno dell' uomo al di fuori. Nè giungerebbe tuttavia ad argomentare da' movimenti degli animali l' esistenza d' un principio di moto nell' animale, se la lingua non gl' insegnasse a fermarsi dal tutto ad una parte della cosa, dal complesso al suo elemento; nell' animale adunque pensa, mediante la lingua, il carattere della mobilità, e quindi l' astratto dell' animalità, ossia l' animale . Questo fa sì che egli distingua non solo un grande ed un piccolo nelle cose, ma ben anco una differenza di dignità ; egli può oggimai stimare col suo giudizio pratico che gli oggetti animali sono assai più degli oggetti non animali e preferir quegli a questi per una maggiore entità. 6 Finalmente la cognizione dell' esistenza di Dio, come complemento degli enti, eleva l' attività del suo cuore all' oggetto il più sublime e lo mette già in comunicazione col cielo. Ogni idea nuova nel fanciullo è una gioia: per ogni adito, che gli s' apra davanti, la sua intelligenza irruisce precipitosa. Come il primo atto di conoscimento scioglie le labbra del bambino al riso, così si manifesta in lui con molti atti d' esultanza il piacere d' intendere il linguaggio materno, e appena può pronunciare i vocaboli, egli è difficile il farlo più tacere, perchè sarebbe contrariar la natura privandolo dell' uso della loquela, che equivale per lui al nuovo uso da lui acquistato della intelligenza, che è il meglio di sè. Di questa innata e nobilissima inclinazione deve l' istitutore giovarsi: non deve rintuzzarla, chè sarebbe ingiuria fatta al lume divino che nell' anima umana risplende; egli deve saviamente occuparla e dirigerla. Pur questa è arte difficilissima. Gli errori, che si sogliono commettere in questa parte, si riducono a quattro: 1 Talora l' attività intellettiva del fanciullo riesce noiosa e importuna, e però si vuol comprimerla coll' autorità, negandole un pascolo sufficiente. 2 Talora si aggrava la memoria materiale del bambino obbligando l' intelligenza al digiuno: cosa molestissima e gravissima a quel piccolo essere intelligente, che a null' altro aspira che all' intendere: epperò cosa crudele ed inumana. 3 Talora si dà all' intelligenza un pascolo, che non è ad essa adattato, cioè le si propone da fare delle intellezioni d' un ordine superiore a quello, al quale è pervenuta; nel qual caso le è assolutamente impossibile intender nulla, eccetto che parole. Talora anche le intellezioni, che da essa si richieggono, sarebbero alla sua levatura, ma non può farle, perchè la sua attenzione intellettiva non ha lo stimolo, che ad esse la richiami. 4 Finalmente quand' anco si proponessero alla giovane intelligenza disposte assai bene per gradi tutte le intellezioni che da essa si esigono, nè si lasciassero mancare ad essa gli stimoli, si pecca tuttavia, perchè si trapassa da una all' altra cosa senza essersi prima certificati, se quella prima cosa sia stata capita, se la intelligenza del fanciullo segua veramente i passi dell' istruzione; in una parola senza lasciare al fanciullo il tempo necessario a penetrare la cosa, a imprimersela, a riaversi da quel cotale sbigottimento, che mette in lui ogni idea nuova. Queste osservazioni si debbono rammentare in principio di tutti quei capitoli, ne' quali tratteremo dell' istruzione da darsi ai fanciulli nelle loro singole età, ossia ne' successivi periodi della loro età, segnati dai singoli ordini d' intellezioni. Ma quanto non è egli facile dimenticarle? Dobbiamo ora indicare quale debba essere l' istruzione da darsi al fanciullo rispondente al secondo ordine d' intellezioni. Ma prima osserviamo, che in quest' età la mente del fanciullo non ricava ancora tutto il frutto, che le verrà appresso, dalla regolarità colla quale abbiamo accennato doverglisi presentare le cose da percepire ed intendere. Tuttavia tal ordine produce un effetto buono, quantunque difficile ad osservarsi, sulla mente e sull' animo stesso del fanciullo. Nell' uomo vi ha un' unità soggettiva , cioè vi ha un ultimo sentimento unico. Ora, ogni sensazione, percezione od idea porta un suo cotale effetto buono o cattivo in quell' ultimo sentimento. Indi avviene, che ogni qualvolta le sensazioni, le percezioni e le idee sono bene armoniate, ne risulta un miglioramento al fondo dell' uomo, sul qual fondo operano tutte insieme e vi producono un effetto unico, che tiene dell' ordine della sua causa. Sebbene adunque il fanciullo non conosca ancora l' ordine, che è nelle sue sensazioni e intellezioni, tuttavia egli per una legge della sua costituzione ne ricava vantaggio. Or le materie d' istruzione consentanee a questa terza età del fanciullo si deducono dallo stato della sua intelligenza, che noi abbiamo investigato e descritto. Risulta che la prima materia d' istruzione in quest' età deve essere la lingua. Sarà adunque un grandissimo guadagno, se in questo periodo s' insegnerà al fanciullo a nominare il più gran numero possibile d' oggetti, e a parlar bene dentro al circolo delle sue cognizioni. Questa parte era quasi trascurata interamente, e solo adesso sembra doversi sperare assai dalla bellissima invenzione delle scuole infantili. Anco rallegrami il vedere, che si cominciano a scrivere dei libri con questo intendimento d' insegnare ai fanciulli a nominare con proprietà le cose; dei quali libri bastimi avere accennato il citato « Manuale » di Vitale Rosi (1). E nondimeno dissi che conviene insegnare la lingua al fanciullo entro il circolo delle sue cognizioni, cioè in misura conforme alla portata del suo ingegno. La lingua, che si usa coi fanciulli della nostra età, deve esprimere intellezioni di primo e second' ordine, ma non più. Di sua natura la lingua esprime le intellezioni di tutti gli ordini, epperciò è istrumento attissimo allo sviluppamento dell' intelletto in tutte le età della vita umana; ma v' ha una parte di lingua che si conviene e proporziona alla terza età, e solo di questa lingua si deve far uso col nostro fanciullo; perocchè quel di più che si usa sarebbe a lui inintelligibile, graverebbe la sua memoria lasciando vuoto e sterile il suo ingegno; il che sarebbe il secondo ed il terzo degli errori che noi abbiamo poco innanzi accennati. Impari adunque il fanciullo a nominare le percezioni sue, tutti gli astratti che si possono cavare immediatamente dagli oggetti sensibili, le cose assenti, le invisibili e i concetti venutigli dalla sua facoltà d' integrare. Egli è certo che fino da quest' età il fanciullo può imparare due o tre lingue udendole, e senza soverchio aggravio. Se ciò si fa per modo che la favella materna sia la principale, e che ciò che impara delle altre sia una cotal sopraggiunta, un tale esercizio delle due lingue sarà un guadagno di tempo, un passo innanzi fatto dal fanciullo (1). La lingua si deve insegnare al fanciullo con un doppio esercizio naturale e artifiziale . Quanto all' esercizio naturale, in esso si adopera tutte le parti del discorso, e non ve n' ha pur una che sia per sè superiore al secondo grado dell' umana intelligenza, eccetto alcune congiunzioni, perocchè tutte possono esprimere sentimenti, percezioni e astratti di prima astrazione, e i movimenti dell' animo. I sentimenti vengono espressi colle interiezioni, le quali propriamente non sono segni. Le percezioni coi nomi propri, cogli avverbi di luogo e di tempo, coi pronomi personali io, tu , ecc. e dimostrativi questo, quello , ecc.. Gli astratti con tutti gli altri nomi, cogl' infiniti dei verbi, coi participii e certe congiunzioni. I movimenti dell' animo sono indicati dalle inflessioni dei verbi, dalle preposizioni e da certe congiunzioni. L' esercizio naturale col quale s' insegna al fanciullo la lingua, dovrebbe essere ordinato secondo le seguenti regole: 1 Tutto ciò che si parla al fanciullo, come si disse, non dovrebbe superare la portata del suo sviluppo. 2 Non dovrebbe udire il fanciullo, se non una lingua perfetta, parole proprie ed acconce, ottima pronuncia e soprattutto con esatta ortografia. 3 Chi parla al fanciullo dovrebbe parlargli con forme e atteggiamenti di dignità e virtù. Se così si facesse, il fanciullo guadagnerebbe un tempo immenso: nè solo si accelererebbe il suo sviluppo intellettuale, ma ben anco si porrebbero i fondamenti della sua buona riuscita morale. In Italia, noi dobbiamo perdere un tempo prezioso per disimparare nelle scuole quella lingua, che abbiamo appresa nelle nostre case; dopo ciò ancora non appariamo bene l' italiana favella sì perchè l' imbratto del vernacolo che ci ha lordati fin da bambini, e divenuto a noi naturale, difficilmente si può più tergere dal nostro spirito intieramente, e sì perchè i nostri stessi maestri, ai quali la lingua buona è arte e la cattiva natura, non possono darci quel che non hanno. La sola ortografia ci fa logorare gran tempo ad apprenderla; e pure noi la potremmo aver tutta viva negli orecchi, quando fossimo stati avvezzi fino da bambinelli a udir battere colla lingua da chi ci parlava i raddoppiamenti delle lettere dove van posti. Colla lingua è che noi formiamo le idee, e perfezione di lingua è perfezione di pensiero. Tutto poi quello che è ordinato, decente, quello che giova a pensare con facilità e con rettezza produce nelle anime nostre delle disposizioni preziosissime alle morale virtù. Finalmente qual vantaggio a questa bella parte del mondo, se l' Italia divenisse tutta d' una sola favella! Che divisioni fra suoi popoli con ciò solo non si torrebbero! Che maggior fratellanza non crescerebbe tra noi! Che aumento alla carità della patria comune! Laonde mi fa maraviglia come nelle grandi famiglie, in cui si vuol pure dare a' figliuoli la più fina educazione, non si pensi a far sì che succhino, per così dire, col latte una favella pura e nobile, e che le infantili orecchie non odano se non cose buone dette egregiamente. Tale dovrebbe essere il privilegio dei più ricchi; non quello di sdegnare che i loro figliuoli usino alle pubbliche scuole, ma quello che vengano a queste scuole più ben disposti, più sviluppati degli altri, e già in possesso di quella lingua che gli altri debbono faticare ad apprendere. Quanto giustamente in tal modo la sapienza de' genitori, unita a' loro mezzi, otterrebbe il primato nelle scuole a' loro figliuoli! E a questi sopravanzerebbe poi sempre gran tempo, nel quale apprendere una moltitudine di cognizioni assai utili che conserverebbe loro un posto di giusta superiorità agli altri lor simili. E per dire una parola anco dell' esercizio artificiale della lingua da farsi fare al fanciullo, oltre il doversi egli avvertire d' ogni cosa che non dica rettamente, dovrebbe consistere in questa sua età unicamente a fargli apprendere quanto più estesamente sia possibile la materia della lingua. Quanto alla forma della lingua egli non è ancora da ciò; perocchè la forma della lingua, cioè la grammatica, esige delle intellezioni d' un ordine molto superiore al secondo. Ma quanto alla materia, conviene insegnargli a nominar bene tutte le cose, e prima quelle che s' ha d' attorno, poscia le più lontane; onde acquisterà grande ricchezza di favella e perciò stesso grande facilità e proprietà di parlare, che è quanto dire di pensare, e a suo tempo anche di scrivere. A quest' uso può servire grandemente il « Manuale di scuola preparatoria » ed altri libri fatti sullo stesso pensiero. Quest' è dunque il tempo nel quale si può esercitare il giovane a distinguere coi loro nomi tutte le cose sensibili. Il nome , questa è la parte fondamentale della lingua: gli esercizi non si possono ancora stendere ai verbi se non agl' infiniti ed ai participŒ che sono veri nomi che segnano i primi l' azione e i secondi l' agente (1). E qui cade in acconcio tornare a dire alcuna cosa sull' ordine delle astrazioni, per le quali si dee condurre la mente del fanciullo. Vi sono molte astrazioni innominate. A queste non si deve pensar di condurre la mente del fanciullo, perocchè non si può aiutarla col linguaggio, e non avendo in questo dei nomi, è segno manifesto che i popoli non hanno stimato necessario che fossero nominate; come pure è segno che son di quelle che si sottraggono alla osservazione. Ma tra gli astratti nominati dal linguaggio ve ne sono di varia maniera: alcuni sono astratti d' astratti: questi non sono acconci alla mente del nostro fanciullo, che non è arrivata più su dei primi astratti: il nostro fanciullo non potrebbe mai intendere il significato della parola legge, giustizia ecc.. Gli astratti adunque, a cui il nostro fanciullo arriva, sono quelli somministrati dalle cose sensibili. Ma le cose sensibili stesse sono nominate con varŒ nomi comuni indicanti diverso grado di astrazione. I nomi più comuni nominano le cose per un elemento comune a maggior numero di oggetti, e i nomi meno comuni nominano le cose stesse per un elemento comune a minor numero di oggetti: quelli dunque contengono un' astrazione maggiore di questi. Per esempio, volendo nominare un cavallo io posso nominarlo in tre modi, dicendo « questa cosa; questo animale; questo cavallo ». Io gli applico tre nomi che egualmente ben si affanno a quell' oggetto; ma quando gli applico il nome di cosa , io l' appello con un nome comune a un maggior numero di oggetti, che non sia quando gli applico il nome di animale ; e applicandogli quest' ultimo io l' appello con un nome più comune di quello di cavallo . E ciò non ostante il nome cavallo è ancor comune e non proprio: indica un' astrazione, che ha per fondamento la specie astratta , sotto la quale sarebbe un altro astratto, che non ha nome (la specie piena imperfetta), o più altri (1), prima di venire al nome proprio, per esempio, a quello di Rondello, di Vegliantino o di Brigliadoro. Domandasi adunque, se negli esercizŒ artificiali da farsi fare al fanciullo sia più consentaneo alla natura il fargli nominare le cose prima per li nomi più comuni e poi per li meno comuni o viceversa? Noi abbiamo già dichiarato più sopra il nostro sentimento che qui vogliamo rinforzare e chiarire con alcune osservazioni. Ma prima si noti bene, che qui non parlasi degli esercizŒ naturali del parlare, che in questi non devesi attendere ad altro ordine, che a quello del bisogno, che presentano naturalmente le circostanze. In secondo luogo si rifletta, che il nome quant' è più comune, e perciò l' idea più generale, tanto più facilmente si apprende dal fanciullo. Per convincersene basta osservare, come il fanciullo e il volgo, cioè la parte degli uomini meno sviluppata, soglia chiamare gli oggetti co' vocaboli i più comuni, dicendo questa cosa , quella cosa ecc. per dire: questo balocco, quel carruccio, quel giubbone ecc.. Nelle lingue antiche l' uso dei nomi generici, invece che degli specifici, è più frequente che nelle nostre, appunto perchè il mondo antico era meno sviluppato del moderno. Osservisi solamente nella lingua latina, quant' uso solevasi fare della parola res : ella s' applicava a tutto (2). Un' altra osservazione ci convincerà del medesimo. Perchè è un pregio così difficile e così lodato la proprietà dello stile? Perchè è difficile il nominare le cose col vocabolo significante la specie più stretta, e si suole, il più, nominarle largamente col genere. Si dirà forse, che la maggior facilità, che hanno i bambini d' apprendere e di usare i nomi più comuni nasce, perchè questi s' applicano a un maggior numero di oggetti, e però più frequentemente sono da loro uditi. - Ma riman sempre a domandare, perchè si faccia dagli adulti stessi un uso sì frequente de' nomi generici, quando fosse loro più facile l' usare gli specifici, che certamente sono più propri e più acconci al ben favellare? Egli è adunque certo, che più le idee sono generali, più la mente umana le trova a sè conformi e famigliari, purchè però si tratti degli astratti immediati, cioè di quelli, che segnano un elemento comune delle cose sensibili, che vengono da noi percepite. Non sarebbe il medesimo, quando si parlasse di quegli astratti che si formano con una operazione della mente eseguita sopra precedenti astrazioni, e che noi abbiamo detto astratti di astratti (1). Il discendere adunque nel nominare le cose dal nome più generale al meno è un esercizio utilissimo al fanciullo: percorsa molte volte questa scala in varŒ generi di cose, le idee si trovano nella sua mente ordinate; egli ha ricevuta una materia acconcissima alle susseguenti sue riflessioni: la sua mente riesce giusta e logica. Ma conviene osservare le avvertenze sopraindicate; e oltre quelle alcune altre: eccone un cenno. Converrebbe che l' educatore avesse una tavola delle classi più o meno estese, nelle quali si possono dividere le cose tutte concepite: questa dovrebbe essere il fondamento della sua logica: ne porremo qui uno schema: [...OMISSIS...] All' esercizio di cui parliamo non appartengono i nomi indicanti le idee elementari dell' essere (benchè de' più facili) nè quegli indicanti le categorie, nè quelli esprimenti de' generi mentali o nominali: ma solo i vocaboli significanti l' universale, i generi reali, le specie astratte , e le semi7astratte , come pure i sussistenti (nomi proprii). Ora, poichè le specie semi7astratte possono essere innumerabili, rimane a vedere qual norma si deve stabilire per scegliere le più acconce al fanciullo. Qui non vi ha dubbio, che la norma consiste « nello scegliere quelle, che più interessano il fanciullo », e più l' interessano quelle, che hanno più relazione co' suoi bisogni e istinti, e che prima e più vivamente colpiscono i suoi sensi esterni. Conviene dunque, che l' educatore sottilmente consideri lo sviluppo di questi bisogni e istinti del fanciullo e la priorità e la vivacità delle sensazioni, affin di vedere quali sieno quelle qualità accidentali, che più interessino nelle cose il fanciullo; e che secondo una tale gradazione meni per mano la mente del giovanetto a conoscere in ciascuna cosa le specie semi7astratte. E di più conviene osservare, che queste semi7astrazioni devono essere operate non sulle cose, ma sui concetti delle cose, che stanno nella mente del fanciullo: altramente nulla egli ne intenderà. Ora i concetti, che delle cose si forma il fanciullo sono in se stessi giusti (sbagliando solo nell' applicar loro le parole) ma imperfetti; e però si vanno successivamente rimutando e perfezionando. Per esempio: il fanciullo da principio si forma il concetto del vegetabile dal vederlo piantato in terra, dal color verde, dalla forma più comune delle piante, dalla freschezza e umidità delle foglie, ecc.: tutto ciò non è il concetto d' un filosofo, nè si deve pretendere. Devesi dunque prendere quel concetto infantile o per dir meglio proprio di ciascuna età, e rattaccare ad esso la classificazione de' vegetabili. L' astratto specifico del vegetabile per la mente del nostro infante sarà dunque « ciò che è piantato in terra e che cresce ». L' astratto specifico all' incontro del vegetabile stesso per la mente del filosofo sarà « un corpo organizzato privo di senso e di contrattilità, che si sviluppa da un germe ammettendo e assimilando a se, date le esterne condizioni opportune, delle molecole straniere ». Or la classificazione de' vegetali, per la quale si deve far correre la mente del fanciullo, non deve mica essere concepita su questa definizione, che il fanciullo non può conoscere, ma deve essere foggiata sul concetto proprio della mente del fanciullo. Laonde se si classificassero le piante da' semi e germi, non sarebbe questa maniera opportuna; non vuolsi classificar ciò che germina , ma semplicemente ciò, che è piantato in terra e cresce . Di più le qualità astratte, che fondano le classi diverse, devono essere tali, che non pur non trapassino l' ordine delle intellezioni, al quale trovasi a gioco la mente del fanciullo, ma s' abbiano anche in sè lo stimolo , che possa scuotere e tirare la sua attenzione; che è la seconda condizione richiesta, come dicevamo, acciocchè il fanciullo possa intendere quello che noi gli vogliamo insegnare. Il quale stimolo nel caso nostro sono i caratteri sensibili, e tra questi i più grossi e appariscenti: caratteri stampati nel suo senso, nella sua imaginazione, nella sua memoria. I quali caratteri consistenti in qualità sensibili avvicinano il concetto astratto al concetto pieno (universale, non astratto); e però formano quelli, che noi chiamiamo semi7astratti, che sono acconcissimi alle menti de' fanciulli. Tutta la classificazione delle rose che noi abbiamo già recata in esempio è fondata in questi semi7astratti, cioè non è che una classificazione, che ha per idea massima un' idea specifica7semi7astratta (l' idea specifica della rosa). Che anzi se ben si considera tutte le classificazioni, che si possono fare delle cose insensitive (il che è quanto dire tutte le fisiche discipline) hanno per idea massima un' idea specifica astratta, cioè l' idea della sostanza corporea. Tutta l' infinita scala di suddivisioni della sostanza corporea non è che una scala d' idee specifiche semi7astratte, che discende fino al primo gradino, che è l' idea piena (idea dell' individuo universale, ma non astratto), col quale finisce il mondo ideale. Fuori al tutto di esso rimane la sussistenza delle cose, che costituisce il mondo reale. Di che si può conchiudere, che l' ordine, col quale si deve procedere col fanciullo nominando le cose co' nomi più e meno comuni, risguarda, la maggior parte, quella classificazione che dall' idea specifica astratta discende per le semi7astratte fino al sussistente. Una delle cose difficili, che al senno dell' educatore spetta di determinare si è « che cosa in ciascuna età il fanciullo faccia da se stesso e che cosa deva fare l' educatore intorno a lui ». Egli è certo, che la natura nel bambino ha un' azione benefica, la quale deve rispettare l' educatore e ben guardarsi dall' interrompere o dal turbarla. Ora, ella è cosa veramente ardua il conoscere quest' azione della natura e la sapienza dei suoi fini, e pochi sono quelli, che sentano intimamente con quanta religione quest' azione voglia essere rispettata. Si vuole sempre far troppo; la nostra presunzione ci conduce a formarci delle opinioni con precipitazione; e sicuri di noi stessi crediamo di potere con tutta facilità far meglio, che la natura stessa non faccia, insegnare e emendare a bacchetta questa gran madre. La natura che opera nel fanciullo produce incessantemente colle spontanee sue operazioni calma, seremntà, ordine, sviluppo ordinato di tutte le facoltà . A ottenere questi effetti, di cui essa natura ha il segreto, assai sovente è corto l' intendimento dell' educatore; e colla sua azione positiva ottiene il contrario, cioè agitazione, turbazione, disordine, ravviluppo, confusione negli atti delle facoltà, le quali l' una sull' altra s' impediscono e offendono. Questa considerazione importante somministra delle regole generali d' educazione infantile: eccone alcune che, quantunque già note, pur non sono mai abbastanza ripetute. 1 Non toccare il bambino, quando trovasi tranquillo e contento nel suo stato. 2 Per evitare, che sia sturbato nella sua serenità, farlo conversare più colle cose, che colle persone; giacchè quelle prime non sono indiscrete e non intervengono a mutare e alterare l' azione naturale del bambino, come sogliono far queste. 3 Le persone accorrano ad aiutare il bambino, quando è stanco delle cose. 4 Le persone, che trattano il bambino, sieno sinceramente cordiali e benevole (1). 5 Non agitino troppo il bambino nè fisicamente, nè moralmente con troppe carezze o eccitandolo a soverchia gioia; piuttosto lascino che egli giochi con cose passive anzichè attive. Non so se la regola d' educazione inglese di parlar sempre basso a' bambini sia bona. Vedo, che la voce bassa è meno eccitante; ma parmi, che il principio di non sturbare e urtare il bambino sia di soverchio applicato, parmi che si voglia andar al di là della natura stessa in questa parte. Io credo all' incontro, che sarebbe utilissimo l' osservare quest' altre regole « fare in modo che il fanciullo udisse sempre a parlare con voce dolce, ben intonata e ben modulata, trascorra pure per tutti i tuoni ». La voce del fanciullo è fatta acuta da natura, perchè dovrà nuocergli il tuono alto? E` l' aspro, l' ingrato, il falso, lo scordato, il troppo forte che può turbarlo e distrarlo e inasprirlo: non il tuono naturale e mediocre, qualunque egli sia. Anzi io credo dover essere al fanciullo vantaggioso esercizio, come ho toccato innanzi, fargli udire tutti i suoni per ordine, e ordinatamente le loro consonanze. Egli è però certo, che tutta l' educazione non deve essere negativa: l' educatore o l' educatrice deve intervenire anche positivamente. Primieramente tutti quelli, che non vogliono adulare la natura umana, la riconoscono in parte difettosa: ella manifesta assai per tempo delle disposizioni maligne. Di poi la volontà dell' uomo da prima si piega spontaneamente dietro le disposizioni naturali benigne e maligne, onde mostra anch' ella un misto di bene e di male. Non v' ha dubbio, che l' arte deve accorrere ad emendare i difetti della natura e della volontà: a prevenirli: ad allontanare le tentazioni: ad avvicinare le occasioni della virtù. La divina Providenza col far nascere l' uomo nel seno della società, lo consegna a' suoi simili, acciocchè essi lo aiutino nella sua debolezza, dirigano nella ignoranza, correggano nelle sue difettose tendenze. Non vi ha dunque dubbio, che l' educazione deve avere la sua parte positiva; ma qual è questa parte, quanto ella si estende? Qual è la parte positiva dell' educazione in ciascuna delle età dell' uomo? Ecco de' nuovi problemi d' immensa difficoltà a risolversi: de' problemi, che nella pratica ricevono infinite diverse soluzioni secondo le circostanze dell' allievo, circostanze esse stesse difficili a raccogliersi e certificarsi. Si può dire in generale, che la parte positiva dell' educazione intellettuale e morale deve essere minima nella prima età e venirsi estendendo sempre più nelle età successive: ma quale è la legge, secondo la quale si rende sempre maggiore la parte positiva? In una parola quali sono i suoi confini nelle singole età? Ecco ciò che, moltiplicandosi le esperienze e le osservazioni, le quali grazie al cielo si cominciano già a fare (ed è pur tempo, che si tolga ad applicare alla pedagogia l' arte dell' osservare e dell' esperimentare), si potrà giungere a determinare. Intanto contentandoci noi d' additarne la via (perchè di più confessiamo ingenuamente di non sapere), porremo innanzi un principio evidente da se stesso e su questo poi condurremo il ragionamento. Adunque, evidente cosa è, che non si deve pretendere o esigere dal fanciullo l' impossibile, ma ciò solamente, ch' egli può dare. Convien dunque sapere, che cosa il fanciullo possa dare in ciascuna età: ecco il difficile a determinare. Il signor Naville conobbe che qui stava il nodo della questione, trattandosi di educare le facoltà intellettive del fanciullo (1); ma la stessa questione va ugualmente applicata alle facoltà attive e morali. Devesi sempre sapere che cosa possiamo pretendere, che il fanciullo ci dia colla sua volontà, e non esigere da lui di più, ciò che sarebbe ingiustizia. Ora quanto all' intendimento, tutto lo scopo di quest' opera mira a determinare con precisione i passi che fa l' intendimento del fanciullo, affine di venire a conoscere che cosa in ogni età si possa da lui pretendere. La volontà poi tiene dietro ne' suoi passi all' intendimento. Sarebbe dunque cosa irragionevole il pretendere dal fanciullo, che egli volesse un bene che ancor non conosce; o fuggisse un male che pure non conosce. E pure è questo che si pretende il più delle volte dagli educatori: questi vogliono che il fanciullo pensi come essi, che voglia come essi, operi come essi; o per dir meglio vogliono che il fanciullo pensi, voglia, e operi com' essi veggono che si deve pensare, volere, e operare. L' ingiustizia di codesti educatori nasce dalla loro ignoranza. Essi si sono fatte delle regole di operare, e pretendono, che il bambino abbia le stesse regole. Quando non possono pretendere ciò per l' enormità dell' assurdo, allora tutt' al più si riducono a dire, che il bambino non ha punto regole di operare, perchè non è ancora arrivato all' uso della ragione. Così vanno da un estremo all' altro. E infatti il bambino non ha certo le regole di operare dell' adulto, e il pretenderlo è una grossolana ingiustizia. Ma è parimenti un errore il supporre, che il bambino sia sfornito al tutto di regole . Egli ha le sue; e convien dirigerlo non colle nostre ma colle sue. Vero è ch' egli mostra di nulla intendere quando gli proponiamo le regole nostre; ma s' indurrebbe da questo a torto l' assenza di regole nella sua mente: è nostro il torto che non le conosciamo, che non le sappiamo in lui osservare e rilevare: egli non le ha certo in forma astratta; ma ben presto la sua mente gli porge tali regole, la formazione delle quali è ciò che dovrebbe fare l' oggetto dello studio dei pedagogici; ed è ciò in pari tempo che fu fin qui al tutto dimenticato: non si sospettò neppure che tali regole si formassero nelle prime età dell' infanzia. Già abbiamo veduto, che fino dal primo ordine delle sue intellezioni il bambino percepisce l' essere sensitivo e intelligente; come pure percepisce l' oggetto bello agli occhi suoi. Ecco qua la culla delle due prime norme del suo operare: dietro a queste norme dirige le sue affezioni: l' essere sensitivo7intellettivo è tosto da lui amato, l' oggetto bello è da lui ammirato. Egli distribuisce adunque la sua benevolenza e la sua ammirazione dietro a' primi lumi del suo intendimento: l' atto morale nasce incontanente dietro l' atto intellettivo. Gioverà qui anco osservare che questi due effetti della ammirazione e della benevolenza sono meno distinti nel bambino che non paia. Infatti ciò che egli ama propriamente si è il bello; è quello che egli ammira . L' ammira e perciò l' ama: l' ammirazione è quella prima stima, nella quale ha sua culla l' amore. Accordo bene che egli trova una reale differenza tra il volto di sua madre, e un bottone che luce; ma questa differenza non è reale e specifica, se non nella supposizione da noi fatta, che v' abbia qualche operazione delle anime fra di loro, mediante i corpi animati. Per altro noi già vedemmo, che il bambino dà l' anima anche al bottone che luce e a tutte le cose; e però non solo ammira, ma ama anche il bottone. Tanto è vero, che il fanciullo ama ciò che prima ammira, che nella lingua infantile bello significa lo stesso che amabile; e brutto significa lo stesso che disamabile. Queste due parole hanno un' estesissima significazione presso i fanciullini. Lo stesso rimane provato dall' osservazione già fatta prima d' ora, che la compassione ne' bambini si spiega verso le cose belle agli occhi loro, e il loro cuore indurisce, ove si tratti di cose che loro sembrano deformi (1). Nella seconda età le norme dietro le quali il bambino dirige i suoi affetti prendono per lui un' altra forma. Avendo sonato a' suoi orecchi le voci di bello e di brutto, di bene e di male ecc.; egli non segue più co' suoi affetti i soli oggetti buoni e belli, ma già un qualche tipo di bontà e di bellezza si è formato nella sua mente, egli vagheggia quest' astrazione, egli per essa intende e pone amore anco a degli oggetti buoni e belli assenti, li desidera, impara a cercarli; e il contrario si dica dei cattivi. Vero è, che questa sua regola astratta, questo primo tipo del bene è ancor prossimo all' oggetto: da prima non è che il suono del vocabolo associato a diversi oggetti, della cui percezione ha memoria, e di cui ritien l' imagine, ma un po' alla volta diventa una vera idea semi7astratta; cioè composta dalle idee imaginali degli oggetti veduti. Quest' idea semi7astratta, tipo della bellezza e della bontà, è la più prossima delle idee dopo le imaginali agli oggetti: è con una regola così vicina, che non ha che a fare un passo per giungere all' oggetto. Quindi gli affetti, che sono da essa diretti, ritengono ancor molto del primo foco, dell' originale impetuosità de' primissimi (1). Nè il bambino mette fin qui in gioco molti mezzi per giungere all' oggetto bramato, ma si slancia direttamente verso di quello. Or questo tipo ideale del bene, che il fanciullo si forma già fino dal secondo ordine delle sue intellezioni, questa regola del suo operare è diversa in quanto alla forma dalla regola presentatagli dalla natura stessa durante il primo ordine delle sue intellezioni; ma nel fondo è la medesima. Era il bello e il buono ciò, che il fanciullo ammirava e amava, tanto nell' un tempo che nell' altro; ma prima amava e ammirava gli oggetti belli e buoni; dipoi cominciò ad amare il bello e il buono negli oggetti. Il bello e il buono si presentò in novella forma alla sua cognizione: ma la volontà ebbe sempre a suo scopo l' oggetto stesso. Ora questo stesso oggetto, questo buono e questo bello, che forma l' oggetto de' primi affetti del neonato, continua ad esser pure l' oggetto costante degli affetti umani in tutta la vita dell' uomo, nel tempo del suo maggior vigore e sviluppo intellettuale, e quando invecchiando declinano le sue facoltà; egli è l' oggetto, a cui l' uomo volge l' ultimo sospiro morendo e che spera di rinvenire nella eternità. Ma se nel suo fondo l' oggetto è identico, non è identico però il modo, nel quale l' uomo lo concepisce; e quindi gli atti della volontà si modificano anche essi a tenore della forma, nella quale l' intendimento le presenta il bello ed il buono. Questa forma emigra in ogni ordine d' intellezioni. Ma come, oltre quel progresso, che consiste nel passaggio da una intellezione all' altra, avvi un progresso, che si fa entro ciascun ordine d' intellezioni, il qual secondo progresso esige pure non poco tempo; così anco il tipo del bene regolatore della volontà conserva la forza propria d' un dato ordine d' intellezioni, si amplifica e si perfeziona. Il seguire queste mutazioni di forma d' un ordine all' altro, come pure i gradi di perfezione entro l' ordine stesso, è l' arduo lavoro proposto alla meditazione degli istitutori della gioventù. Perocchè questi devono in ogni età del fanciullo servirsi di quel tipo che egli ha in mente, per guidarlo sulla strada della virtù: ed è questo, che essi possono e devono esigere da lui nè più nè meno, ch' egli sia virtuoso secondo quella regola di virtù, che in lui si trova formata dalla natura e non secondo un' altra. Il non esigere dal tenero fanciullo nessuna pratica di virtù è lassismo pedagogico, che nasce da ignoranza; l' esigere che il fanciullo sia virtuoso secondo una regola, che egli ancor non vede, è un rigorismo, un assurdo, una tirannia pedagogica: questa trae dietro di sè la violenza, il mal umore, l' ira cieca del precettore, la sola cosa che impari da lui lo sgraziato discepolo. Il fanciullo devesi dunque sempre considerare come un essere morale, perchè è sempre tale, ma devesi investigare in pari tempo qual sia in ciascuna sua età la forma e la natura della sua moralità: e questo è quel segreto, che non si rapisce alla natura fanciullesca, se non con immensi studi, lunghe osservazioni e profonde meditazioni. Giunti noi al second' ordine d' intellezioni del bambino, abbiamo anco indicato qual possa essere la forma della sua moralità. Egli ha un' idea del bene già divisa dagli oggetti sussistenti, benchè questi or l' uno or l' altro s' associno continuamente ad essa. Quest' idea non solo è divisa dagli oggetti sussistenti, come sono tutte le idee imaginali, ma essa differisce anche da queste. Perocchè le idee imaginali fanno conoscere l' oggetto fedelmente tal quale egli apparì ai sensi; ma l' idea del bene non esprime le parti indifferenti e male dell' oggetto, ma solamente l' elemento buono; come l' idea del male, lasciate pure le parti indifferenti o buone dell' oggetto, non ritiene che l' elemento malo. Quest' idea del bene o del male non è adunque solamente universale, come sono tutte le idee imaginali; ma ell' ha anco dell' astratto in quanto che non richiama l' attenzione se non ad una determinazione, ad una qualità sola dell' oggetto, lasciate le altre. Ma che cosa è il bene e che cosa è il male per un bambino, il quale non eccede nel suo sviluppo il second' ordine d' intellezioni? L' astrazione, che ha esercitata questo fanciullo per giungere a formarsi quelle sue idee di bene e di male, non la potè esercitare se non sulle percezioni delle cose sensibili e sulle loro idee imaginali: perocchè non vi era altro nel suo spirito, che fosse idoneo a trarre a sè l' attenzione. Il linguaggio pure, che gli fu strumento ad eseguire questa grand' opera d' estrarre dagli oggetti percepiti, imaginati, ideati l' elemento buono e il cattivo, guidò sempre la sua attenzione agli oggetti sensibili, perocchè fu di questi, che sentì dirsi dalla madre o dalla nutrice « questo è buono, questo non è buono, questo è malo ». Il bene ed il male adunque, di cui ha l' idea il nostro bambino, è un bene ed un male presentatogli dai sensi. Questo bene e questo male ha in sè un elemento soggettivo ed un elemento oggettivo . L' elemento oggettivo appartiene all' intelletto, ed è quel bello e quell' ammirato, che ammira ed ama tanto il fanciullo. Come ho detto, pare, che l' osservazione più accurata dimostri, che il fanciullo da principio giudichi tutto animato. Ma questo giudizio, col quale il fanciullo giudica animata ogni cosa, non si deve confondere colla congettura che ho fatto di sopra, cioè, che ciò che è veramente animato eserciti sul fanciullo un' azione veniente dall' anima, benchè per mezzo del corpo e fondentesi sull' altr' anima, benchè pure per mezzo del corpo. Se quest' azione, a cui finora i filosofi non hanno fatto attenzione, è un fatto che si verifichi ed accerti, l' effetto di quest' azione nel bambino è un sentimento , e non dee confondersi col giudizio , che fa il fanciullo stesso. Questo può essere erroneo; il sentimento è sempre reale; il fanciullo può operare dietro il sentimento e dietro il giudizio . Il sentimento , fin che non viene percepito dall' intelletto, non ha che una esistenza soggettiva. Vi avrebbe dunque nel bene percepito dal fanciullo un elemento soggettivo doppio, cioè la sensazione corporea e il sentimento animastico . Trovata così l' analisi del bene del fanciullo nasce la domanda, se nell' idea che il fanciullo si fa del bene entri non meno l' elemento oggettivo che il doppio elemento soggettivo. Questa domanda è importante per lo scopo di determinare qual sia lo stato della mente e dell' anima del nostro bambino rispetto al bene. A rispondervi conviene richiamarci alla mente due principii da noi posti: 1 Che i primi stimoli che tirano a sè l' attenzione del bambino sono gli esterni; verso gli esterni oggetti ella va sempre spontanea e non si ripiega sul soggetto se non tardi, costrettavi da cause speciali. 2 Che nelle prime percezioni il soggetto intellettivo non fa che affermare un' entità, ma non le qualità o determinazioni di quelle entità, le quali determinazioni s' appaga d' averle nel sentimento; e sol dopo, un po' alla volta, secondo i bisogni che il movono, egli posa la sua attenzione anche sulle determinazioni sensibili dell' ente. Ora egli è certo che trattandosi di formarsi un' idea di bene, è necessario che quest' idea sia preceduta da delle percezioni del bene; perocchè ogni idea di bene è idea7concetto (1). Le percezioni adunque su cui vien lavorata l' idea del bene (per quantunque questa sia imperfetta) non debbono essere delle pure percezioni, nelle quali si afferma solo l' essere, ma delle percezioni già alquanto perfezionate, in cui si afferma ancora il bene. Ma l' affermare il bene, l' affermare un ente buono è affermare un oggetto; e l' affermare un oggetto senza più è operazione infinitamente più facile e più spontanea allo spirito che non sia l' affermare sè soggetto, cangiando così il soggetto in oggetto dell' intelletto. Fino a questa terza età niente può spingere l' uomo a far prendere alla propria attività un giro così opposto al naturale, niente ricaccia quell' attività intellettiva che ha preso a moversi in linea retta, la ricaccia, dico, indietro sui suoi passi, la fa ricadere sopra se stessa, nel seno di quel soggetto da cui emana. Noi parleremo più innanzi della cognizion di noi stessi e mostreremo quanto tardi ella si manifesti nel bambino. Non avendo adunque il bambino ancora di se stesso notizia, egli non può attribuire a sè l' elemento soggettivo. Ma posto ciò, non potrà egli tuttavia percepirlo? Egli lo percepisce certamente, altramente non potrebbe estrarre l' idea del bene dalla percezione; ma egli non lo riconosce come soggettivo ; lo percepisce come un semplice oggetto . Di qui avviene che gli stessi suoi piaceri, i suoi stessi dolori, che in quanto sono sentimenti esistono nel soggetto in quanto sono osservati e percepiti dall' intendimento del bambino sono oggetti, sono qualità e proprietà degli enti reali che l' intelletto suo percepisce. Onde tutti gli affetti di ammirazione e di benevolenza, di abborrimento e di odio che si manifestano nel bambino non risguardano già i propri piaceri e i propri dolori; ma risguardano gli oggetti piacevoli e i dolorosi: egli vede in questi la sede di quel piacere e di quel dolore che esperimenta. Sebbene adunque ciò che sente il bambino sia in lui pel senso; tuttavia ciò che sente è fuori di lui per l' intelletto; e vi vuole un lungo tempo prima che l' intelletto restituisca al soggetto i suoi piaceri. Quello poi che nasce de' piaceri e de' dolori nasce ugualmente di tutte le sensazioni che l' uomo ha mediante gli organi esterni. L' intelletto che ha per legge di concepire ogni cosa oggettivamente, vede le prime sensazioni, cioè il colore, il sapore, l' odore ecc. negli oggetti da lui affermati colla prima sua percezione, affermati con questa percezione in conseguenza della azione esercitata da essi nel suo senso. Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

Racconti 2

662702
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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A sant'Antonio abate non avea mandato ogni giorno un corvo con la pagnottina al becco? Il Padre della misericordia avrebbe certamente ripetuto il miracolo per lui, visto che voleva far penitenza di tutti i peccati picchiandosi giorno e notte il petto con un sasso, piangendo lagrime di sangue! La Salara lo attendeva in campagna, e si era preparata un bel discorso per intenerirlo. A questo scopo aveva condotto là anche il ragazzo, che da tre giorni metteva a sacco le piante dei carciofi e delle fave, e correva come un frugolo dietro le farfalle, tra i seminati, pestandoli senza pietà, quantunque la mamma lo sgridasse e lo inseguisse per scapaccionarlo: - Fermo, diavolino! Arriva tuo padre! - Ma don Ilario non si era fatto vivo, neppure tre giorni dopo che gli esercizi spirituali dei galantuomini erano terminati; né si sapeva niente di lui. Era sparito di casa senza dir motto a nessuno; e la gente lo diceva andato via a farsi frate, impazzito dagli scrupoli. Mentre la Salara, piú sporca e piú cenciosa, si abbrustoliva al sole, con gli occhi alla strada, sperando di vederlo spuntare da un momento all'altro, e temendo di veder spuntare invece il fratello di don Ilario, per cacciarla via lei e il suo mulo - colui non lo chiamava altrimento - don Ilario, con un vecchio giubbone d'albagio, legato ai fianchi a guisa di tonaca da una corda di ampelodesmo, scalzo, recitando rosari e litanie, dormendo qualche ora, a riprese, rompendosi le costole sul nudo masso, faceva penitenza nella grotta di Rapicavoli, e attendeva l'arrivo del corvo che il Signore doveva spedirgli con la pagnottina al becco, come a sant'Antonio eremita. Per precauzione però egli aveva portato con sé una mezza dozzina di pagnottelle e un po' di cacio fresco, da servirgli nei primi giorni, caso mai il corvo del Signore fosse tardato a venire. Al quinto giorno, pagnottelle e cacio eran terminati; e don Ilario, pieno di fede, dopo il tramonto, s'era disteso per terra, coi crampi allo stomaco, rasegnato alla volontà di Dio, prendendo quei crampi in gastigo dei propri peccati; e non gli era riuscito di dormire neppure un minuto. E, insieme coi crampi, eran sopraggiunte le tentazioni. Si vedeva la Salara dinanzi gli occhi; e non quella lurida e stracciata, ma la giovane di vent'anni addietro, bianca e rossa, fresca al pari di una rosa, come quando era venuta in campagna pel raccolto delle ulive, e lui l'aveva sedotta, lusingandola con mille promesse, non mantenute neppure dopo averne avuto un figliuolo. Don Ilario si segnava, mormorava orazioni, afferrava disperatamente la disciplina e picchiava sodo su le sue spalle di peccatore, per vincere le insidie del diavolo che gli presentava quella immagine di peccato mortale, riaccendendogli nel sangue desideri ch'egli credeva estinti per sempre. Ah! Il diavolo voleva cosí farlo ricadere nella colpa, per poi portarselo via su le corna tra le fiamme dell'inferno: - No, tentazione maledetta! Agnusdei chitolli speccata mundi! - Ma neppure quel latino aveva giovato. - Che nottata eterna! - Vedendo i primi chiarori dell'alba, don Ilario si era sentito rassicurare. Affacciatosi alla bocca della grotta, spiava il cielo bianchiccio e la vasta campagna sottoposta, tutta verde di seminati; e intanto si premeva lo stomaco con le braccia, per attutire gli stiracchiamenti e i crampi venuti a torturarlo piú insistenti e piú forti. La sua fede, in verità, non vacillava ancora al sesto giorno; ma egli già cominciava a pensare che il corvo messaggero di Dio doveva aver preso la via piú lunga per arrivare lassú fra le rocce ... Appunto, ecco il corvo che aliava in alto, gracchiando, facendo larghi giri, accostandosi, allontanandosi, abbassandosi quasi a fior di terra e risalendo ad ali spiegate, remigando lento per l'aria! ... Non doveva essere quello spedito da Domineddio colla pagnottina al becco, se no non sarebbe rimasto cosí lontano, a tessere e ritessere circoli nell'azzurro del cielo, facendo straluccicare le penne al sole, gettando attorno per la campagna i suoi crà crà crà! ... Allora don Ilario rammentò le parole di padre Francesco: - Non fate come il corvo, che dice cras! cras! domani, domani! - E si fece animo. Quel corvo forse era mandato ad annunziargli l'invio del pane per domani. Le lagrime gli spuntarono dagli occhi, e una gran commozione gli rammollí le gambe: - Signore misericordioso! - Però stese una mano, strappò un cesto di acetosella e cominciò a masticarlo; poi ne strappò un altro, poi un altro; e andò a bere un sorso d'acqua alla fonte accosto. - Gli antichi eremiti non facevano cosí? - Gli parve anzi che l'acetosella avesse un sapore squisito, senza dubbio per grazia divina, perché un'altra volta egli non aveva finito di masticarla, tanto gli era parsa cattiva. Riprese il rosario e le litanie, e recitò un centinaio di volte gli atti di fede, di speranza, di carità e di contrizione nel corso della giornata, fino a sera. Verso il tramonto, il corvo tornò ad aliare per la campagna, facendo larghi giri, gracchiando piú forte nel silenzio della sera, crà, crà, crà. Ma la dimane, e il giorno appresso, non si fece neppur vedere. I crampi, acutissimi, insoffribili, spingevano don Ilario a rivoltolarsi per terra, con gran zufolio negli orecchi, con la vista intorbidata e la lingua arida, rastiante e incollata al palato. Il Signore voleva dunque gastigarlo a quel modo, lasciandolo in balia delle tentazioni? ... Ah, Madonna dei sette dolori! Ah san Giuseppe protettore! A un tratto gli parve di sentirsi chiamare e vedere, su l'entrata della grotta, un'ombra apparire e sparire; certo il diavolo in persona! E si nascose la faccia tra le mani, invocando tutti i santi del paradiso: - Gesú! ... Maria! ... Giuseppe! ... - La mattina dopo, alla voce della Salara che lo chiamava: - Don Ilario! don Ilario! - alle scosse delle mani che l'avevano afferrato per un braccio, egli aprí a stento gli occhi; e sentiva un subitaneo gran ristoro al buon profumo di quel piatto di maccheroni che la Salara gli aveva portato. - Don Ilario! ... don Ilario! ... Pazzo da catena! Sareste morto di fame, se non vi avesse scoperto il vaccaro! - - Quei maccheroni, - soleva dire don Ilario, tutte le volte che ne riparlava, - quei maccheroni me li avrà, forse, portati il diavolo sotto le sembianze della Salara; ma ci fu anche la volontà di Dio. Se il Signore avesse voluto farmi sciogliere dal legame con la Salara, avrebbe mandato il corvo, come fece con sant'Antonio eremita. - E perciò tu sei ora un sant'Antonio al rovescio - conchiuse un giorno suo fratello. - Quegli, oltre al corvo, aveva il porco; tu invece hai la troia!- Catania, 20@ 20 aprile 1888@. 1888.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 3 occorrenze

. * mormorava l'avvocato Ilarione Gioiazza rimasto nell'anticamera con il prof. e abate Vigo Razzoni. E il padre droghiere romanizzato: * La tradurremo all'Ospizio del Santo Oblio ... Invece appunto in quella mattina la Contessa Nerina De Ritz nata Vispi ed Adriano Meraldi avevano lasciato il grand Hotel Lido per salire sull' Ofelia , che salpava verso l'Oriente. Dalla balaustra sotto il gabbiotto di prora la Contessa con un gomito sopra una spalla di Adriano scioglieva un inno intimo alla libertà coniugale ... Le onde che si increspavano alla fenditura mandavano immagini di ninfe plaudenti, sprizzanti ... Orazio e Virgilio, Camoens e Shakespeare, o maggiori poeti, che abbiate dato i migliori augurii del mare, dateli agli amanti nel concerto della poesia universale ... Esaurito l'amore di Venezia, andranno a fruire l'amore del Bosforo, così dolce di fosforescenza da meritare per un bacio la traversata mortale ... * Tutta per te! * faceva sentire Nerina ad Adriano con un premito di Odalisca ... Tutta per te ... Paese che vai, usanza che trovi ... A Costantinopoli sarai il mio sultano senza harem ... Io sarò la tua unica schiava ... Poi risaliremo tra le rive pittoresche del Danubio mezzo turco e mezzo cristiano nel cuore della Germania, e ci faremo santamente marito e moglie ... Bella silente premeditazione di santità! Tradire un nuovo marito, avendo riconosciuta l'insulsaggine di tradire un libero amante ... Ed Adriano, avvinto da quella ondata di capricci voluttuosi, pensava alla vittoria riservatagli quando moveva al gran conquisto per il concorso di Pompei ... Così ripigliato dai ricordi arcaici non poteva presentemente liberarsi del bagaglio letterario scolastico di un'immagine dantesca: Sicura, quasi rocca in alto monte, ... una puttana sciolta m'appare con le ciglia intorno pronte ... ... ... ... ... ... .. l'occhio cupido vagante ... Ed avrebbe voluto essere lui il feroce drudo del Purgatorio di Dante per flagellarla dal capo insin le piante. Mentre il vizio salpava libero, appena rinserrando immagini letterarie, le reali costrizioni imprigionavano o salvavano la Virtù perseguitata ed innocente.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 2 occorrenze

Questi giudizi autorevoli come nessun altro, e meritati, devono avere largamente compensato il Faldella della critica severa, acerba, non sempre spassionata che gli mossero in tempi diversi parecchi giornali umoristici, il celebre grammatico piemontese abate Perosino nel giornale scolastico "Il Baretti" ed altri giornalisti, più o meno sacerdotali, in giornaletti di provincia. Il caso occorso a Giovanni Faldella coi lettori della "Gazzetta piemontese", doveva rinnovellarsi, l'anno appresso, con quelli del "Fanfulla". Nel 1874 appunto, il giovane scrittore mandava al giornale romano i suoi nuovi Reisebilder, cioè quelli di Geromino sindaco di Monticella: e li intitolava amenamente con un motto proverbiale Viaggio a Roma senza vedere il papa. Lavoro questo inzuppato di sano umorismo italiano, e ricco di osservazioni finissime, e salienti nella festevolezza inarrivabile e scoppiettante delle frasi. Esso piacque, segnatamente alla clientela maschia del giornale; ed eguale accoglienza ottenevano le caratteristiche corrispondenze che egli, in quel torno di tempo, mandava da Torino al "Fanfulla" stesso firmandole Pofere Maurizie: onde fu con frasi mirifiche che di lì a poco la direzione del giornale dava l'annunzio della prossima pubblicazione di un nuovo lavoro del Faldella, Un serpe. Storielle in giro, strombettando che d'allora in poi l'appendice del "Fanfulla" si sarebbe innalzata ad altezze vertiginose ed inesplorate. Ma contrariamente ad ogni previsione, dopo tre sole appendici il romanzo rimase in asso; e dal giornale, per necessaria logica di fatti, scomparivano simultaneamente le corrispondenze di Pofere Maurizie, a cui succedeva, nella carica, l'avv. Vitale, che assumeva il pseudonimo foscoliano di Jacopo. Quel cambiamento a vista era successo per cagione di talune lettrici del "Fanfulla", delicate oltre la misura, e troppo use alla proverbiale eleganza di Fantasio, al discreto pettegolezzo parigino di Folchetto, alle riguardose scollacciature di Neera, e ai chlichés concernenti una mezza dozzina di signore della haute che, colle loro acconciature e cogli abiti trinati, vellutati, profumati, e tagliati da Wort o dalla Tua, ritornavano, regolarmente come le fasi della luna, a rimpolpettare la rubrica conservatrice intitolata High life. Siffatte lettrici del "Fanfulla" che pure avevano sopportata la gioiosa meraviglia del sindaco Geromino nel corpo del giornale, protestarono poi, strillarono contro il Serpe in appendice: protestarono, strillarono contro quella insolente freschezza di salute paesana, contro quel gorgoglìo insolito di frasi audaci, senza leccature melliflue. Poverette! Battistina, un bel pezzo saldo di ragazza fiorente, dalle guance colorite come una mela appiuola, esuberante di salute e di letizia; il medico Giannozzi, suo padre, devoto adoratore del bollito cotto a punto, che tirava via fra la gaiezza provinciale del paesaggio monferrino, cavalcando la sua brava mula, detta la Giggia, dall'allegra sonagliera, - urtavano, sconquassavano troppo i loro sentimenti di eleganza convenzionale, il romanticismo sciroppato del loro cuoricino: onde erano parate a gridare shocking! come le zitellone inglesi. E la direzione piegavasi ossequente alla gentile volontà femminea, alla vezzosa e profumata turba di leggitrici, onde onoravasi il giornale cavaliere. In seguito, allorché ad un redattore del "Fanfulla" accadde di raccattare, nel compartimento di un carrozzone di ferrovia, un numero del "Caffaro" che recava in appendice un bozzetto del Faldella, quel redattore si divertì, per sfoggio di umorismo, a cincischiarne alcuni monconi di periodi barbaramente. Allora l'antico Pofere Maurizie, giustamente irritato di quell'operazione, ripicchiò a dovere sulla "Gazzetta piemontese letteraria" il crudo umorista che non rispose più colpo. Nel frattempo, il Faldella, disgustatosi della letteratura giornalistica, in un momento di umor nero, accettò l'invito che gli veniva fatto di riprendere l'avvocatura, come collaboratore in uno dei primari uffici vercellesi di cause civili. E per un mesetto egli allora disputò davanti al tribunale civile di Vercelli; disputò di sortumi d'acqua, di vizi redibitori, e di separazioni coniugali, comprimendo le aspirazioni artistiche turbinose che gli avvampavano sempre per la mente feconda; ma non passò gran tempo che egli se ne ritornò al villaggio natio, nemico definitivo dell'avvocatura. Un chierico con vocazioni secolaresche che butta il collare alle ortiche, un prigioniero politico, che saluta coi liberi tacchi il selciato della patria libera, sono immagini sbiadite per rappresentare la felicità del bozzettista, che ha dato addio ai codici ed alla toga, riprendendo gli antichi amori artistici. Imperocché non era stato nella "Gazzetta piemontese" o nel "Fanfulla" che egli aveva iniziate le sue prime avvisaglie artistiche e i suoi primi studi letterari. Nel 1865, allorché era studente di legge all'università di Torino, aveva cominciato a pubblicare nel "Novelliere della Domenica" del Pietracqua un suo discorsetto: La festa di Dante, estratto da un imparaticcio di commedia inedita, poiché egli in quell'epoca andava scrivendo commedie e poesie italiane e piemontesi che riservava agli amici. Nel 1868, conseguita la laurea, si era inscritto nell'ufficio dell'avvocato deputato Luigi Ferraris, che poi divenne ministro dell'Interno, sindaco di Torino, conte, senatore ecc. Ma in quello studio, mentre sfiorava con parsimonia qualche fascicolo di liti, si regalava sovratutto colla lettura di libri di filosofia, di storia e curiosità giuridiche, scartabellandovi con un che d'intuizione dell'avvenire gli atti del Parlamento. Nel principio del 1869 egli, in unione coll'avvocato Muggio, con l'ingegnere Mora, e col prof. Coggiola, fondava in Torino un giornale letterario: "Il Velocipede, Gazzettino del giovane popolo". Il quale sia nella forma, sia nell'indole, mostrava apertamente di procedere in retta linea dal "Dagherotipo", il giornale brofferiano del 1840. Giovanni Faldella, in omaggio al titolo d'attualità, onde aveva decorato quel suo foglio, vi assunse il meteorico pseudonimo di Spartivento; e a malgrado dell'audacia di quel battesimo, vi svolse una prosa sempliciona a contorni ristretti, piuttosto secca, puristica e giustiana; poiché del Giusti egli era assai nutrito, e, scrivendo, non lasciava per anco intieramente libero adito alle originalità della sua mente. Ed il Mora, il quale ora è un fortunato costruttore di case e di teatri in Roma nuova, dove informa con venustà plastica i suoi ideali artistici, vi pubblicava contemporaneamente briose spumeggiature carnevalesche e la Dinamica del Velocipede, curiosissimo lavoro, testo dei velocipedisti. Il "Velocipede" dilettò per qualche tempo i buoni torinesi che si compiacevano di quel titolo, essendoché allora essi amavano assai il vedere di notte, nei larghi viali della città, spuntare d'improvviso nell'ombra, passare e sparire come razzi, come lucciole impazzite nella ventata di un turbine, le lanterne dell'economico e rotatorio bucefalo venutoci in voga. Ma l'entusiasmo nei fondatori andò presto evaporando, ed il giornale via via si faceva clorotico; cosicché si pensò di cederlo all'avvocato Nicetti, ferace ingegno e temperamento generoso da letterato estemporaneo e transitorio, il quale trasformatone poi il titolo, forse rimase in dubbio se dovesse farne l'organo didascalico della democrazia, o piuttosto l'organo ufficiale scientifico della pollicoltura italiana pei gentiluomini di campagna. Della prosa, che il Faldella scodellò su quel giornale, doveva in processo di tempo galleggiare e conservarsi un solo frammento a cura del dottore Senatore Paolo Mantegazza, il quale lo raccolse e lo dispose con evidente compiacenza, in uno dei suoi celebrati almanacchi, ad illustrazione del Ratafià di Andorno, gloria di quella terra come Pietro Micca. Intanto il Faldella si era inscritto alla fiorentissima società Dante Alighieri, che allora raccoglieva in Torino quanti giovani d'ingegno sentivano la nobile smania di calmare le inquietudini intime e primaverili nella libera espansione e discussione d'ogni idea artistica, scientifica e letteraria. Quella società era sorta in Torino nel 1864 per iniziativa degli studenti del 3o corso del liceo Cavour - e si era successivamente accresciuta di matricolini universitari, sicché dalla sala dei primi tempi (all'ultimo piano della casa che sta di fronte al palazzo di Carignano) poté trasportare la sede nell'ampio Anfiteatro di Chimica. Ne furono promotori, Cerri, Nizza, Palberti, Cesare Nani, G. C. Molineri, Giuseppe Sarti, Luigi Guelpa, Galateo, Felice Maissa e Roberto Sacchetti, e ne fu presidente per tre volte Pietro Delvecchio, il quale dirigendo quei tumulti di verginità intellettuale seppe formarsi quello spirito cortese, facile e destro e quel sorriso duttile che ora lo accompagna e lo rende simpatico nella scabrosa vita parlamentare. Nella Dante fecero le prime prove d'eloquenza Federico Pugno, Benedetto Marsano e Ernesto Pasquali - ed ivi Giuseppe Giacosa fece udire i suoi primi versi, fra cui la Cantica sul Materialismo, declamandola con una sonorità drammatica sentimentale, che sollevava l'entusiasmo. Ivi Giovanni Camerana, severo ed ardente cultore di arte e di poesia vi scandiva tragicamente i suoi versi cesellati. Quanto quei giovani fossero appassionati sinceramente dell'arte e della letteratura, si può arguire dal seguente aneddoto che Giacosa raccontò in una lettera al Capuana pubblicata dal Risorgimento di Torino, e che il Capuana raccolse nei suoi studi di letteratura contemporanea. La Dante, cedendo alle proposte de' soci più seri, aveva cominciato a discutere alcuni problemi scientifici, sociali, immaginosi, ecc. come il materialismo, lo spiritualismo, la riabilitazione della donna ecc. In fine della discussione si votava la tesi. Una domenica del 1871, al tempo della Comune di Parigi, racconta il Giacosa "si stava per votare, quando entrò nell'aula uno dei poeti, un finissimo disegnatore e coloritore di paesaggi in versi, ora grave e rigido magistrato (il Camerana), il quale, intesa appena qualche proposizione, più pallido e con voce più cavernosa del solito, tenendo in mano un dispaccio telegrafico, tremando per un'emozione profondissima, vibrò queste parole: "Mentre noi diciamo delle corbellerie, bruciano al Louvre i capolavori di Rubens e di van Dyck". Fu un affare finito e non si votò più nulla. In quella folla di giovani, Giovanni Faldella riuscì presto uno dei più notevoli e dei più notati. Alle adunanze pubbliche domenicali che si tenevano dalla Società, interveniva la parte più colta e più curiosa della cittadinanza torinese, a cui piaceva la letteratura; intervenivano assai signore e signorine, forse mosse essenzialmente da simpatie per quella scapigliatura di turbolenti autori in erba. Il Faldella, in una di quelle adunanze, sorse con Antonio Galateo, anima fervida e gentile di oratore lirico, a difendere i romanzi del generale Garibaldi; e poiché nelle adunanze successive l'avvocato Pugno e Giuseppe Giacosa parafrasando ed esaltando una critica di Vittorio Bersezio contro i predetti romanzi, vollero confutarne la difesa, il Faldella replicò loro con ampollosità quasi umoristica di pensiero patriottico. Egli sostenne che il genio ha una potenzialità universale, quantunque in alcune parti possa difettare per mancanza di applicazione e di preparazione. "Davanti ad un uomo grande - egli sostenne - non dobbiamo dimenticare la sostanzialità dei suoi meriti principali. Rimpetto a Garibaldi non siamo pubblico o critici davanti ad un autore, ma soldati e correligionari davanti ad un condottiero e ad un pontefice che deve tuttavia guidare la sua nazione alla sacra meta di Roma. Quindi per nessun modo dobbiamo diminuirne il prestigio. "Se l'eroe, dopo aver compiti fatti grandi e magnifici, vuole ancora rivolgerci generose ed amorevoli parole, noi accogliamole con affetto e riverenza, ancora che non le troviamo vergate con le seste o misurate sulla lavagna. Teniamole in serbo e guardiamole gelosamente come la prima lettera di una sorella, l'ultimo scritto del babbo, o il ricordino di nostra madre... "Se Garibaldi dorme qualche volta nei suoi romanzi, aliquando dormitat Homerus. Io penso che Garibaldi possa riposare di santa ragione, senza che altri lo mandi a letto... Quando Egli entrò liberatore a Napoli prendendo stanza nel palazzo d'Angri, un'immensa folla si accalcava per visitarlo ed acclamarlo. Si annunziò a quella folla che il Generale stanco dormiva. Immantinenti la folla si ritrasse indietro; e tutti camminarono sulla punta dei piedi; e pareva si fosse formato per lo spazio di una lega un circuito di silenzio intorno al Generale, che dormiva". E conchiudeva fra uno scroscio d'applausi: "Lontani mille leghe da lui imitiamo anche noi quel riverente silenzio". Il discorso veniva tosto riprodotto dal "Velocipede". In questa stessa epoca il Faldella, oltre le letture sciorinate alla Società Dante Alighieri, smaltiva ad una Società democratica, L'Avvenire dell'Operaio, che si radunava in un sotterraneo di piazza San Carlo, alcune lezioni veramente libere. Tali letture e lezioni come: Il fine dell'uomo e il perché dei Carabinieri Reali, L'albero della scienza, La storia del mondo, Crescite et multiplicamini ecc. si trasfusero poi nelle Dicerie popolari che più tardi pubblicava sulle "Serate italiane". In esse cominciava ad accentuarsi l'individualità artistica ed apostolica dell'oratore. Ma l'apogeo fulgido della sua vita di lecturer doveva raggiungerlo alla Dante Alighieri con Vita ed Amore, controcicalata a una drammatica lettura sul suicidio fatta dal socio Michele Termidoro, robusto e nutrito ingegno, casellatosi poscia capo ufficio nelle strade ferrate dell'Alta Italia. La lettura tragica di Termidoro, a cui aumentava la intonazione funebre il nome bizzarramente rivoluzionario del conferenziere, commosse talmente gli astanti che se ne volle il bis alla festa annuale della Società, riunione solenne, in gala, con accompagnamento di musica ed intervento delle autorità; ed il Faldella vi contrappose Vita ed Amore quale soavità di rorida speranza, che gli valse l'applauso affettuoso delle signore e signorine. Entrambi i dissertatori vi furono festeggiatissimi: Termidoro come baritono, il Faldella come tenore. Della Società caratteristica questi veniva poscia eletto vicepresidente; ed in essa, cedendo a istinti salubri di allegria, con Giacosa, Molineri, Pugno, Galateo, ecc. egli si prestava a combinare stupende discussioni in versi martelliani. I moniti presidenziali, le scampanellate, tutto doveva essere in versi martelliani; anche le interruzioni. Ed il Camerana austero poeta, in una di quelle divertenti adunanze sorgeva, girava intorno lo sguardo aquilino, e dopo una pausa di aspettazione si rimetteva gravemente a sedere, sillabando come un Torquemada: "Non chiedo la parola!...". Ma in quella fucina, fra la gravità non simulata di taluni momenti, nei quali sprizzavano pensieri alti e generosi, e la farsa acuta ed ironica, si temperavano pure saldamente molti fra i migliori caratteri e si snodavano alcuni fra i più elastici ingegni del Piemonte che ora onorino la coltura nazionale. Nel 1871 il Faldella sparve da Torino per rifugiarsi nella sua nativa Saluggia e proseguirvi eremiticamente nuovi studi, osservando, mulinando e scrivendo; e vi fu eletto Consigliere Provinciale, sopraintendente scolastico, e si occupò a fondare una società artigiana con annessa biblioteca circolante, fino a che nel 1873 se ne andò alla Esposizione Mondiale di Vienna, donde la sua Gita col lapis. In quell'epoca egli passando per Milano, conobbe Salvatore Farina, Emilio Praga, Arrigo Boito, Luigi Gualdo; e nell'avvicinarsi di quegli ingegni che si affiatavano a vicenda, senza nulla perdere delle proprie caratteristiche, si andava preparando miglior avvenire all'Arte della nostra giovane letteratura nuova. In quell'epoca scarseggiavano i giornali letterari popolari in Italia; la maggioranza dei lettori volgevansi di preferenza ai lavori di Francia, poiché da noi punto o poco si produceva in fatto di letteratura facile ed amena. Per le biblioteche e per i gabinetti di lettura si posavano soltanto riviste dotte, mensili; riviste non scevre di pedanteria, riservate a scrittori troppo noti e maturi, dagli ideali defunti; schiave della tradizione, gravi di erudizione, esse non trovavano che pochi sonnecchiosi lettori. Mancava il soffio, il sentimento della modernità che rendesse la vita nuova, e soddisfacesse le menti avide dei giovani irrequieti in quella plumbea artificiosa atmosfera letteraria. Onde, quando il prof. Molineri fondava in Torino le "Serate italiane", con intenti più largamente popolari, esse si onorarono in breve della cooperazione di quanti nuovi ingegni scattavano fuori di squadro in Piemonte ed in Lombardia. In esse il Faldella, che già aveva collaborato nella "Rivista minima" di Milano, cominciò a pubblicare le sue Figurine state scritte in parte qualche tempo prima in campagna, nella schietta freschezza dei paesaggi, senza convenzionalismo, con acuta osservazione ed intuizione della vita reale. Carluccio - Lord Spleen - Dies - Galline bianche e galline nere - Sull'organo - High Life contadina - I fumaiuoli - Gioberti e Radescki - La figliuola di latte - Un amore in composta - Gentilina - La vita nell'aia, vi passarono come zaffate di benefica aria frizzante, in uno schioppettìo di buonumore salubre, eccitando la curiosità dei giovanotti, e anche delle ragazze, ma di quelle non troppo artefatte e illanguidite dalla panna del romanticismo di convenzione. Erano scene, bozzetti di vera vita nostrale colta, appunto, oggettivamente; e odoravano come i paesaggi migliori della Sand, in Fadette, André, François le Champi. Così spiccava meglio la singolarità dello scrittore; così mostravansi ad altro pubblico quelle originalità di frasi, quel paragoni violenti nella loro giustezza che dovevano rinnovargli smoderate critiche da un lato, accrescendogli dall'altro lettori allegri e caldi ammiratori: immagini e paragoni come: "... spira un freddo acuto che sa d'aceto" e "... il marchese diventò per la rabbia una frittata verde". Più largamente si spiegava la potenzialità del coloritore, e la facoltà di rendere con tocchi rapidi e precisi la realtà delle cose; come ad esempio, nei Fumaiuoli: "... mi trovai nel salotto terreno, dove scopersi illuminata da una lampada, tutta la ripienezza e la felicità di una famiglia: un figliuolo deputato; un babbo cogli occhiali verdi e con la papalina da notaio; una sposa bionda e lustra per la contentezza; una suocera tutta cuffia, tutta faccende, tutta gomiti; un cane pelliccione che indorava la sua lana ricevendovi dentro la luce del petrolio; un gatto tristo che rantolando studiava una marachella contra il cane nella divisione della broda; una gabbia di canarini e l'almanacco del Mantegazza". Le Figurine, l'anno appresso, si pubblicavano in volume dalla Tipografia Editrice Lombarda; e di esse si occuparono assai i critici con brio e larghezza notevole di giudizi. Vittorio Bersezio nella "Gazzetta piemontese" dell'11 ottobre 1875 dedicava loro un'appendice di forma maiuscola e vivace, e poiché ebbe reso omaggio all'autore riconoscendogli un'intelligenza eletta che si giovava di una capacità osservativa specialissima, d'un sentimento artistico non comune e d'una squisitezza concettosa di tratti degna della buona scuola del vero umorismo, che vanta a suo antesignano Sterne, ed a suoi più illustri campioni Heine, Gian Paolo Richter, Thackeray e Dickens, soggiungeva: "La ragione dei principali difetti del Faldella è codesta appunto: di voler dipinger troppo, di volere colla parola rappresentare colori e sottocolori, tinte e mezze tinte, perleggiamenti di luce, effetti di chiaroscuro, ondeggiamenti di linee, tratti figurativi di uomini e di cose, che non sono nel dominio dell'espressione del pensiero che si giova delle lettere dell'alfabeto". Ed Alberto Rondani scrivendo dello stesso libro nella "Gazzetta d'Italia" del 10 dicembre 1875 così si esprimeva parlando dell'autore: "I suoi quadri sono di una diligenza ed accuratezza fiamminghe; ma come le tele fiamminghe e le scene lillipuziane di Meissonnier, fanno l'effetto del vero, sono anzi il vero tale e quale, e ne simulano le proporzioni". Ed il Degubernatis nella "Rivista Europea" segnalava il Faldella come quegli che aveva il primo gran merito di non somigliare ad alcuno dei suoi valenti compagni in letteratura, e di far valere un proprio carattere: pittore, anzi ogni cosa, pittore efficace di quadretti di genere. Ma per converso sorgeva l'avvocato V. G. Vitale a scaraventargli contro una critica veemente nella "Nuova Torino" del 9 luglio 1875, con la firma teatrale di Frou Frou. Frou Frou, dopo aver chiamato nottate le "Serate italiane" e dopo aver annunciato che il Faldella avrebbe fatto uno studio profondo sulle oche della Lomellina, per riscontro alle galline e ai tacchini della Vita nell'aia, così lo giudicava: "Faldella è convinto che la letteratura è un orologio. Sicuro; quando scrive fa come il meccanico ginevrino, il quale si adatta la lente all'occhio, cerca tutti i pezzi, li forbisce, li incastra, dà loro il colpetto di vite e poi mette l'orologio in vetrina. "Egli razzola, come i suoi gallinacci, nei dizionari, ne cava fuori parole, parole e parole, quelle che fanno più rumore, che sono sentite a Torino e credo in Italia come vi son veduti i Cinesi; le appiccica insieme e dà loro un po' di lucido inglese. Se da quell'accozzamento, ne sbuccia fuori qualche idea, è un di più; tanto meglio; se no, in quel mosaico, vi caccia dentro la storia della nonna, del gatto, del cimitero, del villaggio, del tramonto, della luna, delle stelle, cose vecchie quanto Noè, e così lui ha fatto l'articolo, il libro, ed ha risposto allo scopo delle "Nottate italiane "". Ma il Vitale con franchezza esemplare ebbe a ricredersi in seguito, ed in un articolo che firmava Jacopo, pubblicato sull'"Eco dell'industria" di Biella, nel numero dell'11 settembre 1879, dopo confessato il peccato di Frou Frou, scriveva: "Devo proprio dire che Faldella è forse il primo della scuola piemontese a scrivere, e non lo sembra agli occhi di tutti, perché non lo vuole lui, e s'ingegna a non parerlo. Leggere un foglio staccato di Faldella, almeno uno di quei fogli che mi passarono sott'occhi alcuni anni, fa, è volersi chiamar addosso l'itterizia. Faldella è minuzioso come una monaca, elegante come un fraticello di Montecassino, capriccioso come una damina fresca di collegio. Infilza le parole come fossero perle, le allinea, le lustra, le invernicia, le ricama, le fa ballare, le strofina, le ingarbuglia, le mette in convulsioni, come se avesse lui la tarantola addosso, o meglio per vaghezza di veder tutto quest'arruffio di cenci in aria a sfregarsi e dargli il luccichìo, di cui è vago il suo occhio largo, delicato e fine. "Faldella è un giocoliere espertissimo del dizionario. De Amicis ama la frase liquida, pura come un ruscelletto del Biellese... "Faldella, meno maraviglioso pittore, è un osservatore gigante, che studia con coscienza la sua prediletta campagna, e le cose più volgari sa rendere splendide e piacevoli... "La sua campagna è piena di luce, di chiassi, di voli, di profumi e di passioni; i suoi contadini sono vivi come i soldati dei bozzetti militari di De Amicis, ma più uomini, più veri, meno di maniera, meno languidi. "Nuoce a questa magnifica virtù di ricreazione la passione che egli ha delle parole, e per cui, se non si pazienta un po' a tenergli dietro e ad acclimatarsi col suo stile, si finisce di essere ristucchi. "Faldella adora la parola, non il dizionario, e ne conia. Per lui la parola è un suono, è una veduta, è un monile, e ne crea, senza paura, impipandosi della Crusca, fiero come un granatiere napoleonico. Quando lo si legge, si è costretti a raccomandarsi ogni dieci minuti al dizionario, e spesso vanamente, cosa che mette in bollore il sangue e dà il tetano a chi non è forte in pazienza. "Sarà tutto puro e glielo consento fino a un certo punto, ma, anche Fanfani era purissimo, eppure le sue novelle mi sono costate più sudori, che la mezza traduzione fatta in versi di Lucano. È vero che Faldella ha un ingegno incomparabilmente maggiore al povero Fanfani, ma quella sua ricercatezza di parole, quella sua fabbricazione a ruota perpetua, quel suo rispolverare vocaboli usati, quel toscaneggiare che sa molte volte di becerume colto in piazza della Signoria, quel ricamare ragnatele sulla punta di un ago, è uno scapricciarsi da Sardanapalo, che non può sempre piacere al lettore. Capisco bene che lui scrive per piacer suo, ma quando si stampa, non c'è malaccio ad esser meno ghiribizzosi e più temperanti nei propri gusti. "La malattia delle parole in quell'ingegno così vasto, così ricco d'idee, che non ha l'uguale qui in Piemonte, lo fa cascare sovente in vere stramberie, in volgarità paradossali. È il ricco che butta sulla strada a manciate i brillanti, e nella furia lancia i libri, le vesti, la penna, il calamaio - e il suo vaso da notte!". Meritava riportare integralmente questa smagliante bibliografia quale schietta e calorosa, cavalleresca ricognizione per parte di un antico avversario letterario, e poscia avversario politico; poiché siffatte dichiarazioni non si riscontrano soventi nel campo letterario sempre troppo propizio alle bizze ed alle invidie di mestiere. Nel 1876 il Faldella per mezzo della Casa Editrice di Gaetano Brigola, pubblicava Le conquiste, narrazione accozzata in volume con Il male dell'arte e Variazioni sul tema. Nelle Conquiste svolgonsi i casi pietosi di Fiorina; ed il concetto di una ragazza, che ricusa di sposare il seduttore, ne è nuovo; ma è troppo dottoresca, troppo politica l'ultima lettera di Fiorina morente a Marino Dallestro, onde il lettore si raffredda. Nel Male dell'arte, si svelano, con acutezza di analisi, le angosce di un artista incompleto dolorante nell'ansia della manifestazione. Vi sono tratti lampeggianti, bellissimi, come: "Non vi è urlo di belva, bisbiglio di uccello, parola fine di Manzoni o cannonata di Victor Hugo, accomodati a significare gli effetti d'amore. Esso ci tappa i vani dell'esistenza, ci accende i ceri dell'anima, la illumina a giorno, trae l'uomo in cima al suo arco; imperocché l'uomo non può essere di più su questa terra che innamorato". E si conclude con umorismo angoscioso: "Il male dell'arte sconvolge la natura delle cose; fa uccidere una moglie e piangere sul romanzo di un merlo o sulla etisia di un fiore", Ma è d'uopo dire che la mossa della narrazione, la quale si fa per mezzo di un plico postale, e la ragione di essa, sono evidentemente artificiose. Le variazioni sul tema delle conquiste, riescono un idillio sinfonico, brioso, che si accompagna con un sorriso di simpatia; e leggendo si vorrebbe poter augurare lietamente ogni felicità agli sposi, quando il fidanzato dice ai suoi amici: "... io ho dinanzi a me una gioia, una purezza, un tremore misterioso, che nascono nell'ordine come il vento, e la primavera". Ma, nonostante gli amoreggiamenti dolci e carezzevoli dell'arte, la elezione del Faldella al gran consiglio della Provincia ed i lavori di esso, lo solleticavano eccitandolo a maggiori cariche pubbliche; le gualdane politiche lo attiravano con le seduzioni di nuovi orizzonti umani a scrutarsi e lo prendeva acre voglia di vibrare il suo sguardo d'artista nelle fermentazioni degli animi ambiziosi, cui ubbriaca lo scintillìo del potere alto. Onde, nel 1876, poiché ebbe ottenuta la cresima politica del trentennio, presentavasi candidato al Collegio di Crescentino con un'arguta lettera campagnuola, bozzetto politico, pubblicato in supplemento apposito festivo della "Gazzetta piemontese"; e da tale supplemento credo sia originata l'attuale "Gazzetta letteraria" annessa alla "Piemontese", che si pubblica in Torino. In quel bozzetto egli fra le altre cose scriveva: "Io mi sono lasciato persuadere ad accettare la candidatura offertami per le seguenti ragioni espresse, meglio che da nessun altro, dal più magniloquente fra i pubblicisti romani. "Dice questo tale nel principio dei suoi dialoghi De Republica che la partecipazione alla vita pubblica è uno dei più importanti nostri doveri, per adempiere al quale dobbiamo abbandonare eziandio la soavità varia degli studi, variam suavitatem studiorum". E via via, svolgeva le sue idee, i suoi intendimenti, i suoi concetti politici ed amministrativi, largamente liberali, in vista della maggior felicità possibile dei suoi concittadini. E corroborava opportunamente il suo dire con testi latini che tornavano tratto tratto come le bullette vigorose di una predica, con frequenti richiami ai pensieri, ai giudizi di quel gentil cavaliere che fu Massimo d'Azeglio, ministro e pittore di paesaggi, ed ammiratore dei larghi fianchi e dei seni audaci delle belle figliuole di Rocca di Papa. Ma tutto ciò non valse al bozzettista la conquista dello scanno politico. Quel collegio era allora infeudato alla personalità valorosa, mirifica e luccicante del generale Bertolè Viale, di destra pura; e non fu poco scandalo per i giornali di destra vedere il Faldella nella sua gioconda giovinezza di idee e di fatti piantarsi contro l'ex ministro della guerra, per contendergli, con disinvoltura democratica, i voti di quelle popolazioni. Nello scacco, il giovane scrittore raccoglieva nondimeno tale numero di voti da ingagliardire le maggiori speranze per l'avvenire; e per consolare l'animo della momentanea ferita politica, egli tornò a tuffarsi fra i flessuosi abbracciamenti dell'arte sua, e scrisse Verbanine, dolcezza da idillio che l'editore Casanova di Torino ora sta componendo in volume elegante, da esposizione nazionale, illustrato maestrevolmente con originalità e perfezione di tocco dal Ricci valente pittore ligure. Nel maggio del 1878 i proprietari ed il direttore della "Gazzetta piemontese" incaricavano Faldella della corrispondenza da Roma al loro giornale, carica già sostenuta da egregi uomini politici ed onorevoli deputati, come il Trompeo, il Lacava e il Marazio. Ed il Faldella rifacendo la via del suo Geromino sindaco di Monticella, riprendeva nella capitale i suoi studi di osservazione. Assunto lo pseudonimo barbarico e battagliero di Cimbro, egli iniziava una serie di lettere notevoli per i concetti sereni e per le vedute che spingeva lontane nella fisiologia politica. Quelle lettere erano vieppiù notevoli per la forma inusitata in un giornale quotidiano, forma scultoria e pittoresca nella sua bizzarria; così a mano a mano, dalle altezze critiche della tribuna della stampa nella Camera ed in Senato; dallo studio accurato e scrutatore dei più appariscenti uomini parlamentari, nell'ambiente elettrico, saturo di passioni e di livori, dentro cui annaspano gli uomini di governo, egli maturava meglio i suoi giudizi e i suoi pensieri di letteratura politica, appianandosi in questo verso le vie dell'avvenire. Ma questo egli faceva in armonia colla sua coscienza di artista e scrittore. In quello stesso anno egli visitava l'Esposizione mondiale di Parigi, della quale principiava una rivista umoristica in appendice della "Piemontese", spumeggiante, arguta, degna di fare il paio col viaggio di Geromino alla capitale d'Italia; ed era nuovamente il sindaco di Monticella col suo buon senso quadrato di campagnuolo che ne faceva le spese; ma quella rivista lasciò poscia in tronco, occupandosi a pubblicare in volume il suo Viaggio a Roma senza vedere il papa che ottenne così cresimato dal pubblico e dai critici accoglienza anche più festosa. Ed in seguito nel 1879, pur durando nel suo ufficio di corrispondente romano della "Piemontese", pensava a rivedere ed ultimare un altro suo lavoro intensamente meditato, uno dei più mirabili che egli abbia scritto: Rovine, edito poscia in volume dalla tipografia Editrice Lombarda, con due figurine: Degna di morire e La laurea dell'amore. Rovine erano già comparse sulle "Serate" col titolo: Il figlio della signora dei cani e in appendice al giornale il "Movimento" di Genova col titolo: Un letterato inedito, ma l'autore può dirsi rifacesse tutta l'opera sua per pubblicarla in volume. Il protagonista delle Rovine è un ignoto e disgraziato ingegno piemontese, gagliardo e vivacissimo; uno dei più caratteristici soci della Dante Alighieri, dove egli esercitava su tutti i suoi colleghi influenza grandissima, a volte decisiva; era una vigoria, un polline artistico fecondatore che distruggeva se stesso trasmettendosi negli altri. E ben meritava il povero e possente artista, a cui forse non fece difetto che qualche qualità secondaria per l'arte, ma indispensabile per la riuscita nelle asprezze e nelle lotte della esistenza; ben meritava le pagine calde, colorite, cesellate dall'affetto, di Giovanni Faldella. Rovine sono quindi come scrisse l'autore stesso "... la biografia del Letterato inedito, figlio della Madre dei cani". La mossa ne è commovente, potentissima: "Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall'appetito e dalla contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli era mai capitata nella vita; lo gattigliava a fior di pancia un vuoto voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un accessit; udiva già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava ai grissini e ai peperoni del desco materno, all'effetto luminoso che avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumaio agganciano le viscere di uno scolaretto. "Come era fulgido Pinotto sotto i portici di Po! "Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi; infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un'anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l'orlo di ogni gradino; a momenti che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh! quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente egli è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose i piedi nel tinello, si smorzò la sua luce; ché trovò nell'atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l'usciere per una esecuzione mobiliare. "Pinotto fece uno sforzo e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: - Mamma! Carolina! Se sapeste!...". Ma la notizia che il povero ragazzo recava con tante carezze del pensiero e con tanti palpiti del cuore, non eccita neppur l'ombra d'un sorriso; i suoi non gli badano più che tanto; la mamma non lo guarda neppure in faccia, e solo la sorella "con una voce da vitella sgozzata" gli dice che il cane, "che Glafir ha la t... osse; - e giù uno scoppio di pianto". Allora Pinotto "scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, scappò senza il cappello in testa". Le pagine che seguono, scritte con diligenza analitica e indagatrice, anatomizzano e spiegano l'indole dell'animo e la natura dell'intelligenza di Pinotto, a mano a mano che egli progredisce negli anni. Sono tutte le infelicità irrimediabili di un nobile ingegno, d'una robusta esistenza che si accumulano fatalmente per cagione di Glafir "un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello"; perché Glafir aveva preso il posto del figliuolo nel tepore della famiglia. Ed è Glafir che ruba le carezze a Pinotto, gli amareggia il cuore, gli avvelena il carattere, gli sconforta il pensiero; è Glafir che lo renderà inedito, miserabile, pezzente, e gli farà maledire la vita. Ma, curioso ricorso storico di giustizia, di equità animale, quando, dopo molteplici casi, egli sarà ridotto all'estrema miseria, sarà un altro cane che lo assisterà con pietosa fedeltà; Fido! - un cane miserabile come il suo padrone. Erano soli in una topaia: "...estenuato - Pinotto - lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossì più forte e si sentì nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. "Credeva d'avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po' usciva sul ripiano, per vedere se c'era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. "Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: - Grazie, Fido!... Eccellenza... "Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l'apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle... Lo riceveva e lo irradiava d'oro, d'amore e di sole... "Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Essa aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note...". In questa pagina strana e commovente, mostrasi tutta la forza del Faldella come colorista, e stilista; vi è pieno il senso della misura, è esattamente intuita l'astrazione ideale del moribondo. L'Ignoto protagonista di questo lavoro del Faldella morì all'ospedale in Firenze nel 1875; e le "Serate italiane" ne pubblicarono allora una sentita necrologia. Il Faldella stesso, saldo nelle amicizie e tenace custode d'affetti, alcuni anni appresso, allorché pubblicò coi tipi del Roux Un idillio a tavola, primo volume del Serpe stroncato nel "Fanfulla", volle dedicarlo alla pietosa e forte memoria dell'amico G. M., del quale le Rovine sono appunto la biografia. Ed il Capuana, il sapido ed energico novellatore siciliano, che insieme col Verga ha tanti ammiratori, non dubitò un momento di illustrare le Rovine, cernendone pensieri, giudizi e notizie, per ricostruire il Profilo di Un ignoto nei suoi Studi di letteratura contemporanea (Seconda serie). Egli in quello studio robusto, già pubblicato nel 1879 sul "Corriere della Sera" di Milano, come bibliografia delle Rovine del Faldella, mostravasi benevolo critico del nostro scrittore, e gli attribuiva soprattutto l'ironia incosciente, osservando che gli arcaismi, gli stridori di forma sono per lui un affare di tavolozza. Riguardevoli giudizi pronunziarono pure del Faldella altri critici che sono parimenti essi stessi poeti o novellieri valenti; ed in prima il suo amicissimo e caro agli italiani ed agli stranieri Salvatore Farina, G. C. Molineri, G. Caprin, il Robustelli, Ferdinando Fontana, Leopoldo Marenco, Vittorio Turletti, Corrado Corradino, ecc. - P. G. Molmenti gli consacrò un capitolo nel secondo volume delle sue Impressioni letterarie. Al Molmenti Faldella dedicò: Degna di morire. Degna di morire (figurina nera) è una gentilissima mestizia, gioiellata in poche pagine: è la storia semplice di Elena Floresin. Elena che nei balli campagnoli "volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare la gemmea testa ed era per scuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone". Ma doveva ucciderla il sole in un mattino di aprile, nel quale ella "sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato". Il sole "... le faceva correre palpiti di calore crescente dal suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso". La novella prosegue pietosamente con un luccichìo caldo e commovente di frasi: "Quattro giorni dopo Elena era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo; non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l'avesse ridotta in marmo cogliendola nell'ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva". La laurea dell'amore - Trittico nuziale (figurina così divisa: Lui ? Lei ? Tutt'e due insieme) non ha nulla a che fare col noto lavoro del Droz: Monsieur, Madame et Bébé. In essa il bébé non c'entra, ma verrà indubbiamente dopo, poiché la morale della novella è il trionfo sano e possente di due sposi, ossigenati a dovere in una vivace freschezza campagnuola. È una figurina che si legge piacevolmente, con un sorriso, e fa sorgere il desiderio carezzevole di cacciarsi in un compartimento riservato d'un carrozzone di ferrovia, per libare la vita trasvolando lontan lontano con una gioconda fanciulla rapinata in isposa. Di questo volume occupavasi largamente il Cameroni in due appendici al "Sole" di Milano nel settembre del 1879; e ne scriveva in proposito: "La passione di Faldella per l'originalità già da alcuni anni mi ha reso simpatico questo giovane scrittore piemontese, benché lambiccato nei concetti e nella forma: "Mentre dalla maggior parte dei nostri novellieri si trascura la frase, l'autore delle Figurine e delle Conquiste la accarezza fin troppo, le dà il minio, la polvere di riso ed i nèi. Mutatis mutandis e ridotte di molto le proporzioni, si potrebbero attribuire al Faldella quelle censure di preziosità, cui lo Zola mosse a Cladel nel famoso articolo sui Romanzieri contemporanei, inserito nel Figaro dello scorso dicembre. Appunto perché artista e non soltanto novellatore, egli sa giovarsi della ricchezza della nostra lingua, ma troppo di sovente manca di naturalezza nell'espressione proprio come il Cladel". In prova il critico fornisce uno scampolo di florilegio faldelliano: "Rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato; il baratro della umiliazione e della crudeltà materna; strusciarsi per avere l'accessit; ? i capelli di due vecchie, che lucevano come fili di ferro elettrici; ? il lecchetto irresistibile; ? la religione condensata in un brodo consumato di ideale evangelico; ? una pugnalata di voce; ? spiattellarsi innanzi al sole come un ninfale eliotropio". Rilevata la bizzarria di queste frasi, e poscia poste in sodo le buone qualità dello scrittore piemontese, il Cameroni soggiunge: "... questa volta (nella simpatia per il Faldella) mi trovo onorato da ottima compagnia, giacché ricordo benissimo le parole d'elogio di quell'incontentabile buongustaio, che fu il Camerini, per l'autore della Gita con il lapis a Vienna". Venute le elezioni generali del 1880, il Faldella spinto dagli amici spolverava il suo bozzetto politico, e si ripresentava al Collegio di Crescentino solamente tre o quattro giorni prima della votazione: e vi otteneva un nuovo fiasco; ma un fiasco di quel buono, propiziatore di prossima vittoria; che gli succedeva di riportare di lì a poco, nel 1881. Il generale Bertolè?Viale andavasene in Senato, ed il Faldella otteneva il seggio elettorale del suo collegio confortato da settecento e più voti di suffragio ristretto. Alla Camera prese naturalmente posto a sinistra fra le congratulazioni e le condoglianze degli amici, che temevano la politica togliesse all'arte l'ingegno suo, o almeno lo guastasse nei suoi ingranaggi corrosivi. Ma il Faldella sullo scanno di deputato rimase tranquillamente quale egli era e quale aveva annunciato di voler essere nel suo bozzetto politico, dove scriveva: "... io non posso approvare la eunucheria politica, di cui si vantano pochissimi fra gli artisti e i letterati moderni, la quale non credo scusabile nemmanco con il voto di castità politica fatto dal Beato Alessandro Manzoni". Ed invero, abbiamo avuto fuori d'Italia e presso noi esempi confortanti di uomini di Stato che non trascurarono di ricrearsi la mente colle geniali occupazioni artistiche a cui li portava l'indole dell'ingegno loro, fossero pur condottieri di popoli o di Governi. Il Faldella deputato ebbe maggior agio a completare le osservazioni che aveva già intraprese come giornalista su le turbolenze della politica; e da quelle osservazioni poté trarre i materiali per la futura sua storia politica e aneddotica del parlamento italiano. Intanto senza più essere il corrispondente ordinario, egli continuò a mandare corrispondenze alla "Piemontese", ma corrispondenze di lusso. Il suo primo discorso alla Camera egli lo pronunziò nella tornata del 16 marzo 1881, allorché discutevasi la proposta di legge per un concorso edilizio a Roma con annessa costruzione d'un palazzo dei Lincei. Sorse a battagliare contro l'amico suo personale, e collega nel Consiglio della Provincia di Novara, l'illustre Quintino Sella, cui anch'egli cordialmente amava e italianamente ammirava; sorse quando la Camera snervata per lunga discussione era insofferente, e vi battagliò, con venustà di forma letteraria insolita od impropria per quel luogo e con originalità esilarante di idee. Poiché ebbe protestato di aver passata la vita sua modestissima nello studio delle lettere, dichiarò di non essere eccitato da un estro paragonabile a quello di Erostrato, se combatteva specialmente l'erezione di edifizi, i quali hanno rapporto colla cultura intellettuale. E poiché aveva narrato che in certi paesi di montagna la scuola si fa nelle stalle, faceva scoppiare per l'aula una larga risata, dicendo: "... che dire delle maestre? Con umilissimi stipendi, sono in pietose condizioni, da cui possono più spesso rilevarsi meglio con mezzi estetici, che con meriti didascalici, tanto che i comuni prima di nominarle richieggono la fotografia". E corroborava il suo concetto proseguendo: "Or bene, o signori, io domando se allora quando noi vediamo giacere l'istruzione elementare in così basso grado, noi possiamo deliberare tre milioni e mezzo per elevare un nuovo edificio in Roma all'alta scienza... "Io non ammetto tutte le durezze che contro le Accademie hanno scagliato alcuni liberi ingegni, come Brofferio, Baretti, Giusti, Beranger, ecc. Le Accademie, come quasi tutte le istituzioni umane, hanno la loro parte buona e la loro parte cattiva. "Secondo quello che ci insegna giustamente l'onorevole Sella, esse possono riuscire utili per la forza dell'unione, tesoreggiando capitali scientifici, e anche semplicemente mediante la pubblicità e la réclame. Ma esse possono altresì degenerare in società di mutua ammirazione e di altrui disconoscimento, o in società politiche, fossero pure associazioni costituzionali; posson far prevalere la forma alla sostanza, promuovere lo studio delle cose inutili, e propagare alcuni determinati vizi scientifici e letterari". E poscia con estro crescente di ironia gioviale, eccitava nuova e maggiore ilarità nei colleghi - resi attenti, soggiungendo: "Quanto alla mutua ammirazione - promossa dalle Accademie - ci restano a documenti i tipi comici, nella storia dei costumi fatta dalla vera commedia; ci resta, nel Poeta fanatico di Goldoni, lo stupendo conte Ottavio, presidente d'Accademia che, al finire di ogni sproloquio o di ogni recitazione, abbraccia l'accademico Lelio, l'accademico Florindo, l'accademica Rosaura, e stringe anche al seno con trasporto l'accademico Brighella!". Ed in quel suo estro, sparando citazioni, motti, giudizi, l'oratore confortava gli accademici a rimanersene paghi della dotazione di 100 mila lire e del Campidoglio per tenervi le loro adunanze, e ricordando come agli uomini d'ingegno poco o nulla abbiano soccorso le Accademie, continuava: "...Mentre in Francia, in Germania ed in Inghilterra gli autori già ricevevano lucro decoroso dal pubblico, e da noi i pingui canonici accademici ottenevano stampati dalle tipografie regie i magni volumi, i cui fogli sono tagliati solo dai legatori di libri, Carlo Botta vendeva la sua Storia dell'Indipendenza d'America per pagare i medicinali della moglie; e per pubblicare la sua Storia d'Italia in continuazione a quella del Guicciardini, dovette ricorrere all'obolo di pochi sottoscrittori. A questi soli si deve, se il tipo della devozione patria eroica, il tipo di Pietro Micca sorse e raggiò in quella italica prosa sfolgorante". Ed il sidereo Filopanti a tuonare: bravo Faldella! mentre la Camera applaudiva, pur mantenendosi di parere contrario. E non valse all'oratore svolgere con moto lirico una nuova onda calda di pensieri: "Io mi esalto perfino ricordando che re Umberto e la regina Margherita distribuirono i premi ai Lincei, spettacolo forse più bello di quell'altro, dell'onorevole Quintino Sella, che fece alzare i Lincei in piedi all'arrivo del maresciallo Moltke, cui Rovani giudicò l'Attila del calcolo sublime. Tutti questi quadri, al pari di quello di Vittorio Amedeo che osservando la persistenza di un lumicino in una soffitta torinese vi scopre un povero studioso e lo converte nel ministro Bogino o al pari di quello di re Umberto che col ministro Baccelli si insediò alla scuola di sanscrito del professore Lignana nella Sapienza di Roma, tutti questi quadri per me sono degni non solo dell'"Illustrazione universale" dei fratelli Treves, ma del perenne mosaico... "A questo mondo non vi è nulla che più ci scaldi e rischiari la fronte e ci schiuda l'avvenire meglio della scienza... Ma facciamo altresì la scienza applicata in azione. Quei milioni che volete consacrare ad un palazzo inutile, diamoli all'igiene, alla spaziosa, luminosa viabilità che sono conquiste moderne". Ma la legge a malgrado di questo e di altrui discorsi, che la battevano in breccia, venne approvata; e nei giornali, che intesero male dall'alto della tribuna nella persona dei loro reporter, il Faldella venne tacciato poco meno che di barbaro analfabeta! Barbaro lui che si era persino lagnato, perché i famosi volumi, cui l'Accademia dei Lincei partorisce e stampa ogni anno con elevatissima spesa, giacessero intonsi nella biblioteca della Camera! Continuò per un pezzo lo scalpore contro la barbarie di Cimbro Faldella; però bisogna dire che quello scalpore non fu accolto dall'ingegno sensitivo, tenace ma equilibrato dell'illustre Sella. Questi forse fraintendendo il discorso per la distanza dell'oratore dal banco della Commissione, gli aveva bensì risposto con accesa eloquenza, come se il Faldella (ciò che non era) avesse preteso mandargli in malora la scienza e la lingua latina. Ma, cessato quel bollore, si dimostrò buon amico del Faldella, il quale testè in alcuni Ricordi necrologici del compianto grand'uomo raccontava a tale proposito sulla "Gazzetta piemontese" il seguente aneddoto: "Allorché alla Camera un giovine deputato con balda coscienza contrastò uno straordinario sussidio che credeva intempestivo per un palazzo all'Accademia dei Lincei prediletta del Sella, questi se ne risentì, rispondendogli oltre misura. Tale eloquente risentimento inspirò un facile poeta, che schiccherò lì per lì un sonetto e lo mandò al banco della Commissione, dove il Sella sedeva relatore della legge per il concorso edilizio a Roma. Ignoro se quel sonetto fosse semplicemente arguto, o spinoso, od attizzino, imperocché non lo lessi, né seppi il nome del poeta. Esso era certamente contro al giovane deputato. Il Sella, scorsi quei quattordici versi, li comunicò al suo vicino e collega della Commissione, l'on. Del Zio, il quale forse poco prima lo aveva intrattenuto sulla opportunità scientifica di pubblicare finalmente, magari con l'ausilio dei Lincei, il formidato e condannato Triregno del Giannone, tenuto troppo occulto nelle sole due copie superstiti conservate dalla Biblioteca nazionale di Napoli e dall'Archivio reale di Torino. "L'on. Del Zio, percorso alla sua volta il sonetto, immantinenti vi scrisse in calce il motto della Sand: "Non toccate le fronde giovani! " quindi restituì il fogliolino al Sella. Questi fu preso, quasi commosso dall'improvviso ricordo di quella sentenza; lacerò o mandò a riporsi il sonetto; e d'allora in poi non tralasciò occasione per attestare la più cordiale cortesia al giovine deputato statogli aperto contraddittore". No! Il Faldella non era stato barbaro. Egli fin da quell'occasione avrebbe potuto soggiungere ciò, che appena accennò poi incompletamente nel banchetto di Torino, cioè che le Accademie nido di gente arrivata, giubilazione degli ingegni, sono non solo le meno abili ad ogni nuova scoperta onde possa onorarsi lo spirito umano, ma soventi vi sono ostili. Esempio l'Accademia delle scienze di Francia a cui Napoleone I aveva mandata, per il parere, la memoria di Fulton che gli proponeva la navigazione a vapore. La grave Accademia, con dotta ilarità, rilasciava all'inventore una ufficiale patente di utopista. Altro esempio, se vuolsi guardare a tempi più lontani, l'Accademia di Salamanca. Essa insorgeva contro Cristoforo Colombo e lo dichiarava pazzo per la sua divinazione di nuove terre. Il Faldella tornò a parlare alla Camera nella tornata del 20 giugno 1881, allorché si discuteva la riforma elettorale, e vi sostenne strenuamente lo scrutinio di lista. Nel suo discorso non mancarono le originalità. Fra le altre per sostenere che l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista avrebbero diminuite le corruzioni elettorali, egli uscì fuori a dire: "Nelle biografie dei grandi uomini politici dell'Inghilterra narrasi precisamente quanto essi hanno speso per la loro prima o seconda elezione. Si aggiunge di Beniamino Disraeli che una gentile signora gli suppeditò le copiose ghinee occorrenti perché gli fosse sbarrato l'arringo politico. E qui voglio l'onorevole Serena il quale oggi ha argutamente immaginato che Dante Alighieri non sarebbe eletto deputato collo scrutinio di lista. Onorevole Serena! Senza essere poeta sovrano, chi circonda il suo nome coll'aureola dell'arte, e si imprime nel pubblico con la sua potenza letteraria, ben può pretendere a quella notorietà, che è sufficiente per la riuscita nello scrutinio di lista. Oh! Dante Alighieri sarebbe un candidato sicuro nello scrutinio di lista. Per lo contrario io nutrirei i miei famosi dubbi per la sua riuscita nel collegio uninominale. Con tutto il fascio radioso del suo genio, il poeta resterebbe nella tromba, se rimanesse povero in canna, come è costume dei poeti, e se una pietosa dama non scendesse ad apprestargli le migliaia di lire, come fece la Ninfa Egeria all'autore dell'Endimione". E terminando il succoso e serrato suo discorso dichiarò: "È una voce falsa ma molto diffusa che noi ricusiamo lo scrutinio di lista per non sentenziare noi stessi a certa morte politica... Ma, signori, non lasciamo accreditare neppure materialmente quella voce col fatto di una votazione ostile. La storia darebbe certamente tristo giudizio di noi in paragone di quei Parlamenti e di quegli ordini rappresentativi che seppero fare innanzi al mondo nobili rinunzie. "La famosa assemblea nazionale francese, che dichiarò i diritti dell'uomo, interdisse, con zelo soverchio, a tutti i suoi membri la rielezione... "Negli ordini della Repubblica fiorentina era statuito che i magistrati scaduti non potessero rieleggersi salvo che trascorso un dato tempo. Questi insegnamenti non sono scevri di sapienza; indicandoci i benefici di avvicendare gli uomini alla cosa pubblica per evitare le cancrenose ambizioni e per usufruire ognora fresche e riposate virtù". Ma poscia l'oratore soggiunse: "Però il pericolo della sommersione nello scrutinio di lista ci sarà solo per me deputato novellino che devo molto ai vincoli di affetto paesano e di poesia domestica ecc.". E fu meno felice nella chiusa, poiché volle ostentare, un po' troppo, la sicurezza che lo scrutinio di lista dovesse riuscire letale alla sua rielezione. Lo Zanardelli, relatore dottissimo di quella legge, nella perorazione del suo splendido discorso pronunziato nella tornata del 21 giugno 1881 faceva onorevole menzione delle parole del Faldella dicendo: "Questo trionfo (della nuova legge elettorale) farà sì che nelle elezioni, come notò l'on. Crispi, siano veramente nazionali le gare; non solo assicurerà gli altri vantaggi, dei quali ho parlato: ma esso dimostrerà, come ieri disse con nobili parole l'onorevole Faldella, che noi possediamo una virtù, la quale nella vita pubblica vale da sola a riscattare molte colpe, l'oblio di noi stessi...". Nella sua vita parlamentare, Faldella preoccupato delle condizioni economiche del suo collegio per la scarsa viabilità, domandava e patrocinava due ponti sul Po, ed un altro sulla Dora Baltea; ed otteneva che una sua aggiunta venisse in parte accolta nella legge delle nuove opere stradali; e poscia nell'adunanza del 24 giugno 1882 pronunciava anche un discorso in favore della ferrovia Chivasso?Casale, accumulando argomenti vinicoli e strategici in favore di essa con vittoriosa mitraglia di parole assennate. Ma, ciò malgrado, venute le elezioni generali del 1882 con suffragio allargato e scrutinio di lista, egli come aveva preveduto, forse allora incredulo in se stesso, fu ripagato dai suoi elettori di una buona sconfitta. Ritornato alla tranquillità ridente del suo quieto villaggio, alla vita casalinga e raccolta; tornato alle sue contemplazioni e meditazioni, fuori del turbine affannoso della politica, che logora gli spiriti, egli riprese con maggiore intensità di lavoro i suoi studi; e poiché della politica gli durava il sapore acre, avendo poco prima delle ultime elezioni già pubblicato un volume della sua Salita a Montecitorio (1878?1882) col sottotitolo: Il paese di Montecitorio, Guida alpina di Cimbro, proseguì in quella via palpitante di passioni, e addensò pagine su pagine di politica artistica. E così pubblicò successivamente: I pezzi grossi (Scarpellate), I Caporioni (Profili), Dai fratelli Bandiera alla dissidenza (Cronaca), volumi che della Guida parlamentare sono il seguito galoppante. Siffatta opera, nella quale sotto nuovo aspetto mostravasi l'ingegno suo di cronista politico nella serenità e nell'argutezza critica dei giudizi - egli dedicava a Luigi Roux, ora deputato del Collegio di Cuneo, già direttore dell'Organo della Pentarchia, in allora soltanto direttore della "Gazzetta piemontese", e col Favale, editore dell'opera stessa che gli era intitolata. "Un giorno, gli scrisse il Faldella, il rustico autore di Un viaggio a Roma senza vedere il papa, Geromino, sindaco di Monticella, fu da te, dal tuo illustre predecessore e dai tuoi egregi colleghi, ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornalistica, egli nato per meditare e stintignare una pagina al mese... Ora spetta sovra tutto a te il sopportarne le conseguenze, accettando la cordiale dedicatoria di questo libro". Il concetto dell'opera è chiaramente reso manifesto nella lettera, colla quale gli Editori accompagnavano il secondo volume: I pezzi grossi. "Nel primo volume dell'opera l'autore, col titolo Il paese di Montecitorio, ha voluto dare, come si suol dire, una pittura dei luoghi, dove si svolgerà man mano l'opera medesima: dall'atrio del palazzo deputatesco agli uffici della segreteria, dalle sale della presidenza agli archivi, dagli ambulatori alla questura, dalla tribuna pubblica al banco dei ministri, il Faldella ha fatta una minuta descrizione della residenza del Parlamento animandola, come hanno bene avvertito i lettori di quel primo volume, coi ricordi storici che si addensano così gloriosamente affollati in quei luoghi, e coi profili dei personaggi che si incontrano ad ogni pietra di quel Paese. Compiuta così la descrizione dei luoghi, l'autore entra nella materia del secondo volume: I pezzi grossi, che sono estese fisiologie dei principali uomini politici. Seguito dei Pezzi grossi sarà il volume dei Caporioni. E siccome parecchi di questi appartennero al partito d'azione, parve opportuno all'autore di raggruppare intorno ad essi gli episodi più drammatici del nostro Risorgimento: onde uno speciale volume sarà la cronaca patriottica: Dai fratelli Bandiera alla dissidenza ed al trasformismo. Percorso il mondo parlamentare nelle sue cuspidi individuali, gioverà all'autore considerarlo nelle masse dei partiti, donde un volume sui partiti parlamentari ed un altro sui partiti extra?parlamentari, ed un altro ancora di Vedute e scene: e siccome dopo tanta vivisezione parlamentare è doveroso rendere omaggio alle tombe dei campioni della Camera, di cui è più recente il lutto, una parte dell'opera sarà Necropoli. E finalmente una parte sarà dedicata a quel ramo del Parlamento, dove in vigile riposo si archiviano i veterani dell'intelligenza, del censo, del patriottismo e delle maggiori cariche, donde un ultimo volume: Scorsa al Senato". A proposito di codesta Storia parlamentare che si disegna a linee larghe ed a tratti vigorosi, e si ispira a concetti elevati nella serenità degli schietti giudizi, - Nino Pettinati, elegante scrittore ligure?subalpino, con una venatura di anglosassone nel temperamento poiché di madre inglese, onde conserva nell'aspetto una gentilezza da Lord Byron sminuito, scrisse argutamente nella "Gazzetta letteraria" di Torino del 28 aprile 1883: "Alcuni che furono sin qui avvezzi a gustare e carezzare nel Faldella l'arguto pittore delle Figurine, l'umoristico narratore dei Viaggi a Roma e a Vienna, l'incisivo novelliere delle Rovine e recentissimamente il mesto romanziere del Serpe, veggendo oggidì il Faldella assumere la gravità e l'ufficio di questa Salita a Montecitorio ne restano sorpresi un poco e fors'anco dubbiosi di più. Generalmente parlando in Italia, da Brofferio, da Manzoni e da Cantù in poi, i letterati sono così poco storici e gli storici così poco letterati! Havvi - chieggono - nell'autore delle Conquiste la stoffa dello storico? e qualunque titolo abbiano i suoi lavori non saranno sempre romanzi? - Costoro a nostro avviso non hanno posto bene mente all'indole dell'ingegno del Faldella e non hanno seguite le fasi ch'esso ha traversato da qualche tempo in qua. Il Faldella è interessante novelliere, è vero, ed i suoi racconti hanno un'attrattiva non comune; ma bisogna pur riconoscere che la immaginativa e la novità non sono mai state le maggiori doti dei suoi lavori, sibbene la finezza dell'osservazione e l'acutezza delle rassomiglianze, le quali vincono di gran lunga in lui le qualità inventive. Come osservatore pochi superano il Faldella, e pochi del pari hanno maggior felicità nell'afferrare delle cose osservate le qualità caratteristiche, sviscerarne, per così dire, l'indole e il segreto, penetrarne l'essenza e riprodurle coi loro propri colori. Un autore moderno ha detto che difficilmente lo scrittore ed il lettore si capiscono bene, perché essi seguono strada inversa, vale a dire che lo scrittore va dal pensiero all'espressione, il lettore dall'espressione al pensiero. Al lettore di Faldella di rado è avvenuto di non comprendere la vita che spira dalle pagine di lui; imperocché il Faldella non arzigogola in espressioni soggettive e non getta mai il suo Io fra lo spettatore e i personaggi; ma per mezzo suo i personaggi medesimi si disegnano colle loro stesse azioni abilmente messe in luce. "In questa felicità di intuizione oggettiva unita ad uno stile quasi sempre incisivo e scultorio anche nella rappresentazione di sentimenti di minore importanza e talora anche ridevoli, in un desiderio continuo di curare dei personaggi e delle cose anche i menomi particolari e i tratti più fuggevoli, in uno studio continuo e zoliano di non dipartirsi dalla verità dei tipi quasi sempre imitati dalla vita reale, chi non riconosceva già nel Faldella le principali, se non tutte le qualità necessarie allo storico diligente e fedele? Ma abbiamo detto che bisogna pur tenere conto delle fasi che l'ingegno del Faldella ha traversate. Chi ignora infatti com'egli raccolto un dì nella mite atmosfera degli studi letterari campagnuoli, chiamato dipoi nelle officine giornalistiche a mirar più da vicino gli ingranaggi delle quotidiane vicende sociali, venisse in ultimo attratto nel grande agone parlamentare, rappresentante della Nazione egli stesso, e divenisse così testimonio e insieme attore del teatro politico contemporaneo? Allora l'ingegno dell'osservatore accurato, il fedele intuitore delle figure e dei caratteri, l'umorista flagellatore dei vizi in quel nuovo orizzonte si sentirono indubbiamente rafforzare: alla scarsezza della qualità inventiva suppliva largamente la realtà di tutti quelli obbiettivi veri e viventi; il poeta non doveva più tentar voli, ma bastava allo studioso di concentrarsi bene nelle ricerche e nelle osservazioni: l'estro dell'artista non aveva più bisogno di immaginare azioni e persone per sentirsi acceso a scattare in una artistica creazione: ma gli bastava appunto l'osservazione della realtà per iscoprire dove fossero il bello ed il buono artistico e far colla loro riproduzione un'opera d'arte. Così il passaggio dal romanziere allo storico si compiva; il poeta e il narratore non si elidevano, ma dandosi la mano si completavano; e l'autore delle Rovine veniva così alle assaggiature della Roma borgbese ed ora finalmente alla Salita di Montecitorio. E noi teniamo assai a far notare come nella nuova veste del Faldella storico non sia affatto cessato l'artista cui abbiamo applaudito sin qui, imperocché mentre quest'osservazione da un lato ci spiega la fase evolutiva del suo ingegno, dall'altro ci dà la chiave per bene intendere ed assaporare il suo lavoro storico che è di una caratteristica tutta speciale". Ed è vero. Siamo le mille miglia lontani dalla storia d'Italia dello Zini con quelle sue preziosità di frasi atticamente gravi, ma plumbee nella loro massa faticosa. Qui la storia è cronaca spigliata, allegra soventi, e a quando a quando, severa; severa nobilmente nelle elevazioni patriottiche, nei lampeggiamenti civili dell'epopea che fece la Nazione. Nel primo volume: Il paese di Montecitorio, vi è come la fisiologia del palazzo di Montecitorio, studiato in sé stesso, nei suoi abitanti, nei suoi frequentatori e negli ordinamenti amministrativi che regolano la vita politica e parlamentare dei rappresentanti della Nazione. Vi è arguzia, umorismo, ironia; a volta a volta, si illuminano medaglioni, miniati con amore, e frammenti scultorî a colpi audaci e vigorosi. Ne scattan fuori figure di letizia senile, come quelle dei veterani delle ardimentose insurrezioni per la libertà. Tali sono le figure del dott. Ripari e del vecchio bibliotecario della Camera Giovanni Scovazzi, fiero bandito di primo catalogo secondoché leggevasi in un numero della "Gazzetta piemontese" del 1833 che ne recava la condanna a morte unitamente alle condanne di Giuseppe Mazzini e Giovanni Ruffini. Tale è la figura dell'on. Del Zio il quale "ha una testa vigorosa di frate che dal castello di un campanile suoni a stormo e spari fucilate per una rivoluzione". Tale è la figura di Quirico Filopanti, l'amante universale, che si tolse nel 1873 il suo vero nome di Barrili; asceta pitagorico che vive spartanamente di acqua e di pane, e che "ci ha il giubbone nero, un po' roso, ma tuttavia pulito; ci ha il gran colletto bianco; ci ha le stelle in cielo, ci ha delle consolanti aspirazioni in testa; ci ha l'Italia a Roma; si tiene sicuro dell'avvenire nel nome del popolo e di Dio, ed egli è stoicamente felice". E via via, dalla biblioteca della Camera agli stalli dell'aula; dall'atrio del palazzo di Montecitorio alla Tribuna della stampa, a quelle della Corte, della diplomazia, della Presidenza e delle Signore; dal discorsino di esordio del deputato novellino, al discorsone ministro del deputato stagionato che porta tutta una sezione del museo di numismatica appesa alla catena dell'orologio; dalla sala di ricevimento al selce di Cordigliani ed alla rivoltella di Maccaluso; tutto vi passa intuito, scrutato, pennelleggiato con forza, verbalizzato con scrupolo. Ci si potranno bensì, qua e là, notare gonfiezze, superfluità, minuzie che rallentano, e deviano l'attenzione, stancano; ma sono mende che scompaiono in confronto delle numerose pagine ponderate, salde, elevate, concettose che interessano, svelandoci gli intimi congegni pei quali si muove, si agita e si manifesta nel lavoro legislativo la nostra rappresentanza nazionale. Nei Pezzi grossi, l'artista scalpellatore modella a mano a mano le figure di Domenico Farini, Marco Minghetti, Quintino Sella, Domenico Berti ed Agostino Depretis, intorno ai quali raggruppansi negli sfondi altre individualità minori, di più modesta indole. Lo studio sul Farini, che sale dolcemente a involgere tutta la famiglia dei Farini, riesce affettuoso, direi carezzevole, ed è fatto con schietta precisione, poiché l'autore è dirimpettaio di abitazione allo scalpellato personaggio nei silenzi campestri di Saluggia, dove l'ex presidente della Camera villeggia ogni anno fra le memorie venerate del padre, della madre e della nonna. Deboluccio, forse, lo studio sul Minghetti, quantunque questi vi sia considerato in due modi; come oratore, e poscia nella politica e nella storia. Assai bello e vigoroso invece quello su Quintino Sella, dove narra di re Umberto che ospite dei Sella nella Villa di S. Gerolamo nell'agosto del 1880, a preghiera del figliuolo sale a visitarne la madre, Rosa Sella, che per la grave età e la cagionevole salute non può scendere a inchinare Sua Maestà. Al Faldella erompe dall'anima una possente lirica aleggiante, generosamente patriottica, che sintetizza la rigenerazione della patria. Il filosofo di Cumiana, dall'aspetto prelatizio, Domenico Berti, evoluzionista per indole, è scrutato con acume. Ed Agostino Depretis coi suoi trenta e più anni di esperienza parlamentare e con tutto il suo bagaglio di uomo di Stato, bagaglio di pranzi politici, discorsi patriottici, programmi di Stradella e piacevolezze accorte di diplomatico magistrale - viene a sua volta anatomizzato con pazienza, ricercato nelle sue vigorie e nelle sue debolezze; viene scolpito e ritratto nelle pagine del libro in più pose; e tutte danno un magnifico padre guardiano; come l'emblema del tempo eterno che governa. Nel terzo volume della Salita a Montecitorio, I Caporioni profilati sono Cairoli e Zanardelli che tengono il campo con una cavalcata di eroi minori: Cairoli a cui l'autore inneggia come a patriotta, come a Bajardo: Cairoli discusso come Presidente dei ministri, nei suoi due ministeri; Zanardelli, dal vasto ingegno democratico, che come ministro dell'Interno si irrigidisce nelle sue convinzioni di larga libertà cittadina, si allarga nel mare magno della scienza giuridica col libro L'avvocatura, e si condensa con pazienza da benedettino nella dotta relazione per la riforma elettorale politica. Nel quarto volume, ultimo comparso della serie, cioè nella cronaca Dai fratelli Bandiera alla dissidenza, l'autore, risalendo alle prime imprese politiche che via via andarono preparando il trionfo della libertà e della nazionalità ed illustrando particolarmente la impresa audacissima del Pisacane a Sapri, scolpisce con felicità di esecuzione la figura violenta e generosa del Nicotera, lo ritrae con finitezza di tocco, nelle varie fasi della sua vita politica a impreveduti colpi di scena e di audacia. Vi studia le bizze fegatose dell'irrequietissimo agente di Cavour e storico d'Italia Giuseppe La Farina. Vi analizza il carattere metallico ed inflessibile di Francesco Crispi. E poscia ci presenta Agostino Bertani, patriotta saldo e antico, uomo politico rigido e fegatoso, dall'aspetto funereo, fatale; papa dell'estrema sinistra come lo sintetizza l'autore, Bertani ne appare dogmatico nei suoi discorsi alla Camera; vi appare quale uomo che stia sempre teso come un telescopio a guatare i misteri del futuro, o come Geremia profeta piagnucoloso quando prevedeva un'immensità di mali a Gerusalemme baldracca. E attorno attorno, le relative figure secondarie e terziarie, i paesaggi, gli sfondi, le prospettive aeree e terrestri che richiamano lo studio principale. Certamente nel corso di quest'opera, vasta e pensata, si avvertono mende, imperfezioni, giudizi non sempre a sufficienza comprovati dai fatti; ma è giustizia affermare che gli uomini politici, che ne formano maggior argomento, sono resi nel loro momento più caratteristico, tratteggiati a punto nelle manifestazioni loro più notevoli; e queste manifestazioni, coordinate all'azione politica generale. Gli aneddoti curiosi e nuovi abbondano; i giudizi pronunciati da altri autori su uomini e cose vengono raggruppati in modo da produrre l'effetto più notevole. Con questi volumi il Faldella ha provato chiaramente quanto opportunamente egli citasse nel suo programma l'opinione di Cicerone che opinava dovessero letterati e scienziati adoperarsi nella vita politica, per quanto lo acconsentiva loro l'ingegno, poiché si può adempiere agli obblighi di cittadino senza trascurare l'arte che li nobilita. Onde Nino Pettinati ebbe ragione di scrivere su tale proposito: "Si è detto sin qui, ed è diventata una frase fatta come tante altre, che in Italia la politica guasta i letterati e che il battesimo di Montecitorio è quasi l'estrema unzione degli scrittori. Faldella, che pure è stato un eccellente deputato come se lo sanno i suoi antichi elettori, è lì per ismentire la sciocca credenza. Il Faldella facendosi lo storico del nostro Parlamento contemporaneo ha dimostrato come oggidì la politica e l'arte in Italia sono più vicine che mai a fondersi e compenetrarsi: egli, continuando il grave incarico a cui si è sobbarcato, sta per provare come oggidì la nostra letteratura non ha più bisogno di pascersi di soli ideali e di astratti desideri per sentirsi ispirata, ed ispirando a sua volta, adempiere la sua missione civile. Questa missione letteraria, della quale si fa campione il Faldella, si ravvisa nel continuo dramma della vita quotidiana, nei giornalieri episodi del paese moderno che s'agita, che lavora, che dimanda, che progredisce; e a questa missione sentono di adempiere egualmente l'uomo politico che arringa generosamente dai banchi parlamentari, e l'artista scrittore che chiuso nel romito della sua stanza raccoglie nella storia l'eco di quelle arringhe e le riscalda al fuoco dell'arte riformatrice". Nel 1881, il Faldella aveva iniziata, coi tipi dei Roux e Favale la pubblicazione di Un serpe, quello stroncato nel "Fanfulla"; e al primo volume: Idillio a tavola, seguirono, a mano a mano, il Consulto medico e la Giustizia del mondo, uscita di recente, che suggella il ciclo delle Storielle in giro. Questa trilogia, nonostante la festività della forma, il brio dello stile e le spumeggiature esilaranti delle frasi, come in ogni altra opera dell'autore, - ha un fondo largo di mestizia, lascia a poco a poco ed inconsciamente filtrare nell'animo del lettore uno scoraggiamento funereo; segnatamente nell'ultimo volume vi è un'allegria che sa di pianto. L'azione semplice, improntata d'un forte carattere di verità, si svolge dapprima a Scozzeringo, soleggiato e ridente villaggio monferrino; si prosegue a Torino, Firenze, Roma, e si queta come per un filosofico ricorso storico, nell'iniziale villaggio. Vi è studiata e ritratta con evidenza ammirabile la vita del villaggio; le passioni che in esso si accendono per minuzie a cagione dell'orizzonte ristretto e della mancanza di ampi sbocchi alla fermentazione fisiologica, vi salgono e ribollono intuite, analizzate maestrevolmente. I personaggi scattano vivi e solidi in gran parte, come il dottore Giannozzi, Battistina sua figliuola, il conte senatore Baudone, l'arciprete Don Lanterna ecc. Altri sono alquanto indeterminati, come la diafana Rosilde, figliuola del conte, che pare una gentile figurina d'alabastro, scesa da un acquasantiere. Il dottorino Tristano Clessidra, il bieco figliuolo di nessuno, che una vampa d'odio consuma ed illividisce, quegli che dà il titolo vischioso alla trilogia, non è forse il personaggio meglio reso; non pare sia sempre estremamente vero. Vi è un che di artificioso nei suoi atti improvvisi ed eccessivi, segnatamente nella Giustizia del mondo, i quali atti male corrispondono alle premesse del suo carattere: le superano per gli effetti. Egli gioisce troppo della sua abbiezione morale, gustando la voluttà acre del fango; troppo si compiace di avvelenare la felicità altrui, per solo desiderio del male, poiché non vi è nessun interesse proprio che lo muova; troppo chiaro egli vede in sé stesso, poiché con manifesta ostentazione si diletta soverchiamente a porre sopra i suoi giornali?libelli il marchio di un titolo come: Il Serpe ? La Vipera ecc. I bricconi non ammettono mai di esser tali; si sarebbe quasi tentati a credere che il dottorino abbia letto anche lui il titolo Un serpe che raggruppa i tre volumi, e siasi ingegnato per quanto poteva a giustificarlo. E la vita giornalistica, i retroscena politici dove domina il magno commendator Nevone; dove si scorge il profilo carezzevole di una di quelle tali profumate, che con vocabolo di sensualismo moderno ora si dicono le orizzontali, pare anche sentano alquanto di manierismo. Bisogna dire che l'autore, quando ne scrisse, non avesse pur avuta occasione di analizzare e cogliere dal vero, come è suo costume, le misteriosità della vita nei grandi centri mondani e politici. Altro appunto che pure egli si merita assai è quello dei nomi che usa. Soventi essi frizzano troppo la caricatura, e ricordano assai quelli umoristici del teatro piemontese. E quando non vogliono essere una caricatura, pare cerchino di esprimere anticipatamente il carattere della persona che li porta. In questi volumi il dottorino si chiama Tristano, perché è un briccone; sua madre si chiama per antonomasia la signora Orrenda, perché bruttissima; il conte senatore, perché grasso, naturalmente ha un nome che per questa sola ragione suona come un otre: Baudone; don Lanterna, l'arciprete, ha la grazia di questo nome, perché l'autore gli destinava una statura da corazziere o da tamburo maggiore; e, mancomale, lo speziale si chiama Pasticca: il nome meno medicinale che l'autore gli poteva dare, secondo il suo sistema. Così via via. I nomi sono una grande difficoltà, ma se ne deve aver cura, poiché la verosimiglianza loro ringagliardisce l'effetto, e rende più veri i personaggi. Onde il Faldella dovrebbe seguire, a preferenza, il sistema del Balzac, il quale - come è noto - andava copiando dalle insegne delle botteghe i nomi che gli occorrevano per la sua grandiosa Commedia umana. Ma a parte ciò; a parte talune scene troppo accentuate, troppo colorite, vi sono, in codesta trilogia, pagine d'una freschezza e d'una verità insuperabili, vive scenette di villaggio rese a perfezione, nelle quali alita un che di umorismo incosciente; come quando il flebotomo Clementino Riondella, messo alla porta dal dottor Giannozzi, cui era andato a domandare audacemente la mano della figliuola, trovandosi vestito da guardia nazionale per la solennità, pensa alla maestrina Cornelia. - Clementino pensò: "Tanto Battistina non può essere mia! tanto bisogna cambiare... E cambiare adesso come di qui a poco, tanto fa... Ora sono già vestito! Perché dovrei vestirmi un'altra volta? Perché dovrei sciupare l'acconciatura? Poi il regno di una buona moglie è in cucina... e Cornelia è una imperatrice in cucina... E poi me lo ha suggerito il medico stesso, il padre di Battistína... "Così ragionando fece fronte in dietro". E entrò dalla maestra, che cucinava, la quale "staccatasi dal fornello gli corse incontro". "Aveva il viso di bragia, i capelli zingareschi, il labbro inferiore morescamente rovesciato, l'occhio giudaico. "Era una ragazza capace di cogliere un marito al volo e di imbullettare un ragazzo alla sua prima freddura. "Clementino si pose la mano destra alla visiera del kepì, e si avanzò verso Cornelia con passo militare. Essa ritrosì di pari passo, dicendogli: "- Spettacolo! "E poi: - Ah! bricconcello di un cerusichino! Ha proprio il buon tempo che lo incalza. Sentiamo un po', che cosa è venuto a fare da me il signor capitano? "Clementino senza levare la mano dalla visiera fece bocca da ridere e rispose: "- Sono venuto da lei, signora maestra, a vedere se ha da vendermi dei lupini... "A quelle parole la maestra, con smanceria vergognosetta portò l'avambraccio sugli occhi: ninnò il suo personcino e disse: "Birichino di un cerusichino!... "E faceva più volteggiamenti che parole: sollevò il suo grembiule, e con esso ventilò, sfiorò il volto di Clementino, il quale montava su, su, in excelsis, in visibilio. Egli finì con l'afferrare le due mani di Cornelia, che fingevano stracca riluttanza, le serrò in un mucchietto dentro le sue palme, e poi, ondulando la bocca nel desiderio aereo di un bacio e musicando sottilmente la voce, disse: "- Cornelia? Dunque sì? "- Si...ì si...ì! - rispose Cornelia, strascicando un sibilo come lo zeffiro. - Si...ì. - E buttò indietro la capigliatura mora?zingaresca, che discese vorticosamente a invaderle le spalle; e spalancò l'occhio giudaico verso il soffitto. "Le braciuole scoppiettavano al fuoco dentro la maiolica di Castellamonte: e sprizzavano zaffate colme di un profumo da far mangiare i morti. Furono l'incenso, il tiamo ed il cinnamomo di una promessa nuziale". (Per capire l'entratura dei lupini, occorre notare che in taluni paesi del Piemonte l'ambasciata per la visita ad una ragazza da marito si comincia col pretesto, che si è venuti a vedere, se ci sono dei lupini a vendere.) La narrazione del consulto medico, la lotta scientifica fra il vecchio medico dell'antica scuola, ed il novello dottorino di scuola recentissima, è stupenda; seguono paesaggi di una freschezza inimitabile, scene di campagna che par di vedere veramente, quadretti resi con zelo, con scrupolo da pittore fiammingo; onde G. De Abate, in un sonetto che dedicò di recente all'autore sulla "Gazzetta letteraria" di Torino, ebbe ragione di dire di lui: "Egli è il Michetti delle mie pianure". Non importa per la definizione che le scene del consulto siano sulle colline del Monferrato; imperocché il Faldella si è manifestato pittore da bosco e da riviera, da pianura e da collina. Nei volumi del nostro paesista vi è - come dice Giacinto Stiavelli, che trova nel Faldella un investigatore profondissimo delle cose, uno stilista accurato e brioso come nessun altro - vi è da raccogliere una fiorita, la più olezzante, di osservazioni fine, profonde o bizzarre, quali le seguenti. "Le ragazze che amano si sentono pesare a loro stesse, e non possono muovere con disinvoltura le loro persone. Esse portano dentro loro degli universi. L'amore inchioda loro il cuore; e tutto il lecchetto del mondo restante non potrebbe più farle muovere e correre con vivezza. "...L'amore, anche turato bene, può durare incarcerato un estate, due estati, sette estati; ma ce ne viene poi uno così caldo e veemente che l'amore fa saltare il tappo e schizza via". L'azione, senza troppi aggrovigliamenti, è interessante, perché vi palpita veramente la vita, e si svolge via via, con inflessibile logica di disgrazie, che sono sempre la grande parte dell'esistenza; onde, attraverso l'allegria della forma, si sente un largo fondo di mestizia che sale fino a invadere tutto nella chiusa: Rassegna funebre. In quest'ultima parte, a beneficio della contessina Rosilde, ideale bellezza da Immacolata Concezione, angiolo diafano che si immalinconisce senza pur lo strascico di un marito degno di sublimarla a maternità, si ingemma un sonetto di Giovanni Camerana, "poeta austero, smagliante e profondo"; sonetto inedito per una Madonna nera, ispirato forse dal Nome di Maria del Manzoni, ma che olezza d'uno schietto sentimento di devozione campagnuola: Ave Maria, che dalla nicchia d'oro Nella rigida tua veste ingemmata, Negra in viso, ma bella, ascolti il coro, L'ingenuo coro della pia borgata. Ave Maria, di stelle incoronata, Curvo e triste nell'ombra io pur t'imploro; La valle imbruna, è il fin della giornata, Coi mandrian dell'Alpe io pur ti adoro. Tu che salvi dall'ira del torrente, Tu azzurra visïon nell'uragano, Tu ospizio fra le nevi ardue, tu olente Aura, in che orror mi affondo, in che agonia, L'onta, il ribrezzo, il gran buio crescente, Tu lo sai, tu lo vedi; - ave, Maria. E questo sonetto che la pia e mesta contessina ingioiellava "nel suo aureo libro di devozione alla pagina delle litanie della Vergine" finiva per essere imparato a mente anche dal confessore di lei, l'arciprete don Lanterna - una delle più riuscite figure del romanzo. - Egli "trovava densa di grandiosità quell'invocazione bisognosa di fede che negli abissi della noia e dell'angoscia accomuna al povero contadinello l'artista, l'erudito, il ricco; vera dimostrazione del gran circolo più che cristiano, umano, più che umano, psicologico, spirituale". E concludeva: "La più sincera estrinsecazione della fede si è la carità: unica speranza, unica promessa di letizia". Tutto sommato la trilogia del Faldella riesce uno dei più notevoli, robusti e sani lavori che siansi, in tal genere di letteratura, pubblicati in questi ultimi tempi: è un lavoro donde spira un potente alito di verità, e la cui lettura, mesta dopo tutto, fa aleggiare il pensiero in alti orizzonti con più intensa avidità del bene. Ma la Giustizia del mondo, quantunque ultimo volume che sia apparso del Faldella, non è il suo scritto più recente; nel 1882 la Casa Editrice di Angelo Sommaruga pubblicava in Roma colla consueta ed arrischiata sua eleganza di formato, di caratteri e di fregi, pubblicava di lui: Roma borghese. Assaggiature, opera pensata e scritta assai tempo dopo il Serpe, e che ora tocca già alla sua seconda edizione. Codeste assaggiature si riannodano, nel concetto, al Viaggio di Geromino a Roma; e l'autore ci annunzia già che verranno seguite da altri studi sullo stesso argomento. Lo scopo di tale studio ce lo rivela l'autore nella prefazione al volume; prefazione che ha intitolata: Interno ragionamento per un'opera completa. "...io avrei proprio in mente di intraprendere un lavoro che non fosse perfettamente inutile, un lavoro su Roma borghese (la chiamerei così, non per omaggio alla principesca famiglia di tal nome, ma per antitesi a Roma pretina, volendo dire Roma borghese per dire Roma secolarizzata; lo capisce un cretino). "Nel mio lavoro vorrei raggruppare e fondere tutte le mie osservazioni fatte in un quattrennio filato di corrispondente giornalistico alla "Gazzetta piemontese". La presente condizione storica di Roma è riguardevolissima, perché unica nella storia. Imperocché la città che da due millenni e mezzo ne ha già viste e fatte tante, non è mai stata quale è oggi: diventata capitale della libera nazione italiana, e rimasta capitale del mondo cattolico; monarchica, e munita di molta licenza dai superiori per le pubblicazioni e le dicerie più rivoluzionarie". Con questi intendimenti, egli ci ha dati quattro saggi notevolissimi. Il primo, Colonie buzzurre, è la fisiologia dei quartieri alti di Roma nuova, fatta con felicità di tocco, da acquarellista innamorato: "I quartieri nuovi dell'alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o neppure leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch'essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova. "I gruppi delle nuove vie intitolate alle battaglie e agli assedi più belli del Risorgimento nazionale (Goito, Pastrengo, Palestro, San Martino, Gaeta) o nei nomi valorosi di Casa Savoia (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Umberto, Amedeo,) o in quelli insigni e benemeriti di Cavour, Farini, Mazzini ecc. si contrappongono ai gruppi delle vecchie vie coi titoli imbruttiti di santi (San Stefano del Cacco, Santa Maria in... Cacaberis) o con quelli dei più umili mestieri (sediari, canestrati, chiavari, coronari), o con quelli degli stranieri Avignonesi, Portoghesi, Greci, Aragonesi, Spagnuoli ecc.". L'autore rende, con fresca vena di umorismo, l'interno di talune famiglie d'impiegati piemontesi dalle rendite sottili e dalle bocche numerose e voraci, che meditano e rimeditano, col bilancio alla mano, la spesa di un soldo, quale era appunto la famiglia Berleris: "Tutti gli otto bambini, avviluppati in un lusso di tovaglioli intorno al collo, pranzavano con un solo uovo lessato col guscio (a la greuja). Scocciato sulla punta, si piantava nell'ovarolo o nella saliera, in mezzo alla tavola. I bambini, per ordine di età, vi intingevano il pane grissino dentro. Una volta, Emanuele, il più piccino e più birichino, sprofondò due volte di seguito nell'ovo il suo grissino; e la mamma, spiritata, gridò: - Guarda che 't chërpe. Bada che scoppi!". E Faldella prosegue cesellando squisitamente, per finire con uno slancio lirico, augurando la fusione dei vari tipi italiani in nuove ebbrezze di forza e d'amore, colla speranza che "crescano figli forti e illuminati, che congiungano gli esempi di Furio Camillo e di Camillo Cavour, di Pietro Micca, di Cola da Rienzi e di Ferruccio...". Così, sognando con epico sentimento di patria rigenerata, gli par di vedere "le statue equestri di Emanuele Filiberto e di Marco Aurelio camminare di conserva e passare sotto il futuro grand'arco di Vittorio Emanuele, glorioso come quelli di Settimio Severo, di Tito e di Costantino". Il secondo studio intitolasi L'Arcadia, e nella prima parte è divertentissimo. L'autore incamminandosi la sera del 7 marzo 1880 verso il Serbatoio dell'Arcadia romana (palazzo Altemps) credeva "di dover scendere in iscavi" a ritrovare e "ricostruire una bellezza di mondo antico, il mondo metastasiano del Settecento, delle villanelle artificiali, srugginite, merlettate, profumate, incipriate, scollacciate, e palpitanti nei tiepidi avorii, e dei pastorelli di ciccia prelatizia, le zazzere mantecate, le facce rosse e lisce come pesche nocciuole, l'alito di rosolio, e i fruscianti codazzi serici di porpora o di viola: il mondo di Amarilli e di Mirtillo, di Corisca ed Ergasto, di Dorinda e di Dameta, di Fillide e di Elpino, di Aurisba e di Comante ecc.". Egli descrivendo la sala affollata del serbatoio ha fatto un quadro ammirabile, degno del pennello di Ruysdael. "In fondo della sala c'è una galleria per il pubblico di minor conto, come a dire seminaristi e pedine, mogli e figliuole dei maggiordomi clericali, parrucchieri, tonsori delle chieriche; nella platea fittamente insediati abatini di primo canto, abatoni, domenicani dal collo ingrassato nel bianco scapolare, facce tonde di minori o nulla osservanti, cappuccini austeri, asciutti, colle palpebre soccallate, la barba che lista il petto, ambe le mani sul rialzo delle ginocchia accavallate; nelle sedie chiuse un canestrone di canonici, monsignori, prelati lustri inzuppati di rigoglio come frutte mature, mozzette violacee a iosa, una fiera di vescovi e arcivescovi, e finalmente nei seggioloni d'orchestra una mezza serqua e più di cardinali: Alimonda, Meglia, Davanzo, Pecci, Pellegrini ecc., dal rosso zucchetto sigillato sulla cervice come un'ostia da lettere". Quindi, pennelleggiate sempre con vigoria di colorito, sfilano le moderne pastorelle appetitose che rendono gli occhi lustri ai seminaristi; sfilano turgide nella descrizione del Bosco Parrasio, ricetto estivo sul Gianicolo; ma il bozzetto così spigliato nella mossa ed in tutta la prima parte, si impiomba sul fine in una stanchezza improvvisa, ed avvizzisce in un sermone che l'autore volle fare a giustificazione presente e passata della belante ed infiocchettata Accademia. Viene poscia nel volume La morte di un giornalista, e sono pagine commoventi dedicate a Salvatore Farina, che narrano con forte e pietoso sentimento di fraterna amicizia la morte di Roberto Sacchetti, l'autore di Cesare Mariani, di Tenda e castello, Castello e cascina, Candaule, ed Entusiasmi; l'amico ed il confortatore di Praga, del quale continuò le Memorie del Presbiterio, ultimandole e dettandone pochi giorni prima di morire, dal letto, la prefazione. Roberto Sacchetti "consumatosi nella lotta" era venuto a Roma quale corrispondente ordinario della "Piemontese", quando il Faldella assidevasi in Montecitorio, ed i due amici continuarono fraternamente la loro vita di giornalisti; ma la morte doveva abbattere d'improvviso il Sacchetti nella pienezza della sua gagliardia intellettuale; il lavoro eccessivo, a cui si condannava, lo aveva prostrato. Il Faldella lo ha ritratto stupendamente con squisitezza di tocco: "Sacchetti era silenzioso. Davanti alle prime impressioni, egli non era espansivo: raccoglieva, filtrava, assimilava... guardava fissamente mutolo coi suoi occhi orientali e colle tempie rosse e secche. Diventava poi espansivo parlando e scrivendo, quando si trovava nel secondo periodo di riferire le cose mentalmente elaborate, digerite... "Allora eterizzava, elettrizzava, polarizzava, magnetizzava, fecondava, completava le impressioni sue ed anche quelle sentite da altri". E più oltre, quando narra degli ultimi momenti del povero artista, l'autore ha un'elevazione gagliarda nella mestizia, che turba profondamente l'animo: "Eravamo nella camera io, il domestico di Mora, un selvaggio della campagna romana, e la giovane portinaia, Isolina, una Ofelia toscana. "Mi ricordo, come di una visione, dell'apparizione d'una giovane signora, sconosciuta, forse una compagna di collegio di qualche signora parente di Sacchetti, la quale le aveva telegrafato per quell'ufficio di misericordiosa assistenza. "Quella signora elegante, esile e bella, con un collo sottile che pareva un gambo di fiore, fu l'ultima coraggiosa infermiera che si curvò sul letto dell'ammalato. "Egli, che conservava forse il sentimento estetico, se ne dimostrava negli occhi contento, come all'apparizione di un angelo al suo capezzale di morte... e interrogava me collo sguardo, quasi per saperne il nome. Le sue mani, l'una nelle mie mani, e l'altra nelle mani della signora, brancicavano con soddisfazione di pace; sopravvenivano telegrammi che mi invitavano a baciarlo. Lo baciai sulla fronte...". E Roberto Sacchetti passò serenamente. Vien quarto ed ultimo assaggio di Roma borghese, Un viaggiatore piemontese, il quale è nientemeno che il capitano Celso Cesare Moreno, celebre nei due mondi e speciale martello, per qualche tempo, del giornalismo italiano, uomo di merito e di azione dopo tutto, tipo da capitan Dodero, o da viaggio straordinario di Jules Verne, tipo che il Faldella ha studiato e pennelleggiato con vivacità ed energia nel suo gustoso studio. Nello scrivere queste assaggiature il Faldella tenne certo a mente il consiglio di Giosuè Carducci; l'aria circola frizzante a ravvivare i periodi; vi è minor affastellamento di colori, quindi il colorito è più discernibile e vivace; e l'originalità dello scrittore vi appare più salda nella sapiente parsimonia dei vocaboli scelti con più acume, disposti con più misura; onde un effetto più intenso. Lo scrittore, via via, si è venuto facendo meno arzigogolato e più elaboratamente individuale; cosicché la sua potenzialità è maggiore. Infatti il lettore meglio si assimila le sue idee, e più nette scorge le cose che egli rende con frase immaginosa e nuova. Faldella usa sempre largamente i paragoni, e questa è una sua ricchezza, poiché per mezzo dei paragoni si pone in evidenza il nesso arcano che collega tutto, uomini e cose, ogni più varia manifestazione in una colossale ed eloquente parentela. Certo non sempre le immagini sono esatte; e per voler troppo rappresentare a volte egli si sforza, falla il segno, fa sorgere una nebbia di frasi sulle cose, o si confonde in pieno barocco; allora ne vengono fuori certi suoi periodi che molti giornali si compiacquero a porre in evidenza, tacendone quelli di bellezza tersa e cristallina: ne vengono fuori trovate di questa sorta: "La signorina Battistina, con le mani ìncrocicchiate sui ginocchi, con il busto leggermente penzolo come statua della fiducia in Dio, o come colomba che stesse per pigliare il volo, con un sorriso da cherubino sul bottone delle labbra e gli occhi bucati da tagli di diamante, annuiva, applaudiva ecc.". E quest'altra: "L'arciprete si fregò le mani, e poi, ripostosi un dito nella fossetta della gola, fece dei nastri per la stanza". Forse sarebbe stato più chiaro, più esatto dire che faceva la spola per la stanza, ché dei nastri non ne lasciava davvero. Questa frase fare dei nastri, per il passeggiare lungamente e ripetutamente nello stesso luogo, che si dice pure fare le volte del leone in gabbia, quantunque sia una frase adoperata dal Giusti nell'Epistolario e da Edmondo De Amicis e sia usitatissima in Toscana, specialmente a Pescia, che ha una piazza lunga e stretta, dove la gente va a fare i così detti nastri, è una frase che mi sa di tenia. E la frase dialettale monferrina "dormir sodo come una ripa" ha una pretesa omerica senza fondamento. Ad ogni modo, come ebbe a scrivere Théophile Gautier in Fortunio, ogni montagna suppone una vallata, come una torre suppone un pozzo; né si può avere l'altezza siderea senza la profondità equivalente. E un artista indipendente, come il Faldella, che colla squisitezza di un temperamento eccezionale ritrae colla penna il mondo da lui osservato ed intuito; e lo rende colle sensazioni genuine che gli sorgono spontaneamente ed improvvise nell'animo e nella mente, subisce inevitabili prostrazioni tanto maggiori quanto più è affinato il suo senso artistico. Ed in quelle prostrazioni inconsce, pur producendo immagini per la ressa delle idee, egli deve necessariamente riuscire meno felice e meno efficace. E fors'anco, segnatamente nei suoi primi lavori, per la foga che gli prese di ingolfarvi dentro una quantità di piemontesismi, di frasi scelte e di modi di dire classici, di proverbi locali, senza badare se ne meritassero l'alto onore, o se fossero locuzioni già corrotte destinate a sparire dall'uso, o a restringersi in una limitata cerchia vitale, accadde che molte parti dei suoi lavori rimasero incomprensibili dalla maggioranza dei lettori; e quindi affette da una tal quale paralisi progressiva. Ma il suo stile si è col tempo forbito, si è fatto più lucido, quindi dà più facili effetti, talché gli aumentano ogni giorno i lettori; i quali, fatta la bocca, mordono con festevolezza avida, nel frutto un po' agretto ma sano, ma tonico. Ed ora, anche oltre le immani ondulazioni dell'Atlantico, egli conta lettori; poiché, di recente, un immenso giornale americano ha pubblicato un succoso studio su di lui. "Una gentile signora, - ricorda Nino Pettinati - artista essa stessa, paragonava testè i libri del Faldella a certe musiche tedesche. A primo udirle - essa scriveva - e specialmente per chi non v'abbia l'orecchio un poco avvezzo, sembra che riescano soverchiamente affollate di note, di astruserie, di piccinerie, talora persino di stonature e di caricature. Ma poi riudendole bene si comincia a sentire che sotto tutto quell'avviluppo la melodia si svolge piana, dolce, ineffabilmente espressiva, e alla fine quando si cerca un modo di semplificarle, queste musiche, ci si accorge che ognuna di quelle note, di quelle astruserie, di quelle stonature è la melodia medesima...". Paragone signorile codesto, che esprime con fínezza di gusto artistico, l'effetto che veramente fanno le pagine dello scrittore piemontese. Sul finire dello scorso anno 1883, nell'affermarsi della Pentarchia politica in opposizione al Patriarcato di Stradella, il Faldella, invitato specialmente da Giuseppe Zanardelli e dal Roux, si risolvette ad essere collaboratore straordinario del nuovo giornale di opposizione diretto dal predetto deputato Roux "La Tribuna". Lo si vide allora ricomparire a Roma a meriggiare sul Corso, tranquillo osservatore ed investigatore della via; a furettare appassionatamente in mezzo a bibliotecari stagionati e preti tabaccosi, tra i libri vecchi, tarlati, ammonticchiati il mercoledì sui banchi di Campo di Fiori, come in ogni ricettacolo di carte stampate; lo si vide extra muros a passeggiare serenamente riflessivo fra ruderi venerandi insieme con amichevoli ed eleganti compagnie. Ma nella "Tribuna" egli scrisse pochissimi articoli politici; a quando a quando vi pubblicava invece pensati articoli di arte, riviste, studi letterari, sociali; così vi scrisse con acume di Flaubert, con finezza di Sbarbaro, con intendimenti filosofici del carnevale, con elevatezza di concetti e di giudizi in morte di Francesco De Sanctis ecc. Poscia d'un tratto sparve, e si seppe che, avido di paesaggio e di sole, era corso a rifugiarsi nel suo villaggio. Giovanni Faldella è di mezzana statura e di robusta complessione; ha testa forte, voluminosa, fronte ampia, pallida, vigorosa, da pensatore; capigliatura violenta, foltissima a ondulazioni castane, occhi miopi ceruli, d'una dolcezza femminea, i quali, come quelli del Daudet, vedono tutto e tutti, soccorsi dalla concavità delle lenti; ha naso dritto, accentuato, guance colorite dalla salute, baffi e barba d'un color alquanto più chiaro dei capelli: una barbetta "appuntata e lunghetta che ricorda il profilo degli antichi mitologici protettori delle selve, grandi adoratori di profumi campestri, di gradazioni di tinte verdi, di succhi d'erba, di rezzi e di boschi intricati" come scrisse di lui il nomade, fertile, audace e geniale poeta socialista lombardo Fernando Fontana. Fra le curve morbide dei baffi si scorgono soventi le sue labbra rosee a schiudersi ad un sorriso buono. Ha indole quieta ma capace di scatti improvvisi che tosto si posano; cammina sollecito, e lietamente contento della vita che lo accarezza, e dell'arte che gli procura profonde, intense ed intime soddisfazioni. Chiacchiera volontieri, con abbandono fiducioso, ed è espansivo cogli amici intimi, colora le frasi a rapidi tocchi, con smaglianti pennellate di parole immaginose, e rifugge dalle noie, da ogni lavoro che non torni armonico alla sua indole libera, alle sue tendenze intellettuali. Sente profondamente l'amicizia, e ne diede ampia ed affettuosa prova nell'assistenza che fece, con altri amici, al povero Roberto Sacchetti agonizzante; simpatizza vivamente per i caduti, per quanti soccombono alle strette della necessità, pur avendo ingegno, ma che non trovano la loro via; per quanti si ribellano alle pressioni ed ai freni artificiosi della esistenza, alle ingiustizie elevate soventi a dignità di legge, dimostrando in tal guisa di essere qualche cosa, una individualità che abborre dall'assorbimento e dallo scoloramento. E sovrattutto egli ama gli spazi ampi all'aria aperta, ossigenata, le linee quiete e grandiose della campagna che baciano l'immensità azzurrina del cielo. Nella sua Saluggia, egli vagabonda osservando e meditando. E nella pace fruttifera della sua camera da lavoro, fra gli alti scaffali che salgono, densi di volumi antichi e moderni, ad intonacare le pareti, fra il silenzio alto che gli è necessario, appena ombrato dalla gaia pispilloria degli uccelli fra gli alberi, egli accatasta le sue nitide cartelle, miniando, con serena coscienza di artista, le idee che gli si affollano festosamente in capo, facendo rivivere le cose studiate con amore, i paesaggi ed i costumi contadini che analizza con estrema finezza, e le scene tormentose dei grandi centri, nei quali si è tuffato come l'ape operosa nel fiore a raccogliere l'essenza mellifera. Ed a Saluggia egli ha composto i suoi migliori lavori, forse perché l'ingegno suo si fa più potentemente produttore sotto l'alito carezzevole della mamma venerata, che in lui giustamente s'inorgoglisce; sotto l'azione della parola tonica, altamente onesta del padre suo, buon vecchio dalla vita intemerata, medico dotto e benefico del suo paesello del quale fu sindaco sin dal Regno di Carlo Alberto, amico caro a Luigi Carlo Farini, con cui faticò eroicamente per combattere il colera in quelle terre, uomo di ingegno aperto e vivace, al quale solo una modestia eccessiva e l'amore ineffabile della casa, della famiglia e del villaggio tolsero di rendersi più largamente noto prendendo più intensamente parte alla vita pubblica. Ed in quel mite e dolce ambiente patriarcale Giovanni Faldella, ormai nella piena virilità del suo forte ingegno, che assurge spiccatamente fra gli ingegni più vigorosi ed originali dei nostri giorni, ci potrà dare nuove opere improntate a gagliardia di concetti e ad elevatezza di intenti, nella schietta rappresentazione della vita. CARLO ROLFI Roma, aprile 1884.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 5 occorrenze

Erano Dane, a cavallo, Marinier e l' Abate a piedi, che scendevano insieme dal Sacro Speco. Dane mostrò molto piacere dell'incontro, trattenne la sua cavalcatura, presentò le Signore all' Abate, parlò con entusiasmo del Sacro Speco. Jeanne, scambiata qualche parola coll' Abate, gli domandò se qualcuno avesse pronunciato i voti solenni, o almeno vestito l'abito, di recente. L' Abate rispose ch'era venuto a Santa Scolastica da pochi giorni e non era in grado di risponderle lì per lì; ma non credeva che da un anno, a dir poco, nessuno a Santa Scolastica avesse fatto la professione solenne né vestito l'abito di novizio. Jeanne s'illuminò di gioia. Adesso lo capiva, era stata una stupida di dubitare possibile, anche per un solo momento, che Piero fosse diventato frate, da contadino, in dodici ore. Avrebbe voluto ritornare subito all'orto di Santa Scolastica; ma come fare? Quale pretesto prendere? Proseguì, ansiosa di sbrigarsi presto del Sacro Speco. Noemi propose di sostare un poco all'ombra dei lecci che là sulla via delle anime agitate dall'amor divino paiono torti anch'essi da un interno furore ascetico, da un frenetico sforzo di svellersi dalla terra per avventar le braccia nel cielo. Jeanne rifiutò, impaziente. Aveva ripreso colore nel volto e luce negli occhi. Si mise spedita per la scaletta che termina il breve cammino e malgrado le proteste di Noemi, che non capiva il perché di tanto mutamento, non volle neppure riprender fiato in capo alla scala, ove improvvisamente si scopre la scena cupa, profonda della vallea, e alto, a sinistra, l'orrido sasso caro ai falchi e ai corvi, rigonfio sopra le murature squallide, bucate di fori disadorni, che vi s'incrostano per traverso sugli anfratti nudi e sono il monastero del Sacro Speco. Sotto il monastero, nel profondo, pende il roseto di san Benedetto e sotto il roseto pendono gli orti, pendono gli uliveti al ruggente Aniene scoperto. Il cumulo assiso sui monti di Jenne saliva invadendo il cielo. Una ondata d'ombra passò sul sasso enorme, sul monastero, sul parapetto cui Noemi aveva appoggiato i gomiti, contemplando. "Questo è magnifico" diss'ella. "Lasciami fermare un po' qui almeno, ora che c'è ombra!" Ma in quel momento, a due passi da loro, si apriva la porticina del monastero e ne usciva una compagnia di stranieri, signori e Signore. Il monaco che li aveva guidati, vedendo Jeanne e Noemi, tenne aperto l'uscio in atto di aspettazione. Jeanne si affrettò a entrare e Noemi, mal suo grado, la seguì. "Affreschi del Trecento" disse il benedettino nell'oscuro corridoio di entrata, con voce indifferente e passando. Noemi si fermò, curiosa delle pitture antiche. Jeanne tenne dietro al benedettino, senza guardare né a destra né a sinistra, distratta, tentata da un dubbio. Se l' Abate non avesse detto il vero? Se lo avesse detto l'accattone? La fantasia le rappresentò l'incontro felice nel cortile di Praglia, il viso pallidissimo di lui, il "grazie" che l'aveva fatta tremar di gioia. Le correvano brividi nel sangue e, come per una strappata di redini all'immaginazione, si voltò a Noemi: "Vieni" diss'ella. Seguì il monaco nulla udendo di quello ch'egli diceva, nulla guardando di quello che indicava. Noemi dissimulava a fatica le proprie inquietudini. Presentiva un pericolo nel ritorno. Il punto pericoloso era l'orto di Santa Scolastica dove Jeanne intendeva rientrare, secondo aveva detto al vecchio ortolano. Adesso le era passato il desiderio di vedere questo famoso Maironi. Non desiderava che di ritornare con Jeanne a casa Selva senz'aver fatto incontri e avrebbe voluto indugiarsi al Sacro Speco il più possibile perché poi mancasse loro il tempo di sostare a Santa Scolastica. Perciò fingeva prendere alle viscere preziose del monastero dalla squallida pelle un interesse continuo, mentre invece sentiva solamente desiderio di ritornarvi un'altra volta, con sua sorella o con suo cognato, in pace. Nel discendere in quella miniera della santità, né l'una né l'altra sapevano qual via facessero per l'aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall'alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve, di rigide folle pie dalle facce bizantine ingombranti le pareti, i timpani delle arcate, di monacelle e di fraticelli ritti nelle strombature delle finestre, nei pennacchi delle vôlte, lungo il giro degli archivolti, ciascuno con la sua venerabile aureola. Non sapevano quale cammino vi facessero e Jeanne appena ne sentiva la realtà. Nello scendere la Scala Santa, precedendo il monaco seguito immediatamente da Jeanne e Noemi venendo ultima a cinque o sei gradini di distanza, Jeanne, improvvisamente, gittò le mani alle spalle della guida e subito, vergognando dell'atto involontario, le ritolse mentre il monaco, fermatosi, le volgeva il capo, attonito. "Scusi" diss'ella. "Chi è quel Padre?" Fra due ripiani della Scala, dietro un risalto della parete di sinistra, una figura tutta nera nella tonaca benedettina si teneva ritta nell'angolo oscuro, appoggiando la fronte al marmo. Jeanne l'aveva oltrepassata di quattro o cinque gradini senza vederla. S'era voltata a guardare per caso, l'aveva veduta, un istintivo sospetto le era lampeggiato nel cuor tremante. Il monaco rispose: "Non è un Padre, signora." Si chinò ad aprire con la chiave la cancellata di una cappella. "Cosa c'è?" chiese Noemi, sopraggiungendo. "Non è un Padre?" ripeté Jeanne. Nell'udire la voce strana dell'amica, Noemi trasalì. Neppure lei aveva notato la figura ritta nell'ombra della parete. "Chi?" diss'ella. Il monaco, che intanto aveva aperto, intese "qui?" e riferì la parola a un discorso di prima. "No" disse "il ritratto autentico di san Francesco non è qui. Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

Dubito di sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono, contro dei persecutori che dobbiamo amare, contro quell' Abate svizzero che venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è detto allora tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una Vita troppo inoperosa, troppo facile, troppo piacevole, perché a me lo studio è piacevole. Dubito del mio stesso amore di Dio perché sento troppo poco l'amore del prossimo. Mi viene in mente che le dolcezze mistiche mi possono addormentare circa questo punto. Tu, Maria, tu vivi la tua fede! Tu visiti gl'infermi, tu lavori per i poveri, tu conforti, tu istruisci. Io non faccio niente." "Io sono tu" mormorò Maria. "Sei tu che mi hai fatta così. E poi tu eserciti la carità intellettuale." "No no, questa è per me una parola presuntuosa!" Egli ricadde a contemplare in silenzio l'ombra sonora. Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sé stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch'era in lui frutto d'ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera, duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli uomini, ch'è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini in Dio, ch'è freddo amore, come di un fratello buono al fratello soltanto per compiacere al Padre. Ma quest'ultima è la tempra comune anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così, non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel capo la soave indulgenza Divina. "Sai" diss'ella "ti offro subito io un'opera di carità che avrà molto merito. C'è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e dice di aver bisogno del tuo aiuto." "Chiamala" diss'egli. Noemi venne. Una leggera nube era passata quel giorno fra lei e Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme di religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non amava discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo affettuoso rispetto per Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le ragioni e la natura del proprio credere, piuttosto verso lo scetticismo di Jeanne che verso il cattolicismo liberale e progressista dei Selva. Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida e forse aveva appreso da Jeanne a giudicarlo così, perché Jeanne, in qualche momento di cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo da quella fede che per essere luminosa di spirito e Verità poteva riuscirgli formidabile. Ell'era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato che l'errore accolto senz'averne coscienza, col desiderio sincero e puro della Verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un sentimento estraneo a quel desiderio avesse parte nella ripulsa della Verità, ne sorgeva il peccato. Questo argomento ferì Noemi ancora più addentro. Ella fu per domandare al cognato i suoi titoli di vice-giudice divino. Si contenne e lasciò cadere il discorso. Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non tanto perché le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che le opinioni religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva abbattuto di spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella d'essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne. Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era aperta con Maria solo fino al confine dello stretto necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola, doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell'amicizia e parlò. La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a Subiaco aveva incontrato l'antico amante. Esclamazione di Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l'uomo venuto alla villa col Padre la sera dell'arrivo di Jeanne, il garzone ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero, colui del quale si parlava già in tutta la valle dell' Aniene, e anche a Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande. Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell'arrivo e adesso Giovanni e Maria potevano intendere il perché di quel tramortimento che si era visto. L'incontro era poi avvenuto l'indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n'erano state distrutte, ch'egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo datosi a Dio per sempre, ch'ella gli aveva promesso di dedicarsi ad opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro. Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver lasciato Subiaco. Scriveva in un'ora di amarissimo sconforto. Il fratello, sorpreso ch'ella si occupasse tanto de' poveri, s'irritava di questa novità nei suoi pensieri e nella sua Vita. Largheggiasse di denaro, se le piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa, visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era ridicolo, era pazzesco, era clericale. C'erano altre difficoltà. Ell'avrebbe desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per Maironi, che se pure andava qualche volta in Chiesa la domenica però non adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile. Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perché certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una corrispondenza romana del Corriere sul "Santo di Jenne" dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante nell'orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l'elemosina di un conforto. Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla? Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di scuse e di pace, le stese la mano. "Di tutto cuore" diss'egli. Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l'indomani, a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo. Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i benedettini raccontavano con ammirazione la Vita di penitenza e di preghiera ch'egli aveva condotto per tre anni lavorando nell'orto di Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale Torquato, guardaboschi, brav'uomo, parente della domestica dei Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al Santo. Nell'andata e nel ritorno aveva veduto, tutt'assieme, forse una cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo. Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una notte l'arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine vestito da converso benedettino, che aveva l'incarico di recargli una lettera. Questa lettera era dell' Abate di Santa Scolastica e diceva: "Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di Jenne in tutto l'universo mondo." Anche vi era scritto che questo giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E l'arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima febbre. L'indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a Jenne uno era infermo e l'altro se n'era andato a Filettino due giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La gente del paese era andata in Chiesa per udir la messa del benedettino che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste di non averne il diritto in Chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano tanta ressa intorno ch'egli aveva accennato con la mano di uscire della Chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato. Che avesse propriamente detto, la fantesca non l'aveva saputo dire a Maria, né Maria l'aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un po' interrogando, un po' immaginando, ella si ricostituì il suo discorso così: Potete voi entrare in Chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli? Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si può avvicinarsi all'altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che non potete entrare in Chiesa se avete mancato contro la carità e la giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in Chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl'interessi o nel'onore, se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio, d'impurità? Andate, Gesù non vi vuole in Chiesa! Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato. Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro, ad abbracciarsi. Già non c'erano che donne e vecchi perché gli uomini di Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi, adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in ginocchio, tutti, e per un quarto d'ora, Torquato raccontava così, si sarebbe udita, in quella grande Chiesa, una mosca volare. Poi il Santo aveva intonato il "Padre nostro" a voce alta e, seguito dal popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato raccontava che l'arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in canonica, perché li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti andavano a lui per consiglio. C'era stato un miracolo grande di una mula imbizzarrita sulla discesa della costa, ch'era per gittare il suo cavaliere sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall' Infernillo portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata sull'atto. Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria. "Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?" disse Noemi. "Domani si saprà" rispose Giovanni, alzandosi.

Queste cose l' Albacina le sapeva dall' Abate Marinier che veniva a sorriderne argutamente nel suo salotto. Bisognava sentire quanto veleno di accuse, con quali arti, si seminava dagl'intransigenti, tutti d'accordo in questo, contro quel povero diavolo di razionalista mistico del quale l' Abate sorrideva non meno che de' suoi nemici! C'erano novità anche al ministero dell'Interno. Quali novità? Donna Rosetta stava per rispondere quando la carrozza si fermò davanti a un grande convento. Il cardinale alloggiava lì. Donna Rosetta discese sola. Dal cardinale la presenza di Jeanne non occorreva, sarebbe anzi stata inopportuna. Occorreva in altro luogo. Jeanne attese in carrozza, crucciata di non sapere ancora, dopo tante chiacchiere, il perché di quella visita. Passarono cinque, dieci minuti. Jeanne si rizzò sulla persona, dall'angolo dove si era raccolta nei suoi pensieri, a guardar l'entrata del convento, se donna Rosetta ricomparisse. Radi viandanti passavano lenti per la via silenziosa, guardavano nella carrozza. A Jeanne pareva offensivo che vi fosse della gente tanto tranquilla. Ah Dio, e lui, e lui? Il medico le aveva promesso un bollettino al Grand Hôtel per le sette. Non erano ancora le tre. Più di quattr'ore di attesa. E cosa direbbe il bollettino? Tante corse, tante pratiche, tanti maneggi, tante cose, e poi? Dio Dio, e poi? Si morse le labbra, si soffocò un singhiozzo in gola. Ah, ecco donna Rosetta, finalmente. Il cameriere apre lo sportello, ella gli ordina: "Palazzo Braschi!" E sale in carrozza, si getta un libriccino ai piedi, si strofina a furia le labbra, invece di parlare, col fazzoletto profumato, dice fremendo che ha dovuto baciar la mano al cardinale e ch'era tanto poco pulita. Però la visita è andata bene. Ah se suo marito sapesse! Ell'aveva fatto una parte veramente orribile. Il cardinale era quello famoso che si era incontrato una volta con Giovanni Selva nella biblioteca del monastero di Santa Scolastica a Subiaco, e lo aveva assalito chiamandolo profanatore delle mure sacre, promettendogli che sarebbe andato all'inferno e più giù Donna Rosetta aveva soffiato nel suo fuoco per mandare a monte l'accordo segreto fra Vaticano e palazzo Braschi, era andata a raccontargli che la haute religiosa di Torino voleva l'uomo scelto dal Vaticano e sgradito al Quirinale. Quel diavolo di cardinale, conosciuto da lei nel salotto di un prelato francese, aveva sulle prime risposto solamente, col suo accento né francese né italiano: "C'est vous qui me dites ça? C'est vous qui me dites ça?" Infatti donna Rosetta aveva risposto ridendo: "Oh c'est énorme, je le sais!" Era un discorso che poteva costare l' Eccellenza a suo marito. Ma poi l' Eminentissimo le aveva quasi promesso che i voti della haute di Torino parrebbero stati soddisfatti: "Ce sera lui, ce sera lui!" Finalmente le aveva detto: "Comment donc, madame, avez-vous épousé un franc-maçon? Un des pires, aussi! Un des pires! Faites lui lire cela!" E le aveva dato un libretto sulle dottrine infernali e la dannazione inevitabile dei framassoni. Era il libretto che l' Albacina si era gettato ai piedi salendo in carrozza. "Figuriamoci" diss'ella "se mio marito legge questa roba!" Ma che ne importava a Jeanne? Jeanne era impaziente di conoscere le novità del ministero dell' Interno. E ora da chi si andava, al ministero dell' Interno? Dal ministro o dal sottosegretario di Stato? Si andava dal sottosegretario di Stato, dal marito di donna Rosetta. Donna Rosetta aveva taciuto fino a quel momento il proposito e l'oggetto di questa visita per non lasciare a Jeanne il tempo di schermirsi né di prepararsi troppo. L'on. Albacina sapeva dell'amicizia di sua moglie per la signora Dessalle e dell'amicizia della signora Dessalle per i Selva, tanto legati, alla loro volta, a Maironi. Egli aveva detto a sua moglie di voler parlare direttamente a questa signora, per fini suoi che intendeva tacere. L'avrebbe aspettata al ministero dopo le tre. Ce la poteva portare lei, sua moglie; ma senz'assistere al colloquio. Il movimento primo di Jeanne fu un'esclamazione di rifiuto. Donna Rosetta la persuase facilmente a mutar consiglio. Ella non poteva dire che progetti avesse in testa suo marito, non lo sapeva; ma secondo lei sarebbe stata follia di non andare, di non udire, poiché non ci poteva essere pericolo, da parte di Jeanne, d'impegnarsi a niente. Jeanne si arrese, benché il silenzio serbato dall' Albacina fino all'ultimo in cosa di tanto momento, la facesse trepidare come un infermo cui si annunci, dopo molti discorsi scherzosi, la visita di un chirurgo celebre che verrà per dargli un'occhiata e non più. "Non Le direi di andar sola" conchiuse sorridendo l' Albacina. "Gli uscieri ne hanno viste tante, al tempo di certi ministri e vice-ministri! Ma ci vengo io che al ministero sono conosciuta; e poi adesso quello che accadeva una volta non accade più." L'on. Albacina stava presso il ministro. Un deputato, chiamato allora allora per entrare, riconobbe donna Rosetta e le offerse di annunciarla a suo marito. Egli non aveva che due parole a dire, sarebbe uscito subito. Infatti dopo cinque minuti l'on. deputato uscì insieme ad Albacina che pregò Jeanne di passare dal ministro con lui. Le due Signore non si attendevano a ciò, donna Rosetta domandò a suo marito se non fosse lui che voleva parlare a Jeanne. Sua Eccellenza non si smarrì per così poco, congedò sua moglie con modi molto sommarî e portò, di sorpresa, la Dessalle dal ministro. La presentò al superiore, imbarazzata, quasi offesa. Il ministro l'accolse colla più rispettosa cortesia, da uomo austero solito a onorare la donna tenendosene a distanza. Egli aveva conosciuto il banchiere Dessalle, Padre di Jeanne, e le ne parlò subito: "Un uomo" disse "che aveva molto oro nei suoi forzieri ma il più puro nella sua coscienza!" Soggiunse che questa memoria lo aveva incoraggiato ad abboccarsi con lei per una faccenda delicatissima. Proferite ch'egli ebbe queste parole, anzi mentre le diceva, Jeanne sentì con certezza che quell'uomo sapeva il passato. Ella non poté a meno, di guardare alla sfuggita il sottosegretario. Gli lesse negli occhi la stessa scienza; ma lo sguardo del sottosegretario la turbava e la irritava; quello del ministro, invece, le apriva un'anima paterna. Il ministro entrò in argomento parlando di Giovanni Selva del quale fece ampie lodi. Si dolse di non avere con lui relazioni personali. Disse di sapere che Jeanne era amica della famiglia Selva. Egli si rivolgeva a lei per affidare a questi suoi amici una missione importante presso un'altra persona. E parlò di Maironi, sempre avendo cura d'interporre i Selva fra lo stesso Maironi e Jeanne, di evitare ogni accenno a possibili comunicazioni dirette fra l'uno e l'altra. Jeanne lo ascoltava, divisa fra l'attenzione alle sue parole, intensa, lo studio, pure intenso, di preparare una risposta prudente, misurata, e il fastidio sdegnoso che le dava la presenza del piccolo, mefistofelico Albacina. Il discorso del ministro fu diverso da quello che, in principio, ella si attendeva; migliore ma più imbarazzante. Egli le disse che non parlava come ministro ma come amico; che con lei non voleva fare misteri; che certe ombre non avevano avuto assolutamente corpo; che né ministri, né magistrati, né agenti di P. S. avevano a occuparsi affatto del signor Maironi il quale era perfettamente libero di sé e niente aveva a temere dalla giustizia del suo paese, fattasi persuasa della inanità di certe accuse mossegli per odio religioso; ch'egli aveva molta simpatia per le idee religiose del signor Maironi e anche molta stima per i suoi propositi di apostolato, ma che il signor Selva doveva persuaderlo della opportunità di allontanarsi, almeno per qualche tempo, nell'interesse del suo stesso apostolato, da Roma dove gli si faceva dai suoi nemici religiosi una guerra tale, a colpi di calunnie, ch'egli era per rimanere ben presto, inevitabilmente, senza discepoli. Qui il ministro, anche credendo fare cosa gradita a Jeanne, affermò la propria religiosità; abbaglio tragico, pensò lei amaramente. Egli sperava che in un prossimo avvenire il signor Maironi potesse esercitare liberamente la propria influenza in luogo altissimo; vi erano molti segni di una prossima trasformazione di quel tale ambiente, di una prossima disgrazia degl'intransigenti; ma per ora gli era opportuno di eclissarsi. Questo era il consiglio amichevole ma pressante che si desiderava di fargli pervenire per mezzo del suo illustre amico. Accettava la signora Dessalle di parlare all'illustre amico? Jeanne trepidava. Era da fidarsi? Era da dir cose che forse coloro non sapevano e cercavano sapere da lei? Guardò involontariamente il sottosegretario e gli occhi suoi parlarono così chiaro ch'egli non poté a meno di pigliare una risoluzione. "Signora" disse col suo abituale sorriso sarcastico, "vedo che Lei non mi desidera. La mia presenza non è necessaria e me ne vado per ossequio al Suo desiderio: desiderio giusto e che si capisce." Jeanne arrossì ed egli se ne accorse, si compiacque di averla ferita con la coperta allusione che si conteneva nelle sue ultime parole e più ancora nel sorriso maligno. "Però" soggiunse collo stesso sorriso "non me ne andrò senz'affermarle, sulla mia parola, che mia moglie Le è un'amica fedelissima, che non mi ha mai tenuto sul Suo conto un solo discorso indiscreto; come, sullo stesso argomento, non ne ho mai tenuto io a mia moglie." Vendicatosi così, l'omino se ne andò, lasciando Jeanne agitatissima. Dio, intendevano proprio che avesse a parlare lei, a Piero? Supponevano che lo vedesse, pensavano essi pure che la santità di Piero fosse mentita? Si ricompose con uno sforzo supremo, cercò aiuto nello sguardo grave, mesto, rispettoso del ministro. "Parlerò al signor Giovanni" diss'ella. "Credo però" soggiunse esitando "che il signor Maironi sia ammalato, che non possa viaggiare." Nel nominare Maironi le salirono le vampe al viso. Ella le sentì assai più che non si vedessero. Però il ministro se ne avvide e venne in suo soccorso. "Forse, signora" diss'egli "Ella dubita di compromettere i Suoi amici Selva. Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch'è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch'è ammalato ma ch'è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato." Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere. "Forse il signor Selva lo ignora" disse il ministro, accompagnandola verso l'uscio "ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav'uomo! Siamo vecchi amici." Jeanne tremava di avere intravveduta la Verità. A palazzo Braschi che il senatore congedasse Piero; un'altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé , si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c'era. L'usciere che le rispose così le parve un po' imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.

"Forse una volta" diss'egli "per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio Maestro, a nome dell' Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l'ultima parte della Visione e n'ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione Divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità." Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d'una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare. "Figlio mio" diss'egli "ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu ti sia andato a cacciare a Jenne." Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò: "È stata un'idea disgraziata, perché chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?" Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere. "Ti capisco" rispose il Papa "e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?" Benedetto sapeva di un'accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l'aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno. "Ti accusano" ripigliò il Papa "di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch'egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche ..." Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose. "Di relazioni non lecite" disse "con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?" "Santo Padre" rispose Benedetto, tranquillo, "lo Spirito risponde per me nel Suo cuore." Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell'anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore. "Spiegati" diss'egli. "Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse." A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia. "Adesso" riprese Benedetto "Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono." "Forse tu sai" esclamò il Papa"chi è stato in questi giorni da me!" Egli aveva fatto chiamare a Roma l'arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L'arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano intimorito a Jenne, non aveva perduta l'occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente. "No" rispose "non lo so." Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all'altra, pensò. Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n'avvide subito. Quando se n'avvide la regolò e poi ruppe il silenzio. "Credi tu" diss'egli "avere veramente una missione?" Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile: "Sì, lo credo." "E perché lo credi?" "Santità, perché ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand'anche non avessi avuto visioni né altri segni straordinari, la mia natura ch'è religiosa mi imporrebbe il dovere di un'azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò ..." Qui la voce di Benedetto tremò di emozione " ...come non l'ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio." "E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un'azione religiosa?" Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato. "Sì" diss'egli "anche qui, anche adesso." Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani. "Alzati" disse il Santo Padre. "Di' liberamente quello che lo Spirito ti consiglia." Benedetto non si alzò. "Mi perdoni" diss'egli "io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!" Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo. Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa. Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca. "Ripasserai di qua" diss'egli. Parecchi minuti trascorsero nell'attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso. "Santo Padre" disse Benedetto "la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: "io sono la Verità" e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la Verità distrugga la Verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell'apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d'infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l'uomo però se ne fa un'idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la Vita religiosa; perché il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch'essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua , che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell'intelletto a formole di Verità ma che è principalmente azione e Vita secondo questa Verità, e che alla fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l'autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d'inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità ..." Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proi­bito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non ve­nite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 2 occorrenze

Così l'ufficioso, e molto timorato storico Jean Frézet, abate di Corte e pedagogo. Certo è che, rimasta vedova giovanissima, lanciata dal destino tra le vicende più tragiche che possano turbare un reame, Madama s'innalza nella nostra fantasia come un'immagine di forza e avvedutezza che pochi regnanti possono vantare. Ella sa equilibrarsi, tra cupidigie opposte, tra nemici formidabili. La Francia da una parte, che è pure la sua patria perduta, la quale l'incalza contro la libertà del Piemonte con la politica subdola, terribile, inesorabile di Richelieu e del fratello Luigi XIII. Dall'altra la fortuna e la libertà del Piemonte che è anche la fortuna e la libertà del figlio superstite, un gracile bimbo di sei anni che ella adora e che sarà col tempo il grande Vittorio Amedeo; dall'altra i cognati: il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio implacabili contro la Reggente. Da questo nodo di cupidigie opposte scoppia la guerra civile del 1640. C'è, di quei giorni, una lettera di Madama, che non si può leggere senza un fremito di commozione e di ammirazione, e che rivela la tempra veramente superiore di quella donna che ha paura d'esser donna Ella deve lasciare per qualche giorno la Cittadella, deve abboccarsi segretamente col fratello Luigi XIII e Richelieu, a Grenoble, per moderarne i disegni crudeli e conciliare il destino di tutti quelli che ama. Essa lascia il figlio piccolino al Marchese di San Germano, lo affida con queste parole che è bene meditare: "Je vous confie le dépôt le plus cher. Ne laissez point sortir monn fils de la Citadelle: n'y recevez pas d'étrangers. Ne remettez cette place forte à personne. Si vous receviez des ordres contraires, fussent-ils revêtus de ma signature, regardez-les comme non avenus. On me les aurait extorqués. Je suis femme . .E altrove, accasciata per un attimo dal destino che minaccia la catastrofe ultima, oppressa dalla malvagità dei più famigliari, scrive al fratello: L'heureux a peu d'amis: le malheureux n'en a point! Je suis femme Com'era? Bella? Nessuna stampa dell'epoca la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte le sue effigi una sola, per vederla com'era, o basta sillabare il suo nome, pensarla intensamente ad occhi socchiusi perchè la sua figura si profili contro la parete sanguigna, sotto le vôlte a crociera. Ha una veste nera - non ha deposto le gramaglie più mai, dal giorno che è rientrata in Torino vittoriosa centro i suoi sudditi - la quale l'avvolge graziosamente, con un guardinfante appena accennato: una veste che potrebbe ricordare la foggia odierna se non terminasse alle maniche, alla gorgiera con sbuffi di velo bianco e ondulato. Madama non ha più gioielli. Dato fondo al Tesoro per sostenere le spese della guerra, essa ha venduto i famosi brillanti, dono e retaggio di principi sabaudi, ha venduto "le smaniglie e le boccole pesanti", ha venduto la collana di Ahira, la meravigliosa collana bizantina d'oro massiccio e di smeraldi che gli Avi Cristianissimi avevano portato da Gerusalemme al tempo delle Crociate: " J'aime mieux, mon frère, me passer de joyaux que de lasser mes troupes sans paie ... ". Il volto è circondato da un'acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi chiari di amazzone, il profilo diritto, la bocca volontaria, la mascella forte: un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle fantasie mitologiche di allora, non il volto d'una Regina, d'una donna segnata dal destino al dolore ed all'amore. L'amore? "Elle eut des envieux, des ennemis qui s'efforcèrent de répandre des nuages sur ses belles qualités: la calomnie n'épargna pas la grande Princesse". L'amore? La immagino dolorante, tragica, combattiva: non la so pensare amante. Se qualche verità c'è in fondo alla calunnia e alla leggenda, se in un'ora di sconforto supremo ella ha piegato la bella fronte virile sulla spalla di qualche amico, certo deve essersi sollevata subito, conscia del suo destino, deve aver ripetuto fieramente al favorito d'un'ora le parole che scriveva al Marchese di San Germano: "Regardez-les (trattati politici o baci che fossero) - regardez-lecorame non avenus, on me les aurait extorqués. - Je suis femme".

Interrogo un soldato: non mi risponde; un contadino: nemmeno si volge; un abate: non mi guarda, non batte ciglio. E allora m'accorgo d'una cosa inaudita e terribile: sono ombre (o l'ombra sono io?) divise da me dal mistero del non essere più, del non essere ancora. Vedo e non son veduto, sento e non sono sentito ... Intorno si parla francese o un piemontese arcaico molto serrato nella erre infranciosata o l'italiano pesante dei libri stampati; così dinnanzi a me un tal conte Dellala di Beinasco e un tal cavaliere Mattè macchinista deplorano " ... la fatal pioggia importuna che ieri sera nocque al fontionamento della macchina dei fuochi artefitiali di gioia, a cascatelle e figure molto vaghe e dilettevoli, onde l'ornatissima madama giovinetta volle trarre nefasto presagio ... ". E poco oltre all'angolo di Via San Francesco da Paola uno scrivano pubblico legge ad alta voce un affisso del muro ad un gruppo di analfabeti riverenti: " ... Prima della partenza il Nuziale Corteggio attraverserà la città di Torino uscendo di Palazzo a Piazza San Giovanni per Via Dora Grossa, Piazza Castello, Via Nuova, Porta Nuova, Porta di Po, volendo il Re e la Regina assecondare così la pubblica brama di vedere ancora una volta in essa l'Amata Augusta Figliuola ... " "29 Settembre dell'anno 1781". Leggo anch'io la lista delle "sontuose Nutiali allegrezze per l'eccelso maritaggio, ecc., di Madama Carolina con il Duca di Sassonia rappresentato per procura dal fratello della sposa. Ieri al Castello di Moncalieri ebbero luogo le nozze. Oggi la nuova Duchessa di Sassonia partirà per Dresda e farà per Torino un ultimo giro d'addio". ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... La bela Carulina ... la bela madamin ... Si parlava intorno, a mezza voce, di non so che scandalo provocato ieri dalla sposa sedicenne nell'ora solenne del sì. - Oh, marchese, ieri si sperava di vederla a Moncalieri. - Non ho ricevuta la carta d'accoglienza. - Ma non è possibile! - Proprio così, Monsignore. Ho già fatte le mie rimostranze al Gran Cerimoniere ... Erano in molti? - Non molti. Forse cento invitati. Il Re, la Regina, la Principessa Carlotta di Carignano, il Cardinale Marcolini, il Principe di Salm Salm, i Vescovi, i Cavalieri dell'Ordine, il Principe di Masserano, i Ministri di Stato, il Capitano delle Guardie del Corpo, il Governatore del Principe, il Mastro di Cerimonia, gl'Introduttori, i Sotto Introduttori degli Ambasciatori. - E gli sposi? - Non erano allegri. Già, l'idea del distacco per sempre. E poi una bimba di non ancora sedici anni sposata da un fratello per un Principe che non ha veduto mai ... - Ha smaniato? - No, no. Ha significato come dire la sua rassegnazione. Nel momento del sì ha capito che si decretava l'esilio, l'esilio per sempre in quella Sassonia che deve apparirle come l'estrema Tule. - Ma non ha smaniato? - Affatto; fu un attimo. Il Grande Elemosiniere del Re uscì pontificalmente dalla sacrestia e dopo essersi inginocchiato all'altare ed inchinato al Re e alla Regina, fece agli sposi la consueta interrogazione. Il Principe di Piemonte rispose immantinente; ma la Principessa fu vista impallidire, alzarsi, vacillare, volgersi smarrita verso i genitori inginocchiati alle sue spalle; lo sguardo di Sua Maestà la dominò, la piegò, la fece inginocchiare, prorompere non in uno ma in tre sì consecutivi che fecero ridere tutta la Corte ... Sia detto tra noi, Monsignore, io non vorrei essere oggi nei panni del Conte Lamarmora. - Perchè? - Perchè s'è presa tutta la responsabilità di fronte al Re di questa gita d'addio per compiacere la Regina e la Principessa. Lei sa che ancora sabato scorso era stabilito che subito dopo le nozze il corteo, accompagnato dall'ambasciatore della Corte Elettorale di Dresda, proseguisse, direttamente da Moncalieri senza soffermarsi a Torino e raggiungesse Augusta dove i Commissari del Re di Savoia avrebbero consegnata la sposa ai Commissari del Duca di Sassonia. Sarebbe stato il partito migliore. Ma la Principessa, povera bimba, cerca ogni pretesto per prolungare di un'ora la sua partenza. Ha supplicato, ha smaniato per passare a Torino un giorno ancora e la Regina ha avuto l'idea di una passeggiata d'addio per la città con relativa esposizione della Santissima Sindone alla Galleria di Piazza Castello. Il Re ha resistito, poi ha concesso, previa responsabilità del Conte Lamarmora intercessore, per evitare ogni guaio. Lei sa quanto Sua Maestà sia alieno da scandali. Non vorrei essere cattivo profeta, ma non mi stupirei che la Principessa Carolina desse in convulsioni nel bel mezzo di Piazza Castello o di Via Dora Grossa. Ieri al ballo di gala aveva gli occhi di un'allucinata ... - Povra masnà! Siamo in Piazza del Castello, la Piazza Castello settecentesca quasi simile a quella d'oggi e pure tanto diversa. La illumina un sole non vero: il sole che illumina le vecchie stampe e le cose che si raccontano ... Due gallerie di stile barocco si prolungano ai lati di Palazzo Madama dividendo la Piazza per metà; e l'assenza di lastrico e di rotaie, di globi elettrici e d'intrico metallico, d'insegne e di grida murali, le dànno un aspetto spoglio di cosa morta ... Come noi moderni si vive di questo! Una folla immensa si riversa dai Portici della Fiera, strana folla disposta, accoppiata dalle incisioni in rame e dalle stoviglie di Savona (non l'arte imita la vita, ma la vita l'arte; le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti) e v'è la berlina dai quattro cavalli recalcitranti raffrenati dal postiglione; v'è la portantina ducale, il servo che conduce il cane al guinzaglio, i due abati che s'incontrano e si stringono la mano, la madre che ammonisce il bambino, i comici nella loro baracca, il cerretano che vende l' elisir di lunga vita, la sibilla che predice le sorti. E la folla è disposta secondo il gusto convenuto che importarono in Piemonte i pittori fiamminghi e sulla folla ondeggia con un ritmo vago, insistente, la canzone del giorno. Ma oltre Palazzo Madama, che preclude la vista dell'altra metà della Piazza, s'alza un mormorìo diverso, una melodia liturgica e solenne e l'aria si vela di nubi candide e odora acutamente d'incenso. M'apro il passo per un varco dei Portici e resto immobile, rapito dal quadro più solenne che la fede intatta abbia offerto mai ad occhi mortali. Tutta la Piazza fluttua d'una moltitudine indescrivibile ed è convertita in un tempio che ha per cupola il cielo. In fondo s'eleva la loggia che divide Piazza Castello dalla Piazza del Palazzo Reale ed ogni arcata è occupata da un vescovo officiante. Dall'arcata centrale, protetta da un baldacchino vermiglio pende ben tesa la Santissima Sindone, la reliquia esposta alla folla per poche ore, il tesoro unico sulla terra, quel sudario nel quale Giuseppe D'Arimatea avvolgeva il corpo del Redentore deposto dalla Croce. E mille labbra cantano il Te Deum e mille occhi fissano la duplice immagine del Corpo Divino. Dal mattino si officia di continuo all'aria aperta nella luce del sole; tutto il popolo prega ad alta voce per la giovinetta sabauda che partirà tra poche ore per la terra lontana. Tra i colonnati barocchi dell'alta loggia scintillano le mitre vescovili, spiccano i damaschi e le sete, le porpore, gli zibellini: è adunato tutto l'alto Clero della Metropolitana, i Cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, i cavalieri della SS. Annunziata, i Canonici, i Diaconi, i Mazzieri, i Caudatari, i Sindaci, i Decurioni ... Ma la bela madamin della canzone? Il baldacchino reale è deserto. La Corte s'è ritirata da poco per le ultime cerimonie di Palazzo e le udienze di congedo. La bela madamin! ... Voglio vederla ... Entro nella Reggia. Oimè, non è facile nemmeno per un puro spirito invisibile e imponderabile, non è facile trovare una principessa nella sua vasta dimora. Seguo il grande atrio a sinistra, salgo, scendo, mi smarrisco, riesco nella Cappella del SS. Sudario, salgo lungo la grande scala di marmo nero alla sala degli Svizzeri, attraverso la sala degli Staffieri, la sala dei Paggi, la sala del Trono, la sala delle Udienze, la sala del Gran Consiglio. Dame e cavalieri - i più bei nomi della nobiltà Subalpina - quelli che oggi sopravvivono soltanto nelle tele delle pareti, vengono, vanno, ridono, parlano, con le loro labbra di carne ... Ma la bela madamin ... dov'è? dov'è il delicato fantasma delle mie allucinazioni? Attraverso la lunga Galleria del Danieli passo sotto i cieli favolosi del pittore secentesco; fra lo scintillìo cristallino degli immensi lampadari avanzo, apro una porta socchiusa. Odo una voce. La bela madamin No. Non è lei. Allibisco. In mezzo alla sala appoggiato al tavolo di lavoro con le braccia conserte, sta S. M. il Re Vittorio Amedeo III, già vestito di gala, terribilmente rassomigliante al ritratto del Dogliotti, alle incisioni del Rinaudi, il profilo diritto non raddolcito dalla parrucca bianca, il collare dell'Annunziata, i nastri, le croci, le medaglie disposte in bell'ordine sulla corazza troppo corruscante di pacifico guerriero settecentesco, la porpora crociata di bianco del mantello cesareo avvolta con una linea romana illanguidita un poco dalle grazie di Watteau. Sua Maestà rilegge una lettera; la carta pergamenata gli garrisce tra i pollici nervosi scossi dal tremito. E non ascolta il Conte Lamarmora che gli legge le modalità del viaggio ben previste in protocollo ufficiale da deporsi nell'Archivio di Stato secondo che l'uso di Corte comanda; "da Vercelli a Milano, da Milano a Roveredo a Innsbruck, dove conteremo di giungere il sabato prossimo. Saranno nel corteggio della Duchessa Carolina il Marchese di Bianzè, suo primo Scudiere e Cavaliere d'onore, l'Uditore Borsetti, Segretario di Stato, la Marchesa di Cinzano, Dama d'onore, la Contessa di Salmour e la Marchesa di Verolengo, Dame di Palazzo" ... - E souma inteis, e souma inteis - interrompe il Sovrano con un gesto che ammutolisce e licenzia il Conte Lamarmora. - Ca fassa chiel; ma dsôura a tüt gnüne masnôiade, gnün tapage an facia a la pôpôlassiôn ... Oh il mio dolce dialetto così vivo fra tante cose morte, adorato più di qualunque parlare, più dell'italiano (adoratissimo!), l'italiano, estraneo alla mia intima sostanza di Subalpino, appreso tardi con grande amore e con grande fatica come una lingua non mia, il mio dolce parlare torinese, l'unico nel quale penso e l'unico che mi giunga al cuore suscitandovi schietto il riso ed il pianto, il mio dolce torinese sulle labbra d'un re di Savoia, quando il Piemonte era ancora una leggiadra provincia della Francia e l'Italia non era: quale, quale commozione che non so dire! - E souma inteis - conclude Sua Maestà senza alzare gli occhi dalla lettera. E la lettera è del genero lontano, Antonio Clemente Duca di Sassonia, è dello sconosciuto signore che attende in terra barbarica la giovinetta soave. Dice: " ... il en coûtera sans doute à la sensibilité de Madame la Princesse de s'éloigner de ses illustres parents et d'une famille qui doit lui être chère, mais je mettrai tant d'attention à faire diversion à ses soucis et à m'attirer sa confiance et sen estime que je me flatte de lui adoucir l'amertume de cette séparation ... ". *** Ma la bela madamin Passo nel Gabinetto Cinese, attraverso le sale di raso cilestre, cremisi, salice, fragola, canarino, dell'appartamento della Regina, sosto nel corridoio persiano ad ascoltare i commenti di due Dame: "Un amore! un amore!". Si parla di lei; è dunque vicina. Eccomi nel Gabinetto delle Miniature nella Galleria Pompeiana; un profumo acutissimo m'annuncia il penetrale del fiore riposto. E sulla soglia sosto abbagliato dinnanzi alla più delicata interpretazione vivente che mai sia stata fatta de la toilette de la Mariée Maria Carolina Antonietta di Savoia Duchessa di Sassonia è in piedi tra le sue cameriere chine o ginocchioni intente all'opera delicata. La cognata, che presiede da parigina esperta, le ha tolto lo specchio di mano: - Ti vedrai dopo, mignonne, quand le rêve sera achevé Maria Carolina è una visione abbagliante di neve e d'argento. Bianco il ciuffo di penne che le adorna l'alta acconciatura incipriata, bianco il viso passato alla cerussa bianca, la veste di raso splendente dal guardinfante mostruoso, bianche le scarpette, le ghirlande, il cagnolino, il ventaglio. In tanto candore spicca il rosso delle labbra e delle gote, il nero degli occhi e dei sopraccigli. La cognata stessa Adelaide di Francia, nipote di Luigi XV, ha dipinto il volto della bimba diciottenne secondo che l'ultimo dettame di Parigi consiglia: le ha cancellato col cosmetico i delicati sopraccigli biondi e due altri ne ha disegnato a mezzo della fronte, nerissimi, arcuati, imperiosi. Molto s'è discusso sull'acconciatura; il parrucchiere di Corte, De Regault, voleva riprodurre con gl'immensi capelli biondi il Palazzo Madama o la galera capitana degli Stati Sardi; ma la Regina, la Principessa, si sono opposte e l'artista ha costrutto con la chioma densa un edificio a tre piani coronato da un nido dove una colomba cova, teneramente assistita dal compagno. - Ravissante! Ravissante! - mormora la cognata che le sta alle spalle puntandole di sua mano un fiore o una piega del guardinfante. Ma ad un tratto vede le gracili spalle adolescenti scosse da un sussulto, si china, guarda: il volto dipinto con tanta cura è inondato di pianto. - Ah, mon Dieu, tu vas te ravager! ma per carità! Vieni, vieni a vederti e non piangerai più. Prende la sposa per mano, la conduce dinnanzi al grande specchio ovale della parete. Le lacrime s'arrestano d'improvviso. La bimba, che ieri ancora giocava alle dame in visita, sbigottisce d'essere oggi una dama davvero e non pensava di vedersi così bella. Sorride tra gli ultimi singhiozzi, sorride a se stessa, alla cognata, alle cameriere, cancella col batuffolo della polvere l'ultima traccia di lagrime. - Sua Maestà la Regina! - annunzia un servo. Camerieri, parrucchieri, servi balzano in piedi, rigidi, addossati alle pareti. La madre sosta sulla soglia, sorride, tende le braccia alla figlia, l'abbraccia, la bacia, ma con delicatezza trepidante, come si odora un fiore troppo fragile. - Un rêve, vraiment un rêve! *** ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Oh, l'interminabile fila di berline, le berline di Casa Reale simili ad altissimi triangoli capovolti, sculpite, dorate, sovraccariche di tutta la mitologia e di tutto il simbolismo pazzesco del barocco; così goffe ed aggraziate, così snelle e tozze ad un tempo! Berline a quattro, a sei, a dieci cavalli gualdrappati, frangiati, impennacchiati, con non altro di libero che le zampe e la coda prolissa, cocchieri e staffieri a codino rigidi come automi tolti da un armadio centenario! ... Il corteo fantastico si svolge interminabile come in una fiaba dei Perrault, ma non reca il marchese di Carabattole, non il gatto dagli stivali, non Cenerentola fatta regina, ma tutte le belle dame della nobiltà subalpina, la Marchesa di San Damiano, la Marchesa d'Ormea, la Contessa Morozzo, la Contessa Della Rocca, la Marchesa di San Germano, la Marchesa di Cinzano, la Contessa di Salmour, la Marchesa di Verolengo ... E fra tutte, bellissima, come la Principessa della favola, come la Figlia del Re, leggendaria, è la sposa tutta bianca, tutta d'argento ... - La bela Carôlin! La folla che stipa Piazza Castello, i portici, i colonnati, che brulica sugli alberi, sulle ringhiere, sui tetti, acclama la sposa con un fremito che parte dal cuore. Il popolo ama quell'ultimogenita del Re, l'ama come una delicata bimbetta sua, la bela Carôlin è popolare ovunque, dai parchi della Venaria ai parchi del Valentino, dai bastioni della Cittadella ai bastioni della Dora, dove non sdegna di interrompere i suoi giochi per rivolgere la parola a un giardiniere che pota, a una lavandaia che piange. - Madama Carôlin! la bela Carôlin! Mai il popolo ha sentito così forte la sua tenerezza commossa come in quest'ora dell'ultimo addio. Il bel fiore sabaudo sta per essere còlto da altre mani per un giardino d'oltr'Alpe. ... Da già ch'a l'è cusì, da già ch'a l'è destin faruma la girada anturn a tüt Türin ... Il lungo corteo d'equipaggi passa da Via Dora Grossa a Porta Segusina, da Porta Segusina ai bastioni della Cittadella. Sono quivi schierate tutte le truppe: spiccano i Granatieri e i Guastatori dalla veste di scarlatto guarnita d'argento, con cappotto frangiato e banda intarsiata pure d'argento e d'azzurro, spicca la Compagnia Colonnella con le Corporazioni dei Mercanti e dei Droghieri a divise vivacissime. Lungo Via Santa Teresa e Piazza San Carlo, lungo Via Nuova, sono tutti gli altri Corpi della città: gli studenti della Regia Università col loro Sindaco, i Cavalieri dell'Ordine della SS. SS.Annunziata e dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Tutti formano tra la folla varia un disegno ordinato a colori vivacissimi dove il corteo passa come tra una doppia siepe di divise smaglianti. La sposa diciassettenne non ha mai visto tanto fasto nella sua vita breve e raccolta e pensa che tutta quella gioia di colori e di suoni è per lei e s'alza e batte le mani come ad un bel gioco. Dai bastioni della Cittadella ai bastioni di Po rombano i cannoni di salve, strepitano i mortai e i mortaretti, accompagnando senza tregua con un rombo guerresco il clangore esultante di tutte le campane di tutte le chiese: la Metropolitana, Santa Teresa, la Consolata, i Santi Martiri Tebei, tutti i provincialeschi templi torinesi. Il corteo regale s'avanza. Dame, cavalieri gettano di continuo a piene mani le dragées nuziali, i grossi confetti settecenteschi detti giüraje E la folla s'accalca, fluttua, acclama. La sposa protende le mani e mille mani si protendono affettuose in una stretta d'ultimo addio. - La bela Carôlin! La piazza San Carlo è convertita in una sala immensa: "sta una tavola ivi disposta la quale fa vedere un corpo di bacili di confetti canditi e di molte sorta di paste zuccherate e frutti molto lontani dalla stagione. I bacili suddetti, guarniti a piramidi nella sommità dei quali vagamente pompeggiano stendardi con armi e cifre, il tutto regalato di fiori con una piramide sostenuta da quattro tori argentati carichi di confetture. Per finimento godono le Altezze Reali dell'apparato più con gli occhi che con la bocca e prendono gran piacere in vedere a dare il sacco di detta tavola e dare la scalata alla piramide fruttata e inzuccherata". La sposa giovinetta ride a quel gioco, ride fino alle lagrime della folla che corre, sale, rotola, schiamazza. La sposa ha tutto dimenticato e pensa che la vita prosegua così in un corteo dorato e infiorato tra una moltitudine gaia e plaudente. L'allegrezza dell'ora è per lei come quell'orlo di miele che si mette sul calice della medicina troppo amara. Fuori di Porta Nuova la folla si estende fino al Parco del Valentino. Dinnanzi al Castello, "passatempo delle Dame", il corteo si ferma ancora una volta per un altro rinfresco e per ricevere il complimento del poeta Pancrazio da Bra, arcade di bella fama nell'Accademia degli Incolti. S'avanza costui in sembianza del fiume Po, seminudo, con manto di drappo d'oro e capelli a guisa d'alga ed è seguito dalla Dora fanciulla vestita a guisa di ninfa con le chiome sparse e incominciano un dialogo in versi dove il Po dimostra alla Dora sconsolata per la dipartita della Principessa la necessità che lo splendore della Casa Sabauda s'estenda oltre ogni confine ... Di che bell'astro il nostro ciel si priva! La bela Carôlin s'annoia mortalmente alle interminabili ottave accademiche, sbadiglia, s'abbuia, guarda altrove, s'alza impaziente, invano trattenuta dalla madre e dalla cognata. E l'amarezza del distacco, la realtà dell'ora triste la riprendono ancora e le stringono il cuore distratto per poco ... Il suo volto si vela d'angoscia quando il corteo riesce alla Porta di Po. Là sotto le arcate imbandierate e infiorate attendono le quattro berline di viaggio sulle quali bisogna salire fra pochi secondi; non più graziose berline dorate, ma grandi carrozze fosche e disadorne. Il corteo s'arresta presso la Porta. Bisogna scendere con la Marchesa di Cinzano, con la Contessa di Salmour, con il Marchese di Bianzé, bisogna passare con i compagni di viaggio nei tristi veicoli non più di gala. Un tappeto infiorato segna il breve percorso ... Ma la bela Carôlin che tormenta da mezz'ora la mano della Regina, s'è ora afferrata al braccio di lei e quando il Conte Lamarmora apre lo sportello e l'invita a scendere, la piccola si getta al collo della madre, disperata, folle. Il fratello è costretto a sciogliere le braccia di lei a forza come si spezza una catena; a forza la fanno scendere, le fanno attraversare il breve spazio giuncato di fiori, reggendola alle spalle, costringendola al passo, portandola quasi di peso nella carrozza da viaggio. E là dentro la bimba si vede perduta. - Maman! maman! - grida protendendosi dagli sportelli mentre le quattro carrozze s'aprono il varco tra la folla. - Maman! maman! Oimè, la madre, gli amici restano indietro, ritornano nelle berline dorate verso la Reggia, ch'ella ha dovuto lasciare per sempre. Allora la piccola è presa dal panico folle come chi è trascinato alla morte. Ha di fronte la severa Marchesa di Salmour, l'arcigno Ambasciatore di Sassonia. Si vede sola, perduta, si protende forsennata verso la folla invocando soccorso. - Maman! maman! E nella folla l'hanno udita le madri: molte donne s'accalcano tra le ruote, impediscono quasi alle carrozze di procedere, stringono le piccole bianche mani convulse. - Povra masnà! - Che Dio at giüta! - Fate courâge! - Arvëdse ancoura! - Arvëdse prest! Ma i cocchieri sferzano i cavalli: il convoglio s'affretta, fende la folla, procede di corsa, è sul ponte, è oltre il fiume, dispare ... *** Il Duca di Sassonia fu ottimo sposo per la bela Carôlin Il 17 marzo scriveva alla Regina ringraziandola del dato consenso e della conseguita felicità. "Aussi tous mes désirs ne tendront-ils qu'à me rendre dighe des bontés d'une princesse qui réunit aux charmes de la plus aimable figure, toutes les vertus de ses augustes parents". Il 28 dicembre 1782 la bela Carôlin moriva in Dresda, poco più di un anno dopo le nozze e a diciannove anni non ancora compiuti. Tuchè-me'n po' la man, me cari sitadin, Për vive che mi viva vëdrö mai pi Türin!

Teresa

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Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Pagina 240

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679087
Perodi, Emma 3 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

La notizia di questo fatto giunse fino al beato Romualdo, abate di Camaldoli, il quale scese con una lunga processione di frati del suo Eremo, portando in mano la croce, e si recò a benedire la bocca della caverna di Montecornioli. Il santo abate però disse che sotto quel fatto ci doveva essere un mistero, quando gli fu assicurato da un suo frate che dopo poche notti che la caverna era stata benedetta, erano ricomparsi i demoni a farvi la guardia. L'abate Romualdo ordinò preci e digiuni a tutti gli abitanti del paese di Montecornioli, per impetrare da Dio la liberazione da quel tremendo flagello; ma neppur questi valsero, e i demoni continuavano a mostrarsi. In quel frattempo Turno era ridotto al lumicino. Nella notte stessa dalla scomparsa degli angioli e della casa, egli, sentendosi opprimere da quelle gemme rubate ai poveri, invece di portarsele a casa e nasconderle sotto il mattone del pavimento, aveva scavato una buca in cantina e ve le aveva rimpiattate, e poi era andato a letto. Ma non aveva potuto dormire in tutta la notte, e nell'uscire la mattina per andare nel bosco a segar le legna, come faceva ogni giorno, aveva sentito tutta la gente sgomenta dall'apparizione dei demoni e dalla scomparsa degli angeli, che avevano recato nella notte di Natale tanti doni ai bimbi buoni, ai bimbi poveri di tutta la contrada. Quelle lamentazioni che udiva gli arrivavano al cuore, perché sapeva che senza la sua curiosità e il suo furto, gli angeli avrebbero continuato a beneficare i poverelli del paese. Egli si sentiva un gran malessere dentro e le braccia cionche come se non potesse fare nessun lavoro. Tutto il giorno vagò per il bosco evitando d'imbattersi negli altri boscaiuoli, e non si avviò a casa altro che a ora tarda. Ma prima di oltrepassare gli ultimi alberi, sentì uno sbatter d'ali sulla sua testa, e a un tratto vide un pipistrello, grosso come un'aquila, con gli occhi e la lingua di fuoco. Il pipistrello rimase ad ali aperte davanti a lui, e gli disse: - Turno, tu hai reso al Diavolo un gran servigio, scacciando gli angioli dalla caverna. Devi sapere che essi vi avevano nascosto il tesoro della regina Saba e del re Salomone, salvato da Gerusalemme dopo la distruzione di quella città. Si erano ridotti qui dopo lunghe peregrinazioni e ad essi lo aveva confidato il Nazzareno. Se occhio umano riusciva a mirarlo, essi ne perdevano la custodia, e il tesoro passava nelle mani del nostro signore, Belzebù. Egli ora ti vuole ricompensare e ti permette di penetrare nella caverna e di sceglier magari lo scettro di Salomone e la corona di Saba. - Non voglio nulla! - diceva Turno tremando. - Non voglio nulla; è roba del Diavolo! - e si fece il segno della croce. Il pipistrello con gli occhi di fuoco cadde in terra come fulminato, e dove era caduto si aprì una buca fonda fonda, che ancora si chiama "Buca del Diavolo" e chi ci precipita non riesce a tornar più su. Turno, dopo questo fatto, tornò a casa come immelensito. La sua mamma non gli poté cavar di bocca neppur una parola assennata, perché vaneggiava come un matto. La sera gli venne la febbre, una febbre da cavalli, e nessuno sapeva da che derivasse. Così rimase un mese, fra la morte e la vita. Sua madre chiamò i medici a curarlo, ma essi non ci capivano nulla in quella malattia; chiamò le donne che sanno togliere il mal d'occhio, ma neppure quelle riuscirono a guarirlo; finalmente chiamò il curato a benedirlo, e allora Turno si sentì a un tratto sollevato, cessò di gridare e volle confessarsi. Dopo la confessione si comunicò, e appena si sentì in forze, scese in cantina, prese le gioie che vi aveva nascoste e se ne andò col bordone da pellegrino e col capo coperto di cenere, prima alla Verna, dove rimase in preghiera tre giorni, poi all'Eremo di Camaldoli, e finalmente alla Madonna di San Fedele a Poppi. Dinanzi a quella immagine egli depositò le gemme prese nel tesoro della caverna, e la collana e il diadema che nei giorni di festa ornano il collo e la testa della Madonna, sono ancora formate delle stesse perle e delle stesse gemme donate da Turno. Il quale, finché visse sua madre menò un'esistenza laboriosa, alternando il lavoro con le preghiere; ma alla morte della madre vendé la casetta, distribuendone il prezzo ai poveri, e poi andò a farsi frate a Camaldoli e per le sue virtù fu tenuto in concetto di santità. I montecorniolesi non hanno più veduto i diavoli con le spade fiammeggianti a guardia della caverna, ma nessuno ha osato mai di scavare il monte per impossessarsi delle ricchezze. Due ladri soltanto una volta vennero da lontano per rubare quello che sta nascosto nella caverna, ma sull'imboccatura furono tutti e due colpiti da una saetta, che li incenerì. Ma neppure i bimbi buoni, i bimbi poveri dei casolari sparsi sulla montagna hanno avuto più i ricchi doni, e questo fa supporre che in paese gli angeli non siano più tornati. La Regina tacque, e Cecco, il bell'artigliere, esclamò: Mamma, la memoria vi regge, ma una cosa sola avete dimenticato di raccontare a questi bimbi, che vi stanno a sentire a bocca aperta. - Che cosa? - domandò la Regina. La storia del turbante! - Non l'ho dimenticata; gliela serbo a domani sera, e per ogni festa del Natale ne ho un'altra. - Dunque, mamma, ne sapete tre solamente, perché tre son le feste di Ceppo? - esclamò l'Annina, una bimba vispa, che già aiutava in casa come una donnina. - No, no; intendo dire che ne ho in serbo anche per la sera di Capo d'anno, per quella di Befana e per le domeniche di gennaio. - Siete una gran nonna! - disse, mettendo la testa in grembo alla vecchia, un maschietto di capello rosso, con una testina sempre arruffata e certi occhietti furbi, nei quali si leggeva tutto quel che gli passava nella mente. - Peraltro la novella di stasera non mi capacita. - Perché? - domandò Cecco alzando Gigino e mettendoselo a cavalluccio sulle ginocchia. - Perché gli angioli non se la dovevano prendere con i bambini se Turno era sceso nella caverna. Mi pare che paghi il giusto per il peccatore, e a noi, a noi che ci si sforza di non far birichinate in tutto l'anno, quando vien la vigilia di Natale, non ci tocca nulla. - Son novelle! - sentenziò l'Annina, - e si raccontano così per divertire. Se ci credessi, io non porterei mai le pecore a pascere dalla parte di Montecornioli: avrei paura. - Però Gigino ha ragione, è un'ingiustizia! - dissero a mezza voce altri due piccinucci, che erano sempre del parere del Rossino. In quel momento si sentì alzare il saliscendi dell'uscio e le mamme tornarono con lo scialle tutto tempestato di sottilissimi cristalli di ghiaccio. Esse vuotarono sulla tavola una fazzolettata di brigidini e di confetti, sui quali i bimbi si gettarono avidamente. - Eccoli i nostri angioli! - esclamò l'Annina. - Ecco il mio angiolo! - disse Cecco abbracciando la sua vecchina. Dopo poco, grandi e piccini, tutti riposavano al podere dei Marcucci, e i bei sogni rallegravano la mente dei bimbi dormenti.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679332
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Una sedia coperta di paglia stava al posto del tavolo da notte, coll'inevitabile bicchier d'acqua e il mazzo dei zolfanelli; in faccia al letto, sotto la finestra, un tavolino quadrato con una gamba più corta delle altre, pareva un ballerino nell'atto di spiccare la pirouette; una fila di quadretti coprivano in simmetria le pareti bianchissime: sotto i vetri punzecchiati dalle lentiggini delle mosche, riconobbi il Crisostomo, San Filippo abate, San Luigi Gonzaga, - litografie colorate con toni azzurri e rossi crudi e duri come gli scheletri che si trovano nelle sabbie dei tropici - brava gente che certo faceva le meraviglie di veder quel letto vestito a nuovo e me beatamente distesovi sopra. Non era quella la camera che il curato offriva agli scalpellini ed ai mulattieri; non tardai a persuadermi che per me si era scelto il locale delle grandi occasioni, in cui chi sa da quanto tempo nessuno aveva dormito. Ne può essere prova l'anedotto innocentissimo che mi piace contarvi, benchè affatto estraneo al soggetto. Prendo anzi quest'occasione per ripetere ch'io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e di persone in cui mi sono scontrato e che, per un mero effetto del caso convergeranno, se mi si presta attenzione, a far cornice utile se non anche necessaria al soggetto doloroso che è la ragione di essere di questo studio. Mi ero dunque coricato e riandavo col pensiero, già ondeggiante nell'atmosfera magnetica che precede il sonno, i casi della giornata. Macchinalmente i miei occhi erano fissi alla finestra chiusa, dalle fessure della quale penetrava un pallido bagliore di luna. D'improvviso mi parve che qualche cosa si movesse sul tavolino sottoposto, qualche cosa di nero, un volume o una scatola. Concentrai l'attenzione, trattenendo il respiro, e ... un sudore freddo mi coperse dal capo ai piedi; era un berretto da prete che dondolava, che s'inchinava, che saltellava diabolicamente. Mi rizzai senza volerlo; il berretto, come se mi avesse veduto o sentito, si arrestò; riposi la testa sul guanciale, il berretto si diè a ballare di nuovo. Bisogna ch'io confessi che ho la disgrazia di credere a una quantità sterminata di cose a cui la maggioranza degli uomini non crede; e voi sapete l'influenza della solitudine sugli spiriti inclini al soprannaturale. A quell'epoca non avevo ancor letto Edgardo Poë, ma avevo già tutti sognati i sogni di quell'anima infelice; e quell'amore pieno di voluttuoso sgomento che mi lega adesso al poeta dell' Inesplicabile mi avvinceva già, inconscio, al mondo tenebroso delle sue scoperte. Quel berretto magico che mi aveva atterrito, cominciavo a osservarlo, col capo quasi sepolto nelle coltri, collo sguardo immobile, col respiro represso, eppure con una sorta di godimento che somigliava a quello che prova il naturalista quando, frugando nelle roccie, gli vien dato di scoprire una specie rara d'erba o di minerale. Ballonzolando capricciosamente, a furia di piccoli sbalzi, il berretto era giunto sull'orlo del tavolo, e il fiocco, traboccatone, penzolava, coll'ondeggiamento monotono e regolare di una campana. Allora mi parve di udire ancora i rintocchi della dell'agonia della Gina, e di veder la giovane morta distesa attraverso la camera. L'eccessiva stanchezza, gli avvenimenti impreveduti danno - coll'aiuto di una materassa di piume, - di così fatte allucinazioni. Il pallore di quella faccia, rovesciata sulle spalle, illuminava le pareti; gli occhi, coperti di un velo diafano, come se i ragni vi avessero filato di sopra, spalancati e pieni di stupore, scintillavano fiocamente; del corpo, sepolto nella penombra, non scorgevo che indistintamente i contorni. A poco a poco svanirono del tutto, quasi assorbiti dalla oscurità: ma, in compenso, il lume del viso cresceva. Io l'affisava senza batter ciglio, per tema che, abbandonandola solo un minuto secondo, la visione dovesse sparire. La contemplazione indefessa la incatenava; ma fra essa e i miei occhi passavano dei globi e delle striscie di fuoco. Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale! ... Balzai nel mezzo della stanza e nello stesso tempo ... diedi in uno scroscio di risa. Il berretto rotolò per terra, e il più leggiadro topolino del mondo mi passò tra le gambe. - Ecco uno, pensai, ricacciandomi fra le coltri, uno che ha avuto più paura di me. E spento il lume, e mormorato come il bramino: Tutto non è che ombra vana! mi addormentai per non risvegliarmi che a mattino inoltrato.

Il dialetto milanese

682110
Rajna, Pio 1 occorrenze

Ed ecco accendersi una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli; e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana Troverà cose abbastanza divertevoli. Tacque finalmente la guerra; ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici sonetti famosi all'abaa Giavan Ma lasciando gli scherzi e le simpatie: o chi aveva ragione in coceste lotte? - La ragione e il torto non si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte, tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda, nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio d' impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che s' aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure aperto che nel giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio entra per quattro quinti. A molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio; alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del parlare. Da ciò alcuni spassionati conchiudono, che dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio, c'è bene anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza. Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel cche spetta ai suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse tutto il partito che potrebbe, giacchè certi elementi prevalgono un po' troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso, tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non s' ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur! ll milanese è realmente il linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire : efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le prime - si permetta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le seconde. Questi caratteri interni si mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori. Giacchè, come s' è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lo stesso fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia nascere nessuna inquietudine per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z, che aveva preso molte volte il posto del c e del g dinanzi ad e e ad i, è ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più zent, nessuno Porta Zines pochi zerusegh, suzzed, suzzess Qui, tanto e tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite, o almeno confinate tra la gente bassa; dicc, scricc, facc non si sentono più; non frequentemente lecc, succ e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al toscano. Non ci sarebbe da dolersene, se il ravvicinamento potesse metter capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con un bacio il « ben arrivato, » anche due parallele. E la lingua letteraria non si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! O non pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi alla legge è proprio un' irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che pare e piace: ma l'italiano italianamente, e anche il milanese milanesemente! È inutile: se s'ha a cuore la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver rinvenuto dell'oro; giacche, incamminatici per provvedere all'incolumità del dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della questione sociale. Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.

STORIA DI DUE ANIME

682506
Serao, Matilde 1 occorrenze

Qual Maresca, mai, avrebbe osato fare la statua di sant'Antonio abate, l'austero penitente della Tebaide, senza mettergli accanto, in segno di umiltà, o, in segno della tentazione vinta, la testina di un maialetto? Qual mai Maresca avrebbe tentato di fare una santa Lucia, senza metterle, nella mano destra, la piccola coppa di argento ove nuotano i suoi due occhi, ed ella vede, intanto, vede coi suoi stellanti occhi aperti, sotto la bianca fronte? Qual mai vero e schietto pittore di santi, venuto da una lunga discendenza di pittori, avendo ereditato tutti i dettami più assoluti della sua arte, avrebbe tentato di non mettere la piccola santa Barbara fra le folgori e le saette di argento o di metallo argentato? Tutto ciò era parto della coscienza dell'artefice: come l'azzurro degli occhi di san Giovanni Evangelista, colui che dormì sul petto di Gesù, come il fulvo dei disciolti capelli di Maddalena, come il roseo delle guance di Maria Egiziaca, come la barba a punta di san Francesco d'Assisi. Forse, Domenico Maresca, nel suo amore alla sua arte, aveva letto un po' minutamente la Vita dei Santi e sapeva qualche cosa di più, di diverso, di quanto conosceva suo padre e suo nonno, e, forse, talvolta, egli aveva trovato la storia della religione assai differente dalla tradizione popolare. Ma a che cangiare nulla del passato, poichè anche la religione diventava una cosa del passato, oramai, e il vivo amor della fede fioriva, pur troppo, solo nel popolo? Già suo nonno si lagnava della tiepidezza, della indifferenza, in materia di amor divino, poichè eran finiti i trasporti entusiastici dei ricchi, per avere una bella cappella in casa, con sontuose e artistiche statue dei santi protettori; eran finite le donazioni fatte generosamente alle chiese più amate e più protette dai ricchi, che le dotavano delle più belle immagini; eran finite le larghe elemosine, per cui curati e parroci potevano ornare la loro chiesa prediletta di qualche statua vestita maestosamente, adorna con ori e con argenti. Il culto deperiva: sovra tutto, declinava alla ristrettezza, alla economia, alla fredda parsimonia, il denaro che, un tempo, si offriva generosamente al culto. Il padre di Domenico, si lamentava anche più del nonno: anche quelli che ne avevano obbligo morale, vescovi e monsignori, anche quelli che avean fatto un voto, tutti lesinavano sopra la croce di argento che Gesù tiene sul globo, stretto nella sua manina, sul piedistallo da darsi a san Ciro, sulle frecce coperte di acciaio che avevan trafitto san Sebastiano. Le discussioni, lira a lira, soldo a soldo, facevano pena: nessuno amava più Dio, veramente, nessuno aveva più, per la Madonna, quella tenera adorazione che si deve avere per la madre di noi tutti, per la Madre delle Madri. Vi eran voluti trent'anni di fatiche, per accumulare quelle poche migliaia di lire, da lasciare a suo figlio Domenico; e le aveva riunite, perchè era stato sempre riservatissimo, austero, colpito presto da una tristezza sentimentale, di cui non parlava mai, schivo di qualunque piacere, timorato del Signore, consacrandogli segretamente il suo cuore, vedovo di un amore perduto. A che, dunque, sarebbe servita la maggior coltura di Domenico, e le sue idee più larghe, se non a guastare il suo mestiere, le cui condizioni economiche non poteano che peggiorare, fra la crescente miseria dei tempi e il crescente distacco dal culto, di tutte le persone che poteano spendere? Forse Domenico, in cui, quasi, parea che rivivesse, talvolta, il suo bisavo, don Ferdinando Maresca, il creatore dei pastori d'arte, avrebbe tentato qualche novità: ma timido, esitante, di una volontà molle, si lasciava andare alla vecchia tradizione, senza mai uscirne. Solamente, si era informato, a tempo, delle nuove forme sotto cui si venerava la Madonna, come erano fatte, cioè, la Madonna della Salette, la Madonna di Lourdes, la Madonna di Pompei, come si riproducevano, in quali vesti, con quali attributi, con quali ornamenti: qualche santo era risalito in onore, nel culto terreno, così, improvvisamente, sant'Antonio di Padova, per esempio, san Francesco di Paola, san Filippo Neri: ed egli aveva fatto anche qualche viaggetto, per vedere le statue antiche, quelle originali, o quasi originali, che potevano essere, persino, dei ritratti. Non era e non poteva diventare, quindi, un novatore, Domenico Maresca, il pittore dei santi, anche se qualche lieve movimento di libertà gli fremesse, qualche giorno, nell'anima, contro le vecchie goffaggini, contro certe bruttezze innegabili, contro certi anacronismi del mestiere: ma era un artefice pieno di coscienza, preciso, scrupoloso. La sua reputazione era così buona che, ad onta di tutto, i suoi affari prosperavano. Specialmente per le chiese di provincia, nei dintorni di Napoli e più in là, dalla bottega di Domenico Maresca partivano gli Ecce-Homo , i san Luigi Gonzaga, i san Catello, i san Matteo, in grandi casse, imballati accuratamente, come oggetti fragili e preziosi. Oltre lo sciancatello, Nicolino, egli aveva dovuto prendere un giovane stuccatore e doratore, Gaetano Ursomando, un venosino, venuto a cercar pane dalla sua povera Basilicata. Oltre che il suo mestiere, cui dava tutto il suo tempo, Domenico Maresca amava anche la Divinità. Certo, non di un amor mistico ardente, ma con un rispetto interiore e un timor vago, restatogli dall'infanzia, venutogli dal padre che era religiosissimo. Non frequentava molto le chiese, per pregarvi: ma vi entrava, per parlare coi parroci, nelle sacristie, con un senso di riverenza muta: ma, diceva, talvolta, scherzando, che tutte le statue dei santi, inviate in tante chiese e chiesette, in tante case di persone divote, pregavano per lui, peccatore, e che, quindi, egli aveva degli avvocati, in Paradiso, assai possenti, oltre la Grande Avvocata, la Madonna, che egli aveva cento volte riprodotta, sempre bella, sempre dolce, sempre soave. Egli stesso, però, come suo padre, faceva una vita molto castigata, molto seria, anche per necessità di mantenersi fedele la clientela: giacchè un pittore di santi, frivolo, scialacquatore, vizioso, sarebbe tale una singolarità da far fuggire tutti i preti, tutti i sagrestani, tutte le pinzochere, che sono la base della sua clientela. Era ritenuto virtuoso; la gente gli attribuiva più danaro di quello che egli possedesse e aveva ricevuto varie profferte di matrimonio; si era ricusato, egli, così impacciato e così dubbioso, in tutte le cose che non fossero l'arte sua, si era rifiutato recisamente. La sua vecchia serva, Mariangela, che viveva in sua casa da trent'anni, prima della sua nascita, approvava. Egli viveva scapolo, solitario, casto e spesso pensoso, spesso triste. In quel pomeriggio d'inverno, nella piccola via annottava prima delle cinque. E Domenico Maresca, a cui premeva assai di lavorare intorno al suo san Michele, domandato con grandi insistenze dal parroco di Atripalda, dalla commissione, dal sindaco, da quanti avevan messo insieme il denaro, per avere un san Michele nuovo, loro protettore, aveva fatto accendere da Nicolino, il ragazzo, due grandi lumi a petrolio che avevano, dietro, un riflettore di latta, per raddoppiare la loro luce: e lui e il doratore di Venosa, lavoravano, uno davanti al santo, uno dietro, in silenzio, un po' curvi sotto i berretti bianchi di carta, con le larghe bluse azzurre tutte macchiate di bianco, di giallo, di rosso, di oro, di argento. Faceva molto freddo, fuori: non lì dentro, ove essi stavano dalla mattina: piuttosto, lì dentro, i cattivi odori delle tinte si eran fatti più forti, più densi, poichè non si mutava l'aria. In quella grossa giornata di fatica, malgrado l'abitudine, quelle puzze finivano per stordirli, con la testa pesante e vuota. Domenico Maresca, più pallido del consueto, e il venosino quasi verdastro nel suo bruno colore di contadino, strappato alle aride terre di Basilicata. Qualcuno fece stridere la maniglia per entrare. - Buona notte, a Vossignoria - disse una voce di donna. - Buona notte, donna Clementina - rispose Domenico, senza distrarsi dal suo lavoro. Colei che era entrata, era una donna sulla quarantina, ma che sembrava molto più vecchia, coi suoi capelli grigiastri mal pettinati, con la sua faccia oscura piena di rughe e le labbra di un viola pallido. Era vestita poveramente, con uno scialle nero stretto sul collo e sul petto, che mal la doveva difendere contro il freddo: si trascinava stancamente, e cercò, subito, una delle due o tre sedie: vi si gettò sopra, con un sospiro dolente. - Che ci dite di bello, donna Clementina?- chiese il pittore, senza levare la testa dal lavoro, adoperando la frase curiosa e convenzionale del popolo. - Niente di bello, don Domenico mio, proprio niente. Tutte cose brutte. Miseria, malattie e disperazione. Non ne posso più. E la voce triste e roca le si soffocò nella gola. Gittata su quella sedia, la donna così mal vestita e sudicia, così pallida e sfinita nell'aspetto, pareva uno straccio umano. - Non vi scoraggiate, donna Clementina - mormorò vagamente Domenico, a cui quei lagni non eran nuovi, ma che lo commovevano sempre. - Dite bene, voi! Avete un'arte nelle mani, che Dio ve la benedica, la fatica non vi manca, qualche soldo da parte lo avete, siete solo: dite bene! Sapete quanti figli ho, io? Sei! E fra tre mesi sono sette. Sapete il più grande, quanti anni ha? Dodici! E il più piccolo, un anno. Ogni mattina e ogni sera queste sei bocche si aprono per mangiare, don Domenico mio, e hanno una fame, una fame! - E vostro marito che fa? - Che ha da fare, poveretto! Sta col sediario della chiesa della Pietrasanta, che lo tiene con sè, proprio per carità, dice lui, e intanto il sediario guadagna cinque o sei lire al giorno, quando non è festa, e una ventina di lire, la domenica, per l'affitto delle sedie. Pasquale mio piglia quindici soldi, i giorni di lavoro, venticinque la domenica. E fatica! fatica! Il sediario dovrebbe spazzare la chiesa, lavare i vetri, spolverare tutto, e si scarica su Pasquale mio, mentre egli fa il signore, il sediario e le sue figliuole portano il cappello! - E voi, donna Clementina? - Io? Voi lo sapete che guadagno, io! Il lavoro non mi manca, perchè, non faccio per vantarmi, poche sarte di santi sanno tener l'ago in mano, come Clementina Ascione; e se si vuol vestir bene una santa Genoveffa, un san Ciro, si deve venire da me. Don Mimì, l'anno scorso una veste per un'Assunta, che doveva andare a santa Maria di Capua, la veste e il manto, don Mimì, una bellezza! Ebbene, che ne ricavo? Quando ho messo insieme venticinque, trenta soldi al giorno, è una meraviglia. Si paga poco. Il lavoro non si capisce. Ognuno vuole spendere pochissimi soldi. Voi me lo insegnate. Non vi è più religione: non vi sono più denari. E tutti questi figli, Domenico mio! Ogni quindici mesi, uno: come se vi mancasse la razza della pezzenteria, in questo mondo: come se vi mancasse gente, per perpetuare la miseria. - E che ne fate, di tutti questi figli? - Eh, i più grandi badano ai più piccoli. Qualcuno va alla scuola pubblica; dicono che non si paga, eppure qualche soldo ve lo tirano sempre. Il primo sta col sacrestano della Rotonda, che gli dà da mangiare, un piatto caldo, ma neppure un centesimo. Don Domenico mio, voi siete un signore, ma ascoltatemi bene, non vi maritate mai! - E voi, perchè vi siete maritata? - disse, con un fiacco sorriso, il pittore dei santi. - Che volete, fu una stupidaggine! Io ero stata sempre ragazza di chiesa, mi chiamavano la bizzochella, mi volevo fare conversa a Regina Coeli e poi monaca, se ne ero degna: il Padre Eterno non mi ha voluta. Io vidi Pasquale, Pasquale vide me, non avevamo un soldo, nè io, nè lui, salvo la gioventù, la voglia di lavorare e la religione. Ah che sbaglio, che sbaglio! Non vi ammogliate, don Domenico, vi parlo come una madre. Egli tacque, pensoso. Da qualche momento non lavorava più, vinto, forse dalla stanchezza, da quel peso sulla testa che faceva vacillare, talvolta, il suo cranio troppo grosso. Si appressò alla sarta dei santi, così querula nella sua onesta e laboriosa miseria, così disfatta dalla sua esistenza, e le chiese: - Mi avete, poi, portata la veste di santa Rosalia, col manto? Io ho da mandarla a Palermo, santa Rosalia, a un monsignore. - Non l'ho potuta finire, don Domenico mio - mormorò ella, a voce bassa. - Questa giornata ho avuto tali e tanti malanni addosso, con questa gravidanza, col mio Gaetanuccio che ha la tosse convulsiva e, certo, la darà agli altri. Domani sera ve la porto, don Domenico. Solamente... questa sera... voi mi dovete aiutare... - E abbassò ancora la voce, vergognandosi di quella faccia verde e chiusa del basilisco Gaetano Ursomando, che seguitava a tirar fuori l'argento sulla corazza di san Michele. - ... anticiparmi cinque lire. - Io vi ho abbastanza anticipato, donna Clementina - le rispose, anche a voce bassa, freddamente, ma senza durezza, il pittore dei santi. - È vero, è vero, avete ragione, chi può negarvelo? Ma io sconterò tutto, ve lo giuro! Ne dovete fare Madonne, voi, don Domenico, e io vestirle, e, tutte belle, da far restare meravigliati tutti i divoti! Io sconterò tutto; ma, stasera, non mi abbandonate, datemi quest'altro anticipo, e poi faremo i conti. Ho da far la cena a sei figli e comprare la medicina per Gaetanuccio. Se mi fate questo favore, io vado da don Carluccio, qua, in piazza, e il pover'uomo, malgrado i suoi guai, mi fa risparmiare... - Voi andate da don Carluccio, il farmacista? - chiese, dopo una esitazione, Domenico Maresca. - Già. È pieno di tristezza, anche lui, perchè nessuno ne manca. Ma quando mi vede, siccome mi conosce, da tanti anni, ed io conosco lui, che era giovane e ricco, oh tanto ricco, così mi fa risparmiare qualche soldo! - Ha tanta tristezza? Era molto ricco? - Avevano carrozza e cavalli, i Dentale! Tenevano una grande fabbrica di medicine, fuori Napoli, verso san Giovanni a Teduccio: e don Carluccio sposò un'altra Dentale, sua cugina, per non fare uscire le ricchezze dalla famiglia. Che sfarzo, quel matrimonio! Io era ragazza, allora, e abitavo dirimpetto al loro palazzo e mi chiamarono su, in cucina, ed ebbi pranzo, e due gelati, e confetti! E quando nacque Anna! Che battesimo, don Domè! Solo il vestito di ricamo della bambina, valeva trecento lire. Chi glielo avesse detto, a donna Nannina, quel che le doveva succedere! - Voi la vedete, qualche volta, la signorina Anna? - soggiunse, con voce velata, Domenico. - Raramente. Che volete, era ricca, è diventata quasi povera, e non se ne può capacitare. Non parla, non si lagna, non versa una lagrima, ma io so che ne patisce moltissimo. Aveva già dieci anni, quando cominciarono i cattivi affari. Essa capiva tutto. Fu un seguito di disgrazie; a quindici o sedici anni, vi fu il fallimento, e Anna vedette morire sua madre di un tifo, una malattia nella testa, venutale pel dispiacere. Così, a poco a poco, venduto tutto, padre e figlia si sono ridotti, anni fa, con qualche migliaio di lire, in questa farmacia, e ora sono pieni di debiti, sempre, e non possono andare avanti, perchè non hanno capitali, e la farmacia è quasi vuota di medicine... - Poveretta... poveretta! - disse Domenico a occhi bassi. - Sì, poveretta, proprio lei, perchè fino adesso, almeno, ella stava sola sola, al terzo piano, in un quartino del palazzo Angiulli, e lì lavorava, in segreto, non uscendo quasi mai, vergognandosi di uscire, non avendo vestiti nuovi, perchè donna Nannina è molto superba. Adesso, nientemeno, il padre la vuole far scendere in farmacia, a vendere, e lei non vuole, non vuole... - Ha ragione! Ragione, don Domè? Quando vi sono guai, bisogna fare tutto. Don Carluccio non può più pagare nè il commesso, nè il contabile: d'altronde, donna Nannina è una bella giovane... - Voi che cosa dite, donna Clementina? - Eh già, dico questo, che, senza peccato, una bella giovane può stare al pubblico, anzi tira gente e può trovare anche un buon partito... - Queste sono le cinque lire - replicò don Domenico. asciuttamente, troncando il discorso. La verbosa sarta dei santi lo guardò, un po' stupita, prendendo il danaro. Sentiva di aver detto qualche cosa di spiacevole, ma non comprendeva che cosa. Si levò. con uno sforzo. Don Domenico era tornato presso la statua di san Michele, ma non aveva ripresa la stecca. - Tante grazie, don Domenico: Dio vi deve benedire, in ogni cosa che desiderate. Domani sera, vi porto la veste di santa Rosalia... - Va bene, buona sera. - Buona sera, buona sera. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. - Io apro un poco: non importa che fa freddo - disse, come fra sè. Uscita donna Clementina, il pittore dei santi girò due o tre volte per la bottega, così, come se cercasse qualche cosa che non trovava. Il mal odore della creta, delle biacche, dei colori, si era fatto anche più opprimente. E schiuse la porta; la lasciò spalancata; uscì sulla via. Involontariamente, mentre faceva due o tre passi, avanti e indietro, quasi non sentendo il freddo acuto di tramontana che aveva persino disseccato l'umido della piccola strada, i suoi occhi si levarono, in alto, verso la gran muraglia del palazzo Angiulli, laterale alla chiesa della Madonna dell'Aiuto. Ivi, quattro linee di finestre e di balconi si sovrapponevano; alcuni illuminati, altri no, il secondo piano tutto chiuso e sbarrato, poichè la vecchia principessa di Santa Marta, quell'anno, non era tornata da Turi, in provincia di Bari, dove i suoi coloni si negavano di pagare i fitti, ed ella era restata in provincia per vessarli, per perseguitarli. In verità, gli occhi di Domenico erano fermi a un balconcino del terzo piano, balconcino illuminato fiocamente, come da una lampada velata. Ma niuno appariva dietro i cristalli, in quella gelida sera d'inverno. Un'ombra oscura di donna, venendo dai Banchi Nuovi, con passo leggiero, ma un po' lento, sfiorò il pittore dei santi: la persona si fermò. - Buona sera, Mimì. Era una voce assai tenue, ma musicale, quasi cristallina, nella sua tenuità. Un viso bianco, appena, si distingueva, nella cornice di uno scialle, di un cappuccio bruno. - Buona sera, Gelsomina. - Che fai, qui, a quest'ora, Mimì?- chiese la piccola voce, un po' cantante e così limpida. - Prendo l'aria. - Con questo freddo? - Dentro, vi è cattivo odore, ho lavorato troppo, oggi. E tu, dove vai? - Vado alla Congregazione di Spirito. Vi è la novena della Immacolata. - Ti vuoi fare santarella, Gelsomina? - Oh no!- disse la soave voce, con un profondo sospiro, pieno di rimpianto, pieno di rammarico. - E perchè no? - Perchè ... perchè ... perchè! - soggiunse la donna, la giovine, con un accento enigmatico, pieno di malinconia. - Di' una preghiera, per me, Gelsomina - replicò Domenico, facendo per rientrare nella bottega. - La dico, la dico. Buona sera; dopo la Congregazione, Mimì, vengo a darti la buonanotte. E la figurina di donna se ne andò, col suo passo lieve ma rapido, verso il portoncino della Congregazione di Spirito, vi sparve. Il pittore dei santi era rientrato in bottega, aveva chiuso la porta, e come ristorato dall'aria fredda bevuta, fuori, aveva ricominciato a lavorare, assiduamente, intorno al suo san Michele. Il taciturno stuccatore, accanito alla fatica, appena levava il capo, mentre le sue mani sozze di biacca, di colori, di argento, andavano, andavano, sopra le scaglie rotonde dell'armatura del cherubino. Quasi un'ora passò, in un lavoro muto e assiduo, senza che nulla e nessuno venisse a disturbare il pittore dei santi e il suo compagno di lavoro. Erano, forse, le sette, quando stridette di nuovo la maniglia della porta, e la vetrata, aprendosi, lasciò il passo a un uomo, che, subito, richiuse cautelatamente la porta. - Buona sera, signor Maresca. - Buona sera, signore. Il nuovo arrivato non si avanzava, fermo innanzi alla vetrata chiusa. Era un uomo di circa quarantacinque anni, con un volto che aveva dovuto esser molto bello e molto nobile, ma che portava le tracce di appassimento precoce, di una sfioritura dovuta, certo, ai piaceri o ai dolori, e forse ai piaceri e ai dolori, insieme, di una esistenza agitata e febbrile. Un viso consunto, infine, coi neri capelli tutti brizzolati sulle tempie: una piega di silenzio amaro, ai due lati della bocca. Alto, ben fatto, quell'uomo appariva già un po' curvo, e le sue mani, guantate con eleganza, si appoggiavano sovra un bastone dal pomo di argento, con una certa stanchezza. Egli era chiuso in una pelliccia, molto ricca, e tutto l'insieme denotava il gentiluomo, specialmente la nobiltà persistente dei lineamenti sciupati. Domenico Maresca, che lo doveva conoscere e che doveva, anzi, sapere bene lo scopo di quella visita, comprese anche che il gentiluomo non voleva inoltrarsi nella bottega: lo comprese pure dallo sguardo inquieto e sospettoso, che l'altro aveva volto verso lo stuccatore di Basilicata. Allora, il pittore dei santi si accostò al gentiluomo, presso la porta, e, in piedi, a voce bassissima, smorzando le parole, avvenne il seguente dialogo: - Io sono venuto, signor Maresca, per quella faccenda. - Sta bene, signor duca. Sono a voi. - Fatemi il piacere di non darmi il titolo - replicò subito il gentiluomo, soffocando un moto d'irritazione. - Io sono un divoto, niente altro. Che mi dite, per la mia statua? - Io non posso cominciare il lavoro che fra tre mesi. - E perchè? - Il perchè, l'ho già detto, signor... l'ho detto l'altra volta. Ho impegni, per tre mesi, per statue piccole e grandi. Sono solo, al lavoro: non mi posso fidare di nessuno. Questo qui è semplicemente uno stuccatore... - La statua mia, la voglio da voi. - Anche! - Il doppio? - Ho promesso ad altri, debbo mantenere - mormorò Domenico Maresca, crollando il capo. E perchè tanta fretta? - È un voto - disse misteriosamente, a occhi bassi, il gentiluomo. - Capisco. La Madonna, però, vede, capisce, sa, e si ricorda. La vostra intenzione le è nota. Ma se volete onorarla veramente, se volete avere una cosa molto bella, bisogna che aspettiate. - Sicuramente. La vostra Madonna è lì. E fece un cenno con la mano, alle sue spalle. - Dove? - Là. Domenico Maresca indicò la colossale statua, completamente ed ermeticamente chiusa nel grande panno bigio, di cui si distingueva solo la massa informe, ma nessuna linea. Il gentiluomo fece un paio di passi nella bottega, come a veder meglio: ma restò con gli occhi fissi su quella parete, ove la gran forma celata si rilevava. Era assorto. - Mi pare piccola - disse, poi, lentamente, senza distogliere gli occhi. - Sono le vostre misure. - Sì, ma è piccola... - Piccola? Ma in quale chiesa deve andare? - interruppe il pittore dei santi. - Questo, non debbo dirvelo - rispose seccamente il gentiluomo. - Dite che sono le mie misure; e vi credo. Forse, l'avrei voluta più grande... - Quella di santa Brigida è assai meno grande... - spiegò l'artefice, non aggiungendo altro, per discrezione. - Credete? Gli occhi s'ingannano. E non si può vedere? - Che vorreste vedere? Nulla è fatto. Fra tre mesi: vi ripeto. - Ho compreso, ho compreso. Ma, intanto, avete dato gli ordini per la veste ricamata? - Sì, di questo mi sono occupato. Ho cercato di averla dai fratelli Rota, anche pagando bene, poichè mi avevate dato carta bianca; ma i fratelli Rota hanno tutte le loro ricamatrici già prese per altri due o tre mesi, per lavori di pianete, e di altri arredi sacri. Anche qui, bisognava aspettare. Allora sono andato da donna Raffaelina Galante, una ricamatrice che lavora in casa sua, con due sue nipoti, per vedere se fosse libera ... - E lavora bene? - Ricama divinamente. Donna Raffaelina sarà libera fra un mese e acconsente a ricamare, per voi, questa veste e questo manto della Madonna Addolorata. - E quanto tempo vi metterà? - Ce ne vorrà, del tempo: tutto il davanti dell'abito e i due lati del mantello, innanzi, li deve eseguire lei, perchè le sue nepoti valgono meno di lei, come ricamatrici. Le parti di spalla, diciamo così, le affiderà a loro. Domanda sei mesi di tempo. - È enorme! Non l'avrò mai, questa Madonna Addolorata - disse, irritatissimo, il gentiluomo. - Ma una ricamatrice in oro non può far miracoli, anche in onore della Vergine! Avrete una veste e un manto che saranno tutta una schiuma di ricamo. - Sarà... sarà! Io ho tanto bisogno di sciogliere il mio voto! Sul viso consumato del duca s'impresse un sentimento vivissimo di necessità triste, di necessità dolorosa. - E che mi dite del prezzo, signor Maresca? - Per la statua, nulla posso dirvi ancora, ma c'intenderemo facilmente. Per la veste e il manto ho calcolato, così, alla meglio, che ci vorranno un cinquemila lire di oro. - Cinquemila? - Già, deve esser di finissima qualità, mi avete detto. - E le ricamatrici? - Sono tre: lavoreranno sei mesi: non si contenteranno meno di millecinquecento lire. - Benissimo! Avete pensato agli ornamenti, la corona d'argento massiccio, le sette spade, il fazzoletto di merletto? - Vi è tempo, vi è tempo - disse, con un sorriso, il paziente Domenico Maresca. - Io voglio darvi del denaro, intanto - mormorò il fremente gentiluomo, facendo atto di sbottonarsi la pelliccia. - No. Fra un mese. Man mano che servirà l'oro per donna Raffaelina Galante, voi mi darete mille lire alla volta. - Perchè non tutto? - No, non mi piace tenere troppo denaro degli altri, ed è inutile lasciare cinquemila lire di oro, in casa della ricamatrice, che può esser derubata. - Sta bene. Credete dunque, che io possa avere la mia Madonna dei Dolori, per l'agosto? - Lo credo; se non sorgono ostacoli. - La festa dell'Addolorata è in ottobre. Maresca, io debbo avere la statua prima della fine di agosto. Essa deve partire...lontano... Si pentì subito, il gentiluomo, di quello che aveva detto. La sua voce bassa diventò novellamente aspra. - Ricordatevi, Maresca, che voi non mi conoscete, che non mi avete mai veduto. Non voglio aver rapporti con l'argentiere, con la ricamatrice, con nessuno. Tutto passerà per mano vostra. - Sta bene. - Quando vi domanderanno di chi è la statua, che direte? - Io non debbo dire nulla, signore. - Avrete una moglie, una sorella, una innamorata, le racconterete tutto! - Io non ho nessuno - disse austeramente il pittore dei santi - e a mia madre istessa, benedetta anima, nulla narrerei. - Benissimo. Quando la statua sarà finita, io la manderò a prendere, per gente mia. Voi non chiederete nulla a loro, nè donde vengono nè dove vanno. Io vi avrò già pagato. E vi scorderete di aver eseguito questa Madonna, come se fosse stato un sogno; come se mi aveste visto in sogno; voi vi scorderete di tutto. - Sta bene - ribattè il pittore dei santi. - Questo è il mio voto, signor Maresca, - concluse il gentiluomo, di cui le parole, adesso, tremavano, come vinte da una fortissima emozione. - Che la Vergine lo esaudisca - replicò Domenico Maresca, commosso anche lui. - Deve esaudirlo, deve - esclamò, sempre piano, ma con forza, il duca; - se no, sono perduto. - La Vergine non permette che si perda nessuno. - Ma io sono un peccatore, un grandissimo peccatore - disse, con voce spenta, quasi parlasse a sè stesso, il gentiluomo a occhi bassi, pallido, sfinito nelle linee del viso e nella espressione. Egli null'altro aggiunse; dopo una pausa, salutò il pittore e sparve dietro la vetrata che si richiudeva. Dal vicolo di Donnalbina, pochissimo lontano, ove Domenico Maresca aveva conservato il quartinetto di tre piccole stanze, abitato da tanti anni con suo padre, e ove suo padre era morto, Mariangela, l'antica serva, aveva consegnato nelle mani dello sciancatello Nicolino, adibito al servizio della bottega dei santi, la cena del suo padrone. Difatti, sulla tavola, sbarazzata alla meglio di quanto vi giaceva sparso e confuso, distesa una tovaglia grezza, ma pulita, una larga terrina era stata collocata, piena di una zuppa spessa e fumante, di ceci mescolati con la pasta; in un piatto più piccolo, erano disposti due piedi di maiale, bolliti, cibo che Domenico Maresca prediligeva: due mele limoncelle completavano questo pasto, a cui sedettero il pittore dei santi ed il suo aiutante, Gaetano, perchè costui era solo, in Napoli. Domenico, oltre la giornata, dava anche il cibo, obbedendo segretamente a un sentimento fraterno e misericordioso, verso quell'artefice povero e solingo, che portava nel viso e nel cuore tutta la tristezza della sua onesta e povera regione di Basilicata, e che, malgrado il suo umor torbido e taciturno, era un lavoratore esperto, accanito e fedele. I due mangiarono lentamente, in silenzio, con una grossa fame di faticatori che non si erano mai fermati, in otto ore, dal lavoro: a cucchiaiate essi riprendevano la zuppa, mettendola nel loro piattello: ognuno divorò pianamente le cartilagini grigie e bianche che formano un piede di maiale, alternando il mangiare con qualche lungo sorso di vino. Nicolino, paziente, rassettava, alla meglio, la bottega, aspettando di avere la sua parte, negli avanzi. Sempre ne restava, poichè Mariangela abbondava nella quantità, trovando che il suo padrone non aveva mai abbastanza appetito, compatendolo perchè lavorava troppo, perchè faceva una vita troppo rude e malinconica, per la sua età, e sapendo, anche, la provvida serva, che altri doveva pranzare e cenare con lui, con gli avanzi del pranzo e della cena. Oh, le terrine, i piatti, ritornavano assolutamente vuoti, nel vicolo di Donnalbina, ben legati nel grosso tovagliuolo: lo storpio vivace e famelico si occupava di ripulir tutto, col cucchiaio, col pane. Finita la cena, e non più di due o tre frasi erano state scambiate, Gaetano si levò, si tolse la lunga blusa scolorita dall'uso e coperta di macchie, s'infilò una pesante giacchetta sovra un panciotto di lana, a maglia, oscuro, si tolse il tradizionale berretto di carta, si mise un cappellaccio vecchio, e salutò: - La buona notte a voi, don Domenico. - Buona notte, Gaetano. Il pittore dei santi rimase solo col ragazzino. Anche costui, dopo pochi minuti, andò via, per riportare in casa del padrone tutto ciò che era servito per la cena. Domenico Maresca ebbe un momento d'incertezza, come, ogni tanto, gli capitava, quando non si trattava dei suoi santi: ritto in mezzo alla bottega, era assorto in un dubbio, poichè la sua fisonomia esprimeva una pena leggera. - Santa notte, Mimì. - Santa notte, Gelsomina. La donna, la giovine che gli aveva parlato, nell'ombra, nel freddo, in mezzo alla strada, un'ora e mezzo prima, era entrata nella bottega dei santi, col suo passo leggerissimo e molle, un poco. La luce delle due grandi lampade, rinforzata dai riflettori, ne chiariva, adesso, nettamente, la figura. Gelsomina era una fanciulla di diciotto anni; ma nel volto pallido e lunghetto, ove appena appena si diffondeva una sottile tinta rosea, persisteva una espressione infantile, che lo ringiovaniva assai: e nello sguardo ora puerilmente malizioso dei suoi grandi occhi grigiastri, ora un po' smarrito come di bimba sgomenta, in certe mosse della bella piccola bocca, sempre un po' schiusa, dalle labbra un po' sollevate sui dentini bianchi, nelle mosse di capriccio, di noia, di breve dolore, ancora, sempre, la infantilità si manifestava. Gelsomina avea una voglia , al basso di una guancia, presso il mento: un segnetto a forma di cuore che, un po' indistinto, d'inverno, si faceva roseo in primavera e prendeva l'aspetto di quel che era, cioè una voglia di fragola. Qualcuno, per ischerzo, per l'abitudine popolare di mettere soprannomi, la chiamava fraolella , la fragoletta; ma ella s'indignava, i suoi occhi chiari si riempivano di una collera poco temibile, o di grosse lacrime. Credeva che quel segno, quella voglia, le deturpasse il viso: e non voleva che le fosse ricordato, mai. - Io mi chiamo Gelsomina - diceva, fra l'ira e il dolore. Gelsomina aveva, su quel viso ovale e pallido, sulla fronte breve, una massa fine e morbida di capelli castani che ella non sapeva mai pettinare bene, che disdegnava di farsi pettinare dalle solite acconciatrici del popolo, e il cui nodo, a treccia, le si disfaceva, sempre, sulla nuca, le cui ciocche si sfrangiavano, sempre, sulla fronte, sulle tempie. Uno dei suoi gesti favoriti era di rialzarsi le ciocche che le cadevano sugli occhi, di riannodare la treccia, sulla nuca. Usava, in questi capelli, delle forcinelle vistose, in falsa tartaruga, in chincaglieria, guarnite di perle false, di oro falso: ed era lì lì per perderne sempre qualcuna, sporgente dai capelli malfermi. Alta, snella, con una gracilità di forme che era piena di grazia, Gelsomina vestiva volentieri di nero, con una gonnelluccia attillata, che lasciava vedere i piedi, con una vitina molto attillata, su cui ella, a segnare di più la sua snellezza, portava una cintura di pelle chiara, con una fibbia d'argento falso, carica di pietre false. Sul vestito nero, al collo, aveva quasi sempre una folta cravatta di seta rosa, di seta celeste, di seta lilla, o di merletto crema, che formava un fiocco ricco, ove, volentieri, ella abbassava il volto e immergeva il mento. Pure nella cravatta portava un fermaglio chiassoso, di falsi diamanti. Camminava con un passo particolare, quasi appena toccando terra, ma senza mai correre, anzi con un certo languore: e portava la piccola testa eretta, la bocca sempre un po' aperta, quasi a bere l'aria, come un uccellino. E di uccellino era la sua voce chiarissima, cristallina, con intonazioni curiosamente musicali, con certe sillabe trillanti, certe sillabe cullanti, nel loro suono cadenzato. Per ripararsi contro il freddo della cruda stagione, quella sera, ella portava sulle spalle, sino alla cintura, una mantellinetta di panno nero, con qualche ricamo di giaietto, una povera piccola mantellina, comperata per cinque o sei lire, in un emporio a buon mercato; e, avvolto intorno al capo, uno scialletto di lana nera, a uncinetto. Teneva le mani nascoste sotto la mantellina, con un movimento di freddolosa. I suoi occhi larghi e chiari si fissarono su Domenico Maresca, con vivacità tenera, quasi interrogativa: - Hai da fare, Mimì? Posso restare? - Non ho più da fare, resta. - Hai cenato? - chiese ella, sedendosi, in un angolo, presso la tavola. - Ho cenato. - Prosit ! - E tu, non hai cenato, Gelsomina? - Io non ceno - mormorò ella, crollando il capo, togliendosi i capelli dagli occhi. - Perchè? Non hai appetito? Mammà non ti dà la cena? - Io ho appetito - rispose Gelsomina, piano. - Ma non sempre, ho appetito. Allora, siccome mammà mi dà tre o quattro soldi per la cena, io me li conservo. - E brava! - disse il pittore di santi, con un lieve sorriso. - Hai denaro da parte, allora. - Mai niente! - esclamò ella. ridendo un poco. - Appena ho due o tre lire, io le spendo. - E che compri? - Tante cose! Un metro di setina per farmi una cravatta; un fazzolettino fine; una broscia; un po' di merletto per le camicie. - Ti piace di comparire, eh? - le chiese bonariamente il pittore dei santi. - Assai! - diss'ella, con un lampo schietto di vanità, nei grandi occhi. - Mi piace assai! E non posso comparire: sono troppo pezzentella, Mimì. Una malinconia le velò il delicato viso pallido, una vera malinconia puerile, di bambina delusa nelle speranze e nei desiderii. - Perchè te ne affliggi tanto, Gelsomina? Fai all'amore, non è vero? - Io? Io? - proruppe lei, arrossendo tenuemente, sotto la pelle fine del volto. - Me lo hanno detto - soggiunse lui, per scusarsi, col suo solito tono di bontà. - Si dicono tante cose... - Sono bugie - rispose lei, un po' lentamente, abbassando le palpebre sugli occhi. - Sono tutte bugie. Io non amoreggio con nessuno. - Tanto meglio - disse lui, per conchiudere. Ella fissò di nuovo gli occhi in quelli di Mimì Maresca, quasi aspettasse, con curiosità, con ansietà, un'altra domanda. Ma egli tacque. Non la guardava neppure. Gelsomina ebbe una leggiera smorfia di dispetto sulla bocca. E, dopo un silenzio, si decise lei a riprender quel discorso. - Che ti hanno detto, le male lingue del quartiere, Mimì? Con chi ti hanno detto che io amoreggiavo? - Non vi badare. La gente parla così volentieri! - No, no, me lo devi dire, Mimì. Voglio che me lo dici. - E poi ti dispiaci, eh? - Non mi dispiaccio, se me lo dici tu. La voce della giovinetta era diventata, adesso, malinconica e carezzevole, mentre Domenico Maresca conservava il suo tono semplice e quasi indifferente. - Ebbene, giacchè lo vuoi sapere, te lo dirò. Mi hanno detto, che tu amoreggi con don Franceschino Grimaldi, il figlio della baronessa. Ella scrutò ancora la fisonomia tranquilla, affabile e un poco stanca del pittore dei santi, e invece di rispondere, affermativamente, negativamente, interrogò, a sua volta: - E tu vi hai creduto? - No, - disse lui, con una certa serietà. - Meno male! - Non potevo credere, Gelsomina, che una ragazza buona e religiosa, come sei tu, amoreggiasse con un signore. - Già... - disse lei, dopo una pausa. - Dovrei essere una pazza, a fidare nelle chiacchiere dei signori. - E non le ascolti, non è vero, Gelsomina? - Non le ascolto, Mimì, quando posso - continuò lei, pensosa, esitante. - Non sempre, posso. Certe volte, quando io mi nascondo, mentre passa don Franceschino, mammà mi sgrida. - Mammà? - Eh, si! Dice che è il figliuolo della padrona di casa; che noi siamo dei poveri portinai; che non bisogna essere screanzati; se no, ci mandano via. - E tu che rispondi? - Non rispondo nulla, certe volte. Quando sono di malumore, rispondo male, che non ho voglia di amoreggiare con don Franceschino, per farmi corbellare da lui, e che se si deve mangiare quel pane, io preferisco il digiuno. - E mammà? - Qualche volta mi schiaffeggia. - Per questo? - Per questo. E con un accento semplice e profondo, la ragazza concluse: - Tu lo sai, Mimì, che essa non mi è madre. - Povera Gelsomina! - soggiunse lui, con un accento di vera pietà. La ragazza chinò la fronte e tacque. Aveva disciolto, parlando, il nodo, sotto il mento, del suo scialletto nero e lo aveva arrovesciato sulle spalle. La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.