Alla parete a mancina della finestra era appesa una scansia, dalle cui assicelle pendeva una lista di tela iuta ricamata in lana celeste:e non si sapeva s'essa abbellisse i libri o ne fosse abbellita. Sotto la scansia, un tavolino sosteneva una macchina da cucire a mano e un cestello, dove i rocchetti bianchi e neri sembravano tanti soldatini schierati gli uni contro gli altri, in mezzo a cui scintillavano, armi innocue, le forbici, il ditale, l'uncinetto e un agoraio di metallo. Dall'altra parte della finestra c'era il cassettone di noce con marmo candido, su cui era posato uno specchio a bilico. Nel corsello del letto, da un attaccapanni di legno, pendeva un grembiulone a quadretti bianchi e turchini; al fondo un portacatino di ferro lucido, con la sua catinella e la sua brocca di porcellana e il suo asciugamano ripiegato a striscia e ben disteso. Un raggio di sole, entrando per lo spiraglio delle tende, ravvivava un mazzolino di mammole pioventi da un alto vasetto di cristallo. Era in ogni mobile una semplicità quasi rudimentale; ma ogni mobile aveva una sua fisionomia particolare, pur non stonando affatto con quella degli altri; c'era, fra essi, una specie d'affiatamento, c'era, direi, l'aria di famiglia. Tutte queste cose materiali parevano avere un'anima che togliesse loro la superficiale banalità per renderle strumento di gioia, di tenerezza, di melanconia, di poesia, di raccoglimento. La padroncina a quegli oggetti doveva aver dato molto di sè; tanto che in essi io ci vidi molto di lei. E l'intuizione mia s'ingannava così poco che, quando una voce dall'uscio mi riscosse con un timido"mi scusi", nella giovinetta che m'apparve davanti credetti di vedere una mia conoscenza antica, di cui que' pochi minuti scorsi nell'attesa m'avessero risvegliato il ricordo. La mia allieva era veramente come la sua cameretta me l'aveva rivelata:anche nella sua mente le idee avevano il loro posto, la stessa chiara limpidità di que' semplici oggetti, e, com'essi, erano puri e senza macchia i sentimenti della candid' anima giovanile.
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Molti ricchi proprietari di greggi, commercianti di cavalli o di stoffe, chiamavano Sakumat nella loro casa perché abbellisse un angolo, un fondo di portico, o allargasse con i fiori colorati della pittura la luce di un davanzale. Se nessuno avesse richiesto la sua opera, tuttavia, Sakumat avrebbe dipinto ugualmente: perché i pennelli erano per lui come dita, e in ogni pennellata versava dolcemente una goccia del suo sangue. Quanto ai paesaggi che immaginava, chissà dove li aveva veduti: nemmeno lui lo sapeva. Forse non esistevano in nessun luogo del mondo e in nessun sogno umano: però erano, a vederli, come vera terra, toccata e profumata. Piú li si guardava, piú il corpo fuggiva attraverso gli occhi e si trasferiva intero e vivo in spazi colorati e ricchi di pace.