gli dice abbracciandolo, sono lieto di avervi potuto dimostrare la mia riconoscenza, e di essermi potuto sdebitare con voi di ciò che avete fatto altra volta con me». E lo lascia, fermamente convinto di essere oggimai con lui a pari e patta. Quel tale non avrebbe neanco, credo, una ragione di offendersi: il suo fu eroismo: ma egli potrebbe dire per avventura a se stesso «Io ho esposto i miei giorni per.... un bel nulla!». Vi sono, pur troppo, persone a questo mondo, di cui la esistenza non vale la croce.... di un quattrino.
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esclamò Giovanna correndo incontro al Corsaro Nero e abbracciandolo con affetto. "Siete vive, dunque!" esclamò il Corsaro Nero, staccandosi a fatica dal ferreo abbraccio della vecchia e andando a stringere la figlia contro il suo largo petto. "Vive e vegete!" gli rispose fieramente la nonna... "Ed eccomi qui pronta a riprendere personalmente il comando dei pirati. per conquistare la piazzaforte di Maracaibo..." "Ma, nonna!" esclamò il Corsaro Nero, spaventato, ricordandosi della precedente esperienza. "Tu non hai mai frequentato scuole di guerra!" "Non fa nulla..." rispose Giovanna. "In Italia mi ero iscritta alla scuola di guerra per corrispondenza e prima di partire mi era arrivata la prima dispensa, accompagnata da una lettera che non ho avuto ancora il tempo di leggere..." Frugò nella sua capace borsa e ne estrasse una lettera che porse al maggiordomo Battista, dicendogli: "Non trovo i miei occhiali... Leggete un po' questa lettera..." "Gentile signora," lesse il maggiordomo "le invio la prima dispensa delle lezioni di guerra per corrispondenza. Le comunico, però, che, data l'urgenza con la quale me l'ha richiesta dovendo partire, il proto non ha fatto in tempo a correggere le bozze e pertanto vi sono parecchi errori di stampa..." "Non conta" disse Giovanna. "Basta che ci sia indicato come si fa ad assalire una città... Andate avanti..." "Prima lezione, assedio e assalto di una città fortificata..." "Mi sembra che questo sia il nostro caso" commentò Giovanna. "Cosa dice?" "Prima dell'assalto" lesse Battista "disporre tutte le bocche da cuoco in direzione delle principali difese..." "Tutte le bocche da cuoco..." ripeté perplesso alzando la testa dalla dispensa. "Possibile?" "Benissimo!" disse Giovanna decisa. "Quanti cuochi abbiamo qui?" "Ma" rispose il Corsaro Nero imbarazzato. "Un paio, credo..." "E con il mio cuoco indiano e il mio maggiordomo che si arrangia anche a cucinare, fanno quattro... Ehi, voi, venite qua..." Un paio di pirati che erano addetti alle cucine da campo avanzarono titubanti, mentre il maggiordomo Battista spingeva avanti il caraibo che una quindicina di giorni prima aveva tentato di cucinare Nicolino allo spiedo. "Mettetevi qua," ordinò Giovanna "davanti alla porta di Maracaibo e aprite la bocca..." I quattro obbedirono macchinalmente, schierandosi in fila e spalancando le fauci. "Ma nonna!" esclamò il Corsaro Nero "ci deve 8. Giovanna "Mettetevi qua," ordinò Giovanna "davanti alla porta di Maracaibo e aprite la bocca..." essere un errore di stampa! Credo che voglia dire bocche da fuoco!" "Forse hai ragione" disse Giovanna, colta dal dubbio. "Allora, via, cuochi... Portate qui le bocche da fuoco...!" I quattro chiusero la bocca mentre altri corsari agli ordini del Pirata Meno Un Quarto trascinavano dei cannoni. "Ora vediamo cosa dobbiamo fare" disse Giovanna. E rivolta al maggiordomo:"Avanti," comandò "leggete". "Puntate le bocche da fuoco..." cominciò a leggere il maggiordomo Battista. "Avevi ragione tu" disse Giovanna, facendo una carezza al Corsaro Nero. "C'era proprio un errore di stampa..." Quindi, rivolta al maggiordomo: "Andate pure avanti, Battista..." "Puntate le bocche da fuoco e caricatele con la pelle di Pietro..." "Alt!" comandò Giovanna, alzando una mano. "C'è nessuno che si chiami Pietro, qui?" "Io, signora Giovanna" rispose il Pirata Meno Un Quarto. "Il mio nome è Pietro Mendoza..." "Anch'io mi chiamo Pietro" disse il Pirata Col Coperchio... "Pietro Romoletti, ai vostri ordini..." "Benissimo" disse Giovanna. Si rivolse a due indiani ai quali, a forza di calci, aveva insegnato a capire la sua lingua in brevissimo tempo e indicò i due pirati. "Togliete loro la pelle, ma con delicatezza, mi raccomando, in modo che non muoiano..." I due indiani tolsero dalle cinture i loro larghi coltelli e avanzarono sui due pirati terrorizzati. "Ma perché?" esclamò il Pirata Meno Un Quarto, indietreggiando. "Che abbiamo fatto per essere scorticati vivi?" "Su, avanti!" lo incoraggiò Giovanna. "Avete lasciato il vostro occhio su un galeone spagnolo, la vostra mano a Trinidad e la vostra gamba non ricordo dove, potete pure lasciare la vostra pelle a Maracaibo!" "Ma voi siete matta!" rispose il pirata. "Mi sia consentito il dire" disse Battista "che forse qui avrebbe dovuto essere scritto a palle di pietra, signora contessa..." "Pensi?" domandò Giovanna, in tono dubbioso. "Ma certo!" si affrettò a confermare il Corsaro Nero. "E allora" domandò Giovanna "portate le palle di pietra, presto!" Arrivò il pirata Catenaccio, di corsa. "Comandante!" gridò rivolto al Corsaro Nero. "I nemici stanno aprendo la porta della città e si preparano a fare una sortita in forze!" "Signori corsari!" tuonò il Corsaro Nero, balzando su un macigno. "Serrate le file!" "Un momento" lo interruppe Giovanna. "Fino a nuovo ordine comando io!" Quindi, rivolta al maggiordomo Battista: "Cosa dice la dispensa?" Il maggiordomo lesse sulla dispensa: "In caso di sortita del nemico caricate le colubrine a gallinacci!" "Alt!" comandò Giovanna. Si guardò intorno, perplessa. "Non vedo nessun gallinaccio da queste parti" osservò. "Gallinacci?" esclamò il Corsaro Nero, abbrutito. "Sì, tacchini... Eppure siamo in America, loro terra di origine..." Giovanna si rivolse agli uomini presenti, con autorità. "Andate a cercare dei tacchini selvatici nella foresta" comandò. "Subito, contessa" si affrettò a rispondere il pirata Catenaccio. E si allontanò seguito da altri verso la foresta emettendo il verso che le massaie fanno abitualmente quando vogliono richiamare intorno a sé il pollame: "Billi, billi, billi, billi!" "Ma nonna, che cosa hai fatto?" esclamò il Corsaro Nero. "Hai allontanato i migliori dei miei pirati! Come faremo ora ad affrontare il nemico che sta per effettuare una sortita?" "Senza gallinacci non si può far niente" rispose ostinatamente Giovanna. "Ma non ci sarà stato scritto 'pallinacci', per caso?" esclamò il Corsaro Nero colpito da un'improvvisa illuminazione. Il maggiordomo Battista guardò sulla pagina della dispensa. "Infatti" constatò. "Qui appresso dice: Sparate i pallinacci quando il nemico è vicino... La mitraglia li fermerà..." "Il nemico è vicino, vicinissimo" esclamò il Corsaro Nero. "È già uscito dalla città e ci sta circondando." "E poi che dice?" domandò Giovanna, senza badargli, rivolta al maggiordomo. "Se il nemico vi sta circondando, stringete le pile formando un quadrato..." "Un momento... Dove sono le pile?..." "Le file, nonna, le file..." ruggì il Corsaro Nero, strappandosi i capelli. "Può darsi..." ammise a malincuore la nonna. "Formate un quadrato!" comandò ai pirati rimasti, con voce stentorea, mentre i nemici si avvicinavano sempre più e i pirati si disponevano in quadrato urtandosi fra loro per la confusione. "E poi che cosa dice?" "Sperate soltanto quando i nemici vi sono vicini..." "Vedete?" esclamò la vecchia trionfante. "Dice che se anche sono vicini, si può sperare nella vittoria..." "Sparate, non sperate!" singhiozzò il Corsaro Nero. E rivolto ai pirati: "Fuoco!" gridò. "Che aspettate a far fuoco! Gli spagnoli ci sono addosso." I pirati disorientati sparacchiarono a casaccio qualche colpo con i loro archibugi, mentre Giovanna, avendo ritrovato gli occhiali, strappava la dispensa dalle mani del maggiordomo, e lanciatavi una rapida occhiata, tuonava: "Sporgete le pance!" "Ma che diavolo dici?" ringhiò il Corsaro Nero esasperato. "Qui c'è scritto che quando il nemico viene addosso bisogna accoglierlo sulla punta delle pance..." "Delle lance!" urlò il Corsaro Nero che era divenuto viola dalla rabbia e che se la cosa fosse continuata ancora sarebbe diventato ultravioletto e quindi invisibile. "Ma è troppo tardi, non ci resta che ritirarci!" "L'ordine di ritirata è..." Giovanna aguzzò gli occhi sulle righe della dispensa, poi si rivolse ai pirati con voce tonante: "Etaoin, etaoin... przorhfgetdreirorororororofgfg... etaoin, etaoin, etaoin..." gridò con tutto il fiato che aveva in gola. "Nonna, non stai gridando un ordine di ritirata, stai gridando un refuso tipografico" blaterò il Corsaro Nero strappandole la dispensa dalle mani e facendola in mille pezzi. E, decidendosi finalmente a prendere lui il comando: "Ripiegare!" comandò. "Signori uomini del mare, ripiegare..." Ma non c'era bisogno che urlasse in quel modo perché i pirati già correvano disordinatamente verso la foresta, incalzati dagli spagnoli vittoriosi.
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Quando il figlio comparve, un poco pallido in viso per la lunga permanenza nella semioscurità e ....legato ai ceppi.... per la commozione che lo dominava, il comandante gli si avvicinò e, abbracciandolo, gli disse: - Alvise, da vero soldato tu hai subito la tua pena, e ora fai parte della nostra comunità. Hai lasciato la tua vecchia nonna, la tua casa, per venire a combattere contro i nemici della nostra fede, e mi auguro che tu possa tenere sempre alto il nome dei Benedetti. Ti nomino fino da questo istante marinaro della Serenissima e ti benedico, figlio mio. - Chi poteva ridire la felicità e l'orgoglio che inondarono il cuore di Alvise? Lì, ritto sul ponte, guardava garrire contro il sole il vessillo argenteo e porporino di Sebastiano Veniero. La Santa Cattarina procedeva lenta e maestosa nella scia della capitana, e tutto intorno le altre galee navigavano a uguale distanza l'una dall'altra: con le bianche vele gonfiate dalla brezza, che veniva da nord-ovest, sembravano immensi gabbiani adagiati mollemente sulle onde leggiadre. La testa scoperta sotto il sole di luglio, i ricciuti capelli neri accarezzati dal vento che era passato sui fioriti giardini delle spiagge italiche, il bel viso illuminato dagli occhi ardenti sotto le folte ciglia, Alvise andava da un capo all'altro della galea, osservava tutto e a tutti dava aiuto. Ma ciò che più di ogni altra cosa entusiasmava il giovane erano le lezioni nautiche di suo padre. Zuambattista Benedetti, che vedeva riflessa nel figlio, e quasi ingigantita, la passione dei suoi anni giovanili, non tralasciava occasione per istruirlo nei sottili, accorgimenti ai quali, in mille circostanze, deve ricorrere un abile comandante. Alvise faceva tesoro di quegli insegnamenti, e si può dire che, di ora in ora, la sua mente si arricchiva di cognizioni utili per gli anni a venire. Il 23 luglio, la squadra veneziana giungeva in vista di Messina. Subito, tra il rombo incessante delle artiglierie, le navi pontificie pavesate a festa mossero loro incontro e si unirono alle navi venete per tornare insieme nel porto. Le galee di san Marco si attraccarono lentamente nella baia, dove le onde erano rade e calme, e i gabbiani che le avevano seguite da un approdo all'altro volteggiavano loro intorno con larghi voli concentrici. Una barca venne ad affiancarsi alla scaletta della nave capitana e il condottiero della squadra pontificia, seguito da Michele Bonelli, nipote del Papa, da monsignor Paolo Odescalchi, nunzio pontificio, e da Onorato Caetani, generale della fanteria romana, salirono per salutare e festeggiare l'ammiraglio di Venezia. Nei giorni che seguirono si fecero grandi feste e conviti a bordo delle due capitane di Roma e di Venezia, poi, calmato l'entusiasmo, incominciò la lunga attesa. Di quella forzata ma ingloriosa ignavia approfittarono le armate turche che presero a scorrazzare col ferro e col fuoco per terra e per mare e giunsero fin quasi a Venezia. Candia ridente venne devastata, Corfù fu danneggiata, Gerico, Zante e Cefalonia caddero nelle Alvise.... osservava tutto e a tutti dava aiuto. mani del Turco rapace. Il castello di Sopotò, valorosamente conquistato un giorno dal Veniero, fu ricuperato dai Turchi dopo un violentissimo assalto. Penetrati nell'Adriatico, saccheggiarono Dulcigno, Antivari, Curzola, Lesina, e misero a fuoco Budua e molti altri castelli. Le notizie di tante sciagure infiammavano d'ira e di dolore Sebastiano Veniero. Egli deplorava quel tempo inutilmente perduto, e avrebbe voluto muoversi, correre con le sue galee veloci dove il pericolo era maggiore, arrischiare qualche impresa disperata, pur di frenare quella tremenda corsa alla conquista. Solamente l'autorità e la prudenza di Marc'Antonio Colonna, ammiraglio delle navi papali, riuscivano a contenere l'impeto del vecchio condottiero veneto. Anche sulla Santa Cattarina, vivevano di riflesso indomito, della capitana. Zuambattista Benedetti e suo figlio Alvise agognavano di misurarsi con gli infedeli; ma anch'essi, come il Veniero, dovevano mordere il freno. Frattanto, però, non perdevano il loro tempo e Alvise acquistava sempre maggiore abilità nel comando della galea. Padre e figlio scendevano spesso a terra e gironzolavano per i dintorni di Messina, tra le viuzze dell'orto e lungo le fiorite rive del mare che s'increspava sotto l'infocato riverbero del sole estivo. L'aria era satura dell'olezzo delle zagare, e dalle argentee chiome degli ulivi scendeva una fresca brezza a mitigare la grande calura. Il cielo e il mare apparivano di un verdazzurro stupendo. Nelle prime ore del giorno l'atmosfera era così cristallina da lasciare scorgere, in lontananza i contorni delle isole Lipari. Alvise, abituato ai delicati riflessi della laguna veneta, si sentiva stordito in tanta festa di colori e di effluvi che preludevano a quelli più violenti e intensi dei mari di Levante. E verso il crepuscolo, quando la cortina bruna della notte cominciava a stendersi su tutta quella esultanza di vita, la nostalgia dei suoi canali perlacci e dei suoi campieli silenziosi gli pungeva il cuore. Allora, nascondendo il capo sotto le coltri della sua cuccetta, si stringeva al cuore l'azzurra bandiera con il leone di san. Marco e attendeva a lungo il sonno.
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Disse qualche parola ad Ashley e stupí il suo bimbo abbracciandolo stretto e baciandolo con passione sui riccioli biondi. Uscí senza cappello, tenendo ancora stretto il tovagliolo, e camminando cosí in fretta che Mammy stentò a seguirla. Giunta nel vestibolo di Rossella, fece un breve cenno di saluto alle persone raccolte nello studio, alla spaventata Pittypat, alla rigida signora Butler, a Will e a Súsele. Salí rapidamente le scale seguita da Mammy ansimante. Per un attimo si fermò dinanzi alla porta chiusa di Rossella, ma Mammy sussurrò: - No, non fare questo. Di faccia alla porta di Rhett rimase un momento indecisa. Poi, irrigidendosi come un soldatino che affronta la battaglia, bussò piano e disse con la sua dolce voce: - Fatemi entrare, per favore, capitano Butler. Sono la signora Wilkes. Desidero vedere Diletta. La porta si aperse subito e Mammy, indietreggiando nell'ombra del pianerottolo, vide la grande e scura figura di Rhett contro la luce gialla delle candele. Vacillava ed emanava un forte odore di whisky. Guardò per un attimo Melly, poi, prendendola per un braccio, la trasse in camera e chiuse l'uscio. Mammy si lasciò piombare su una sedia accanto alla porta. E rimase lí pregando e piangendo silenziosamente. Ogni tanto sollevava un lembo della gonna per asciugarsi gli occhi. Per quanto tendesse l'orecchio, dalla camera non le giungeva alcuna parola distinta, ma solo un mormorio interrotto. Dopo un'attesa interminabile la porta si riaperse; apparve il volto di Melly pallido e sconvolto. - Portami del caffè, presto, e dei sandwiches. In caso di bisogno Mammy sapeva ancora essere svelta, e la sua curiosità di poter dare un'occhiata alla stanza di Rhett la rese anche piú sollecita. Ma la sua speranza fu delusa, perché Melly aperse soltanto uno spiraglio per prendere il vassoio. Per un pezzo Mammy tese ancora l'orecchio, ma udí soltanto l'acciottolio delle stoviglie e dell'argenteria e la voce sommessa di Melania. Poi udí scricchiolare il letto come se un corpo pesante vi fosse caduto sopra, e subito dopo il rumore di scarpe che cadevano a terra. Dopo un intervallo Melania riapparve sulla soglia, ma Mammy non riuscí a gettare un'occhiata nella stanza. Melly sembrava stanca e le sue ciglia erano bagnate di lagrime, ma il suo volto era sereno. - Vai a dire a miss Rossella che il capitano Butler è d'accordo che il funerale abbia luogo domattina - sussurrò. - Dio benedetto! - esclamò Mammy. - Come diamine... - Non parlare tanto forte. Si sta addormentando. Dirai anche a miss Rossella che io rimango qui stanotte; e portami del caffè. Portamelo qui. - In questa camera? - Sí; ho promesso al capitano Butler che se va a dormire io rimarrò qui tutta la notte a vegliare. Vai ad avvertire miss Rossella perché non sia piú preoccupata. Mammy si avviò facendo tremare il pavimento sotto il suo peso; nell'interno del suo cuore, cantava: «Alleluja, Alleluja!» Si fermò a riflettere dinanzi all'uscio di Rossella, con lo spirito pieno di gratitudine e di curiosità. «Chi sa come avere fatto miss Melly. Certo Angeli avere combattuto con lei. Io dire a miss Rossella che funerale essere domani, ma credo meglio non dire che miss Melly vegliare piccola badroncina. Forse a miss Rossella non fare piacere.»
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(andando verso il padre e abbracciandolo)
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(abbracciandolo)
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(abbracciandolo ancora)
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(abbracciandolo)
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- esclamò colui, abbracciandolo; come le ne sarei grato!... - E se lei crede che due righi potrebbero esserle utili presso la signora di Prato... - Ella è la bontà in persona, ed io le sono devotissimo anima e corpo. Senza aspettare che il suo interlocutore fornisse il compito dei suoi enfatici ringraziamenti Pietro si appressò al tavolino da albums, aprì una cartella che conteneva foglietti da lettere, e scrisse: «Un'uomo che ha molto a farsi perdonare dalla signora contessa di Prato, sarebbe fortunatissimo ove ella volesse indicargli un'ora della giornata in cui potesse venire ad implorare questo perdono ai suoi piedi». Piegò il foglio e fece mostra di rimetterlo così aperto all'amico della Prato. - Non occorre di suggellarlo, se lei avrà la bontà di recapitarlo personalmente alla signora contessa. - Anzi! anzi!... suggelli, suggelli pure! Voglio fingere di non sapere di che si tratti... Quest'attestato del quale sembrerò non essere informato, mi gioverà molto presso la mia cara contessa. Ella sarà contentissima di me... poichè... capisce... ella ha molta bontà per me... non dico per vantarmi... - Non perda tempo adunque. - Replicò Brusio, spingendolo verso la porta. - Un altro abbraccio, amico carissimo, un altro abbraccio. Lei troverà sempre in me un uomo tutto suo, un amico vero e riconoscente sino alla morte. Tratti d'amicizia come i suoi, che non si fanno aspettare... che vengono da sè... non si dimenticano... Poichè ella ha avuto la gentilezza d'indovinare... che io per quella cara Narcisa... capisce?!... - Addio, caro signore. - Oh, come mi sarà grata la contessa! come creperanno d'invidia quegli altri giovanotti, quell'ufficialetto di cavalleria pel primo!... Addio, caro amico. Uscì a ritroso, inchinandosi; e Pietro, lasciando cadere la portiera dietro di lui, non potè fare a meno di ridere della trista figura che la sciocca presunzione faceva fare a quel seduttore di 58 anni. A mezzogiorno il conte rientrò in casa e domandò della moglie. - La signora contessa è uscita in carrozza; - rispose il suo cameriere. - Uscita diggià! - esclamò il conte con qualche sorpresa. - Ed ha lasciato pel signore questo biglietto. Il conte non dissimulò un movimento di collera, ed esitando ad aprire la lettera, disse bruscamente al domestico: - Va bene! lasciatemi. Il biglietto di Narcisa era semplicissimo: «Lascio questa casa perchè sento che è impossibile rimanere uniti più oltre. - Sento troppo altamente i motivi che mi spingono a tal passo per nasconderlo - Non mi cercate adunque: sarebbe inutile - Vi so troppo ricco e troppo generoso per supporre che possiate far conto della mia dote: vi prego quindi di passare, su questa, 8 o 9 mila lire all'anno al mio incaricato d'affari a Torino, signor Treveri. Credo che basteranno». Era quanto vi ha di incisivo nell'ardire portato all'audacia, nella franchezza spinta sino al cinismo della donna volubile e galante, appassionata ed impetuosa. Quasi nell'ora istessa un elegante calesse si fermava dinanzi il portone di una graziosa casa a due piani nella Strada Nuova. Un palafreniere, che serviva anche da portinaio, venne ad aprire alla signora abbigliata con distinzione, che era discesa dal calesse, e le additò una scala a sinistra, della quale gli scalini di marmo erano fiancheggiati di vasi di fiori. In fondo alla corte, legati alle sbarre di un cancello che chiudeva un giardino di piacevolissimo aspetto, scalpitavano tre bellissimi cavalli inglesi. Nell'anticamera, ad un domestico che incontrò, la donna domandò se il signor Pietro Brusio era in casa. - Sì, signora; ma non è visibile, poichè è nel suo gabinetto di lavoro. - Ditegli che c'è una signora che desidera parlargli. - Domando scusa, signora; ma la prego di avere la bontà di ripassare verso le sei, o di lasciare il suo biglietto; poichè quando è nel suo gabinetto il signore non vuol essere disturbato assolutamente. - Fategli tenere questo biglietto in tal caso; - insistè la signora con una lieve tinta d'impazienza, prendendo da un elegante porta-biglietti una carta di visita e piegandola: - ditegli che aspetto. Non vi sgriderà certamente per questo. Il tuono di sicurezza e di superiorità con cui parlava la bella signora, vinsero le esitazioni del cameriere, che si decise a fare quanto ella diceva. - Si dia l'incomodo di seguirmi in sala, - diss'egli sollevando la portiera di un uscio; - il signore ci sarà a momenti. Per giungere al salotto si attraversava una piccola serra a cristalli, che occupava uno dei lati di una terrazza assai vasta, della quale s'era fatto un giardino pensile, sporgente su quella spiaggia incantata della Marinella che ha il bel golfo di Napoli per orizzonte, e in fondo Capri e Sorrento. Quella specie di stufa, dove vegetavano le più belle piante esotiche, circoscriveva come in una atmosfera separata dalla città clamorosa, il salotto ed il gabinetto da studio che vi era contiguo. I rumori esterni sembravano estinguersi sulla sabbia finissima del viale, come il più lieve alitare di vento moriva sulle grandi foglie di quelle piante immobili nelle loro masse svariate. Il salotto era addobbato con lusso; ma quel pensiero tutto originale che avea disposto lo stanzone dei fiori prima di giungervi, e il giardino sulla terrazza, sembrava aver presieduto nei minimi dettagli alla situazione di tutti gli oggetti che lo decoravano. Le porte vetrate, che si aprivano sulla terrazza, erano nascoste, alla lettera, da persiane di pianticelle rampicanti; ciò che unito alle pitture dei vetri, e alle doppie tende di raso e di velo faceva penetrare soltanto nella sala quella mezzaluce, che, col lasciare indistinte le forme degli oggetti, vi crea mille nuove immagini, e ne popola la semi-oscurità di quei mille sogni incantati, di quelle sfumature voluttuose che tanto piacciono alle signore galanti; il passo si arrestava sui tappeti vellutati, come se temesse di destare un eco che potesse strappare dalla deliziosa preoccupazione che faceva nascere quell'atmosfera. Il cameriere scomparve senza far rumore per uno degli usci dirimpetto, nascosto dalla stessa tenda di raso celeste. La signora si sprofondò in una delle poltroncine che erano vicine ad un elegante tavolino da albums, piccolocapolavoro nel suo genere; subendo anch'essa, senza accorgersene, il fascino che esercitava sui sensi quel luogoo ricco di dorature, di sete, di specchi e di profumi: fascino al quale forse ella era disposta. Poco dopo la tenda si aperse, e comparve un uomo, vestito del rigoroso abito nero, come se volesse dare a divedere di apprezzare tutto il valore della visita che riceveva; ancora pallido, ma di quel pallore che ci fa brillare gli occhi, quando la gioia troppo potente della felicità sembra chiamare al cuore tutto il sangue. Una benda di seta gli teneva al collo il braccio sinistro. Un momento però egli sembrò ondeggiare indeciso, mentre fissava i suoi occhi scintillanti su quel corpo da fata (che accennava appena le sue seduzioni sotto le linee quasi vaporose delle vesti, voluttuosamente disteso sulla poltroncina) e su quegli occhi che lo fissavano del loro sguardo piú bello, mentre il sorriso più dolce errava sui labbri di lei. Come se avesse temuto di rompere l'incanto di quel sogno troppo bello per lui, esclamò, quasi impaziente, verso un testimonio che gli stava vicino, ma che però non si vedeva: - Non ci sono per nessuno. Quando vi voglio suonerò. Andate. Non si udì sul tappeto, molto spesso, il passo del cameriere che si allontanava. Pietro si avanzò lentamente verso la dama, come se avesse voluto assaporarne con una voluttuosa economia d'analisi, tutte le emanazioni inebbrianti. Ella, nella sua positura da sirena, lo fissava sempre senza parlare. Il giovane non pensava neanche a proferire la più semplice formola di civiltà. Una parola sola le irruppe spontanea: - Lei!... lei, signora!... da me! - Che c'è di strano? - rispose ella con un indefinibile sorriso. - Non ha ella rischiata la vita per me, perchè io venga a rischiare quelli che il mondo chiama riguardi per lei?... Gli stese la destra, dopo essersi tolto il guanto; egli esitò a prendere quella mano, che forse, per fargli provare in tutta l'intensità il brivido del suo contatto, gli si metteva nuda fra le sue. - Ho ricevuto il suo biglietto dal signor Briollii. Se lei ha molto a farsi perdonare, io ho molto a ringraziarla... Ho verso di lei uno di quei doveri di gratitudine dinanzi a cui le convenienze sociali scompaiono; e son venuta a ringraziarla, signore, della sua azione sì nobile, sì generosa sino al sacrificio!... Invece di rispondere, Pietro seguitava ad ammirare, come si fa di un oggetto prezioso, quella manina bianca ed affilata che si teneva fra le sue senza osare di stringerla, come se temesse di farne appassire la delicata bellezza. - E questa ferita!... Dio mio!... continuò la contessa commossa vivamente. - Nulla... una scalfittura. Narcisa si avvide forse allora della tacita ammirazione con cui il giovane si teneva quella mano sulle palme, e, arrossendo impercettibilmente, fece un movimento per ritirarla. - Oh! la lasci!... - mormorò egli come un fanciullo che parli in un sogno delizioso. - È così bella!... La contessa, ancor più rossa di prima, ma sorridendo cogli occhi e le labbra del suo sorriso inebbriante, con un movimento rapidissimo e quasi istintivo di grazia squisita, o di sopraffina civetteria, gli porse l'altra, lasciandole in quelle di lui e guardandolo fisso negli occhi. Pietro volle baciare quelle mani da fata; ma gli parve un peccato, come gli era sembrato lo stringerle, di sfiorare coi suoi labbri quella pelle rasata. Dopo un momento di silenzio la contessa riprese: - Uno dei testimoni di mio marito, il signor Briolli mi ha fatto conoscere tutta la generosità della sua condotta... Se io avessi potuto sospettare che alla mia preghiera ella doveva rispondere con tal sacrificio, io avrei inorridito di avanzarla... come ora ho rimorso... - Non mi parli di ciò! - interruppe quasi brusco il giovane, come se avesse temuto di destarsi. - Noi abbiamo torti reciproci, - aggiunse Narcisa col suo sorriso ammaliatore; - siamo franchi in tal caso dall'una parte e dall'altra per poterceli perdonare scambievolmente... - Reciproci torti? - interruppe Pietro come trasognato. - I miei saranno più gravi; - rispose Narcisa, - ma ho la buona fede di confessarli e la risoluzione di espiarli... E voi? - Io non me ne trovo che uno!... ma sì grande... che io non oso rammentarlo senza arrossire in faccia a voi... - Confessatelo allora; forse vi verrà perdonato. - Contessa!... - È molto grave adunque perchè non abbiate il coraggio di questa confessione? - Le vostre parole me lo danno; io ho commesso l'indegnità d'insultarvi rimandandovi il mazzo e l'anello, e poco fa anche il biglietto... - Avete avuto torto nell'ultimo caso, non l'avevate nel primo... - Perchè? - Perchè nel primo caso quello che a voi pare colpa, mi provava piuttosto... - Narcisa!... - Che voi... - Che io vi amo come un pazzo!... come un uomo che non è più conscio di quello che fa, poichè voi gli avete tolto la mente e la ragione, Narcisa!... Così dicendo Pietro divorava coi baci quelle mani che si teneva fra le sue. - Ora che la vostra confessione è fatta, - diss'ella, non rispondendo direttamente, - veniamo alla mia. Pietro si accosciò sul tappeto ai piedi della contessa, tenendo sempre le sue mani. - Vi scrissi di aver conosciuto a Catania un giovanetto generoso sino al sacrifizio, nobile sino all'eroismo... Perdonatemi, non m'interrompete. Allora non sapevo chi fosse, non conoscevo che un giovane come se ne veggono tanti, inferiore fors'anche a quei giovani eleganti che mi facevano la corte. Anch'esso mi faceva la corte alla sua maniera, come la fanno i provinciali e gli adolescenti... Guardai qualche voltai costui che incontravo sempre sui miei passi in istrada, sulla porta del Teatro, uscendo e rientrando in casa... Qualche volta, quando paragonavo il suo stato a quello di coloro che mi amavano come lui ma che potevano dirmelo o almeno provarmelo, aspirare almeno ad un mio sorriso, ad una mia parola... mentre costui doveva sacrificarsi giorni e notti intiere per vedermi scendere da carrozza o per passarmi d'accanto al ritorno di un ballo ebbi un momento di curiosità, ed anche di riconoscenza sì lontana da sfumare nella compassione, per questo giovane che mi amava in tal modo, e mi amava senza speranza... Poi, non ci pensai più... - Poco tempo fa lo rividi in una festa: - riprese la contessa: - era l'uomo in voga; l'alta società avea per lui le più squisite cortesie, le donne più belle e più nobili gli sorridevano... Un vero trionfo! lo ammirai quella fronte larga e pallida, e mi sembrò di scorgervi qualche cosa di nobile che non vi avevo prima notato; mi parve di leggere un mondo intiero nei suoi occhi, sebbene alquanto malinconici. Lo sguardo ch'egli mi volse mi fece pensare al giovanetto sconosciuto... e provai una viva commozione a quel pensiero: C'era trionfo ed orgoglio soltanto in quel punto. Oh! io sono schietta, signore, per farmi credere quello che ho da dire in seguito. Quest'uomo avea fatto un miracolo pel mio amore - un miracolo di genio... lo l'ho veduto in quell'opera, come egli non ha veduto che me creandola, prendermi la mano, sorridendo del suo triste sorriso, e farmi passare in rassegna il suo cuore coi suoi palpiti, le sue speranze e le sue lagrime... e trasportarmi ai giorni delle vaghe aspirazioni e dei sogni ineffabili. Poi mi ha fatto piangere del suo pianto disperato a quelli spasimanti di passione... e si è arrestato anelante, spossato, colle braccia stese, nel punto in cui sentiva sfuggirsi questo fantasma a cui incatenava la sua esistenza... Oh, in quel momento, signore... s'io avessi veduto dinanzi a me quest'uomo, come l'ho veduto nel suo sogno, nel suo dramma... gli avrei stese le braccia ad incontrare le sue... - Narcisa!... - mormorò soffocato Brusio, sollevandosi sino ad inginocchiarsi. - Qualche volta, quando penso a quest'amore sì ardente e sì immenso che non avrei saputo immaginare, se non l'avessi ispirato, io che ho sorriso e folleggiato fra le ancor più folli proteste di mille galanti, io stordita da quest'incenso d'adulazioni e di corteggio che gli uomini più eleganti, più ricchi e nobili si affollano a bruciarmi ai piedi... io ho un movimento d'incerto terrore;... mi pare che debba essere terribile, divorante questa passione quando è giunta a tal grado;... mi pare ch'essa debba assorbire la vita in un bacio di fuoco.. ma in un bacio di tale ebbrezza da sembrare troppo piccolo compenso la vita, e troppo corti i giorni per avvelenarsene... - Narcisa!!... - ripetè Pietro colle lagrime agli occhi, prendendole le mani con violenza, mentre avea ascoltato sin allora cogli occhi spalancati e fissi, come pazzo di felicità, e coi gomiti appoggiati sulle ginocchia di lei. La fata si curvò mollemente verso di lui, e gli posò le braccia sullo spalle... poi lo sollevò lentamente, con quell'abbandono inimitabile e seducente che le era particolare; e guardandolo sempre col suo sorriso da sirena gli susurrò, quasi sulle labbra, colla sua voce più bella e più carezzevole: - Son venuta a vedere il tuo gabinetto da studio... Pietro... Quel soffio passò come un vento ghiacciato sul sudore che inondava la fronte di lui, che, impotente a più contenersi, la sollevò, prendendola fra le braccia, come un caro fanciullo, e la divorò dei baci, singhiozzando in un sublime delirio: - Tu sei il mio Dio! ed io non avrò mai forza per amarti come vorrei!!!... La portiera ricadde ondeggiante dietro di loro. Pochi giorni dopo, verso il tramonto, due giovani che s'avvincevano colle braccia allacciate, come le rampicanti che coprivano i fusti dei grandi alberi del giardino pensile, appoggiati alla ringhiera di pietra della terrazza, guardavano il sole che tramontava dietro quel mare azzurro che si stendeva immenso ai loro piedi ed ove si specchiavano Ischia e Procida. Narcisa teneva appoggiata la testa sulla spalla di Pietro, e di quando in quando si aggrappava al collo di lui colle sue candide braccia per passare i suoi labbri sulla fronte e gli occhi di lui con mille baci muti della sua bocca tremante che ne formavano un solo. - Che vita!... mio Dio! che vita!!... - mormorava ella soltanto qualche volta. - Eppure, mio dolce angioletto, quando io bacio questa tua fronte, e mi premo fra le labbra questi capelli, e ti chiudo gli occhi colle mie mani, e mi sento fremere fra le braccia questo tuo corpo da fata... io non credo, no... malgrado che io chiuda gli occhi, malgrado che io torturi disperatamente il mio cervello, per crederlo, che ciò che io provo di sì immenso, di sì convulso, di sì spasimante nella voluttà del piacere, nel delirio del godimento, mi viene da te;... che tutto ciò non è uno splendido sogno della mia fantasia, come ti sognai nel mio dramma... e ti sognai delirante, stringendomi la testa infuocata fra le mani, premendomi il cuore che sembrava scoppiarmi, seduto sul marciapiede di faccia ai tuoi veroni!... No... io non posso credere che quella donna che incontravo al passeggio, al braccio di un altr'uomo, fra l'ammirazione di quanti la vedevano, facendo palpitare il mio cuore col fruscio del suo strascico sulle vie;... che quella donna che vidi al Teatro; che mi passò da presso senza guardarmi; che seguii come un fanciullo, come un cane;... che non mi stancai a vedere dalla strada, per due mesi intieri, sotto la sua casa, ascoltando il minimo rumore che mi venisse da lei, che mi accennasse la sua presenza facendomi trasalire;... che quella donna che proferì quelle parole... quella notte... dal verone;... che mi torturò il cuore colle note strillanti del suo valtzer, quando mi parve che il mio cuore fosse rotto;... che quella donna ch'io non osavo avvicinare per non rompere il cerchio luminoso che la circondava d'aureola, per non rapirle un atomo di quella atmosfera profumata della quale si circondava, che faceva il suo prestigio;... che quella donna che adorai infine come un pazzo, spaventandomi di adorarla in tal modo, è mia!... mi ama!... mi è fra le braccia!!... che io posso chiamarla ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni minuto;... che io ad ogni ora, ad ogni minuto posso udire quella voce che proferì: quell'uomo è pazzo: che mi dice che m'ama!... che io posso ad ogni ora, ad ogni minuto vivere la sua vita e suggergliela coi baci dalle labbra... Oh, no! Narcisa... per credere a ciò bisogna che noi ritorniamo a Catania, che noi abitiamo quella stessa casa, che io guardai con più venerazione della casa di Dio; che io respiri l'aria istessa di quelle camere; che mi metta a quel verone, con te, al posto che occupavi seduta sulla poltrona; e che io ti legga, seduto accanto alle tue ginocchia, come quell'uomo... Bisogna che mi metta con te, di notte, a quell'ora, a quel verone; e che tu ripeta quelle parole infami che io annegherei sulle tue labbra coi miei baci; bisogna che le tue mani ripetano su quel pianoforte le note di quel valtzer che m'inseguirono spietatamente quando fuggivo delirante come se fuggissi il cuore che sanguinava dirotto; bisogna che io mi segga su quel marciapiede, colla fronte fra le mani, come allora; e che io ascolti lo stormire di quegli alberi, il suono di quell'orologio, il murmure lontano di quel mare, il fruscio della tua veste;... e che io vegga il lume che rischiara la tua camera;... e che la tua voce sopratutto, la tua voce inebbriante, mi ripeta ad ogni ora, ad ogni minuto, che quello non è un sogno, che io non son pazzo;... e che i tuoi labbri, posandosi sulla mia fronte, mi scaccino questo turbine affannoso che mi sconvolge la mente, che mi fa dubitare della mia felicità... - Andiamo a Catania! - mormorò Narcisa, dandogli un lungo bacio e bagnandogli la fronte di due lagrime di voluttà.
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. - rispose la madre abbracciandolo. Io non temo che tu ne possa abusare, poichè sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a me... - e la povera donna sospirava tentando di sorridere, - in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure... - Grazie, grazie, buona madre!... - esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava. Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava sin alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera malaticcia. Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o aI teatro dove la vedeva splendente di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che reca la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo piú oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscìo della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a se. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto a guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lestamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggiero di lei che saliva le scale accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva: udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuor del povero giovane. - Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!... Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con un'espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer, e faceva piangere con quelle del melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi di un trasparente vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. - Perdio! - disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, - non mi leverò mai d'addosso quest'accidente! Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso. - Che dite? - rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. - Parlo di quell'importuno che stà a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi... La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: - E che ci ho da fare io se quest'uomo è pazzo?... Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto; sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte; coi denti sbattentisi di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui e dal sinistro splendore dei sui occhi ardenti. Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. - Questa donna ha ragione! - momorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: - io son pazzo!... son pazzo!... sono stato vile anche!... E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: - Addio, signora!... Addio! Camminò tentoni barcollando come un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo. - Oh! questo valtzer! questo valtzer! - gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, - Dio! ... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!... E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come una invocazione disperata: - Narcisa!... Narcisa!... - E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quell vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perchè odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda della istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia, che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altravolta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo, coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissazione. Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorchè sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorchè sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorchè, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta della sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.
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abbracciandolo, piangendo.
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