Così rimangono abbozzati i confini indeterminati di uno dei sentimenti più misteriosi, ch'io definirei volentieri rispetto fisico di noi stessi.
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Avendo avuto, per dodici anni, la direzione d'un giornale per la giovinezza, mi è spessissimo capitato di ricevere da parecchie scrittrici, dei lavori a pena abbozzati, buttati là in fretta. « Se il lavoro è accettato - scrivevano le signore - correggeremo e amplieremo su le bozze a suo tempo.» Il lavoro non era mai accettato; perchè di solito, chi scrive in modo degno di essere letto, scrive con coscienza, con riflessione, quindi bene e chiaro e preciso. E chi fa troppo a fidanza con le proprie forze, facilmente si illude e difficilmente offre cose possibili. Ma quei manoscritti mi facevano allora e mi fanno ancora pensare, al non piccolo lavorìo, fastidio e spesa e perdita di tempo, che devono necessariamente procurare al tipografo. Il lavoro viene rifatto quasi completamente su le bozze; non bastano i margini; ci vogliono aggiunte sopra aggiunte; ciò che genera confusione, sì che le seconde e le terze bozze non riescono corrette, e bisogna ripetere le prove magari cinque o sei volte. Il tipografo si inquieta, prega, protesta, anche nell'interesse dell'editore, che deve pagare in più, aggiunte e soppressioni. L'autrice stessa si inquieta e resta spesso con l'incresciosità di chi si rimprovera un errore commesso; l'errore di non avere presentato un manoscritto possibile. La scrittrice ha dunque il dovere di non portare la confusione nelle tipografie; di non troppo abusare della tolleranza e della pazienza di chi stampa le cose sue; di non obbligare a rifare le prove parecchie volte di seguito; in fine di presentare a l'editore e quindi al tipografo, un manoscritto completo, chiaro, che comprenda tutto quello che voleva descrivere, o dire, o raccontare.
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