Se per caso si trovano alla stessa tavola due o tre persone, ma ognuna mangia per conto suo, noi abbiamo un desinare composto, il quale potrebbe essere abbellito dalla conversazione, ma che non costituisce ancora un fatto morale. Questo non si ha che quando più persone, strette fra loro dai vincoli della famiglia o dell'amicizia, si riuniscono ad un solo desco per mangiare assieme. Allora si ha un vero svago complesso, una vera festa, nella quale i piaceri del senso si associano in mirabile accordo alle delizie del sentimento. Nel desinare della famiglia la parte migliore del piacere è costituita dal sentimento, e, quando questo vien meno, le vivande più squisite non possono supplire al tesoro che manca, facendo di ogni individuo un essere vegetativo. L'atmosfera morale che in sè confonde ed unifica le gioie del desinare è il sentimento, è l'affetto che riunisce i membri della famiglia. Il piacere di riposarsi dalle fatiche della giornata, di vedersi, d'essere vicini, di parlarsi, di scherzare, sono altrettanti elementi che rendono beate le ore in cui in sì breve spazio si trovano raccolti tanti affetti e tante gioie. Tutto ciò che tende a ravvicinare gli individui e ad ispirare il raccoglimento, ravviva i piaceri del desinare. Così nulla è più delizioso del desco di una famiglia svizzera, che nella sua camera di legno, ben chiusa e ben riscaldata, vede cadere la neve attraverso le piccole finestruole, al lume pacato di una lucerna, mentre i figli e i parenti stanno seduti con una tranquillità esemplare e una serenità olimpica attorno alla tavola. Sotto le stesse condizioni morali è invece pessimo il desinare di una famiglia indiana, che, sbandata nei campi, si raccoglie sul mezzogiorno attorno a una tavola sudicia e disadorna, presso la quale gli uni stanno seduti, gli altri in piedi. Noi possiamo benissimo immaginarci la differenza di questi due pasti, senza essere Indiani o Svizzeri, purchè solo noi ricordiamo i tiepidi e raccolti pranzi delle sere d'inverno, e il distratto desinare dei caldi giorni d'estate. In generale si può dire che, andando dal nord al sud, il desinare decresce di importanza e di bellezza, finchè nella zona torrida cambia affatto di fisonomia. Nel pranzo il sentimento che domina è, in generale, meno elevato che nell'umile desinare, e le ricercatezze del lusso vengono a coprire, più d'una volta, passioncine d'una meschinità veramente desolante. Il convito più nobile è quello in cui si tributa un omaggio all'ospitalità, e si onora in modo speciale la persona che viene invitata. Allora si hanno da una parte le premure d'una cortesia naturale o le attestazioni di stima e di rispetto, e dall'altra le espressioni della riconoscenza. Questo scambio di nobili gentilezze spande su tutto il pranzo la sua benefica influenza e ravviva ed eleva le gioie più materiali dei sensi, offerte in sacrifizio sull'altare del sentimento. Rarissimi però sono i pranzi che si elevano a tanta dignità; e una splendida mensa raccoglie spesso intorno a sè uomini che magari si odiano e si disprezzano, non hanno fra loro sincerità di rapporti o di disinteressata considerazione. Allora i pallidi e stentati sorrisi, le studiate menzogne e le sfrontate adulazioni spandono una gioia falsa e veramente patologica, che spesso riesce anche a soffocare i piaceri del gusto, pel quale manca l'attenzione necessaria. Oltre queste due grandi varietà di pranzi ve n'ha un'ultima, quella, cioè, in cui molte persone si raccolgono attorno a una mensa sfolgorante di tutte le ricercatezza dell'arte culinaria, e dove si dedica una vera festa ai piaceri del gusto, ai quali si associano quelli dell'odorato, dell'udito, della vista e, fors'anche, del senso sessuale. Quando questi pranzi non s'abbassano fino all'orgia, possono essere elevati a un certo grado dalla perfezione dell'arte e dal sentimento del bello, e la gioia, che trabocca da ogni parte fra le risa e le scintille dello spirito, non è certamente colpevole. La merenda è il pasto meridionale per eccellenza: in tutta la sua perfezione non si può fare che sotto la volta d'un cielo azzurro, tra l'erbe e i fiori. Allegra e vivace, essa bandisce l'ordine e l'etichetta e si compiace di frutta, di dolci, di latte e d'altri cibi semplici e leggeri. I giuochi, gli scherzi e la musica ne sono gli accessori più naturali e spontanei. La cena presenta due varietà ben distinte e che differiscono immensamente fra loro. La cena della famiglia è un pasto soavissimo, condito da una calma gioia e da un particolare raccoglimento. I lavori della giornata sono finiti e la mente riposa in una calma serena e soave. È l'ora delle confidenze e delle dolci ammonizioni, dei racconti e delle interminabili chiacchiere che un tempo si facevano presso il focolare. Beati quelli che hanno potuto godere in tutta la loro purezza le gioie d'una cena di famiglia! La seconda varietà di cena è costituita da una piccola festa consacrata alle lussurie del gusto, e nella quale basta la velleità di un appetito capriccioso per poter onorare degnamente le squisite vivande e i vini deliziosi. Questa cena, anche nel suo esemplare più onesto, cammina sulla linea di demarcazione fra il desinare e l'orgia; il più delle volte la temperanza è talmente compromessa, che si ritira dai lieti convitati fino dall'istante in cui questi si riuniscono, e non ricompare che più tardi, accompagnata spesso dal pentimento.
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Tanto il ritratto che veniva fatto di lei o di lui assomigliava poco alla realtà; tanto esso era esageratamente abbellito. Quanto sarebbe più ragionevole e più prudente al tempo stesso, cercare nella persona amata, non un angelo, non un essere perfetto, immaginario, ma semplicemente l'uomo o la donna. L'uomo con le sue qualità e i suoi difetti, la donna con le sue virtù e le sue inevitabili debolezze. Poi giudicare se le qualità sono tali da far sopportare i difetti, se le debolezze siano di quelle che si possono e si debbono perdonare. E una volta che la ricerca e lo studio, fatti coscienziosamente, una volta che la questione posta fosse risolutamente e nettamente decisa, allora sì, non si avrebbero più a temere le dolorose e amare delusioni del dopo. Chi non ha qualche difetto? Chi è uguale alla perfezione? Nessuno. Chi non si sente la forza e la virtù di sopportare i difetti dell'uomo o della donna dopo le nozze non sarà mai una buona moglie o un buon marito. Non si pretende, chè sarebbe ingiusto, che un essere dal carattere formato, anche se giovane, dalle abitudini contratte mentre era libero di sè, cambi e si modifichi interamente dopo il matrimonio. Non v'illudete che la compiacenza e la sopportazione rivelate nel periodo del fidanzamento possano durare a lungo anche dopo. Senza premeditazione, senza quasi che uno se ne accorga, a poco a poco, si ridiventa ciò che si era; i difetti rifanno capolino, le passate abitudini ripigliano il sopravvento. Ma se ognuno avrà ben studiato prima del matrimonio il futuro compagno, ciò non potrà sorprendere nè sgomentare e si sarà tolleranti, senza che perciò i meriti reali del marito o della moglie scompaiano o si offuschino, senza che l'affezione e la felicità d'entrambi venga alterata.
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Quel pranzo per me è quasi un ritratto di famiglia che amo conservato tal quale, non abbellito o adorno con fronzoli o con frange. Ho insistito molto sul bisogno della semplicità, della sobrietà e della misura, e più ancora sulla bellezza della conservazione dei tradizionali costumi nei pranzi di famiglia, perchè essi sono l'espressione e quasi lo specchio del principio che li muove, l'amor vicendevole. Fra l'agape fraterna ed il greco simposio non c'è che un passo facile a valicare e pericoloso, il quale dalla purissima e santa gioja del trovarsi tutti riuniti i membri di una famiglia intorno al desco paterno, fa passare alla prosastica e bassa gioja (se pure è gioia) di gustare cibi prelibati, di empirsi il corpo, di inebriarsi la testa; e l'idea principale, l'idea madre va perduta insieme alla semplicità, all'affetto... Vedo che dovrò ancora intrattenermi teco in proposito, affinchè non s'infiltri in te pure lo spirito di tutto materializzare, di tutto ridurre alla macchina, al numero, al piacere. La materia c'è, lo sappiamo tutti: la materia costituisce il nostro stesso essere, od almeno la sua parte inferiore, il corpo; la la materia ci circonda, ci nutre, ci minaccia; ma che la materia prenda il posto dello spirito, od a lui si pareggi, la è questa una cosa che nessun'anima ben nata può tollerare; ora tu sta ben all'erta, veglia attenta, affinchè non s'introduca dentro di te, intorno a te, neppur uno di quei principj che la potrebbero generare... La materia è serva e lo spirito è padrone, Iddio ha posto la distanza tra servo e padrone, noi la dobbiamo mantenere, ed a questo riguardo incomparabilmente più che in qualunque altro. Colui che mi presta il suo servigio è un uomo della mia stessa natura il quale a sua volta può diventar mio padrone; ma la materia è di natura più bassa ed infinitamente inferiore alla mia, alla tua anima, creata ad immagine e somiglianza di Dio! Tieni serva la materia, padrone sempre sempre lo spirito.
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I capelli falsi sono una cosa brutta ed inutile; si riconoscono a prima vista, e non hanno mai abbellito nessuno. Una signora d'età darà prova di eleganza, coprendo i suoi capelli di una trina. Per la nettezza della testa vi sono tante ricette quasi, quante persone; adesso la più in voga è il così detto shampooing di cui uso ci è venuto dall'Inghilterra. Si prepara anche in casa facilmente; in un litro d'acqua si fondono trenta grammi di bicarbonato di soda, quindici di sapone di Marsiglia, poi vi si versano alcune goccie di essenza, e trenta grammi di spirito di vino finissimo; lavati ben bene i capelli e la testa con questo miscuglio, si risciacquano nell'acqua tiepida, e poi si asciugano con biancheria calda. Prima di pettinarsi bisogna aspettare due o tre ore, per evitare che i capelli prendano quell'odore d'umido assai sgradito. Le bionde fanno meglio evitando le lavature all'acqua, che alterano sempre un poco la tinta loro delicata, e supplendovi col lavarsi con farina di meliga spazzolando quindi ben bene la chioma. Questa della spazzola è un'ottima abitudine, quando si sa servirsene bene; il leggero massaggio facilita la crescita dei capelli, e inoltre toglie le pellicole che dànno tanta apparenza di trascuratezza alla più bella testa. L'arrestare la caduta dei capelli non è più ufficio del galateo; bisogna però, in questo, ricorrere al medico e non fidarsi delle quarte pagine dei giornali. È pessima educazione grattarsi colle unghie il capo, il che inoltre stacca i capelli e facilmente ferisce la cute; nè mi pare migliore l'abitudine che hanno certi uomini, di passarsi continuamente le mani in testa con quel gesto ispirato, che, in certi casi, è proprio fuor di posto. Veramente ogni parte del nostro corpo richiederebbe consigli speciali, per conservarlo in quello stato di salute e di nettezza che forma la vera bellezza; mi limiterò peraltro a dire che sarebbe necessario introdurre in Italia, come in tutte le nazioni civili, l'uso del bagno completo quotidiano. L'acqua non manca certo nella nostra penisola; ma sui trentadue milioni di sudditi di sua maestà Vittorio Emanuele III, sono sicura che nemmeno centomila hanno questa abitudine. Non arrivo al punto di dire che la civiltà di un popolo sia in ragione diretta del suo amore alla pulizia, ma è certo che questa, forma un gran contingente di benessere, e dinota un grado elevato di educazione. Vorrei che nelle case di mediocre ricchezza si trascurasse un po' più il salotto, ma non si mancasse della stanza da bagno; che la padrona di casa avesse una veste di seta di meno, il padrone rinunziasse a qualche costoso capriccio, ma che entrambi pagassero la leggera sopratassa che permetterebbe di aver acqua sufficiente per le complete e giornaliere abluzioni di tutta la famiglia. Costano così poca fatica, e accrescerebbero tanto la salute e la bellezza! Chi non può avere una vasca in marmo, si contenti di quelle di zinco, di un recipiente rotondo per le spugnature; ma acqua, acqua, io grido, con tutto l'entusiasmo con cui gridava Pietro l'eremita famoso: Dio lo vuole! perchè questa, in favore dell'uso dell'acqua e della pulizia, è una vera e santa crociata. I denti vanno lavati almeno due volte al giorno, la mattina e la sera; è bene sciacquarsi la bocca ogni volta che si mangia; l'alito cattivo è una delle cose più disgustose immaginabili, e, quando non proviene da una malattia dello stomaco o dei denti, può evitarsi con una grande nettezza della bocca. I denti allora si conservano sani e bianchi; il che non è da disprezzare, giacchè il più bel voto non può parer tale, quando nel sorriso scopre due file di denti di dubbia nettezza. Si devono prendere sin da fanciulli queste abitudini, se non vogliamo aumentare le ricchezze di tutti i dentisti americani e tedeschi, che invadono l'Italia fidandosi appunto sulla nostra trascuratezza in questo ramo della toeletta personale. Mordere le labbra, bagnarle continuamente colla lingua è cattiva educazione e ne sciupa la freschezza, rendendole facili all'azione dell'aria fredda; non mi pare necessario di dire che non bisogna mettersi le dita in bocca, nel naso, nelle orecchie; è vero che monsignor Della Casa vi accenna nel suo famoso galateo, ma forse allora egli sentiva il bisogno di questi consigli ai suoi contemporanei, mentre ai nostri tempi oso qnasi supporre che nemmeno un bambino lattante abbia di questi volgari difetti. È meglio non portar mai le mani sulla faccia: le pelli delicate conservano subito l'impronta delle dita, e una bella carnagione è certo uno dei migliori pregi del volto. Anche le unghie richiedono una cura incessante; alcuni pretendono che non bisogna mai tagliarle ma limarle: io sono di parere che le due operazioni sono ugualmente necessarie; in ogni caso poi vanno tenute molto nette, e di giusta lunghezza se non si vuol farle sembrare artigli; tagliarle col temperino è cattiva educazione e si sciupano; occuparsi delle nostre dita è una funzione che bisogna fare nel proprio camerino da toeletta, mai in pubblico; le unghie si lucidano con un pezzetto di pelle scamosciata; vi sono polveri a posta per dar loro lucentezza e tinta rosea, ma in fondo io le credo inutili; una buona salute e molta pulizia sono i migliori rimedii. Quelli che hanno il brutto vezzo di rosicchiarle, non tardano ad essere puniti della loro sconvenienza; una volta presa la brutta abitudine, difficilmente, anche perdendola, torneranno ad avere unghie belle e lucenti. La signora cui sta maggiormente a cuore la bellezza delle proprie mani, non ha bisogno di rimanere oziosa per conservarla; adoperando larghi guanti vecchi riuscirà ad evitare il danno della polvere e a conciliare le occupazioni di una buona massaia con la cura di conservarsi le mani morbide e le unghie bianche. Del resto un po' di sugo di limone è ottimo per lavarsi le mani dopo aver terminato le mille piccole faccende domestiche. Per togliere le macchie d'inchiostro si usi la pietra pomice, oppure il limone, il latte, il sugo di un pomodoro, ecc. Il più grande scrittore, il più laborioso impiegato non vanno esenti dall'obbligo di conservarsi persone educate; e mostrarsi colle mani sporche d'inchiostro, è una cosa indecente e imperdonabile. Oltre questi brevi precetti di nettezza per conservarsi belli e attraenti il più lungamente possibile, l'igiene consiglia una quantità di ricette che mi porterebbe troppo in lungo l'accennare e che sarebbero fuori posto in questo libro. Le passeggiate regolari, la ginnastica moderata impediscono d'ingrassare; un cibo sano, semplice e nutriente, le veglie non troppo prolungate, la moderazione nei sentimenti, nelle passioni di qualunque genere, sono tutte buone abitudini che conservano il corpo sano e che noi non dobbiamo affatto trascurare, se vogliamo conservare la bellezza sortita da natura, e così adempiere un vero dovere, che, come ho già detto, ci incombe e verso noi e verso il prossimo.
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Risponde il messere bruscamente a ogni domanda che gli venga fatta: il suo, se pure può chiamarsi discorso, è di quando in quando abbellito da sconcie invettive, da luridi intercalari: nel volto acceso, nel concitato linguaggio tu andresti invano cercando quell'affabile sorriso, quel melato accento che ti avevano così favorevolmente disposto a giudicarlo nei pubblici convegni, ne'crocchi degli amici. Tu lo vedi, l'uomo che ti parve già sì affabile e gentile, impazientarsi per ogni menomo ritardo del pranzo o della cena: irritarsi d'ogni contrattempo, d'ogni minuzia urlare tu lo senti contro la moglie, contro i figli, contro i servitori che egli mette nella sua collera allo stesso livello, e guai che uno ardisca frammettere la più piccola osservazione ai suoi, non sempre giusti, rimproveri, o cercar di scusarsi di qualche leggerissimo fallo. Egli ha il diritto, come capo di casa, di non aver mai il torto dalla sua parte: così voglio così comando, la mia volontà deve tener luogo della ragione. In casa sua tutto deve camminare in fil di ruota...per lui. Se no guai! E mostra intanto alla cara famigliola la bella coppia di pugni che ebbe in regalo dalla natura. Costui, come vedete, non avrebbe ragione di chiamarsi gentile. La sua gentilezza nelle altrui case, in ufficio, al banco, in piazza è una gentilezza d'accatto che indossa e si mette a seconda delle circostanze come un abito da commedia. «Aspettare, dice il buon Pellico, l'istante in cui esce di casa per mostrarsi osservante delle regole di gentilezza, mancando colla più schifosa indifferenza ai riguardi dovuti ai parenti e più che una pazzia, è una colpa».
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Ma; come ho detto, grande è la mia stanchezza: ti ringrazio di aver abbellito il mio sonno con la delizia del tuo sorriso. Shuade abbassò la fronte. — Ti imploro, signore, non mi scacciare, — disse. — Perderò ogni grazia del Sultano, se saprà che mi hai allontanato dal tuo letto. Mi farà certo riportare dai suoi cavalieri fra i pastori che allevano le greggi nelle montagne di Kamur, e mi darà in sposa al piú rozzo di loro... Una donna può essere più silenziosa di un'ombra, signore: lasciami stare qui con te, almeno questa notte. Non sentirai il mio respiro, e prima dell'alba, che non è lontana, io scomparirò: cosí non avrò sulla fronte il fango del tuo rifiuto... Gentile tacque ancora. Fece un lungo respiro. — Resta, dunque, Shuade, — disse, preso da una tristezza improvvisa, una puntura di lacrime agli occhi. — È per me un onore dormirti accanto. — Vuoi che scopra il mio corpo, signore? — lei sussurrò. — Non mortificare il mio cuore, Shuade, mostrandogli una bellezza che non sa desiderare. La donna non disse altro, e si accoccolò ai piedi del grande letto, senza fare più un movimento. Gentile spostò la torcia verso la porta, e si coricò. Davvero non percepiva il respiro di lei, sebbene ne sentisse il delicato profumo di agrumi. — Dio protegga il tuo sonno, Shuade, — disse a voce molto bassa. — Allah copra di fiori il tuo, signore, — lei rispose, invisibile. Anche ad occhi aperti, nel buio infinito della notte, Gentile vedeva il volto di Amilah, e piangeva.
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