Angiola Maria confessavasi regolarmente il sabato, e trattenevasi niente meno che quattro o cinque ore nel confessionale; il mercoledì, per rinforzo di penitenza, dopo d'avere spesa un'ora nell'acconciatura, scendeva nel parlatorio, ove per altrettanto tempo rinnovellava gli spirituali abboccamenti col confessore. Per cagione di sì frequenti e lunghe assenze, mia zia doveva chiedere ad altre quei servizi che la sua conversa non si curava di farle. Ad ogni nuovo colloquio col confessore la diveniva più bisbetica, ed usava alla povera vecchia maggiori insolenze. Io amava molto mia zia, e non vedeva i suoi patimenti senza rammarico. Avrei voluto mettervi riparo: ma poteva io ricorrere ad altro superiore appello, poichè nelle mani d'essa lei stava il governo del monastero? In questo mentre, passava a miglior vita l'altra mia zia Lucrezia, e lasciava due converse, che vennero al servizio nostro. Io mi presi la più giovane, chiamata Gaetanella. Angiola Maria, cervello balzano, ingelositasene, mise alla tortura la badessa ogni qual volta la trovò sola; ma non so per quale straordinaria mancanza, la fu un giorno sgridata dalla mia zia nel corridoio. Io stava a qualche distanza da loro, sicchè non ne fui veduta. La conversa avanzatasi sulla badessa, le diè una gagliarda botta; la vecchia barcollò, e sarebbe caduta, se una porta vicina non le avesse servito di sostegno. A tale vista io misi un grido, e fu appunto nel momento che Angiola Maria si accingeva a più grave aggressione. Volai presso alla zia, le presi il braccio, ed abbandonandomi ad un giusto sdegno, ordinai alla conversa di ritirare immediatamente il suo letto dalla stanza della badessa, e di non mettervi più piede, minacciando di rovesciarla dalla loggia nel giardino se disubbidiva. Parecchie monache, attirate dalle mie grida, saputo il successo, mi diedero ragione; ma le converse attruppate al fondo del corridoio andavano susurrando, che io non aveva il diritto di farlo. Dato da bere alla zia, che tremava per l'agitazione sofferta, mi portai dalla priora, affine di pregarla che intimasse ad Angiola Maria l'ubbidienza ai miei ordini. La priora vi acconsentì, talchè la conversa espulsa dal servizio della badessa dovette prestarsi a quello della comunità. Cotesto fatto accadeva durante il periodo del mio educandato. Sino a tanto che non presi il velo, quella donna, incontrandomi, abbassava gli occhi, masticava fra i denti qualche parola di dispetto, e, se lo poteva cangiava di strada. Ma il suo contegno entrò coll'andar del tempo in una fase diversa. Mi fu detto la sera della mia vestizione avermi dessa apparecchiato un piccolo dono, e voler sapere se l'avrei accettato di buon grado. - Risposi, che ad un fatto passato non pensava più. Angiola Maria venne da me tutta ben vestita e adorna, mi presentò il regalo (è questo uso del monastero nei giorni di vestizione o di professione), e si estese in iscuse sull'avvenimento che mi aveva crucciata seco lei. - Le ripetei aver posto il tutto in dimenticanza. Da quel giorno avvenne in lei una metamorfosi: l'orso diventò agnellino. Ogni volta che m'incontrava, atteggiavasi d'insinuante mansuetudine, chiedeva conto della mia preziosa salute, cercava l'occasione di prestarmi i suoi servigi, e se io era indisposta, impadronivasi della mia stanza per tenermi compagnia. Ciò nonostante, i suoi discorsi mi stuccavano oltremodo, e il suo sguardo equivoco mi spaventava. Regionava essa perpetuamente del suo confessore, vagheggiava le proprie forme, il buon gusto del suo vestire, e di tratto in tratto lagnavasi del tradimento fattole dalle due converse della zia Lucrezia, tradimento (a suo dire) tramato ed eseguito con lo scopo di strapparle la sua diletta ragazza, ch'era io. Insomma mi confermava ogni giorno più nell'opinione, che il cervello di quella femmina, non si trovasse nello stato normale. Di lì a qualche tempo, lo sconcerto mentale dispiegavasi in un modo orribile. Alzavasi di notte tempo, per vagare a guisa di spettro, ricusava il cibo, e cadeva ora in isconcie farnetichezze, ora in una cupa fissazione, che prolungavasi fino ad otto o dieci giorni. La pazzia, per mala sorte, le ispirò uno strano desiderio; quello di rientrare al mio servizio particolare, acciocchè, diceva, la passata noncuranza si mutasse a suo favore in affettuosa predilezione. A tal fine non rifiniva d'importunarmi, sostenendo che dovessi allontanare Gaetanella, e riprender lei. - Gaetanella dall'altra parte, e con più ragione, pretendeva che non dovessi più ricever la matta nella mia stanza. E quando io le diceva: "Ma, non vedi che la sventurata è pazza? "Essa rispondeva: "Pazza! scusatemi: è pazza per utile suo." "Se adunque dissimula, a quale utile aspira?" A questa domanda, Gaetanella si mordeva le labbra, e serbava silenzio imperturbabile; il che veniva da me attribuito al risentimento che la muoveva contro la compagna. Anzi ad evitare qualche conflitto fra di loro, tentai più d'una volta di proibire ad Angiola Maria l'ingresso nella mia stanza: ma costei, prosternandosi a me dinanzi, e percuotendosi il capo con ambo le mani, e strillando e piangendo, ripeteva le mille volte: "Deh, non mi scacciate, per pietà! Precipitatemi piuttosto dall'alto della loggia!" Convinta dell'insania che l'affliggeva, e che di giorno in giorno sviluppavasi, lasciai libero sfogo all'umanità, nè feci più conto dell'incredulità di Gaetanella. Allora fu che gli accessi di frenesia incominciarono. Era in quel tempo badessa quella donna inetta, che mi aveva fatto da maestra di noviziato. L'avvertii badasse all'alienata, onde a lei medesima e all'intera comunità non accadesse qualche disastro. "Cerca tu stessa di calmare i suoi furori," mi rispose.... "ascolta meglio la voce tua." "Mi credete dunque maestra, di pazze? O pensate ch'io debba starla a badare giorno e notte?" "Non importa: ci penserà la Madonna," soggiunse la sciocca superiora. L'affare, frattanto, facevasi sempre più serio. A dispetto della disciplina, Angiola Maria si era lasciata crescere i capelli, e, deposto il velo e il soggolo, dividevasi la chioma all'uso secolaresco, dicendo di voler uscire del convento per cercarsi un marito. "Voi mi dite pazza," gridava ne' momenti del parossismo alle monache che la circondavano: "no, non sono io la pazza, per voler marito; pazze, dementi, forsennate non siete voi piuttosto? Voi che, possedendo giovinezza, ricchezze, beltà, e quindi potendo trovar marito più agevolmente, vi state, per mancanza di consorte, intisichendo in questa spelonca? Seguite l'esempio mio, seppur avete in zucca un grano di cervello: buttate via le cocolle, e lasciatevi crescere le treccie, Ut sitis filii patris vestri, qui in caelis est: qui solem suum oriri facit super bonos et malos." Altra volta, malgrado l'intenso dolore che accusava all'occipite, componevasi in goffi e sguaiati atteggiamenti, o, sgambettendo, e scontorcendosi, e crocchiando il dito medio sul pollice, in modo da imitare il ritmo delle castagnette, intuonava con voce stridula e dissonante le strofe di quella canzonetta in dialetto napeletano: "Guè Mà, ca cchiù non pozzo Menà sola sta vita: Io voglio fà la zita, Me voglio mmaretà. Me faje fà vicchiarelle, Me faje jire a l'acito: Guè Mà, voglio o' marito, Non pozzo sola stà. Sì già, s'è mmaretata, Teresa e Luvisella: Pecchè a me poverella Me faje patè accossì? Lo fecatiello a fforza S'à da 'nfelà a lo spito: Guè Mà, voglio o' marito, Non pozzo sola stà." Si sa, che alle monache è vietato di dormire a porte chiuse: tratto di diffidenza non molto onorevole alle spose di Cristo. - Una notte mi sentii sulla fronte il contatto d'una mano ruvida: credetti di aver sognato, e mi riaddormentai. La notte appresso, fu d'altra sorta l'impressione: sentii cadere un bacio sulle mie labbra..... spalancai gli occhi esterrefatta, e vidi l'Angiola Maria, che mi diceva: "Non aver paura, son io." "Che cosa vuoi?" "Niente: non posso dormire." Gaetanella, che abitava nella mia stanza, avendo un sonno pesante, rare volte destavasi; quand'io, spaventata dalla demente, la scossi, borbottò fra i denti: "Non la volete scacciare questa birbacciona?" indi, voltandosi dall'altro lato, riprese il ferreo sonno. Intanto divennero sempre più frequenti queste notturne apparizioni; la mia stanza fu posta in istato d'assedio: poco a poco la folle mi fece vittima delle sue smanianti veglie. Sollevando la cortina del letto, accomodavasi seminuda e scarmigliata sulla seggiola, per tenermi i più strani discorsi; donde non tardai a comprendere, come cagione della sua follía fosse la passione violenta che concepita aveva pel suo confessore. Implorai presso la superiora un pronto riparo. Infiacchita dalle frequenti interruzioni del sonno, snervata dall'incessante apprensione, io mi sentiva vicina a cader malata. La badessa, senza brigarsene di vantaggio, mi rispondeva: "Dio ti aiuterà!" Una mattina, mentre nel coro salmeggiavamo il Mattutino, una conversa venne a chiamar la zia delle due educande amiche di Paolina. Ella andò, e pochi minuti appresso tornò pallida e smarrita, ed accostatasi alla badessa, chiese licenza di lasciar il Mattutino per accorrere in aiuto delle sue nipoti ch'erano state percosse da Angiola Maria. Paolina la seguitò, affine di aiutare le sue pericolanti amiche. Di lì a poco, la badessa, chiamatami a sè col gesto, m'impose d'intervenire nella contesa, per placare col mio ascendente i furori della conversa; ubbidii, non però prima d'averle fatto osservare, che ogni giorno io la supplicava di porre a quell'inconveniente un efficace rimedio. Angiola Maria erasi chiusa a chiave nella sua cella, nè voleva aprirmi. Bramosa di appurare il male che la folle aveva fatto alle educande, andai all'incontro di queste; Paolina, che stava di guardia all'uscio della stanza dove s'erano rifugiate le giovinette, nel vedermi giungere, disse loro stizzosamente: "Ecco colei che ha detto ad Angiola Maria di battervi!" A quest'apostrofe le due educande si slanciano fuor della stanza, non altrimenti che mastini sguinzagliati. Esse non sanno più quel che si dicono: io son fatta l'oggetto del loro risentimento. L'iniqua incolpazione mi fermò di botto. Indisposta da più giorni, urtata nei nervi da morali sofferenze, non resistetti all'inaspettata calunnia, e caddi a terra, dibattendomi in convulsioni. Angiola Maria non aveva riconosciuta la mia voce allorchè le intimava di aprire; la riconobbe nei gemiti dell'attacco nervoso. Spalancò allora la porta con fracasso, e uscì in camicia. Vedutami in quello stato, scostò furiosa quelle che mi stavano attorno; indi, con erculea forza sollevatami nelle sue braccia, mi portò sul mio letto, ove mi profuse le più tenere cure. Quando ricuperai i sensi e la parola, la sgridai fortemente per quello che aveva fatto. Ella, sulle prime, mi ascoltò commossa, ma, ricaduta bentosto nel furore, si lacerò a pezzi la camicia, lo che la fece restare completamente ignuda, e andò a chiudersi di nuovo nella sua cella. L'imputazione appostami da Paolina, mi aveva, di molto mortificata, benchè nuovo non mi fosse il disamore delle giovani monache. Per riconquistare la perduta tranquillità e viemaggiormente scostarmi da persone cresciute ed allevate nel chiostro sin dall'infanzia, per conseguenza digiune d'ogni rudimento di civiltà, profittai dell'opportunità che la matta trovavasi rinchiusa, onde trasferire il mio letto nella stanza della zia; io sapeva altresì che la conversa, memore tuttavia dei trascorsi dissapori, non poneva il piede giammai in quella stanza. Un'ora dopo, la pazza riapre la porta: era vestita per metà. Entra nella mia camera, che dalla sua era separata da altre quattro, e non trovandovi più nè me nè il mio letto, mette orribili strida: indi, trasportata dal furore, impugna un coltello a punta acuta, e misurando a precipitosi passi il corridoio del dormentorio, urla spaventevolmente: "Hanno uccisa la mia ragazza, eh? Saranno scannate tutte quante, come galline nel pollaio!" Non mi mossi dal luogo dove mi trovava; udii le voci che mi chiamavano, ma stetti zitta. Frattanto le monache, che si trovavano nel dormentorio ove la scena accadeva, si chiusero spaventate al più presto; le altre corsero dalla badessa, che con reiterati messaggi mi fece chiamare dalla parte opposta del dormentorio. "Cara Enrichetta," disse nel vedermi, "tu sei la sola, che recar possa un rimedio all'attuale scompiglio della comunità." "E come?" domandai. "Niuna monaca vuol dormire stanotte al secondo piano, dove la frenetica se ne sta. Non mi farai la finezza di riportare il tuo letto nella tua stanza, e farvi inoltre collocare quello d'Angiola Maria? Tu, carina, te la riterrai teco, nè le permetterai di uscire." "Questo è troppo, reverenda!" risposi sommamente indignata. "No: non lo farò. Prima di tutto, per mancanza di sonno, ho un fiero mal di capo; poi, quella meschina è giunta a tal segno d'alienazione da non riconoscere più la mia voce; finalmente, non darò alle malevole motivo di attribuire alle mie suggestioni ciò che farebbe la pazza nel suo furore." "Su, via, non dare ascolto alle chiacchiere di qualche monella: io e la comunità intera te ne saremo gratissime." Opposi in giustificazione il mio malessere: ed infatti, aveva la febbre. La badessa conchiuse, dicendomi: "Hai fatto il voto d'ubbidienza: l'ubbidienza dissiperà il tuo malessere." Per quanto dispotica mi fosse sembrata quell'ingiunzione, dovetti per amore o per forza uniformarmici. Salita adunque al secondo piano, trovai Angiola Maria, che stavasi ancora col coltello in pugno, e perlustrava l'andito, declamando in monologo. Dio mio, quale orrido aspetto! La era una belva, una furia. I suoi occhi, schizzanti fuor dell'orbita, eseguivano le rapide evoluzioni d'una sfera d'oriuolo nel punto di essere scombussolato: i capelli inestricabilmente arruffati; la bocca contorta e schiumante; le narici sbuffanti la collera; il braccio alzato nell'atto di colpire chi primo si presentasse. Mi fermai alla porta del dormentorio, pronta a chiuderla, nel caso che la pazza avesse inveito contro di me. Era sola, nessuna aveva voluto seguirmi. La chiamai: si volse, mi conobbe e corse colle braccia aperte, senza però sbarazzarsi dell'arma. Chiusi la porta, e ne voltai la chiave; essa ricominciò ad urlare di più bello, scongiurandomi di aprire. "Getta, via il coltello," le dissi di fuori: "mi fa paura." Ubbidì. Quando l'udii cader molto lontano, aprii la porta. La pazza mi prese le mani, che strinse nelle sue, e poi le coprì di baci. Il suo stato mi mosse a pietà. Raccolsi il coltello, e la sgridai: mi promise che non l'avrebbe fatto mai più. Mi portai quindi nella sua cella, e fattomi da essa lei aprire i bauli, le tolsi e coltelli e forbici. La misera ubbidiva, senza far motto. Ciò fatto, le dissi che avrebbe pernottato nella mia stanza: al quale annunzio, abbandonatasi di subito alla più stemperata esultanza, si mise a batter le palme, a ridere sgangheratamente. In un momento portò il suo letto nella mia camera, ciò che a Gaetanella fece saltar la mosca al naso. Questa donna soffriva di scorbuto, morbo frequente nell’atmosfera non abbastanza ventilata della clausura. Il sangue, che davano le sue gengive, era da lei creduto effetto d'emottisi, ed ognivolta attribuito alle tribolazioni che quella furba e dissimulata d'Angiola Maria non cessava di suscitarle. Giunse la sera; era il mese d'agosto: alle 8 suonava il silenzio. Mi posi a letto; Gaetanella ed Angiola Maria fecero lo stesso, promettendo quest'ultima di starsi cheta. Ciò non ostante, smaniava, storcevasi, rivoltolavasi da far pietà. Le domandai che cosa avesse. "Non posso stare nel letto," disse, "la testa mi brucia, le orecchie mi tintinnano." Balzò in piedi, schiuse la loggia, e trasse un sonorissimo sospiro nell'aspirare il fresco della notte; poi prese a passeggiare per la camera, pronunziando delle parole incoerenti. "Sposo mio, e in pari tempo mio confessore: che bella cosa! Dovrete, caro Don *** disimpegnarvi da due uffizi.... e quella gaglioffa cerca di trappolarvi, eh....? Ora dovete accompagnare il Sacramento in casa di un moribondo.... non è tempo ancora.... il bacio prima! datemi il bacio prima di andarvene!" E ciò dicendo, apriva le braccia per istringere l'oggetto della sua visione; poi pianse un poco, un poco si smascellò di risa, un poco urlò. Dopo due ore di tal delirio si ricoricò e prese sonno. Gaetanella si era pure addormentata. Io non reggea per la gagliarda febbre. Scesi pian piano dal letto, richiusi il balcone del terrazzo, e mi assopii. Una forte palpitazione al cuore, che spesso m'assaliva, mi risvegliò. Regnava nella stanza perfetto silenzio: non udivasi che la respirazione precipitata della mia conversa. Sollevai la cortina per vedere ciò che la matta facesse .... Il letto era vuoto. Mi posi a sedere sul mio, guardai, riguardai all'intorno: non c'era. Chiamai Gaetanella, le dissi che Angiola Maria se n'era scappata; mi rispose: "E che m'importa? Se ne vada pur alla malora!" Lasciato il letto, indossai una sottana. I panni d'Angiola Maria stavano sopra una sedia, le scarpe sotto il letto. Cacciai la testa dall'uscio: il dormentorio era deserto. Uscíi con precauzione e m'avviai verso la cella della matta; la chiamai per nome: non rispose. M'intromisi in un secondo dormentorio: era agli angoli illuminato da due semispenti fanali, che non facevano se non aumentare la sinistra oscurità. Ivi rimasi a riflettere, se volgere a dritta o a manca. Risolvetti per la sinistra, e lentamente avanzando m'avvicinai ad uno dei detti fanali. Terminava quel dormentorio con un pozzo da un lato ed una grande galleria dall'altro. Questa galleria, disabitata per causa della sua immensità, destava orrore pur anche di giorno. Pessime dipinture a fresco di santi anacoreti e di romiti vestivano le sue pareti, santi e romiti a faccia lunga e sparuta, a tinta cadaverica, a barba sperticata, i quali per antica tradizione, e al dir delle monache, avevano parlato, camminato, suonato le campane, cantata la messa a mezzanotte, ec. Le gambe mi tremavano, parte per effetto di quella superstizione, al cui assalto non può resistere alcuno in certe circostanze, parte per la tema di ritrovare Angiola Maria stramazzata in qualche luogo, il cui buio avrebbe resa più spaventevole la scena. Già stava per voltare dal canto della galleria, allorchè parvemi veder brulicare qual cosa di bianco in vicinanza del pozzo. Mi rimescolai: era la pazza, che, scalza, scarmigliata, in camicia, guardava nel pozzo, e ne misurava il fondo per precipitarvisi. Entrambe le mani sue stavano poggiate sull'orlo, e colla testa curvata faceva forza sulle braccia per rovesciarsi a capitombolo. Mandai un urlo: mi udì, si volse a guardarmi, e senza più indugiare sforzossi di accelerare lo squilibrio del corpo, affine di potersi più prestamente precipitare. Spicco un rapido salto, e, stese le mani su di lei, l'afferro per un braccio, che sento agghiacciato dal freddo. Ella si rivolge a me con occhi stravolti, ciechi d'ogni pensiero, non mi riconosce e tenta di svincolarsene, come infatti si distacca. L'abbranco per l'altro braccio che ritengo con ambo le mani, e mi stringo con quanto vigore m'infonde la circostanza. Ma sento che la sua forza supera di molto la mia, e già veggo la furente intenta ad addentarmi il polso. Volli stordirla per salvarla. Coll'uno de' bracci la trattengo ferma tuttavia, coll'altro le assesto al volto un potente schiaffo. A quella percossa rientrò per un momento in sè, e proruppe in alti ululati. La presi allora per la mano e la ricondussi senza più tema o fatica nella mia stanza. Ivi si pose a sedere a terra, guaì ancora per un paio d'ore, poscia, racconsolatasi, riprese di nuovo l'incoerente ciarla. In questo mentre Gaetanella, che, turbata dai singulti della pazza, non potea riprender sonno, si alzò ed uscì. Io pur mi vestii, benchè intirizzita dal freddo febbrile che mi faceva battere i denti. Sorta l'aurora, scrissi al generale Salluzzi, invitandolo a venire da me. Al vedermi tanto pallida e febbricitante quell'amico generoso non potè a meno di amaramente condolersene. Poco appresso si recava dal canonico Savarese, allor vicario pro tempore, e lagnavasi energicamente con esso lui, del ticchio venuto alla superiora, di farmi fare la custode di pazze. Per ordine di Savarese venne a visitar la matta il dottore Cosimo Meo. Costui, nel vederla da lungi, esclamò: "Non solo è matta, ma la è pure furiosa. Chiamate tosto il flebotomo." Otto robuste converse furono appena bastanti a contenere i suoi furori nel momento che fu operato il salasso al piede; non cadde dentro la catinella una sola goccia del sangue: spruzzò tutto sulle converse, sul salassatore, ed in gran copia al suolo. Il medico ordinò che molti bagni colla neve sul capo le fossero amministrati, e promise che nella giornata stessa avrebbe mandata una donna del mestiere per domar la furente; esser, del resto, espressa volontà di Savarese, che la badessa trovato avesse un manicomio, essendo quella. pazzia, per la forte complessione della sofferente, di quella tale classe, che senza mezzi violenti non si frena. Tranquillatami su di questo argomento, scrissi tosto al generale una lettera di ringraziamento. Il mio letto si ricolloco nella stanza della zia, e fui sollecita a coricarmi, non reggendo più in piedi. Venne la maestra delle pazze, si diedero i bagni freddi alla sventurata, ma il male infierì. Chiusa adunque in una carrozza colla donna che l'assisteva, fu mandate a Calvizzano, ove un prete teneva una casa di salute per i dementi; ma i rimedi tornarono vani anche colà. Assoggettata al camiciotto di forza, non sopravvisse qualche tempo, se non per sentire nel viaggio alla morte tutti i tormenti immaginabili. Intanto questo incidente aveva aumentato il mio aborrimento pel monastero. Ormai conosceva appieno l'egoismo delle monache: le quali per segreto accordo avevano tentato di farmi morire, mettendo esse due cose in salvo: prima, la loro tranquillità a detrimento della mia salute, e forse con pericolo della mia vita; poi, la spesa d'una donna, che badato avesse alla vittima del loro regime. La spilorceria del convento eclissa benanche quella d'Arpagone e di Sherlock.- Per uscire da quella bolgia soffocante, avrei ben immaginato qualche mezzo idoneo, ma qual dolore non avrei recato alla zia! Un altro fatto consimile, e non meno tragico, avvenne dopo l'uscita d'Angiola Maria. Era, sotto la mia direzione, addetta alla confezione degli sciroppi e distillati per uso della farmacia una conversa chiamata Concetta, compaesana della povera pazza, essendo entrambe dell'Afragola; bella donna di 36 anni, alta, robusta, d'un incarnato maraviglioso, cui dava risalto un grosso neo alla guancia sinistra: bocca gentile fornita di splendida dentatura: occhi cerulei, capelli castagni lucidissimi, leggermente increspati all'estrermità, e sboccanti da sotto il soggolo nell'una e nell'altra ciocca. Il solo naso pregiudicava quel raro tipo di beltà, essendo soverchiamente aquilino. Nell'esercizio de' suoi doveri Concetta mostravasi esattissima, e la sarebbe stata in tutto esemplare, se stata non fosse un po' vanarella e civettuola nel parlatorio. Io aveva osservato ch'ella accordava molta domestichezza ad un giovane facchino del locale. Nelle lunghe giornate d'estate, mentre tutte meriggiavano, la sorpresi più volte affacciata ad una finestrina, che è vicino alla chiesa e guarda la Via San Biagio dei librai. Queste osservazioni mi avevano persuasa che la non era contenta del suo stato, e che molto volentieri avrebbe abbracciato quello del matrimonio. La disgrazia della sua paesana e compagna le avea fatto una impressione spiacevolissima, e sempre che ne sentiva ragionare, stralunava gli occhi in modo da metter paura. Questo suo stato morale durò per alcuni mesi; se non che la follía che già prendeva radice, manifestossi in lei sotto una forma diversa, quella dell'ipocondria. Ritiravasi spesso in luoghi appartati per dar libero sfogo alle lagrime che l'opprimevano; fuggiva la conversazione e mormorava sola; non atteggiava mai la bocca al riso, obliava di leggieri gli ordini ch'io le dave, confondeva le medicine, e se entrava in discorso, lo faceva solo per indirizzare mille domande sulle strade di Napoli, sulla libertà personale degli abitanti, sulla beatitudine di coloro che ne possono godere, ed altre cose simili. A sgravio di coscienza, come infermiera, avvertii la badessa che lo stato di Concetta meritava attenzione, e chiesi un'altra conversa per la farmacia; poichè quella imbrogliava i medicamenti, perdeva il tempo a cambiarli dall’uno all’altro scaffale, ed attaccava il cartellino d'un farmaco al barattolo di un altro; conchiusi dicendo di non voler restare responsabile d'ogni disastro che potesse accadere.- Rispose l'inetta donna: "Sai, mo, che tu sei l'uccello del cattivo augurio?" Mi tacqui allora, nè più parlai sul conto di Concetta. Ma di lì a pochi giorni una contadina, sorella della stessa, avvedutasi di ciò che io pure aveva osservato, chiamava la badessa al parlatorio, onde pregarla di prendere in considerazione lo stato mentale della germana. - Rimase anche quest'avvertimento senza effetto. La balorda badessa ristringevasi a rimetter la inferma sotto la protezione della miracolosa Vergine dell'Idria, superiore patrona del convento. Poco dopo, una vecchia che dormiva con Concetta nella stessa stanza, le disse avere sul far del giorno veduta la sua compagna seduta sul letto, nell'atto di avvolgersi un fazzoletto alla gola, e soltanto le sue grida aver impedito che la si fosse strangolata di propria mano. "Stasera alle litanie farò dire quaranta volte ora pro ea," rispose la badessa. Un giorno di domenica, prima del levar del sole, molte monache stavano ascoltando la santa Messa. Si scende al comunichino per una lunga scala, che mena in un cortiletto umido, intorno a cui gira uno stretto corridoio a vôlta altissima, e sostenuto da pilastri.- Io scendeva per comunicarmi; era appena arrivata alla metà della scala, quando intesi un forte rumore, come di grave corpo caduto a terra. Mi coprii il volto colle mani: senza aver veduto niente, il pensiero mi corse all'ipocondrica Concetta. Scesi precipitosa, e trovai l'infelice in terra: me l'accostai, la credetti morta, e chiamai aiuto. Più di quaranta monache stavano riunite nel comunichino per la Messa: m'udirono gridare: nessuna uscì. Ne scese finalmente una, coll'aiuto della quale sollevai da terra la conversa, e l'adagiai sopra un seggiolone priva di conoscenza; indi, suonato il campanello della sagrestia, feci venire un prete per assisterla. Aveva la gamba sinistra lussata e tutta grondante di sangue. Era caduta a piombo sopra uno dei pilastri che reggevano la vôlta, così la polpa della gamba ne fu orribilmente straziata. - Appena potè articolare qualche parole, due facchini con manovelle passate sotto la sedia la portarono nella sua stanza. Il prete la seguì, ma dovette presto lasciare la camera, poichè la sventurata con un segno indicò che non lo voleva vicino a sè. Il luogo dove Concetta erasi gettata, era presso la chiesa. Le monache, dopo la Messa, uscendo dal comunichino, presero a strepitare intorno all'accaduto sì forte, che alla gente radunata in chiesa parve fosse avvenuta la ruina del monastero. Il sospetto venne confermato dal portamento del prete, che frettoloso e trambasciato se ne uscì di chiesa per entrare nel convento. Circa due ore dopo sopravvennero un ispettore di polizia e un cancelliere con uno stuolo di birri, per procedere all’accesso. La badessa vuol impedire l'entrata di quei profani nel chiostro, ma essi insistono a volervi penetrare. "Sapete bene signor mio, che senza ordine espresso del Santo Padre mi è vietato di ricevere nella clausura chicchessia, fosse pur egli lo stesso sovrano." "E voi, reverendissima, non dovete ignorare come l'ordine pubblico è superiore agli ordini che potete aver avuti da Roma." "Mi fate trasecolare. In qual modo pensate che nel mio monastero sia stato infranto l'ordine pubblico?" "Corre voce che una conversa sia stata precipitate con dolo e premeditazione dall'alto del secondo piano e miseramente infranta: nè manca chi questo turpe misfatto imputi a V. S. R." Figuratevi lo stupore della badessa! - Con mille inchini, li fece immantinenti entrare, ed ella stessa li condusse alla presenza di Concetta, la quale, alla scossa ricevuta dalla caduta, avea per poco ricuperata l'integrità della ragione. Subì essa l'interrogatorio con mirabile disinvoltura, e depose il vero, attestando di essersi precipitata da sè sola, e per irrefrenabile desiderio di morte. Domandata per qual ragione avesse attentato ai suoi giorni, ella, educata a' doveri religiosi più vivamente che non lo sono le donne secolari, trasse un profondo gemito, e provossi a rispondere; ma, o perchè inabile ad articolare suoni, o perchè pentita, si tacque: poi sbadigliò per modo da sgangherarsi le mascelle, stralunò gli occhi, respinse villanamente la mano dell'inquirente, e ricadde nella demenza. L'ispettore, steso il verbale, se ne partì. Ma tutto il peso di questa catastrofe non gravava sulla coscienza della badessa? Nel mentale turbamento che da più mesi travagliava quella misera, non era dover suo di farla assiduamente sorvegliare? Contiguo alla stanza dell'alienata eravi un camerino destinato a guardaroba; ivi fu trovata una fune con un nodo scorsoio in mezzo, ed in un prossimo ripostiglio si rinvenne inoltre un cartoccino di veleno. Era chiaro ch'ella aveva titubato intorno al genere di morte da scegliere, sospesa fra l'arsenico ed il capestro. Di lì a poco venne il cardinale Riario Sforza, esaltato recentemente alla sede arcivescovile di Napoli. Egli apostrofò acremente la badessa, sì per aver menato tanto scalpore male a proposito, sì per aver permesso a' poliziotti di violare colla loro presenza il sacro rifugio delle vergini. "Sapete voi," le disse in tuono severo, "qual sia rispetto ai chiostri l'opinione dei sedicenti filosofi e liberali? Credono essi che nei vostri recinti regnino il rimpianto e la disperazione, ossia, che tutte le vostre monache siensi pentite del loro stato. Or voi, colla pubblicità data ad un fattarello di sì lieve momento, non avete forse dato appiglio alle calunnie del secolo? Se il monastero non è una tomba come i santi canoni la richieggono, perchè ne porterebbe dunque il nome? I vivi non devono sapere giammai le intime peripezie del sepolcro." L'infelice Concetta sopravvisse altri venti giorni, finchè la gamba non le si cancrenò. Non mi dipartii dal suo fianco altro che al tócco della campana ogni mattina e sera, nè cessai di prodigarlei doverosi conforti di carità. Spesso l’udii mormorare da sè sola, tal altra volta la vidi conformare il sembiante a mesto sorriso, benchè afflitta da doglie acerbe. Da alcuni tronchi accenti compresi che la poveretta trovavasi in un critico stato, che voleva con la morte nascondere. Supina sul letto di morte, con gli occhi inchiodati al soffitto, sovente diceva con sè stessa: "Sì..... se la morte non giungerà sollecita..... inevitabilmente tradita....... già il seno........ maledetto!...... scomunicato!.... vattene alla malora, nè mi parlar di Cielo e di Madonna; se la Madonna soccorre gli sventurati, perchè dunque non viene in soccorso a me ed alla creatura che mi sento nelle viscere?" Favellò il più delle volte d'un giovine dagli occhi neri, che era stata solita di vagheggiare dal finestrino presso la chiesa, nè si lasciò persuadere a ricevere il prete e i Sacramenti. Abbandonata alla più cupa, disperazione non cessò di ripetere le mille volte ch'ella era irreparabilmente dannata. Orride, strane allucinazioni sopravvennero a funestarle gli estremi istanti. Di notte tempo mentre tutte dormivano, tranne due o tre che vegliavano al suo fianco, gridava: "Questo luogo è infestato da' demonii.... eccoli là.... li veggo.... uno per uno! Ohè, perchè tu in codesto angolo fai mille sberleffi? E tu in codest'altro, perchè scuoti le pareti, urtando colle corna la soffitta?" Altre volte diceva: "E voi, anime innocenti, non contaminate d'impurità, fuggite, involatevi presto dal mio contatto! Se ne usciste macchiate, ohimè, non basterebbero tre anni di penitenza a purgarvene!" Le monache perfettamente convinte che la delirante fosse ossessa da spirito maligno, pensarono di farla esorcizzare da un monaco crocifero; nè è a dire l'universale spavento all'idea che il monastero fosse invaso da' demonii. L'esorcismo fu praticato con imponente solennità, ma non ebbe alcun effetto. Le monache tutte affollate nel luogo della cerimonia, e facendosi continuamente segni di croce, si aspettavano a bocca aperta di veder sbucare dal corpo dell'invasata la figura di Satanasso; ma la curiosità loro fu delusa: non era ancor vicino il nono mese. Il sacerdote non potè entrare nella stanza per recitare qualche prece, se non nel solo momento in cui l'infelice esalava lo spirito. Restitui essa l'anima al Creatore intorno al vespro. La beltà che nell'assenza della ragione erasi spenta, riapparve commovente sull'esanime spoglia di quella infelice. Quale serenità rifluì allora sulle sue fattezze, insino a quel punto sconvolte dalla follía, tramutate dall'occulto cordoglio! Era sul tramonto. Un raggio di sole morente, dardeggiato traverso le imposte della finestra, venne per un momento a posarsi sul sembiante della morta, a baciarle tremolando la punta delle ciocche..... Anche quel messaggiero della divina misericordia un momento appresso era scomparso! Ella se n'era ita libera: io rimaneva. Sfogliai un mazzo di purpurei garofani, e ne versai un pugno sul corpo della defunta.
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