Ho un amico che si permette di celiare alle mie spalle ogniqualvolta entrando in una bottega, ne saluto cortesemente il padrone, il commesso, il fattorino e li prego di servirmi la merce di cui abbisogno. «Col tuo danaro alla mano, egli dice, hai il diritto di comandare, e il negoziante dandoti in cambia la roba sua, non ti reca niente affatto un favore di cui tu abbia a mostrargliti grato». E infatti, in quanto a lui, ei m'entra, altezzoso, arrogante nei fondachi, senza toccarsi pur l'ala del cappello o fare l'atto del menomo saluto, che ne troverebbe scapitato il suo decoro: tiene per l'ordinario il sigaro acceso, e tra l'una boccata e l'altra ordina, con piglio da sopracciò, gli venga mostrata quella e questa mercanzia: affetta disprezzo per tutto; a ogni dire del negoziante arriccia il naso e storce le labbra a un ghigno che vuol sembrare malizioso o che vale come dirgli: a me non sei uomo da accocarmela! E intanto respinge ogni cosa. Finalmente, se si decide per l'acquisto di un abito, d'una chincaglia, getta il danaro sul banco a un modo che pare voglia significare che glielo rubano; e non accade mai che lasci scorgere un po' di soddisfazione della compera fatta. Un elogio all'onestà, alle buone maniere del venditore, alla solidità della mercanzia, un mi rallegro sull'avviamento del negozio sarebbero nel concetto del mio amico un'enormezza. Egli vuole insomma ad ogni costo mantenuta fra sé e il bottegaio quella distanza che esiste fra l'attività industriale di quest'ultimo e la beata fiaccona a cui esso, per merito di nascita, ha divotamente consacrata la propria esistenza. E questa distanza esiste davvero più che ei non creda; soltanto il mio amico non la estima nel suo vero senso, non sapendo egli, colpa la educazione ricevuta e la modicità dell'ingegno, da qual punto si deve partite per misurare la virtù, la nobiltà delle persone; per cui non è a farglisi carico, se a chi vale davvero più di lui egli non si crede in debito di usare civiltà e cortesia.
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