Si ama in tutti i paesi e in tutti i tempi; ma credo che la civiltà abbellisca queste gioie di molti delicati ornamenti, ed è innegabile l'influenza che esercitano su questi piaceri le diverse condizioni sociali. Tutti possono nella vita passare qualche istante di piacere con una persona di sesso diverso, ma non tutti possono amare. Per provare questa passione in tutta la sua perfezione fisiologica bisogna avere nel cuore un certo materiale di forza e di fuoco che non tutti posseggono. Per godere le maggiori gioie di questo sentimento bisogna prenderlo a grandi dosi alla volta. La donna e i più generosi amatori tracannano quasi sempre la tazza dell'amore in un sol fiato, sicchè non possono inebbriarsi che una sola volta nella vita; e se amano ancora, non è che spandendo sopra qualche creatura le ultime stille di affetto rimaste nel fondo del calice. Alcuni altri, invece, sono per natura tanto spilorci, che libano sempre a sorsi e a centellini. Questi usurai dell'amore dicono di essere stati innamorati centinaia di volte, e negli archivi polverosi delle loro memorie conservano pacchi di letterine profumate e spasimanti, ciocche di capelli e residui di fiori secchi. Essi però non hanno mai amato. La natura non concede che una sola tazza del nettare dell'amore, e per inebbriarsi bisogna vuotarla di un sorso. Chi mostra di bevervi continuamente, o finge o fa da barattiere, diluendo coll'acqua il santo liquore. Vi sono però alcuni genii o mostri del cuore, che sanno mare più volte e sempre più caldamente, ma sono vere eccezioni.
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Dal cuore partono le pù care, le più soavi affezioni, le qualità più amabili onde si abbellisca l'umana natura: ma son queste appunto che concorrono a formare la vera civiltà, la vera cortesia: dunque se vogliamo essere civili e cortesi, noi dobbiamo intendere prima di tutto a formarci, a perfezionarci il cuore. Ora questa, pulitezza per così dire innata che proviene da un cuore ben fatto «non è privilegio esclusivo di nessuna classe, di nessuna posizione sociale. L'operaio che lavora al suo banco può possederla non meno che il ministro e il senatore. Non è punto né poco una condizione necessaria del lavoro l'essere rozzo e grossolano. Dalla più elevata alla più umile, dalla più ricca alla più povera non v'ha nessuna classe, nessuna condizione sociale a cui la natura abbia negato il più prezioso de' suoi doni, un gran cuore». (Sm.). A ognuno di noi è avvenuto infatti nel corso della vita di trovar gentilezza in persone che non ebbero altra educazione fuorché quella della religione e della famiglia. Anche ne'più bassi strati della società, tu t'incontri in persone nelle quali ingenita, per così dire, è la cortesia. Silvio Pellico nelle Prigioni ha delle pagine commoventi sul vecchio carceriere Schiller che trattava, i prigionieri «con amore di padre: quando egli era convalescente, veniva talvolta a passeggiare sotto le nostre finestre. Noi tossivamo per salutarlo ed egli guardava in su con sorriso melanconico, e diceva alle sentinelle in guisa che udissimo: Là sono i miei figli!». Chi ama è cortese. Che cos'è l'amore, infatti, se non se un desiderio, uno studio di procurare a colui che tu ami ogni possibile onesta gioia, di rendergli tutti quei servigi che sono in poter tuo, di riuscirgli grato in ogni cosa, di evitare ogni parola, ogni atto che possa tornargli dannoso o sgradito? E questi riguardi che servono per appunto a dimostrar l'interesse, la deferenza, la simpatia, la tenerezza non sono altro che pratiche di gentilezza e di cortesia che partono dal tuo cuore verso la persona che è oggetto della tua affezione.
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S'arriva così fino a prender moglie, a far relazioni nuove e diverse, e si tira via, chi da un lato chi da un altro, Tizio non ricordandosi più di Caio, e Caio dimenticando che Tizio abbellisca della sua presenza la scena del mondo. Così passa l'eta degli amori e degli svaghi, ognuno facendo i fatti suoi. Segue l'età delle piccole e delle grandi ambizioni; e si arriva, chi prima e chi dopo, ai più elevati uffizi della repubblica. Ecco il momento da ravvicinare la gente, che si era allontanata e perduta di vista. Ma ravvicinare non è congiungere; si può esser vicini di scanno, e tra un gomito e l'altro può durare l'abisso, senza che a nessuno dei due possessori di quei gomiti venga fantasia di rimediarci con un arco di ponte. Qualche volta, sì, viene uno starnuto, a cui può rispondere un «Dio v'aiuti». Ma questi sono i ravvicinamenti delle anime deboli. Tra le anime forti, quando una parte starnuta, l'altra sta dura o si contenta di mormorare un «crepa!» che rimane educatamente fra i denti. E poi, l'uno è magro, mentre l'altro è grasso: questo è un gran parlatore, e quello non ha mai saputo cucir due frasi per farne un periodo. Oppure, uno rimpinza volentieri il discorso di citazioni latine; che noioso! l'altro non sa dire venti parole, senza ficcarne dentro una mezza dozzina di francesi; che sciocco! Ahi misera creta umana! Così l'uno per l'altro, Bendinello Sauli e Gian Luca Balbi, senatori ambedue, ambedue nel consiglio ristretto del Doge. Quei due vecchi matti, sia pace all'anime loro, senza avere una ragion vera di odiarsi, non avevano mai trovato il modo di andare una volta d'accordo. Sempre a tu per tu, in ogni adunanza non facevano altro che bisticciarsi; quello che Bendinello proponeva era strenuamente combattuto da Gian Luca, con un corredo di argomenti storici, politici, economici, perfino filosofici, da disgradarne Cicerone; quello che Gian Luca stimava il miglior partito, era dichiarato da Bendinello il peggiore, con una foga di discorso, che faceva pensare a Demostene. La inconciliabilità dei loro giudizi, come dei loro caratteri, era passata in proverbio. Basta dir questo, che un giorno, essendo il Consiglietto quasi in fin di seduta, e ancora dovendosi sbrigare una pratica di mediocre importanza, il serenissimo Doge propose di rimandarla; «eccetto che» soggiungeva egli ridendo, «eccetto che i nostri magnifici Bendinello e Gian Luca si adattino a lasciar arbitra dei lor riveriti pareri la sorte; altrimenti, per quest'oggi, non si va a cena nè a letto». Risero i senatori, e, caso strano, i due magnifici così tirati in ballo non furono dei meno corrivi Ma non per questo si persuasero di smettere. Solo per non parere, si adattarono a stringere in brevi discorsi le loro opinioni; e in quel poco stillarono tutta l'acrimonia che avevano in corpo. Nè altri parlò, dei loro colleghi, per non dar appiglio a repliche dell'uno o dell'altro, tutti rimettendosi volentieri alla trionfale eloquenza dei voti. Con questi umori dei padri, figuriamoci come potessero andare gli amori dei figli. Quando se ne toccò da un discreto amico al signor Bendinello, il vecchio senatore s'inalberò, come una serpe a cui fosse pestata la coda. - In casa di quel letichino mia figlia? Le attacco piuttosto una pietra al collo, e l'affogo in Darsena. - Ci son sempre nel inondo i pietosi che riferiscono caritatevolmente le male parole. Quelle del magnifico Bendinello andarono subito agli orecchi del magnifico Gian Luca. - II Sauli non è savio; - diss'egli, in apparenza pacato, ma spremendo veleno. - Non ricorda egli di essere fra i Conservatori del mare, che han per uffizio di tenere in buono stato le acque del porto, cioè nelle debite condizioni di profondità,e di nettezza? - Ma già, - gli si rispondeva, - son parole buttate là in un momento di stizza. Il partito è buono per tutt'e due; credete che Bendinello non lo senta? - Senta quel che gli pare; - ribatteva Gian Luca, - Ci vogliono poi troppe cose, perchè un partito sia buono. Quanto a me, prima d'imparentarmi con un Sauli, vorrò veder finita la fabbrica di Carignano. - Figurarsi! quella benedetta fabbrica era stata incominciata nel 1522, quando si pose la prima pietra della basilica; e potè dirsi finita soltanto nel 1718, quando fu terminato il ponte, che vi conduce dalla opposta collina di Sarzano. E si era, quando parlava Gian Luca Balbi, all'anno 1619. Il nostro senatore degnissimo voleva dunque campare un bel pezzo. Ma non voleva aspettare tanto quel buon figliuolo di Geronimo. Nelle ore che non gli rubava quella stracca servitù di casa Pietrasanta, egli era sempre qui, nella sua stanza, in adorazione davanti a quella benedetta finestra. La bella Arduina vi faceva di tanto in tanto le sue apparizioni, per arrossire, chinar gli occhi e finger di guardare in istrada. Ed egli si sentiva un grande rimescolo in cuore, contemplando quel bottonicino di rosa e paragonandolo mentalmente con quella rosa spampanata, intorno a cui s'era indugiato già troppo. Certi amori hanno ufficio di scaltrire la giovinezza, facendole aspettare e riconoscere il vero. Ma quando il vero è comparso all'orizzonte, addio scuola; vedete la differenza, anche prima di meditarci sopra; la sentite ad un certo che di tenerezza nuova, che penetra la passione e la trasforma, purificandola. Ma la tenerezza non esclude l'ardore del sangue; e l'ardore del sangue vi dà l'impazienza; e l'impazienza vi fa ben presto uscire dai gangheri. Geronimo Balbi era proprio arrivato a quel punto. L'amico ch'egli aveva pregato di tastare il terreno era riuscito a guastare; ed egli oramai non vedeva più altro modo di uscirne, che facendo da se. Ma come? da che parte incominciare? Un giorno che l'innamorato era lì, al suo belvedere (possiamo bene chiamarlo così, e nessun belvedere meritò mai meglio di questo il suo nome), Arduina abbassò gli occhi, come soleva; e avvenne, per naturale consenso, che li abbassasse ancor egli. Ma egli, da questo cavalcavia vedeva meglio di lei in istrada; e volgendo lo sguardo laggiù, gli venne anche veduto il senatore Bendinello che usciva dal suo palazzo, ed era stato fermato proprio sulla soglia del portone da un Tizio, probabilmente un seccatore, venuto là ad appostarlo. Un'idea luminosa attraversò la mente di Geronimo Balbi. L'occasione passava, coi suoi tre capelli sulla vetta del cranio. Perchè siano poi tre, non so dire; al nostro giovinotto ne bastava uno. Rialzò gli occhi verso Arduina;
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