Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 1246 in 25 pagine

  • Pagina 2 di 25

Giovanna la nonna del corsaro nero

204879
Metz, Vittorio 2 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Al vecchio amico Umberto Pacilio che, ricordandosi di questo romanzo pubblicato a puntate sul "Marc'Aurelio" nel purtroppo lontano 1935, mi ha incoraggiato a rimaneggiarlo e ad adattarlo per la TV dei ragazzi, dedico questo libro anche per avere qualcuno con cui dividere la responsabilità. VITTORIO METZ

"Non avrò mai il coraggio di confessare a mio padre che ho avuto fra le mani Giovanna, la nonna del Corsaro Nero nonché Jolanda sua figlia e che le ho lasciate andare..." "E allora?" domandò il capitano Squacqueras. "Come avreste intenzione di comportarvi?" "Raggiungerò Maracaibo e cercherò la morte combattendo contro i corsari che la stanno assediando... Venite con me, capitano?" "Io?" esclamò il capitano. "Non ci mancherebbe altro!" "Perché? La morte sul campo di battaglia è la più bella per un soldato come voi..." "A parte il fatto che non sono un soldato, ma un capitano, vi dirò che, sì, la morte sul campo di battaglia è bellissima, ma che la vita sui Campi Elisi a Parigi o a Campo di Fiori, a Roma, o anche, alla più brutta, a Campotosto, in provincia dell'Aquila, è molto meglio... Perciò, dopo aver detto al governatore che la mia missione è finita, cercherò di farmi rimandare in Europa... Anche perché qui in America, a dire la verità, non posso dire di aver trovato l'America... Arrivederci, mio giovane amico, vado a cambiarmi per farmi ricevere dal governatore... Dai canti e dai suoni che vengono dalle finestre, si direbbe che in casa di vostro padre si stia festeggiando qualcuno..." "Infatti, si sta festeggiando il Viceré... Buona fortuna, capitano..." "Altrettanto a voi, mio giovane amico... E visto che andate ad incontrare la morte, se la incontraste realmente, ditele, per favore, che non ho nessuna intenzione di incontrarla, per ora... Arrivederci..." E il capitano Squacqueras oltrepassò il cancello della villa mentre la sentinella che vi montava la guardia gli presentava le armi.

Pagina 131

Una famiglia di topi

205245
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Ma Vittorio da quell' orecchio non ci sentiva; e continuò a dar la caccia alla Ninì, finchè sua madre non lo chiamò ..a pranzo. Era un ragazzo di buon cuore e, per solito, anche abbastanza ragionevole; ma l' esser egli figlio unico d'una madre vedova, la quale non vedeva che per gli occhi di lui, lo aveva fatto crescere un po' capriccioso e sempre risoluto a non essere contrariato in ciò che gli piaceva di fare. Quel giorno, per esempio, si prese più d' una sgridata, una sgridata leggiera del resto, dalla mamma; perchè avrebbe voluto alzarsi ogni momento da tavola, per andar a vedere che cosa faceva la Ninì. La topina, quando si trovò sola, ricominciò i giri e le ricerche per la camera. Oh, se avesse potuto trovare un buchino donde scappare, e tornarsene a casa sua! In tanto le veniva in mente il racconto spaventevole che Moschino le aveva fatto - delle proprie peripezie nel mondo. Per andare a casa Sernici chi sa di dove bisognava passare! Dal mondo, certo.... E, a questa idea, la Ninì era còlta da uno sgomento indicibile. Perchè, perchè, Dio di misericordia, l' avevano data via appunto lei, così triste sempre? Ah, quella tristezza che l' aveva oppressa fin dalla nascita, senza ch' ella ne sapesse la ragione, doveva essere il presentimento del- l' avvenire, che le si preparava così desolato, solitario, pieno di angoscia! Le bestie son come gli uomini: hanno il loro destino; e guai se il destino è nemico! Su tali dolorose considerazioni la sorprese Vittorio, che avea terminato di desinare, e tornava a tormentarla, per troppa simpatia, s' intende. La topina si lasciò acchiappare, ma non ci fu verso di farle toccar cibo. Annusava ciò che le veniva offerto, poi si tirava in dietro. Per la notte, la signora Delpiano preparò a Ninì una cassettina, dove le fece una morbida materassa; ma la sorcetta, quando tutti furono andati a letto, saltò via: e il giorno dipoi era di nuovo laggiù sotto l' armadio, dove non si poteva pigliarla che a gran fatica. - Se questa bestiola continua a inselvatichirsi e a non mangiare, bisogna assolutamente riportarla ai Sernici - disse la madre di Vittorio al bambino. Ma questi ricominciò a far greppo, e tornaron le lacrime. Non era certo per ostinazione che la povera Ninì non volea mandar giù nè anche un bocconcino. Proprio non le andava; le pareva d' aver un nodo stretto alla gola, come se l' avessero tirata a forza con una corda; e stava lì ferma dinanzi a que' piattelli, dove ogni poco Vittorio ammucchiava frutti, chicche, ogni sorta di ghiottonerie, sperando d' invogliar di qualcosa quella bella topina, così afflitta e così scontrosa. Per altro, nè carezze, nè cibi valsero a nulla: la Ninì rimase indifferente e, ch' è peggio, digiuna. Quello che più coceva a Vittorio, gli era che, non ostante i suoi pensieri per la topina e il piacere che provava vicino a lei, doveva pur andare alle lezioni. Quella di disegno gli era sopra tutte penosa, perch' era sua maestra una vecchia signorina russa, stravagante come dieci cavalli matti, la quale non tollerava nemmeno che il fanciullo alzasse gli occhi durante quell' ora che lei gli stava davanti. Qualche giorno dopo che la Ninì era stata portata in casa Delpiano, capitò, secondo il solito, la lezione di disegno; e, con vivo rincrescimento, Vittorio si separò per un' ora intera dalla sua topina. La Ninì s' era persuasa alla fine, per la gran fame, a sgretolare qualche briciolo di savoiardo, incoraggiata dalle carezze più tenere del nuovo padroncino; ma pensava sempre a tutto ciò che aveva lasciato, e il suo musetto s'era fatto ancor più sottile e malinconico; aveva gli occhi come allargati, a forza di guardar davanti a sè, dove potesse trovare la porta di casa. Ah, se Rita e Nello fossero venuti a visitar Vittorio, ella si sarebbe cacciata in tasca a Nello o dentro lo scollo della Rita, o meglio ancora sotto la grossa treccia bionda che pendeva dalla nuca della ragazza; e lì nascosta, aggrappata, felice, non li avrebbe più lasciati mai, mai! Almanaccando tutto ciò nel suo povero cervellino di topina afflitta, la Ninì badava, come sempre, a rovistare la stanza; spariva sotto il letto, entrava ne' cassetti socchiusi, esplorava ogni più angusto ripostiglio. A un tratto, il cuore le fece un balzo di gioia. Un balcone, dove si saliva per tre gradini, era spalancato. La Ninì corse su. Chi sa che di lì non fosse potuta ritornare presso la sua cara famiglia! C' erano sul balcone alcuni vasi di fiori, rose, camelie, garofani e delle piante rampicanti che ricadevano in fitti rami, per modo da formare de' ricami di verzura lungo la ringhiera di ferro. Impetuosamente, nella smania della libertà, la topina si spinse avanti tra le foglie.... Un grido sottile e acuto risonò per l' aria; e un piccolo corpo bianco, simile a un fiocco di neve, cadde sul lastrico della via, e vi restò immobile.

Pagina 173

E se, per caso, Bellino non andava prima degli altri nella paniera a voltarvi e rivoltarvi carta e tela, lacerandone pazientemente i pezzi che gli parean troppo grandi, Dodò e Moschino lo mordicchiavano per chiasso, e gli davan la baia. - Rifà almeno il letto, buono a niente che sei! - gridava Moschino dopo aver addentato quel fratello tutto mortificazione e paura - Dodò farà il bibliotecario; io me la sbirberò alla meglio; a Lilia daranno marito per riprodurre là razza; di Ninì, quell' uggiosa, non so che ne sarà; e tu rifà almeno il letto, sbuccione che non sei altro! - Il buon Bellino, ancor tutto tremante per i morsi e le canzonature, badava a lacerare della carta, e a tirare ora qua ora là della tela, rassegnato, ormai, a ubbidire a quell'aristocratico di Dodò, e a quel prepotente di Moschino. Rita e Nello, a volte, udivano tutto il diavoleto che succedeva nella canestra dove i piccoli gridi di Bellino erano acuti; e, accorrendo a separare i contendenti e a metter la pace, capivano benissimo di che si trattava, pur non intendendo la lingua topesca. - Picchiano ancora quel povero servo sciocco! - esclamava la contessa commiserando il protetto di Rita, ma divertita e interessata dal diverso carattere di ciascun individuo di quella bizzarra famiglia di topi. Ninì, fra tutti, era davvero la più seria e malinconica. Fin da piccolina non ischerzava mai di suo, ma si faceva trascinar qualche volta dall' allegria de' suoi fratelli. Il cappuccio nero più grande di quello degli altri, le dava un aspetto di lutto, che colpiva chi la mirava, perch' ella era la più carina di tutti. Aveva il nasino d'un roseo pallido, ben uniti i dentini corti; ma gli occhi, sopra ogni cosa, eran la sua bellezza: certi occhi lunghi, obliqui come quelli d'una donnina

Pagina 65

Cipí

206582
Lodi, Mario 2 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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Due stelle calate in quel momento dal cielo si erano fermate di fronte a Cipí ed avevano cominciato a giocare fra loro, roteando e diffondendo tutt'intorno bagliori accecanti. A un certo punto la loro luce si fece rossa come il fuoco e sprizzando scintille azzurre, una stellina con voce gentile si mise a parlare cosí: — Cari uccellini, perché quando arriva la meravigliosa notte scappate sempre nei rifugi a dormire? Subito l'altra stellina sprizzò scintille verdi e continuò: — La notte è incantevole: passa la luna regina del cielo e noi stelline le facciamo ala riverenti come tante damigelle di corte. Perché la fuggite? Appena questa voce tacque, l'altra incominciò: — Noi siamo venute dal cielo per portarvi nel paese della felicità senza fine. Non abbiate paura delle ombre... fissate la nostra luce e venite... fissate la nostra luce e venite... venite... Cipí, che sino a quel momento era rimasto senza fiato, sussurrò a Passeri: — Vieni a vedere, Passerì... due stelle del cielo sono calate sul tetto e parlano... La passeretta, incuriosita, si fece accanto a Cipí. Le luci delle due stelle intanto non si stancavano di invitare: — Ogni sera, appena Palla di fuoco è scomparso, noi verremo a conversare con voi, gentili passeretti... Fissate la nostra luce e venite senza paura... fissate la luce e venite... Passerì fu percorsa da un brivido, si strinse a Cipí e sussurrò: — Ho paura, Cipí, tanta paura... — Paura di due stelline discese dal cielo? — No, Cipí, — esclamò la passeretta tremando tutta, — quelle non sono due stelline... quelli sono occhi parlanti... non vedi che dietro a loro c'è un'ombra nera? È lui! A quelle parole Cipí fece un salto indietro: — È lui! si, è vero... quella è la testa... quello è il becco uncinato... uh, che unghioni ha! Allora in silenzio si ritirarono sotto la tegola e da una fessura dalla quale potevano vedere senza essere visti, osservarono la scena. — Fissate la nostra luce e venite senza paura... noi vi porteremo dove c'è la felicità — ripetevano gli occhi parlanti senza stancarsi mai. A quel punto si senti sui tetti uno zampettío leggero: due uccellini si avvicinavano incantati alle luci che continuavano a ripetere: — Avanti, cari uccellini, non abbiate timore, noi vi portiamo nel regno della felicità senza fine... — Li conosci? — chiese Cipí alla compagna. Le due luci mandavano ora bagliori vivissimi ed era facile riconoscere tutt'intorno le cose. — Uno è figlio di Cippicippi e l'altro mi pare il figlio di Chiccolaggiú. — Avvertiamoli! — disse Cipí. Ma non fece a tempo ad aprir becco perché i due uccellini in quell'istante spiccarono il volo verso le luci e quando arrivarono là, il signore della notte li afferrò con gli unghioni, spense le luci e la notte tornò buia e silenziosa come prima. Dove c'erano le stelline restò, vuoto e nero come una tomba, il buco del signore della notte: degli uccellini nessuna traccia. — Mascalzone! — esclamò Cipí. — Altro che nutrirsi di ombre di comignoli! — È incredibile... è una cosa incredibile... - ripeteva sbalordita Passerì. — Ora che il mistero è svelato ho paura, tanta paura che lui ci faccia del male. Ucciderà i nostri figli? — Per i nostri figli e per tutti dobbiamo fare qualcosa, — concluse Cipí. E tutta la notte pensarono che cosa avrebbero potuto fare.

Pagina 88

. — Però potevano fare a meno di dire che sono un bugiardo! Io ho detto la verità per il bene di tutti! — Sii calmo, Cipí, vedrai che la verità presto o tardi viene sempre a galla... piuttosto diamoci da fare per cercare delle prove! — Viva le cose giuste! Via gli imbroglioni dal nostro tetto! — esclamò Cipí. E cominciò subito a insegnare ai suoi figlioli le storie vere della sua vita che li facevano restare a becco aperto. Narrava che cosa accade a chi precipita nel buco nero della torre fumante e a chi fugge dal tetto quando c'è la guerra dei nuvoloni, narrava che l'animale baffuto finge di dormire ed ha gli artigli affilati (e mostrava il didietro ancora graffiato); insegnava a stare alla larga dall'uomo, specie quando ha fra le mani la canna lucente (e mostrava le cicatrici di Passerí); diceva che le stelle del cielo non vengono a giocare sul tetto coi passeretti (e mostrava il buco dicendo: là c'è l'orco dal becco uncinato che ammazza chi si incanta!). Però raccontava anche le storie belle delle cose del mondo: i vestiti colorati che gli alberi mettono in primavera, il festival delle api, la vita e la morte di Margherí e le altre incantevoli storie della vita. Poi li portò a visitare i posti dove gli altri passeri facevano i nidi e cosí parlava con tutti: con quelli degli altri tetti, con quelli del giardino, con quelli della torre, e a tutti chiedeva: — Scappano di casa i vostri passeretti? — Scappare? Cosa vuoi dire? — gli rispondevano. — Qui da voi c'è un signore della notte? — Chi è? — domandavano. — Felici voi che non lo conoscete! — gridava Cipí. Un giorno capitò sui tetti di un castello antico. — Scappano di casa qui? — Ahimè, siamo disperate! — gridarono alcune mamme. — Tutti i giorni se non è uno, sono due che se ne vanno. — Tutti i giorni? Vorrete dire tutte le notti! — precisò Cipí. — È vero, spariscono di notte. Ma tu come lo sai? — Ditemi continuò Cipí— c'è vicino a voi un signore della notte? — Ne abbiamo due, — risposero le mamme, perché la nostra famiglia è grande ed uno non basterebbe a consolare le povere madri disperate! Cipí si arrabbiò, ma poi, ricordando le parole di Passeri. (bisogna portare le prove), si calmò. Intanto le mamme lo supplicavano: — Se sai dove sono andati i nostri figli, dillo! Non farci stare in pena! — I vostri figli vanno a finire nella pancia dei signori della notte! — gridò e le lasciò là con tanto d'occhi per la sorpresa. Mentre tornavano una voce li chiamò: — Ehi, voi! Cipí e i figlioli si voltarono e si trovarono accanto un passero arrabbiato che disse a Cipí: — Io sono del castello antico. Mi hanno detto che sei venuto là a dir male di chi ci protegge! — Anch'io prima credevo che i signori della notte fossero amici, e poi ho scoperto che uccidono i passeretti che credono nell'incantesimo! — rispose Cipí. Quel passero allora si buttò con impeto su Cipí e con un colpo di becco gli strappò alcune piume: — Toh, bugiardo! — gridò. — E guai se lo dici ancora! Cipí, attaccato all'improvviso sbandò, ma subito riprese il volo diritto e rispose: — E la verità! Ma quello, picchiando come una furia gli diede un'altra beccata e stavolta gli fece sanguinare il capo. — Smettila... torna a casa se no... — ammonì Cipí. — Provati! — urlò minaccioso quell'uccello slanciandosi col becco aperto su Cipí. Ma questa volta Cipí non si lasciò sorprendere: con una finta evitò l'attacco, si alzò di scatto, piombò come una saetta sull'avversario e lo beccò: — Vattene! — gli gridò. Quello, irato, si gettò a becco aperto su Cipí. Ma ancora una volta Cipí riuscí a schivarlo, ad alzarsi, a piombare in picchiata e a dargli un'altra beccata sul dorso. E cosí cominciò una furibonda lotta che i tre piccoli seguivano da lontano, timorosi di vedere da un momento all'altro il papà cadere morto. Poco dopo invece si vide il passero prepotente, con le piume scompigliate, fuggire gridando: — Basta! Basta! Mi arrendo! Cipí lo lasciò andare e quello se ne fuggí scornato e rabbioso verso il castello antico. I figlioli fecero festa a Cipí e a casa raccontarono a Passerì la splendida vittoria di papà. Ma Cipí era molto triste. Disse: — Poveretto... ora odierà me e non capirà piú chi è il suo nemico... Una passera chiacchierona che aveva visto la lotta da lontano, andò da Cippicippi e dalle altre mamme a raccontare l'accaduto e diceva: — Quel Cipí non mi piace. Oltre che bugiardo s'è fatto anche prepotente. Ha picchiato uno del castello antico che non gli aveva fatto niente, poverino! Da quando gli è venuta la mania contro il signore della notte è proprio diventato cattivo! Le idee moderne lo hanno rovinato!

Pagina 99

I ragazzi della via Pal

208056
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Di questo libro sono state impresse XX copie su carta speciale numerate da I a 20. PROPRIETÀ LETTERARIA PER L'ITALIA DELLA SOC. AN. EDITRICE SAPIENTIA ROMA S. A. I. G. E. - Soc. An. Industrie Grafiche Editoriali - Via Minerva, 5 - ROMA

Pagina Colophon

Lo stralisco

208602
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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Alla fine della mattinata, suor Caterina aveva imparato che la pittura è molto piú complicata a dire che a fare, mentre Lucrezia Buti aveva saputo, della bellezza in generale e della sua, piú cose di quante avesse appreso in tutti gli anni della vita. Le parole di Filippo le tornavano alla mente come un canto appena imparato: le riascoltava nel pensiero talvolta per il significato, talvolta per il suono, e all'uno o all'altro la riprendeva il gioioso capogiro di quando, muta e seduta, li aveva dapprima ascoltati. Nel pomeriggio si dedicò al suo lavoro di copista. La mano, di solito veloce e sicura, tremava come se le parole da scrivere non fossero la grave e piatta sapienza di un padre scolastico, ma quelle di una lettera di sposa appassionata. Liberando la mente con ostinate ripetizioni di preghiere, sforzandosi di ricacciare memoria e fervore del mattino, riuscí a compiere la metà del solito lavoro, trovandosi alla fine stanca il doppio. A Vespro tentò cento volte di non portare gli occhi alla cortina da cui, quel giorno, era uscito come un volo lo sguardo di qualcuno. Come la scrittura del pomeriggio, il canto le usciva spezzato e faticoso: e consciamente abbassò la voce, perché le consorelle piú vicine non si accorgessero della cosa. Piú tardi, nella solitudine quieta della cella, sedette a lungo davanti alla finestra, a guardare la fuga degli alberi verso la montagna, a settentrione. Già alta sul piano dei coltivi, a destra, una stradella portava ad un casolare di contadini, proprio al bordo del bosco. Da lassù veniva un misto di muggiti, abbaiamenti, alti starnazzi di polli, alternati a pause silenziose. In una di quelle, come incastonata, si fece sentire lontanamente la strofa di una canzone di ragazza. Lucrezia la riconobbe col cuore, e con le labbra la riprese in sussurro. Era un canto che soleva fare con Bianca, la sorella maggiore, quando erano piccole: una di fronte all'altra, pronunciando alternamente le strofe: chi taceva toccava sul proprio corpo le parti indicate da chi cantava.

Pagina 183

L'idioma gentile

208845
De Amicis, Edmondo 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
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Da quest'ultimo esempio possiamo prender le mosse a una corsettina allegra, per vedere una quantità di modi proverbiali e di motti e d'esempi lepidi e arguti, che nelle pagine precedenti abbiamo saltato a piè pari. Se leggerai tutto il vocabolario, vedrai che, ce n' è a profusione, che alle immagini e ai pensieri tristi vi predominano di gran lunga gli ameni, che il libro della lingua , insomma, è generalmente un libro gaio, gran motteggiatore e burlone; e nei suoi mnotti non troverai soltanto fiori e vezzi di lingua faceta, ma anche molte sagge sentenze e verità utili e sani consigli. Rifacciamoci un po' indietro, e spigoliamo alla lesta, senza tralasciarvi certi modi un po' volgari, ma efficacissimi, che è bene conoscere, benchè non sia bene adoperarli.. - Fàtti in là, disse la padella al paiolo. - Non si può esprimere più argutamente il concetto d'una persona di cattiva reputazione che ostenta timore d'insudiciarsi nella compagnia d'un'altra della stessa tacca. - Sei come la padella, che tinge e scotta. - C'è da: rivomitar le palle degli occhi, a mangiar certe bazzoffie delle trattorie. - Ti s'ha a portare il panchetto? A chi non fini- sce di chiacchierare per la strada. A Parigi, quando due comari stanno a chiacchiera un pezzo davanti a una bottega, esce il bottegaio con due seggiole, dicendo: - Ces dames seront peut-étre mieux sur des chaises. - Aver della pappa frullata nel cervello, essere un baggeo. Di una cosa nauseante: - Fa venir su la prima pappa. - Soffiar nella pappa, fare la spia. - Da pappardelle (certe lasagne): il condotto delle pappardelle la gola. - Pappa tu che pappo io (comune, credo, a tutti i dialetti), alludendo a due persone che mangiano d' accordo in un affare. - Eh, non mi pappar vivo! A chi risponde arrogante. - Aspetto che passi la mia, diceva quell'ubbriaco che si vedeva girar intorno le case e non riusciva a trovar la sua porta. - Far passare il vino da santa Chiara, degli osti che lo annacquano. - Nella sua testa c'è andato a covare un passerotto, di persona senza senno. - Il SE, il MA, il FORSE, è il patrimonio dei minchioni. - Dottor Pausania, a persona che parla con molte pause e con prosopopea. Di una persona magra: - gli si sentono i paternostri nella schiena: - da paternostri, le pallottoline maggiori della corona del Rosario, alle quali somigliano i nodi della spina dorsale. A chi fa il superbo perchè è arricchito, per ricordargli il tempo quand'era povero: - Ti ricordi quando con una pedata ti rifacevi il letto? ossia, quando dormivi sulla paglia. - Il caldo dei lenzuoli non fa bollir la pentola (anche dialettale), la poltroneria non è guadagno. - Pare una pentola di fagioli (si sottintende "in bollore -) di persona catarrosa. - Dio ti benedica con una pertica verde. - Pillole di gallina (le ova) e sciroppo di cantina aiutano a star sani. - Di persona segreta: - Più chiuso delle pine verdi. - Tu fai piovere! A chi parla con affettazione o canta male. - E ponza e ponza e ponza, venne fuori la Monaca di Monza, fu detto del Rosini, che con quel romanzo credeva d' aver ammazzato I Promessi Sposi; e si dice di chi fa un grande sforzo, che poi non dà degno frutto. - E udendo un suono di quel vento che esce dallo stomaco: - Al tempo dei porci erano sospiri. - Proserpina, di donna scarruffata. Vatti a pettinare, che con codesti ciuffi mi pari una Proserpina (la figlia di Giove e di Cerere, rapita da Pluto). - Non esce mai dal bagno: o che Ci sta in purgo? Dal mettere una cosa in purgo, o in molle, perchè prenda o perda certe qualità. - È meglio puzzar di porco che di povero, dicono i poveri che si vedon malmenati. Vespasiano a Tito, che gli chiedeva come mai avesse messo un'imposta sull'orina, mise una moneta sotto il naso, e domandò: - Puzza questa?

Pagina 142

La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a studiare la lingua, è d'imparare a parlarla correttamente e facilmente. A darti fermezza in questo proposito gioverà più che altro la consuetudine, che tu devi prendere, d'osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite miserie e ridicolaggini del modo di parlare dei più, non già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a cui tu appartieni. Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni vivacità dello spirito, come se cambiassero natura; che ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno scudo, e par che le posino l'una dopo l'altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che per raccontar la cosa più semplice e più futile fanno una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla prova la pazienza d'un santo. Conoscerai altri cime, per parlar corretto, si rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola o a correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in brutta copia e poi messo a pulito, ti fanno assistere a tutta la faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e giuntura per giuntura, e quando credi che l'abbian finito, v'aggiungono ancora qualche commento e gli dànno qualche ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno più capo ad ascoltare la tua risposta. Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una parola o una frase francese, o del dialetto, o del loro gergo professionale, con l'aria di non avvedersene, o di dirla per dar varietà capricciosa o colorito comico al discorso; ma in realtà perché non sanno l'espressione corrispondente italiana; e screziano così il loro italiano per modo, che non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di quei sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre malamente, in una volta sola. Udirai certi tali, che cercano di, nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole, assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua attenzione dalla loro grammatica alzano la voce o dànno in risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo e forme verbali di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con l'accompagnamento d'una specie di rantolo catarrale, somigliante al rugliare che fanno i cani tra l'uno e l'altro latrato. Ma chi può dire tutte le industrie puerili e ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella disperata lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare più coi gesti e, con gli ammicchi che con le parole; gli altri vanno avanti a furia d'intercalari e di luoghi comuni, coi quali coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del discorso; questi, per prender tempo a cercare il vocabolo, sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei però enormi, su cui s'appoggiano come sopra un bastone; quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo un lavorio profondo del pensiero, o una distrazione improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto per dire, senza badare a quello che dice. Quante arti, quante fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non saper parlare la propria lingua! Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche quelli che non parlano; quelli che nelle compagnie dove si parla italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come sulle spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche con danno proprio, e a costo di parere imbronciati o villani; quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti, e anche gli amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere in uggia alla volta loro, burlandoli come d'una ostentazione di saccenti e d'aristocratici; quelli che vanno più oltre, che non nascondono la propria antipatia, dandole un altro colore, verso tutti quegli italiani d'altre regioni, coi quali, per farsi intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a parlare italiano. E c'è ancora la famiglia numerosissima degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si trovino, pure sapendo di non esser capiti, s'ostinano sfacciatamente a parlare il proprio dialetto, a sventolare la bandiera della propria, ignoranza, sulla quale hanno scritto: - Chi mi capisce, bene; chi non mi capisce, s'accomodi -; somiglianti a quegli ubbriachi allucinati, che tirare via a ragionar coi pilastri. Ma c'è nella gran famiglia dei poveri della parola un personaggio, che tu devi conoscere più intimamente degli altri, perchè rappresenta una tendenza pericolosa e comunissima, dalla quale più che da ogni altra ti hai da guardare. Egli sarà il primo d' una serie di personaggi singolari, che io conobbi, e che ti farò conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel corso del viaggio che faremo insieme. Ti presento per il primo il signor Coso.

Pagina 27

Chiedo il permesso di rivolgere poche parole a ciascun di loro. Poi ritornerò a te, giovinetto.

Pagina 9

Il libro della terza classe elementare

210925
Deledda, Grazia 9 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Queste facciate si dicono perciò esposte a levante o a mattino (fig. 1). Pare poi che il sole si innalzi nel cielo fino a mezzogiorno e poi discenda, tramonti, verso sera, fino a scomparire, dalla parte opposta al levante. Tale parte si chiama Ponente, o Sera: le facciate delle case, delle

Un giorno Gesù si era raccolto da solo a pregare. Quand' ebbe finito, uno degli Apostoli gli disse: - Maestro, insegna anche a noi a pregare. - Allora Gesù rispose: - Quando pregate, dite così: Padre nostro, che sei ne' Cieli, sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano; e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male; e così sia. - È una preghiera tanto facile, che la capisce anche un bambino; ed è breve, come piace ai fanciulli. E come piace al Signore, che non vuole molte parole, ma vuole molto cuore.

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A dodici anni Gesù andò a Gerusalemme con Maria e Giuseppe, per la festa di Pasqua. Passati i giorni stabiliti, fecero ritorno; ma Gesù rimase in città, senza che Maria e il suo sposo se ne accorgessero. Quando se ne avvidero, tornarono a Gerusalemme e pieni di ansia lo cercarono. Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio. Era seduto in mezzo ai dottori della legge, li ascoltava e li interrogava, e tutti quelli che l'udivano si meravigliavano altamente della sua sapienza. Maria gli disse: - Figlio, perchè ci hai fatto questo? Il padre tuo ed io dolenti ti cercavamo. Gesù rispose: - Perchè mi cercavate? Non sapevate voi che io devo occuparmi delle cose del Padre mio celeste? Ma poi si accompagnò subito con loro e ritornò a Nazaret. Là visse fino ai trent' anni obbediente a Maria e a Giuseppe, e crebbe in sapienza, in età e in grazia dinnanzi a Dio ed agli uomini. Gesù dunque stette nascosto per molti anni; e solo per breve tempo predicò e fece miracoli. Fece così per insegnare con l' esempio che ognuno deve adempiere i doveri del proprio stato. E volle ancora insegnare a tutti, ma specialmente ai fanciulli, che

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Non dimentichiamo mai, nella vita, questo divino esempio; esso ci insegnerà ad amare il lavoro, e ci aiuterà a preparare a noi stessi il premio dell'eterno riposo.

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In quello stesso anno un pugno di giovani audaci riuscì a spingersi sino alle porte di Roma. Erano circa settanta, guidati da due fratelli, Enrico e Giovanni Cairoli. Discesero la corrente del Tevere sino a Ponte Milvio, appiattati in alcune barche. Qui attesero invano i segnali ed i messi dei compagni, che, secondo le intese, avrebbero dovuto far insorgere Roma. Allora posero piede a terra, e si appostarono a Villa Glori, sui Parioli, modesto rilievo collinoso, oramai compreso nella città. Comparvero ben presto i soldati pontifici, che quei pochi valorosi affrontarono con slancio impetuoso. Enrico Cairoli cadde ferito a morte, mentre correva avanti, in testa al glorioso manipolo, brandendo la carabina ed inneggiando all'Italia. Anche Giovanni venne colpito, e parecchi altri furono uccisi o feriti nella mischia ineguale a corpo a corpo. I superstiti si dispersero. Eroica famiglia, questa dei Cairoli! Erano cinque fratelli, che la madre, Adelaide, aveva offerto alla Patria con fermezza spartana. Ernesto era caduto nel 1859 a Varese: lo trovaron morto sul cadavere di un austriaco da lui ucciso. Benedetto, Enrico e Luigi avevano combattuto tra i Garibaldini nel 1860: i due primi erano rimasti feriti, e Luigi era morto di malattia. Ora Enrico lasciava la vita in vista di Roma, la mèta dei suoi sogni; e Giovanni, prigioniero, languiva in un ospedale.

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Il 24 ottobre 1917 i nemici mossero all'assalto delle nostre linee, riuscirono a superarle, a impadronirsi di Caporetto e a dilagare nella pianura veneta. Il nostro esercito dovette abbandonare l'Isonzo, e

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.), che è eguale a 10 grammi; l'ettogrammo (hg.), che è eguale a 100 grammi; il chilogrammo O, semplicemente, chilo. (kg.), che è eguale a 1000 grammi; il decigrammo (dg.), che è la decima parte del grammo; il centigrammo (cg.), che è la centesima parte del grammo; il milligrammo (mg.), che è la millesima parte del grammo. Il decagrammo, l'ettogrammo e il chilogrammo sono dunque multipli del grammo, il decigrammo, il centigrammo e il milligrammo sono suoi sottomultipli. Sono pure in uso il quintale (q.), che è eguale a 100 chilogrammi e la tonnellata (t.), che è eguale a 10 quintali, ossia a 1000 chilogrammi. Si noti che: 1 hg. = 10 dag., 1 kg. = 10 hg. = 100 dag.; e che: 1 dg. = 10 cg. = 100 mg., 1 cg. = 10 mg.

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Rubino aveva la faccia infarinata, un cappello a tricorno e camminava sulle mani. Baconchi invece aveva un enorme vestito a quadretti tutto strappato. I ragazzi si fecero attenti al gioco, quando l'orchestra cessò di suonare. Dopo molti cascatoni e schiaffi e risate, i due pagliacci cominciarono: - Io sono più furbo di te - disse Baconchi. - Facciamo la conta che io sono più furbo di te - rispose Rubino. Fecero la conta. Tre pari. Rifecero. Zero pari. Rifecero ancora una volta. Cinque pari. I ragazzi ridevano. - Allora - disse Baconchi - facciamo la conta a chi è più sciocco. Tre pari. Zero pari. Cinque pari. Fingendosi arrabbiato Rubino allungò un ceffone a Baconchi: ma questo fece civetta e Rubino nell'irruenza del colpo fallito andò a finire per terra. Allora tutto arrabbiato incominciò a inseguire Baconchi che fuggiva con grida di disperazione lungo il riparo del circo: tutti gli spettatori ridevano. Ad un tratto quando stava per essere raggiunto da Rubino, cominciò a tirare dai pantaloni grandi colpi di rivoltella e a spandere un grande fumo bianco. Rubino si gettò a terra fingendo di morire. Quando cessò la sparatoria di Baconchi, che si era nascosta una pistola innocua e ben preparata nei pantaloni, e il fumo fu dissipato, Rubino si alzò e gli chiese con autorità: - Hai il porto d'armi di rivoltella? - No - rispose Baconchi - ho quello di ricottella!

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In parte è stata la natura a farlo nascere brutto e d'animo malizioso, in parte è la vita che gli tocca di condurre. I genitori sono benestanti; posseggono una grande drogheria, ed anche l'appartamento dove abitano è di loro proprietà: ma, costretti a stare tutto il giorno in bottega, poco si curano del loro unico figlio. Quando non va a scuola egli passa la giornata in casa, molestando la donna di servizio, che a sua volta lo perseguita con minacce e cattive parole; e, nonostante che i genitori glielo proibiscano, scende nella strada a giocare con altri ragazzi della sua risma. Il padre, un giorno, lo sorprese appunto sul marciapiedi davanti al palazzo dove abitavano, che si azzuffava col figlio dell'erbivendola. Questa volta Cherubino aveva ragione; poichè l'altro ragazzo lo accusava di aver rubato un'arancia dai cestini messi in mostra sulla soglia del negozio, e il figlio del droghiere tutti i difetti aveva, tranne quello di esser ladro. Il padre però, non solo non volle ascoltare le sue ragioni, ma lo prese per un braccio e a furia di scapaccioni lo spinse dentro la bottega dell'erbivendola, e davanti a tutte le donnicciole che facevano la spesa, lo costrinse a domandar scusa della colpa che non aveva commesso. Un'altra volta fu per otto giorni privato della frutta a tavola (del resto egli sapeva aprire di nascosto la credenza e faceva man bassa di tutto quello che ci trovava per una vetrata rotta) sebbene egli affermasse di non aver commesso il danno. Tutti i guai che succedevano in casa, venivano attribuiti a lui, e continue accuse dai suoi amici di strada e dai compagni di scuola, sul conto suo, pervenivano ai genitori. Ma il dolore più grande egli lo provò, quando un giorno di carnevale il bidello lo riportò a casa, perchè il maestro, avendo trovato l'aula della classe inondata di coriandoli, lo aveva cacciato di scuola. - Siamo stati tutti, a farlo, - egli gemeva, sotto le solite busse paterne; - tutti, anche Sergio, anche Anselmuccio... Non per questo le busse cessarono; la madre, però, pietosa e giusta, quando furono soli, gli disse: - Così impari. Vedi, tutte le colpe vengono attribuite a te perchè non fili dritto. E basta che un ragazzo, od anche un grande, commetta un errore, perchè si creda che egli non sappia mai fare il suo dovere. Io ho un orologio che per tanti anni è andato bene e sempre ho avuto una fiducia illimitata in esso: è bastata una sola volta che si fermasse, pur avendolo caricato a dovere, che non gli avessi più portato fiducia. Impara.

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La freccia d'argento

212542
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Sulle prime avrei voluto farne a meno e svignarmela. Io, l'autore di questa storia, devo scusarmi perché il libro finisce qui. Non essendo riuscito ad avere un biglietto per l'aereo, non son potuto partire col DC-6 insieme con Stucchino, Jörg e Hai, Alo e tutti gli altri, e allora non mi è rimasto che unirmi al cappellano e al tondo Segantino e cantare a squarciagola la canzone delle casse da sapone. Frammischiato coi ragazzi di San Michele mi sono sbracciato a salutare, finché l'aereo è scomparso all'orizzonte. E com'è andata a Stucchino e agli altri monelli? Come se la sono passata in America: ad Akron e a Chicago dal signor Money- maker? È incredibile, ma è così: finora non ne so nulla, perché quei poltroni non hanno scritto neppure una lettera. In tutto e per tutto una cartolina illustrata col panorama di New York a volo d'uccello. Ci stava scritto: Ce la passiamo magnificamente! Ogni giorno aumentiamo a dir poco di mezzo chilo. Ieri per un pelo non fracassavo la grande Cadillac del signor Moneymaker. Il resto a voce. Vostro Stucchino. Di più sulla cartolina non c'era. Io però vi faccio una proposta. Aspettiamo che Stucchino e gli altri ritornino dagli Stati Uniti. Allora dovranno raccontare, raccontare, raccontare! Se sarà interessante e se metterà conto... allora lo leggerete presto. D'accordo?... E va bene!

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Tutti per una

215017
Lavatelli, Anna 4 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Sbatté gli occhi, girò la testa, sorrise alla bambina, guardò il cane, vide la Pinuccia, la riconobbe, si stupì, non si spaventò, tornò a sorridere a Dorotea. - Lei è mia figlia - disse piano. - Non è bellissima? - ...Oh, sì! - biascicò a stento la Pinuccia. E si sedette sul bordo del letto, con molta prudenza, perché di punto in bianco la soffitta s'era messa a girare come una trottola, con i suoi trumeau mangiati dai tarli, le poltrone di fine ottocento e tutte le altre anticaglie di lusso che la contessa Orisanda aveva via via accumulato nel corso della sua prolungata esistenza terrena.

In punta di piedi, uscì a cercare Dorotea. Con quel bel sole, pensò, era un peccato non portarla a passeggio. E anche lei, a dire il vero, aveva voglia di fare due passi. «Forza, Amanda» si disse. «Esci a mangiarti il mondo.»

. - È lui che mi ha mandata a chiamare. - Lo so. È un vecchio testardo, non c'è niente da fare. Invece di pensare a riguardarsi... - Se vuole, torno in un altro momento - mormorò Amanda docile, facendo un passo indietro. - No, entra, entra. - Il dottor Pastori distese la fronte corrugata, addolcendo il tono della voce. - Ma non affaticarlo troppo. Ha bisogno di riposo, capisci? - Sì, dottore - disse lei, guardandolo dritto in viso. Il dottore, come per farsi perdonare, le diede un buffetto sulla guancia e ingiunse benevolo: - Vai, su! La ragazza entrò, richiudendo con cura la porta alle sue spalle. L'ambiente era pieno di luce, per via di un'ampia porta-finestra che si affacciava sul lato sud del giardino, raccogliendo tutto il sole del mezzogiorno. Era una luce energica, salutare, che mal si accordava con l'odore di medicine e di disinfettanti di cui la stanza era impregnata. Nel letto - un gran letto di una piazza e mezza, alto come non se ne fan più - c'era il professor Zambelli, pallido, lievemente smagrito, con la schiena appoggiata ai cuscini. - Ciao, Amanda - salutò il professore. - Buongiorno. Come sta?. - Meglio di quanto vada raccontando a destra e a manca il dottor Pastori. E tu? - Non c'è male... - La ragazza era ferma in mezzo alla stanza, imbarazzata, e guardava gli alberi attraverso i vetri, seguendo i brevi svolazzi irrequieti di una coppia di merli in amore. «Beati gli animali» le venne fatto di pensare. «Tutto è così semplice per loro. Farei volentieri a cambio, se si potesse. Non dev'essere male, la vita di un merlo. Meglio della mia di sicuro.» Il professore la richiamò al mondo della realtà. - Vieni a sederti qui - disse, indicando con la mano una seggiola di vimini a fianco del letto. - Noi due, adesso, dobbiamo parlare. Amanda sembrò sul punto di tornare indietro. Poi invece strinse i pugni e avanzò decisamente, come un pugile pronto per il match. - Allora... - disse calmo il professore. - Ricostruiamo i fatti. C'è una ragazza, molto giovane e molto ingenua, che rimane incinta. E c'è un ragazzo, molto giovane e molto spaventato, che la pianta in asso. La ragazza non ha il coraggio di parlarne in casa e riesce a tenere il suo segreto finché nasce la bambina. Ma come si fa a tener nascosta una neonata? E come si fa a dire ai propri genitori: «Ecco qua, vi presento mia figlia!»? Allora la ragazza ha un'idea. Lascerà la piccola nel posto dove la madre lavora come infermiera, e cioè proprio qui da noi, a Villa Felice. Così la madre la vedrà, si prenderà cura di lei, le vorrà un po' di bene. E dopo... dopo sarà più facile spiegare. Invece le cose hanno preso una piega diversa, perché a trovare quella bambina è stato un cane. Amanda sgranò gli occhi, troppo meravigliata per negare: — Ma lei come ha fatto a... a... - Non ci vuole poi tanta immaginazione, credi a me. E poi ho dei buoni informatori. Andiamo avanti con la nostra storia, d'accordo? La ragazza è infelice e non dimentica. Rivuole a tutti costi la sua bambina, sogna di portarla via con sé. Dove, non lo sa nemmeno lei. E così un giorno si presenta a Villa Felice, dicendo a se stessa che non deve essere poi tanto difficile farla in barba a quattro vecchi rimbambiti. - No, questo no! Cioè, non proprio. Forse... - farfugliò Amanda, rossa di vergogna. - La verità è che volevo riprendermi Tea, e basta. - Lo so. - Virgilio Zambelli aveva l'aria affaticata. Sospirò e disse: - Dammi una di quelle pastiglie sul comodino e un po' di succo d'arancia. Bevve a piccoli sorsi, e il bicchiere gli tremava nella mano ossuta. Qualche goccia cadde sul risvolto del lenzuolo, ma Amanda nemmeno se ne accorse. - Dunque... - proseguì il professore - il problema è: cosa ne vuoi fare della tua vita? - Non lo so. - Volevo dire... Penserai al futuro qualche volta, no? - Poco. - Ah. E a che pensi? - Di più al passato.

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Virgilio Zambelli andò avanti a leggere con la sua bella voce da baritono e gli sembrava d'essere ancora al liceo, a far lezione davanti ai suoi studenti. La Pinuccia lo ascoltava rapita, il lavoro a maglia abbandonato sulle ginocchia. Poi accadde un fatto strano. Attratti da quella voce, stupiti dalla novità, arrivarono anche gli altri: l'Enrichetta, la Jolanda, la Clotilde, la Celestina, il Carlo, l'Attilio, il Melchiorre e perfino quell'orso dell'Ernesto. E tutti rimasero lì ad ascoltare la tremenda sfida tra Ulisse e Polifemo, tra l'intelligenza dell'uomo e la forza del ciclope, finché non venne la Maria Pia a rompere l'incanto. - Su, avanti... È ora di rientrare, signori miei. Comincia a far frescolino, non sentite? E poi questa è l'ora del vostro programma preferito. C'è la Ruota della Fortuna che sta per cominciare! Su, su, andiamo, o ve lo perderete. Prese per il braccio il primo che le venne a tiro e lo condusse via. Gli altri, con il pensiero ancora là, nella spaventosa caverna di Polifemo, si avviarono lemme lemme verso l'ingresso. - Sai qual è il nostro guaio, Virgilio? - disse la Pinuccia rimanendo indietro con il professore. - Che nessuno ci dà mai niente da fare. Se solo trovassimo un buon motivo per attaccarci alla vita, per darle ancora un senso, non ce ne staremmo zitti e muti a sopportare tutto. Non credi? - Si, hai ragione. Io, per esempio, avevo un cane. E per lui, grazie a lui, valeva ancora la pena di vivere. Adesso non lo so più. - Ah, sì - commentò la Pinuccia. Neanch'io lo so più. E mi capita anche di avere pensieri terribili. A volte, svegliandomi al mattino, mi guardo nello specchio e lo specchio mi dice: «Pinuccia, nessuno ha più bisogno di te, nessuno ti vuole più. Cosa aspetti a crepare?». E io rispondo: «Che ci posso fare, se sono viva? Non lo faccio mica apposta, a vivere». E allora penso che tutto questo mi succede perché devo avere fatto molti sbagli. Dove ho sbagliato, professore, che i miei figli non mi amano più? - I figli volano via come gli uccelli. Non abbiamo diritti sui figli - provò a dire Virgilio Zambelli, prendendola a braccetto. - E poi, loro devono pensare al futuro... - Anche noi dovremmo pensarci, ogni tanto - fece la Pinuccia, scontenta. - Siamo vivi, no? Perché ci siamo lasciati il futuro dietro le spalle? Perché? Neanche il professore lo sapeva. Ma sentiva che la Pinuccia, con la sua logica elementare e impietosa, aveva toccato il cuore del problema.

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Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215189
Garelli, Felice 4 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
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Questa gioia del lavoro cresce ogni giorno, ci fa contenti del nostro stato, e ci anima a continuare nella stessa vita attiva e laboriosa. Napoleone I, mentre passava a cavallo per una foresta, vide un boscaiuolo che lavorava, e cantava allegramente, ed esclamò: «Vedi quell'uomo; si guadagna il pane con tanta fatica, eppure sembra felice!» E accostatosi a lui, senza essere conosciuto, gli domandò. «Che cosa ti rende sì allegro? E quegli rispose: «Ho una salute di ferro e lavoro volentieri: non ho forse ragione di essere contento? «Quanto guadagni al giorno? «Tre lire. «E bastano per te e per la tua famiglia? «Altro che bastano: mantengo la moglie e tre figlioli, e me ne avanza ancora da mettere a interesse e a pagare vecchi debiti. «Come è possibile ciò? «Metto danaro a interesse, mandando a scuola i miei figlioli; pago vecchi debiti col mantenere i miei genitori». Vedi, giovinetto, come il lavoro fa l'uomo virtuoso, e contento del proprio stato.

Pagina 26

Non rimettere a domani ciò che puoi fare oggi. Un buon oggi, dice il proverbio, vale due domani. Il più delle volte il domani non è più a tempo, come capitò a Matteo. «Domani seminerò il mio campo; la stagione è opportuna» disse Matteo. E l'indomani era in piedi all'alba. Mentre stava per recarsi al campo venne un compare, che l'invitò ad andare con lui al mercato. Matteo esitò alquanto, poi pensò: «un giorno prima o dopo non è poi gran male: seminerò domani». E andò al mercato, dove si fermò fino a tarda ora mangiando e bevendo assai. Al mattino appresso, pel troppo vino bevuto, gli dolevano la testa e lo stomaco. «Pazienza, disse Matteo, oggi mi riposo, seminerò domani». Ma il domani cominciò a piovere, e la durò per più giorni di seguito. Matteo seminò troppo tardi, e ne cavò un meschino raccolto. Egli riconobbe a sue spese la verità dei proverbi: Chi ha tempo, non aspetti tempo. - Del presente si è padroni, dell'avvenire no.

Pagina 32

La formica sa che, venuto l'inverno, fuori non troverà più nulla, e lavora nell'estate, dal mattino alla sera, a far provvista di cibo. Anche le api sono bestioline giudiziose, e previdenti, come le formiche. Vedi con quanta arte si fabbricano la loro casetta! Con quanta diligenza lavorano durante la buona stagione! È un via vai continuo dall'alveare alla campagna, a far provvista di miele per l'inverno; leste volano da un fiore all'altro per raccoglierlo; si allontanano anche più miglia a farne ricerca; e quando n'han le zampette cariche, volano a deporlo; poi ripartono subito a cercarne dell'altro. Impara anche tu a mettere in serbo quanto ti sopravanza al bisogno. Nei giorni buoni provvedi pei giorni cattivi, che vengono sempre; perchè dice bene il proverbio: il sole del mattino non dura sempre fino a sera; e chi spende in gioventù, digiuna nella vecchiaia.

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Al contrario è uno spensierato, che si dà bel tempo nell'estate, ma è naturale che poi si trovi a denti asciutti nell'inverno. Senti che lezione fu data a questo fannullone. Un giorno, al cominciar dell'inverno, un grillo, sfinito dalla fame e dal freddo, si presentò ad un alveare, e chiese alle api qualche goccia di miele per sfamarsi. Una delle api, che stava a guardia della casa, gli domandò: «Che cosa hai fatto nell'estate? Perchè non hai provvisto un po' di cibo per l'inverno?» «Io spesi (disse il grillo) allegramente il mio tempo bevendo, saltando, cantando, senza darmi pensiero dell'inverno». «Ben diversamente facciamo noi, rispose l'ape. Noi lavoriamo molto nella state a far provvista di cibo per la stagione in cui prevediamo che sarà per mancarci. Ma chi non sa far altro che bere, saltare e cantare, come fai tu, nell'estate, ben deve aspettarsi di morir di fame nell'inverno». Ciò detto, l'ape chiuse l'uscio in faccia al grillo. Giovinetto, tieni a mente la lezione. A chi da giovane fa come il grillo, capita come a lui da vecchio: morrà di miseria. Giovane ozioso, vecchio bisognoso.

Pagina 38

Gambalesta

215947
Luigi Capuana 3 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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Si sentiva ancora il rumore delle acque del fiume, che si vedevano luccicare, di tratto in tratto, tra gli alberi, a sinistra, perché il letto del fiume faceva una gran curva. Passavano carri tirati da bestie che sembravano insonnolite, tanto andavano lente, coi carrettieri sdraiati sul carico, addormentati; poi, neppure lo stridìo delle ruote sul brecciame. Cani abbaiavano dalle case rustiche, dai pagliai; e silenzio di nuovo. Di faccia, illuminato dalla luna, con la gran cappa di neve, Mongibello ; e a Cuddu sembrava più piccolo di quanto lo vedeva dalla spianata davanti a casa sua, perché qui le colline impedivano di scorgerlo intero. Ora avevano lasciato lo stradone; montavano per un sentiero, tra gli olivi. Cuddu scorse di lassù un gran biancore... Era Catania, illuminata dalla luna, coi campanili, con le cupole delle chiese che si rizzavano tra i tetti... E, dietro, una cosa ch'egli non sapeva che cosa fosse, un immenso specchio pareva, steso laggiù, e dove la luna si rifletteva con una lunga striscia luminosa. - Che cosa è? - domandò. Il mare. Non hai mai visto il mare? - No. Il sentiero diveniva di mano in mano più ripido, quasi incassato tra due sponde, con gli olivi che si protendevano dai ciglioni, fitti; con casette basse mezze nascoste tra gli alberi, da dove partivano abbai di cani, mentre la Squadra passava; altri cani rispondevano in lontananza, attorno, paurosamente. Cuddu tornava a pensare a sua madre. A quell'ora ella dormiva. Avrebbe dormito anche lui, se fosse rimasto a casa. E sarebbe stato meglio! Gli sembrava quasi impossibile che si trovasse così lontano, con quella gente, in luoghi sconosciuti, e da dove non avrebbe saputo ritrovare la strada per tornare addietro, se avesse voluto. Ma, a poco a poco, la curiosità di vedere come facevano la guerra lo riprendeva, e insieme la paura di trovarsi in mezzo alle fucilate, di cui, più che altro, paventava il rumore. Se dovevano ammazzarsi, si sarebbero ammazzati loro, quelli della Squadra e i soldati napoletani, dei quali essi parlavano. Egli si sarebbe nascosto dietro un albero, dietro un muro, si sarebbe buttato per terra o sarebbe scappato lontano - sante gambe, aiutatemi! - Per correre ci avrebbe pensato lui! Intanto il cielo si era coperto di nuvole. S'intravedeva dietro di esse la luna che andava lesta lesta, quasi avesse paura anche lei di incappare nelle fucilate. Cuddu era impressionato della cautela con che la Squadra procedeva. Si fermavano, riprendevano a camminare, tornavano a fermarsi, origliando a ogni svoltata di sentiero. Che cosa stava per accadere? Non potevano, secondo lui, far la guerra di notte, al buio. Tutt'a a un tratto si udì un vocione: - Chi va là? - Amici! - rispose don Carlo il capitano. - Chi vive! - Viva Verdi! - Sta bene; fatevi avanti. Cuddu, a quel - chi va là -, si era aggrappato alla giacca di uno della Squadra che gli stava vicino. Il cuore gli batteva forte. E continuò a battergli forte quando si trovò tra un centinaio di persone, tutte armate - un'altra Squadra più numerosa - che festeggiavano con abbracci e strette di mano i nuovi arrivati. - E questo carusu? - domandò uno con barbone e cappellaccio a larghe tese. Sembrava il comandante. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

Pagina 106

Pino, messosi a rincorrere grilli e farfalle, gli raccontava intanto che andava anche lui, assieme col padre, dietro le pecore al pascolo. Questa volta però era rimasto alla mandra per guardare la capra figliata e darle da mangiare. Poi scesero al ruscello, chiapparono due ranocchi, si divertirono a vederli saltellare, li rituffarono nell'acqua cercarono nidi tra le macchie, tirarono sassate agli sgriccioli che svolazzavano tra i rami di un mandorlo. E Cuddu non avrebbe pensato più alla sua scappata, se Pino non gli avesse detto: - Verso sera pioverà. Ti bagnerai tornando al paese. Infatti le nuvole si addensavano dalla parte di ponente e sembrava sbucassero leste di cima alla roccia. Cuddu disse: - Me ne vado. Esitò; poi riprese ad andar dietro a Pino, che inseguiva a sassate una lucertola e gli additava altre grotte della roccia dove si poteva entrare scendendo di lassù, ma col pericolo di rompersi il collo. Vi andava lo zi' Mèusa che, attaccato ad una fune retta dai due uomini, prendeva palombini selvatici e nidiate di mulacchie e di falchetti da empirne un corbello. E così Cuddu si era indugiato fino a che le prime goccie di pioggia cominciarono a venir giù e s' ingrossarono e s' infittirono da costringere lui e Pino a rifugiarsi nella grotta. Più tardi, a sera avanzata, Cuddu se ne stava accoccolato in un cantuccio, col cuore piccino piccino, mangiando svogliatamente un po' di pane e cacio, mentre il padre di Pino e compare Nunzio il cacciatore, venuto a ricoverarsi colà, fatta una gran fiammata presso la buca, perché il fumo andasse fuori, si asciugavano i vestiti inzuppati di acqua, discorrendo di caccia.

Pagina 30

E si rallegrava che i palombi selvatici non si accostassero al carrubo, quasi compare Nunzio dovesse decidersi per questo a passare un'altra nottata e un'altra giornata colà. I palombi invece, tornando in denso stormo da lontano, vennero poco dopo ad abbattersi sui rami frondosi, e il fucile a due canne tonò, colpendone quattro. Caddero, spandendo molte penne per l'aria, con gran soddisfazione di compare Nunzio che li raccolse. E, pesandoli a uno a uno con la mano destra prima di metterli nella rete della carniera, egli disse a Cuddu: - Questo, il più grosso, sarà per tua madre. Su, marcia! Come se con questa parola compare Nunzio gli avesse stroncato le famose gambe! Così a stento Cuddu lo seguiva per la salita, quantunque quegli lo avesse sbarazzato della carniera e della gabbiola del furetto. Quando apparvero sul colle le prime case di Ràbbato, suonava l'avemmaria. Cuddu faceva sforzi per non mettersi a piangere.

Pagina 44

Quartiere Corridoni

216440
Ballario Pina 11 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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Ora si comincia finalmente a lavorare. Il babbo sorride mentre ascolta. Caro papà! È un omone nero, fuligginoso per quel continuo vivere alla vampa. Ogni tanto tralascia di mangiare per covarseli, con gli occhi i suoi figliuoli. Come si sono irrobustiti Mario e Lucia in colonia! Erano partiti, l'uno per la montagna, l'altra per il mare, pallidi pallidi, ed eccoli in fiore, coloriti e robusti. Anche a Nino e a Ninetta hanno giovato i due mesi di sole e di aria aperta.

Pagina 12

GLI ANIMALI IN LIBERTÀ Piace a Nino e a Ninetta passare qualche pomeriggio in casa di nonno Andrea. Siedono in cortile e guardano gli animali. Le galline razzolano, si spollinano, sfaccendano. - Oh povera me, povera me! - sembrano dire, guardando il gallo che sorveglia, altezzoso - Riusciremo a preparare il pranzo? La chioccia - Ciò ciò ciò - chiama i pulcini a raccolta - ci ho il verme, ci ho. - E lo sminuzza, un pezzetto a tutti, badando che i più prepotenti non rubino ai più timidi. Ecco quel futuro galletto impadronirsi di un boccone maiuscolo e svolazzare via trangugiandolo, ma intanto si strozza e si punisce da sè dell' ingordigia. Il tacchino grida facendo la ruota e zampettando - Io, io, io, adesso vengo io! - Nessuno gli bada; nemmeno le oche paurose di tutto. Le oche si dondolano, grasse e pesanti come barchette - Qua qua qua - e non sanno dove andare, se qua o là. I passeresti bigi sì che lo sanno; scendono a sciami dal tetto e rubacchiano il becchime alle galline, mentre il maiale grufola affacciato al porcile - Gnuf, gnuf gnuf! che screanzati! Uf, Uf!

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I bambini quando andavano nel bosco a cogliere fiori e frutti selvatici, guardavano con sprezzo le fragoline verdi. Dicevano di esse: - Buone a niente! Invece trillavano di gioia quando scoprivano i lamponi. Le fragoline soffrivano, e un giorno se ne lagnarono con il Signore. Lo supplicarono: - Dai anche a noi dolce sapore e una bella veste rossa, festosa. - Sta bene - acconsentì il Signore - sappiate però che non avrete più pace e non troverete più sicurezza. Uccelli, formiche, bambini, saranno ghiotti di voi. Le fragoline accettarono con gioia il nuovo destino. La vita ha valore soltanto quando serve a qualche cosa.

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Le sue onde giocano a rincorrersi mattina e sera, sera e mattina. Le onde piccine sono buone, cantarellano a riva, infiocchettano di spuma la sabbia e gli scogli. Serbano il tepore del sole e lo regalano alla terra. I cavalloni sono cattivi, prepotenti, ingordi; guai se si infuriano! Inalberano il casco ornato di piume di struzzo come gli ammiragli e vanno all'assalto delle navi, guidati dal vento. I pescatori allora si affrettano a rientrare con le loro barche mentre le donne e i bambini li aspettano a riva sotto la pioggia e pregano il Signore di proteggerli tutti. Di solito è buono e tranquillo, il mare. Sembra una strada azzurra. Non divide le terre ma le unisce. Invita i bambini a cullarsi sopra le sue onde, i pescatori ad uscire con le reti. I bambini vi si tuffano, nuotano, respirano a pieni polmoni l'aria salubre. Ed hanno voglia di spingersi lontano lontano in terre sconosciute. Quanti di essi diventeranno marinai, navigatori? Insegna tante cose il mare!

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Pulizia a fondo la domenica, in casa Altieri! Sapone, spugna, spazzola, forbici lavorano e i bambini escono dalla vasca da bagno e dalle mani della mamma, rossi e lustri come fossero nuovi. - A Dio, in chiesa, bisogna presentarsi come alla rivista i soldati, si presentano al generale - dice il parroco, don Cesare. I ragazzi gli vogliono un ben dell'anima. A lui e alla chiesa. Don Cesare ne ha gran cura. Nessuna chiesa della città le sta a pari, eccetto la cattedrale. I ragazzi del Quartiere Corridoni vanno a gara per adornare gli altari di fiori, i più belli.

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IL PALOMBARO Maurizio non ha tregua un minuto, oggi a scuola. Lo zio Eugenio, arrivato ieri, gli ha promesso di venirlo a prendere all'uscita. Zio Eugenio appartiene all'equipaggio dell'«Artiglio», la squadra che recupera le navi affondate. È palombaro, insomma. I compagni considerano con rispetto Maurizio perchè ha uno zio palombaro che scende in fondo al mare. Quando escono a mezzogiorno e lo vedono, giovane, simpatico e bonario ad attendere il nipote, lo stanno a guardare come una bestia curiosa. - Ebbene, che cosa mi trovate? Quattro occhi e sette bocche? - domanda lui ridendo, e piglia uno per il ganascino, all'altro tira il naso. I ragazzi gli si avvicinano, gli fanno cerchio, lo affollano di domande. - Che cosa c'è in fondo al mare? ci fa buio? Chissà che pesci grossi! Il giovanotto risponde a tutti, accarezza i volti rosei, curiosi. In fondo al mare ci stanno alghe, coralli, mostri marini, conchiglie. E non ci fa nemmeno buio. L'acqua è fosforescente. Ad ogni modo lui scende con la sua lampada e illumina le acque. Appena i pesci vedono calare nel loro regno quel grosso pupazzo di gomma, scappano. Si fermano lontano ad osservare i movimenti, poi a poco a poco ripigliano confidenza, ritornano, si avvicinano, assistono al lavoro. - Come voi!

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Gli sembra una grossa lavagna dove i bambini di lassù imparano a leggere e a scrivere. Infilano le stelle sul pallottoliere, le contano: - Uno due tre... - Non finiscono mai. Bisogna sempre tornare da capo, proprio come Nino che per contare ha soltanto i suoi dieci ditini. Qui c' è un triangolo, là c' è un quadrato; si studia anche la geometria nel cielo! Ecco Venere; smonta dal Carro e si mette a vegliare il suo gregge perchè è la stella dei pastori, la prima a comparire, l'ultima ad andarsene. Le Gallinelle corrono a salutarla insieme con Orione. I Tre Re se ne vanno a passeggio avvolti nel loro manto regale e tutte le stelle tremano al loro passaggio tranne la Stella polare, agghiacciata dai venti del nord. Chi accende le stelle appena si fa buio? e chi le spegne all'apparire del giorno? Ninetto vorrebbe essere lui il lampionaio del cielo.

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Mario è fuori come un fulmine e chiama a raccolta i fratelli: - Nino, Ninetta, Lucia, animo. Raccogliete il bucato. In fretta. - E lui sta a guardare. La mamma che ha udito e visto tutto dalla porta della cucina, appena lo ha a tiro gli dice: - Un drappello di soldati stava facendo legna in un bosco. Il caporale, le mani in tasca, li incitava: - In fretta, animo! Sbrigatevi. Passa un signore a cavallo, si ferma a guardare e si volge al graduato: - Se avete così fretta perchè non date loro una mano? - Io sono il caporale. Quel signore scende da cavallo e si mette a raccogliere legna, poi, deposto il fardello ai piedi del caporale, lo saluta e gli dice rimontando in sella: - Ecco fatto. Se avrete ancora bisogno di me, datemi una voce. - Volentieri, ma chi siete voi? - Io? Il generale Giuseppe Garibaldi. Mario si gratta un orecchio mentre i fratelli ammiccano tra loro.

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IL PANE I ragazzi si divertono a veder mangiare il vecchio Ernesto. Ernesto viene a giornata dall'oste. A mezzogiorno siede all'ombra, in cortile, e trae dall'involto il suo pranzo, mai più di una grossa pagnotta e di un pezzo di formaggio o di salame. Bisogna vedere come affetta il pane con il suo coltelluccio a serramanico. Ne fa tante fettoline sottili e se le mette in bocca con devozione. Poi raccoglie le briciole con le grosse mani nodose e si ficca in bocca anche quelle. Pulisce il coltelluccio nella manica della camicia, lo fa sparire nel taschino del panciotto. Mangia il pane con la minestra, con il risotto, quando l'oste gliene offre; lo inzuppa nel suo bicchiere di vino. I ragazzi che ne farebbero volentieri a meno anche con il companatico, si toccano nel gomito. Ernesto se ne accorge e dice: - Cari miei, se voi faticaste come me a guadagnarlo, vi chinereste a raccogliere le briciole in terra con la lingua. Chi sciupa il pane commette peccato. Il pane è sacro. Amate il pane, cuore della casa, profumo della mensa, gioia del focolare. Non sciupate il pane, ricchezza della Patria, il più soave dono di Dio, il più santo premio della fatica umana. MUSSOLINI

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A comitive le famiglie del Quartiere Corridoni partono in bicicletta; vanno per una visita al cimitero o dagli amici di campagna. Restano i vecchi a godere il sole, seduti sulle porte e sui balconi. Gli Altieri decidono lì per lì di fare urla sorpresa a nonno Andrea, il babbo della mamma che abita a una decina di chilometri dalla città. Tutti in bicicletta, anche Marcello, seduto sul portapacchi del babbo. La bella strada asfaltata striscia tra campi, boscaglie, prati, cascine, villaggi. Gli Altieri pedalano lietamente e lestamente: hanno fretta di arrivare. Mezz'ora, eppoi dietro la casa cantoniera appare la casetta di nonno Andrea.

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A poco a poco le piumette s'infittiscono, turbinano e tutto s'imbianca. Il silenzio aumenta. Sotto il grigio del cielo, il candore della neve abbaglia. Non si riesce più a tenere gli occhi sul quaderno. Ci sono troppe cose da vedere, fuori, e troppi pensieri danzano per il capo. Si pensa: - Andremo a sciare lungo le scarpate e faremo alle palle di neve. Quando si rientra al caldo, le mani frizzano, gli orecchi frizzano, il naso frizza. Ninetto ha deciso che andrà con Lucrezia, la più povera delle vicine di casa, a ritirare la sua legna all'assistenza. La poveretta gli fa pena: è così sola! Se non avesse la pensioncina per il figlio caduto in guerra e i soccorsi dell'assistenza, potrebbe morire di freddo e di fame. Ora, ad esempio, è felice, perchè l'hanno addetta alla refezione scolastica. A proposito, oggi si comincia. Che buon profumo di minestra calda sale dalle cucine! Non suona mai la campanella di mezzogiorno?

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C'era una volta...

218673
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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. — Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la strega a cavallo del manico di una granata. — Con chi hai tu parlato? — Col vento dell'aria. — Veggo qui delle pedate. — Son forse le vostre. — Ah! son le mie? — La strega afferrava una mazza di ferro e: — Di dove vieni? Vengo dal mulino. — Basta, per carità! Non lo farò più! — Ah! son le mie! — E di dove vieni? Vengo dal mulino. - Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro. Ma sbagliò strada. Quando s'accòrse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima .a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n' avrebbero fatto un boccone. Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per- tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro. — Oh, che buon odore di carne cristiana! L' Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l' aria: — Oh, che buon odore! — Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo

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Lasciami tornare a casa mia! - No, no! Dobbiamo sposarci. — Per ora bada a crescere! - Gomitetto se l' ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s' annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Ogni giorno chiamava: — Gomitetto! Gomitetto! - Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo: — Vuoi vedermi? — Volentieri. — In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d' oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui. — Buon giorno. — Buon giorno. - La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola. — Mi vuoi per marito? Mi vuoi? - La Reginotta rideva: — Ti voglio! ti voglio! Ma per ora bada a crescere. — E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l' ebbe a male e andò via. Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s' era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d' occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma: — Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta! - E piangeva sui guanciali; quand' ecco sente buttar dei sassolini ali' impòsta della finestra. Chi poteva essere, a quell' ora? Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino impòsta, e domandò: — Chi siete? che cosa volete? Son io, figliuola mia; siam venute per te! — Dall' allegrezza stava per saltar dalla finestra. - Ascolta, figliuola, — disse la Regina sotto voce. — Quel gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s' è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t' apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo. — La mattina, la Reginotta udì la solita voce: — Vuoi vedermi? — Volentieri. —- Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare.

Pagina 87

Al tempo dei tempi

219323
Emma Perodi 2 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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- Maestà, non ne ho, ma ho una figlia a casa, tanto buona e tanto bella che si strozza per Vostra Maestà. - Sì? - disse il Re, e battè su un timbro d'argento. Comparve un cameriere, e il Re gli ordinò di portargli tre canne di corda ben solida. Quando gli fu recata, la porse al mercante perché la desse alla figlia. Il pover uomo si sentì morire dalla vergogna. Torna a Messina, e appena a casa, chiama la figlia minore e le dice: - Vedi a che cosa m'hai esposto? Il Re me ne ha fatta un'altra delle sue. Quando gli ho detto che volevi strozzarti per lui, m'ha dato questo pezzo di corda. - La ragazza, disperata, si mise a singhiozzare. Dopo alquanto tempo il mercante dovette partire di nuovo per Palermo per i suoi negozi, e quella volta non chiese alle figlie che cosa volevano che portasse loro, per non esporsi a fare per la minore un'altra ambasciata al Re. Ma lei stessa, vedendo che si preparava per il viaggio, gli disse: - Padre mio, per il bene che mi volete, dovete farmi un piacere: andate dal Re e ditegli che io m'ammazzo per lui! - Figlia mia, sei pazza! Ti pare che io possa tornare per la terza volta dal Re dopo che mi ha trattato come mi ha trattato? - Padre mio, fatelo, se non volete trovarmi morta al vostro ritorno. - E qui gli si gettò ai piedi e tanto pianse e tanto lo supplicò, che riuscì finalmente a strappargli la promessa che sarebbe andato dal Re e gli avrebbe fatta l'ambasciata. Il mercante giunge a Palermo, sbriga i suoi negozi, ritorna al palazzo e chiede udienza al Re. Fu ammesso alla presenza del Sovrano, che anche quella volta finse di non conoscerlo e gli domandò se aveva merce preziosa da mostrargli. - Maestà, ho a casa una figlia tanto bella e tanto buona! Questa figlia manda a dire a Vostra Maestà che si ammazzerà per lui. - Il Re aveva infilato nella cintura un bel coltello col manico d'oro tutto lavorato. Lo prese e lo dette al povero padre, che perse il lume degli occhi e glielo avrebbe volentieri conficcato nel cuore.

lo ringraziò e corse a casa col sacchetto. Dalla felicità, neppur s'accorgeva quanto pesasse. - Figliole mie, - disse, giungendo a casa - ci capita una gran fortuna! Maricchia, ora raccontaci quel che t'è accaduto col Cavaliere. - La figlia raccontò tutto per filo e per segno, e la madre le consegnò il sacchetto, dicendole: - Eccoti il danaro, disponne tu, perchè t'appartiene! - Nel sentir questo, Maricchia smise di filare, buttò la conocchia qua, il fuso là e si mise a saltare e a ballare ripetendo: - La sorte l'ho avuta! La sorte l'ho avuta! Quando si fu un po' calmata, disse alla madre: - Ora, madre mia, chiudiamo a chiave Caterina, Vituccia e Rosa, e usciamo noi due. Prima andiamo in chiesa a ringraziare Dio, la Madonna e i santi, e poi dal negoziante a comprare tutto quello che ci bisogna. - Così fecero, di fatto. Uscirono, andarono in chiesa e poi entrarono nella più bella bottega di Trapani dove si servivano tutti i signoroni e dove i mercanti di levante e quelli di Spagna e di Francia portavano le loro mercanzie. Il negoziante, nel vedere quelle due poverette entrare timidamente, le squadrò, e, più per invitarle ad andarsene che per invogliarle a entrare, disse loro con mal garbo: - Che cosa volete? - La ragazza, senza lasciarsi intimidire da quell'accoglienza, rispose: - Vogliamo tutto quello che avete di più bello nel magazzino. - E per chi dev'essere? - Per me, - rispose Maricchia arditamente. Il negoziante la guardò con aria di compassione. - Figliuola mia, voi non potete certo comprare neppure la roba di scarto del mio negozio. - Se non potessi, non vi direi di farmi vedere tutte le galanterie che avete. Dai miei vestiti non dovete giudicarmi. - A queste parole, dette con tanta sicurezza, il negoziante non seppe che rispondere e credette che Maricchia fosse qualche gran signora travestita. Del resto non ci rimetteva nulla a contentarla, ed era anche curioso di vedere com'andava a finire quella faccenda. Salì dunque sulle scale e buttò sul banco diverse pezze di broccato, di ermisino, di damasco e di altri tessuti di seta. Bisognava vedere Maricchia come s'era fatta rossa in viso dalla felicità nel pensare che poteva comprare quel che le pareva e piaceva! Prendeva le sete, le metteva a distanza per vedere che effetto facevano, se le avvicinava al volto, le guardava di sotto, le guardava di sopra e diceva: - Questa non mi piace, questa non mi garba, quella non è di mio genio, - e faceva scendere altre pezze ed altre ancora prima di scegliere qualcosa. - Sta' a vedere, - pensava il negoziante - che alla fine delle fini questa smorfiosa non piglia nulla. - Quando tutto il banco fu coperto di pezze, allora Maricchia incominciò a dire: - Questo drappo starebbe bene a Caterina, proprio bene, non vi pare, madre mia? E questo broccato celeste non si addice alla carnagione di Vituccia? Guardate, guardate, questo broccatello se non par fatto a posta per Rosa? - e girava, guardava di sotto e di sopra senza ancora scegliere neppur un palmo di roba. - Buona donna, spiccíatevi! - diceva il negoziante, non potendo dar udienza agli altri avventori. - Vedete quanta gente aspetta - Maricchia, tutta risentita, gli rispondeva che doveva prender molta roba e che lei era giunta prima di tutti. A farla breve, la ragazza alla fine scelse due vestiti per ciascuna delle sorelle, due per la madre, e per sè ne prese una decina, oltre a pezze intere di tela di lino e di canapa, a sciarpe, fazzoletti e a tante e tante altre cose necessarie. Il negoziante fece il conto e quando lo presentò a Maricchia, rideva sotto i baffi, pensando: - Ora viene il bello! - Ma Maricchia, benchè vestita da povera, pagò tutto in tante monete d'oro sonante, e dato a portare un gran fagotto alla madre e caricatasi lei, uscì dal negozio a testa alta e se ne andò a casa. In un momento mandò a chiamare la più brava sarta di Trapani, quella che serviva le signorone, le dette a fare tutti quei vestiti e li volle pronti in breve tempo; chiamò il primo calzolaio e gli ordinò scarpe per sè, per la madre e le sorelle; chiamò la modista, la cucitrice di bianco, e tutti la servirono presto perchè prometteva di pagare con moneta sonante. Quando fu tutta rivestita, che non pareva più quella di prima, andò con la madre a vedere un bel quartiere al piano nobile del palazzo di una baronessa. Il quartiere le piacque e ne pagò subito la pigione. Uscendo, passò dall'orefice, comprò orecchini di perle, collane, anelli, fermagli e un anello con un diamante che destinò al promesso sposo. Tutte quelle compre, tutto quel viavai a casa di donna Paola incuriosirono il vicinato. Tutti, e specialmente le donne, parlavano di lei, e spiavano quel che faceva; ma nessuno arrivò a scoprire da che parte le fosse venuto tutto quel ben di Dio di danari; nessuno però mormorava sul suo conto, perchè tanto lei quanto le figlie erano state sempre oneste, e onore ne avevano da vendere. Quando tutto fu pronto, una domenica, madre e figlie, si vestirono tutte in gala, liscie e pettinate, e andarono al palazzo che avevano fatto già addobbare come si conveniva a gente ricca. Il Cavaliere, frattanto, non aveva detto niente nè al padre nè alla madre di tutti questi imbrogli, e un giorno che vide passare Maricchia insieme con la madre di sotto a casa sua, vestita come una foglia d'arancio, fece finta di vederla per la prima volta e d'esser colpito dalla bellezza della fanciulla. Egli chiamò la madre e le disse: - Guardi, guardi, signora madre, che bella ragazza che passa! Guardi che personale, che colorito, che fattezze, che capelli. E gli occhi? Mi ha guardato sorridendo! Oh, quanto mi piace - Mandaglielo a dire subito, - risponde la madre. Ecco che chiamano Raffaello, il vecchio servo di casa, e gli dicono di seguire quelle due signore e informarsi chi erano e dove abitavano. Il vecchio va, domanda, interroga, e torna a dire alla padrona che si chiamano così e così, che stanno in un bel palazzo da poco tempo. Allora il Cavaliere scrive una lettera, in cui dice che vuole imparentarsi con la ragazza e che si preparassero a far la conoscenza di suo padre e di sua madre, e dentro alla lettera mette di nascosto un anello di diamanti. Raffaello prende la lettera, se ne va al palazzo della ragazza, entra, fa passare l'ambasciata e consegna la lettera alla madre. Quando Maricchia ebbe letta la lettera e vide che il Cavaliere la chiedeva davvero in isposa, s'inorgoglì tutta, si mise a fare sgambetti e piroette e subito gli rispose, ed anche lei mise nella lettera l'anello di diamanti che aveva comprato per lo sposo. Il giovane stava in vedetta ad aspettare il ritorno di Raffaello. Quando lo vide, gli corse incontro e, aperta la lettera, si mise subito in dito l'anello e pareva impazzito dalla felicità. Il padre e la madre, sentendo che quella famiglia abitava in un palazzo grandioso, dissero: - Debbono essere gente nobile. - E la sera, con la carrozza di gala e i lacchè, andarono col figlio a far la conoscenza della sposa. Lo sposo le portò due braccialetti, una collana, un fermaglio ed altre cose belle e preziose. E Maricchia, a fianco alla madre, e seguita dalle sorelle andò incontro aì visitatori fino in cima allo scalone, e poi si diressero nelle sale tutte illuminate a cera e dettero loro un magnifico rinfresco. Quella sera stessa il Cavaliere e Maricchia si scambiarono promessa di matrimonio, e figuriamoci un po' come fossero tutti felici! Dopo che ebbero chiacchierato un pezzo, il Cavaliere disse al padre e alla madre: - Io vorrei che le cose si sbrigassero presto; sapete che le cose lunghe diventan serpi. Lasciamo passar l'Avvento e Carnevale e subito facciamo le nozze. - Bene, bene! - dissero tutti. Maricchia però storse la bocca perchè il termine proposto le parve lungo, ma poi, ripensando che c'era da fare il corredo, si rasserenò e prese a ciarlare come il resto della compagnia, allegra e contenta. Quella sera stessa la balia del Cavaliere, che era rimasta in casa a far da cameriera, andò in camera della signora per ispogliarla, e le disse: - Queste nozze non s'hanno da fare - Che dite, Vincenza! - Dico che non s'hanno da fare, perchè Vostra Signoria non può imparentarsi con gente bassa, salita in grandezze non si sa come. - Badate come parlate, Vincenza. - So quel che dico, e se Vossignoria vuol venire con me domattina, la conduco da persone che le diranno chi era e chi non era donna Paola Ciraulo non più tardi che un mese fa. - La signora non rispose, ma, voltati di qua, rivoltati di là, non dormì mai in tutta la notte, ripensando alle parole della cameriera; però non disse nulla nè al marito nè al figlio. La mattina dopo era pronta presto e usciva insieme con Vincenza. Vanno in una straduccia e bussano a una casuccia. - Chi è? - domanda una voce. - Comare Momina, aprite per cortesia, - dice Vincenza. Comare Momina apre, si scusa di non poter far entrare nella camera perchè il marito e i figli si vestono, e va nella strada, socchiudendo l'uscio. - Comare, la conoscete donna Paola Ciraulo? - E come no! Siamo state vicine vent'anni e più, da quando si maritò con compar Totò buon'anima, che era facchino al porto, fino a che non è diventata signora. - E com'era? - Più poveretta assai di me, perchè rimase vedova con quattro piccine e per isfamarle s'è logorata le braccia e tutti noi qui le abbiamo fatto la carità. - E ora? - Comare Momina si strinse nelle spalle. - Che volete che vi dica, comare mia, la fortuna le è venuta tutt'a un tratto. Ora è una signora, sta in un bel palazzo, e le sue quattro figlie marciano con abiti di seta. Mistero! Mistero! - La signora aveva inteso abbastanza. Fece cenno alla cameriera di salutare la comare e tutte e due se ne andarono: Vincenza tutta lieta, la signora con un diavolo per capello. Arrivò a casa di corsa e tutta trafelata andò dal figlio e gli disse: - Quella ragazza tu non la sposerai, se la madre non confessa come da pezzente è divenuta signora! - Il povero Cavaliere si sentì morire. Egli non voleva dire che i quattrini a donna Paola glieli aveva dati lui, e a Maricchia non voleva rinunziare. - Perchè prestate orecchio alle calunnie? - Non sono calunnie; è la verità che un mese addietro donna Paola stava in una catapecchia ed era una pezzente, dunque? - Avrà rivendicato qualche eredità! - Ma che eredità, se è figlia di poveri, se il marito era facchino del porto, se.... - La signora soffocava dalla rabbia all'idea che suo figlio potesse imparentarsi con certa gente. - Io sposerò Maricchia anche figlia di facchino, anche povera! - disse. In quel mentre capitò il padre, che aveva udito il diverbio, e quando fu informato del motivo di esso, dichiarò anche lui che non voleva assolutamente che si facesse il matrimonio, anzi ordinò al figlio di prepararsi a partire per Palermo ove aveva un vecchio zio, e gli promise che la moglie l'avrebbe trovata più bella di Maricchia e certo di miglior condizione, e senza dargli tempo d'avvertirla, lo fece imbarcare su una nave già pronta e lo spedì via. Torniamo a Maricchia. Aspetta aspetta il Cavaliere, il Cavaliere non si vedeva e Maricchia era nelle smanie. Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, finalmente Maricchia manda la cameriera al palazzo del promesso sposo a prender notizie, e la cameriera fa l'ambasciata a donna Vincenza. - Mi manda la signorina Maricchia a prendere notizie del suo promesso sposo, lo riverisce e gli fa dire che aspetta con impazienza una sua visita. - Risponde donna Vincenza trionfante: - Dite a Maricchia, figlia di Totò il facchino del porto, che il Cavaliere è andato a Palermo a sposare una signora pari suo e che tornerà soltanto con la moglie. -

Pane arabo a merenda

219761
Antonio Ferrara 3 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
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Un giorno è venuta a bussare alla nostra porta. Ero a casa da solo. - Sono venuta a chiederti dove fai la pipì — ha detto con la sua inconfondibile voce nasale. Ho pensato ad uno scherzo. - Nel gabinetto, naturalmente — ho risposto ridendo - e tu? - Non sei forse tu che fai la pipì per le scale? — ha insistito la Nasochiuso. Allora ho capito. Mi è passata la voglia di ridere. L'ho guardata a lungo senza dire niente. Avrà pensato che avevo paura. Ma io volevo risponderle col silenzio. È andata via borbottando, convinta della sua idea. Hanno suonato di nuovo. Questa volta era Maristella, la figlia della signora di prima. - Non mi chiedi cosa sono venuta a fare? — ha domandato. - No, non te lo chiedo. - Peccato, perché ti avrei risposto che sono venuta per chiederti scusa — mi ha detto e poi è rimasta un po' in silenzio — per mia madre, voglio dire! - Shukran — le ho detto sorridendo. - Cosa? - Grazie. In arabo. A questo punto Maristella si è messa a masticare la cicca che aveva in bocca con aria meditabonda. Poi, a sorpresa, mi ha dato un lungo bacio sulla guancia. Io ero terribilmente imbarazzato e avrei voluto dirle di smettere. Però ho pensato a quello che mi dice sempre la mamma: - Non interrompere mai qualcuno che ti stia mostrando affetto — e ho aspettato che finisse. Subito dopo è scappata via ridendo come una matta.

Quando suona i nostri vicini corrono a sentirlo e ognuno gli porta qualcosa da mangiare, da bere o da vestirsi, così ogni volta Aziz se ne va via con un piccolo tesoro. Qualcuno, a volte, gli porta anche qualche nuovo tegame di cui sperimentare il suono, o una vecchia caffetteria da picchiettare, o una caraffa da far tintinnare. Aziz apprezza molto queste piccole sorprese e percuote scrupolosamente, sorridendo, tutto quello che gli passa per le mani. L'ultima volta, a parte i grandi, c'erano venti bambini, che si conoscevano già tutti tra loro.

Nelle curve la borsa si inclina fin quasi a cadere, ma poi miracolosamente resta sempre in equilibrio. A un semaforo rosso mollo la bici sul marciapiede, tiro fuori il fazzoletto e mi piazzo davanti alla macchina, proprio in mezzo alla strada: provo a segnalare all'autista col fazzoletto.