Bevve una coppa del vino dolcissimo che sempre abbondava, con altre leccornie, sulla mensa, e si stese a dormire con un respiro simile al rantolo. Smaniò per qualche minuto, sudando, cercando aria e frescura. Nel buio si tolse ogni indumento. In faticosi sussulti, che lentamente si fecero meno ampi e dolenti, si addormentò. Sognò terribilmente. Era il Sultano: non Maometto Secondo ma un Sultano altrettanto grande e potente, e gridava: «Gentile Bellini!» E sognò che lui, Gentile, andava davanti al Sultano: ed era l'uno e l'altro insieme, come nei sogni può accadere. «Cosa desideri, potente Sultano?» diceva Gentile. «Io ho tredici favorite bellissime, — rispondeva. — Bellissime tutte davvero: ma ciascuna di loro ha una parte perfetta: Usila ha i piedi piú preziosi, Neha le gambe piú armoniose, Haima il deretano piú seducente, Efa il ventre piú eccitante, Samah la schiena piú liscia e nobile, Masila il seno meglio formato, Tesmè le spalle piú levigate, Darsa le braccia piú tornite, Vahede le mani piú eleganti, Iuda il collo piú slanciato, Vedua i capelli piú morbidi, Haniema il volto piú fine e la tredicesima gli occhi piú belli». «Come si chiama la tredicesima?» chiedeva Gentile, e intanto suonava sul liuto un'aria di festa, una melodia padovana che ben conosceva. «Che ti importa del nome? Essa ha gli occhi piú belli», diceva il Sultano. «E che devo fare, luminoso signore?» Ora Gentile non aveva piú liuto, ma le mani piene di dadi da gioco, come un bambino può averle colme di ciottoli di fiume. «E che cosa vorresti fare? Che altro sai fare?» diceva il Sultano. «I Sultani sono meno arroganti dite», protestava Gentile. «Che sai tu dell'arroganza dei Sultani? Tu non sei che un pittore: fammi dunque il ritratto di una donna che abbia i piedi di Usila, le gambe di Neha, il deretano di Haima, il ventre di...» «Basta! Ho capito! — gridava Gentile sudando. — Io non lo so fare! Non lo posso fare! » «E chi sei per non saperlo fare? Certo lo farai: io sono il tuo Sultano, quella la tela, quelli i pennelli, ed ecco laggiú le tredici ragazze, nude come Allah le ha create. Avanti, prima che scappino per il prato...» «Ma come si chiama la tredicesima, signore?» «Guarda, scappano! Corri con quel pennello, presto, maledetto incapace! » E Gentile correva in un gran prato, mentre le tredici donne scappavano: di una vedeva il ventre, di una la faccia senza occhi, di una il deretano, di una i capelli. Tutte, però, lo guardavano correndo, e ridevano. Ma lui non aveva un pennello fra le dita. Aveva un coltello, e correndo gridava: «Come potrò dipingere con un pennello cosí pesante e tagliente? Ah, rovinerò la tela, e forse mi ferirò le mani! » All'improvviso il Sultano, correndo con il coltello, si fermò, e gridò: «Io sono il Sultano, tu devi correre: tu sei il pittore! » E lanciò a Gentile il coltello, colpendolo al ventre. Dolorante, cadde rotolando su un corpo di donna nudo, ma in cui non si distinguevano né piedi né mani, né schiena né ventre, né volto né capelli: era un corpo di solo sguardo. «Come ti chiami? — gridava Gentile, piangendo per il dolore al ventre ferito. — Sei tu la tredicesima, vero?» Poi rotolò da un pendio, e trovò molte donne sedute nell'erba, quiete, vestite, col volto coperto, e tutte si mettevano nella bocca velata delle briciole rosse. «Sí, abbiamo mangiato il nostro signore, — dicevano, parlando insieme come un coro di vestali. — Ora puoi tornare a Venezia, se lo desideri. Laggiú è già tempo della festa di Maggio». «E voi? Non verrete con me?» «Noi dobbiamo, in verità, masticare e masticare, — rispondevano in coro. — Finché mastichiamo, lui non rinasce». E una gli porse un orecchio esangue. «Mangia, se vuoi, il tuo viaggio è lungo». Gentile prese l'orecchio, e senti che era freddo come il ghiaccio. «Posso portarlo alla festa di Maggio?» disse, piangendo, poi si svegliò, infreddolito, tremante. Una spinta intestinale doleva forte nel ventre. Si alzò, inciampò nella veste che aveva gettato a terra prima di addormentarsi. Cadde sul tappeto, senza farsi male. Tornò in piedi e corse nella piccola camera a bugliolo. Appena seduto cominciò a scaricarsi con violenza: già il dolore al ventre passava. Guardava la piccola candela nella boccia di vetro rosato che illuminava le pareti arabescate della stanzetta. Senti venire, dalle capanne sparse sulla riva dello stretto, sotto il palazzo, un limpido canto di gallo.
Pagina 120
La mia mamma per esempio non era granché tipo da lettere e poi aveva poco tempo, però in compenso abbondava in cartoline, insommita senza notizie non mi lasciava di sicuro. Forse le mamme divorziate erano diverse da quelle normali? - Però la busta l'ho vista bene, - dico, perché non ero mica persuasa d'essermi sbagliata. - Grande cosí, color crema... - Color crema? Di una carta spessa e come un po' ondulata? - Ecco, sí. - È la carta da lettere di mia madre. Scrive sempre su quella. - Dunque vedi che non mi sono sbagliata. E sopra c'era proprio il nome di... Volevo dire «tua zia», ma fece prima lei a domandare di scatto: - Da dove veniva? Hai visto il timbro? O il francobollo, almeno? - No, non ci ho fatto caso. Ippolita pensò un momento. Il suo occhio vago era tutt'altro che vago, adesso, anzi aveva un lampo come d'acciaio. Puro acciaio inossidabile. Sbottò, decisa: - Voglio vedere quella lettera. Bisogna assolutamente che la legga. - Ma dài, Ippolita! - Devo ammettere che ero scandalizzata. Non mi pareva una cosa da lei, andare a ficcare il naso in una lettera destinata a un'altra persona. - Pardòn! - scattò lei, e poi diventò rossa come il fuoco. Le seccava sempre quando le scappava di parlare come sua zia Augusta. - Scusa, - si corresse, - è un secolo che non ho notizie di mia madre, avrò ben il diritto di sapere cosa scrive! - Potresti domandarlo a lei. - A chi, a mia zia? - Fece quella che nei libri si chiama una risata amara: ha, ha. - Allora non hai capito proprio niente. Mi tengono nascosto qualcosa, lei e lo zio, è un pezzo che me ne sono accorta. Qualcosa che riguarda mia madre. Per questo non arrivano piú lettere, sono loro che le fanno sparire. Ma io devo sapere... devo, assolutamente... si tratta della mia mamma... Le tremavano le labbra come a una bambina piccola. Volevo farle coraggio, ma non sapevo piú cosa dire, adesso che era uscito fuori quali erano i suoi sospetti. Che brutta, bruttissima storia. Non ero abituata a storie di questo genere, io: in casa mia non usavano i distinti parenti capaci di manovrare alle spalle della nipote e di far sparire le lettere a tradimento, magari mettendosi d'accordo col postino o l'impiegato postale; non per niente erano i signori conti e pieni di soldi fin qui. Chissà che belle mance avevano dato per fare questa schifezza, perché lo era proprio, una schifezza, nessun'altra parola si adattava al caso. Finii col dire solo: - Dài, non ti disperare. - Io non mi dispero, - rispose Ippolita, col mento in su. Poi, saltando di palo in frasca, - Andiamo a vedere se è nel salone. Non si capiva se volesse dire la lettera, oppure la zia. La zia ad ogni modo c'era. Era seduta in un angolo del sofà e pencolava col suo gran naso sulle carte del solitario. Ippolita cominciò a girellare canticchiando tutta stonata per far finta di niente e guardando su tutti i tavoli, i tavolini e le consòl se si vedeva la busta crema; ma quella non c'era. Allora mi fa: - Oh! - Anche quell'oh suonava stonato, uno strazio: si capiva benissimo (lo capivo io, almeno) che stava recitando per farsi sentire dalla zia. Dunque mi fa, recitando: - Oh! m'è venuto in mente che devo andare un momento su, fai tu conversazione con zia Augusta! Traduzione: tienila occupata mentre io vado a cercare la lettera in camera sua. Figuriamoci che bell'imbroglio. Io non ci volevo mica stare, solo che la contessa venne fuori a dirmi fresca fresca: - Sí, cara, mi farai piacere - . (Sarebbe stato cava, mi favai piaceve, ma ormai mi ero abituata alla sua erre moscia e non la sentivo quasi piú.) Cosí non potevo piú dire di no, a parte che Ippolita se l'era già battuta zitta zitta, fingendo di non vedere i segnali di «no, questa non me la devi fare!» che le lanciavo con gli occhi. Dunque non mi restava che andare a sedere nell'angolo libero del divano, e far conversazione. Ma che bel divertimento. Non so più di preciso di che cosa parlassi. Della pioggia, credo. (Palpitante, come argomento.) Già, perché pioveva sempre, il salone era mezzo al buio e fuori l'acqua continuava a venir giú fitta fitta, con un rumore come di pesciolini che friggessero in padella. Frrzz frrzz frrzz, un rumorino cosí. Una malinconia da non dire. Il sofà mi faceva l'effetto d'esser tutto imbottito di spilli. Si doveva vedere che non ero per niente a mio agio, perché a un dato punto la zia di Ippolita mi guardò con l'aria di domandarsi cosa mai avessi. Poi mi sorrise, certo per incoraggiarmi. A me questo mi fece sentire ancora peggio. Falsa come Giuda, mi sentivo, di star qui sul suo medesimo sofà a cianciare del piú e del meno, mentre lei mi faceva i sorrisi senza sapere che intanto Ippolita di sopra raspava nella sua corrispondenza privata, e che io lo sapevo. Ippolita era mia amica e mai al mondo avrei fatto la spia contro di lei. Ma era giusto che per non fare la spia dovessi invece far la parte della Giuda con una persona che a me in fondo non aveva mai fatto niente di male, anzi al contrario? Com'è complicata la vita, certe volte! Non durò tanto, per fortuna. Ippolita chiamò d'in cima alle scale e io scattai su come una molla, giuro che mai nessuno aveva alzato tanto velocemente il sedere da quel sofà. - Compermesso. - Sí, vai, cara - . E dài con questo cara. Voleva proprio farmi venire i rimorsi per forza. Ippolita mi aspettava di sopra, sul pianerottolo. Mi mancavano ancora quattro o cinque scalini per arrivarci quando buttai fuori, mezzo sottovoce caso mai ci fosse qualcuno in giro: - E allora? L'hai letta? Tant'è, la curiosità. Io non lo avrei fatto, di leggere di nascosto una lettera d'altri, ma se lei invece sí, tanto valeva che lo sapessi anch'io cosa c'era dentro. Toh che invece mi fa, secca secca: - Ma neanche per sogno, - guardandomi male come se me lo fossi inventato io che prima aveva intenzione di farlo. Ah ecco. Lo dicevo bene, io, che non era roba da Ippolita. Però in qualche modo qualche cosa era venuta a saperla lo stesso, glielo leggevo in faccia.
Pagina 57