Più d'una volta la formula della vita di un uomo potrebbe essere rappresentata da un'unica nube, che paziente e sicura aspetta al medesimo posto il vento che dovrebbe innalzarla o abbassarla in mezzo alle intemperie e alle procelle dell'esistenza. Le gioie più vive però si provano quando il desiderio, oscillando di speranza, s'innalza a un tratto verso la meta. Vi è una vera e suprema voluttà in quella ascesa. La massima gioia si prova nel momento in cui la speranza diventa realtà, quando l'ultima oscillazione del desiderio che si perde si confonde col primo fremito della sodisfazione che comincia. Un'altra sorgente fecondissima di gioia deriva dall'alternarsi della caduta con la salita, del timore con la speranza. Per alcuni individui la tempesta agitata di queste incertezze costituisce anzi la massima voluttà. Tutti possono rammentare la trepida ansia di qualche momento della vita, nel quale si passa improvvisamente dalla speranza al timore, o dal dolore alla gioia. Una lettera impazientemente aspettata a lungo, e forse ormai non più sperata, ci arriva. I caratteri dell'indirizzo ci sono sconosciuti, ma il timbro della posta ci fa ritenere che quel foglio non possa assolutamente venire che da quell'unica che sopra tutte abbiamo in mente. La speranza più soave ci fa sospirare e sorridere: trepidanti guardiamo la lettera senza osare di aprirla. Là dentro vi è forse già segnata in nostra sentenza, là forse sta scritto il destino del nostro avvenire. L'impazienza ci consuma, ma il coraggio ci manca; e, guardando e riguardando, cerchiamo di indovinare dal modo in cui è scritto l'indirizzo, e fin dal modo con cui la lettera è stata suggellata le disposizioni dell'animo di chi ce l'ha indirizzata. Finalmente, dopo uno sforzo energico, la busta è rotta, il foglio è aperto, l'occhio avido e irrequieto corre alla firma, misura la lunghezza dello scritto e la commenta... Un rifiuto non potrebbe essere così lungo, una risposta consolante non sarebbe così breve. Tutto tortura e tutto consola, e passando dalla speranza al timore, in brevissimo intervallo di tempo proviamo uno spasimo di gioia e di dolore che non ha nome. Fra la disperazione e la felicità sta un deserto immenso, sul quale la speranza semina un sentiero di molle erbetta, che, ristrettissimo dapprima, va man mano dilatandosi fino a formare un vasto prato sempre fiorito, un vero eden di delizie. I gradi della speranza sono infiniti e si può dire che essa muta di volume ad ogni istante, tanto è sensibile ai minimi cambiamenti di temperatura, che or la condensano ed or la espandono. Tutti gli uomini sperano, ma non se ne trovano due soli che abbiano lo stesso capitale di speranza: l'uno è milionario e l'altro è pitocco; l'uno impiega i suoi fondi al cento per uno, e l'altro a stento ne ricava l'uno per cento. L'interesse della speranza è la gioia; ma come vi sono capitali che non dànno interesse, così vi è qualche speranza che non produce piaceri. Allora bisogna intaccare e divorare il capitale, misurandolo colle pretensioni della fame e coll'avarizia della miseria. Qualche volta, dopo aver consumato tutta la propria sostanza, bisogna vivere di elemosina, e in questo caso fortunatamente si trova molta generosità: tutti sono pronti a offrirvi il loro obolo e a mostrarsi caritatevoli. Quando poi non vi sentite di abbassarvi all'umiliazione dell'accattone, privatevi di qualcosa e andate a comperare un po' di speranza. Non mancano le botteghe dove la si vende; non mancano gli usurai che la pesano a libbre, ad once, a grani, e la vendono a tutti i prezzi, secondo il valore che hanno i fondi della fede pubblica. Quando l'uomo non può comperare un soldo di speranza, o quando non vuole abbassarsi al vile mercato, diventa suicida. L'uomo vivente senza speranza è un paradosso. Si può vivere senza godere, si può vivere in mezzo al dolore; ma per sopportare la vita bisogna avere fra mani una cambiale di gioia per l'avvenire, dovesse essere di un centesimo, dovesse essere falsa: una cambiale speranza. Essa costituisce il contravveleno dei più atroci dolori, il balsamo più soave delle piaghe morali. Quand'essa arriva a costituire un grande capitale può bastare a render amena la vita. Moltissimi individui si credono ricchi, perchè hanno nei loro scrigni fasci di valute, che potrebbero perdere tutto il loro valore col fallimento o la frode di un banchiere; così molti si credono felici perchè hanno fra mani mille cambiali per l'avvenire segnate dalla speranza. Essi muoiono sorridenti e beati senza che uno solo di quei biglietti di credito sia mai stato convertito in moneta sonante. È sotto quest'aspetto che alcuni economisti proclamano altamente che si debba in ogni caso impiegare i propri fondi su beni stabili e non sopra la carta; ma io trovo che quando non si può avere danaro sonante, è sempre meglio avere un credito, anche se inesigibile. Vi sono negozianti che lavorano sopra un capitale di credito, e vi possono essere anche uomini che vivono sopra un capitale di speranza. Quel che preme per giungere ai primi posti nel teatro della vita, è di avere qualche cosa fra mani onde abbagliare o ingannare il portiere, che fissa i posti alla folla che incalza per passare. In qualche caso ho veduto un petulante ciarlatano riescire a passare ai primi posti con un artifizio ingegnoso. Dopo avere sbuffato a lungo di impazienza e avere schiamazzato davanti alla porta per la quale doveva entrare nel teatro della vita, egli dava un pugno solenne sugli occhi del portiere, il quale, quasi accecato dal barbaglìo del colpo, credeva di vedere molt'oro, e curvandosi fino a toccare il suolo con la fronte, lasciava passare. L'oro porta sempre fra i primi posti. Se non volete credere a tanta imbecillità da parte del portiere, vi dirò che chi presiede alla distribuzione dei posti e alla gerarchia delle autorità è l'opinione pubblica, e allora mi crederete subito sulla parola.
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Se sono interrogati parlino, senza alzar la voce tanto da sbalordire, e senza abbassarla in modo asassurdo. Non si restringano ai monosillabi sì e no. Se una persona li interroga, vuol dire che quel discorso è adatto alla loro intelligenza e capacità, vi possono prender parte liberamente. Non reclamino mai nulla: non prendano il bicchiere colle mani tanto unte da toglierne la trasparenza; si ritirino quando la mamma lo dice, senza aver domandato di farlo prima, senza esitazioni, nè malumori, nè lagnanze. Evitino di fare qualsiasi rumore colla bocca nel mangiare; non mettano il tovagliolo in istato di fare schifo a vederglielo disteso dinanzi. Tengano la forchetta dalla mano sinistra, il coltello dalla destra ; prendano il pane ogni volta che devono metterlo in bocca staccandone soltanto il pezzettino necessario ; non posino mai le posate sporche sulla tovaglia; se si cambiano ad ogni servizio le lascino sul piatto; se sono in case di grandissima confidenza dove non si cambiano, le posino sul reggi-posate. Si rassegnino a lasciar le salse nel piatto, malgrado le tentazioni della gola, che vorrebbe asciuttarlo col pane come se l'avesse leccato il gatto. A questo modo pranzeranno bene, figureranno bene e non faranno indigestioni vergognose. Non c'è cosa più umiliante che il dover scontare ogni pranzo con un citrato di magnesia, come fanno, pur troppo, parecchi signorini di mia conoscenza, i quali nutrono una tale tenerezza pel loro piccolo stomaco, da non sapergli rifiutar nulla, anche quando i suoi desideri sono smodati.
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"Da ora in poi," le dissi, ripigliando il tuono serio, e rimettendola a sedere sulla poltrona, "da ora in poi, non alzerete troppo superba la fronte, se non volete abbassarla poco dopo nella polvere. Questo spavento vi serva di lezione! Quanto a me, sarò di parola: sono determinata di lasciare il conservatorio, ma lo lascierò quando piacerà a me, e non quando piacerà a voi." A ristorare le smarrite forze, chiese la superiora un bicchier d'acqua, e glielo porsi; indi con occhio pieno di carezzevole sommissione, sogguardatami, e stretta tenendomi la mano, "Sono sicura," disse, "che questa commedia non andrà per i giornali! a questo patto resteremo amiche.... Un altro bicchier d'acqua, vi prego!" D'allora in poi me la passai, non felice, ma libera da molestie, nè più ebbi a lagnarmi delle fantasticaggini della superiora. In quanto a' birri, la sorte li riservava, non a lei, ma a me. A me, pur troppo: perchè le cose d'Italia precipitavano a ruina fatale. Carlo Alberto, sconfitto presso Novara dall'Austriaco, era costretto ad abdicare ed abbandonare l'Italia. La corte pontificia, da tale disfatta incoraggita, invocava da Gaeta, per essere ristaurata in Roma, le armi degli Stati cattolici, e già si accingevano in suo soccorso l'Austria, la Spagna e la repubblica francese. In Toscana veniva ristabilito il dominio granducale per una sollevazione popolare in favor dell'antico regime, mentre Venezia, abbandonata a sè sola, e Roma strettamente assediata, lottavano: questa contro i Francesi, quella contro gli Austriaci, con sforzi eroici di prodezza. Benchè profondamente afflitta dalle infelici condizioni dell'Italia, non perdetti di vista la speranza di finirla coll'Ordine benedettino. Da me pregata, mia madre portossi a Gaeta all'incontro di Pio IX, con una supplica, nella quale io chiedeva al pontefice l'atto di secolarizzazione, coll'impegno di rimanere vincolata a' voti, non altrimenti che come semplice canonichessa. E perchè le monache di San Gregorio avevano mosso lite per indennizzazione a quel mio parente, che simulato aveva nel tempo della professione d'essermi debitore di ducati mille, io implorava inoltre dal pontefice d'esser dichiarata immune da tale ingiusta esigenza. Pio IX parve commosso alle istanze di mia madre, alle preci delle mie sorelline. Si volse attorno per vedere se nella stanza vi fosse l'occorrente da scrivere, e non avendovelo trovato, disse alla mia famiglia di ritornare dopo due giorni. Intanto il mio acerrimo persecutore, l'arcivescovo e cardinale, informatosi di queste pratiche, partiva premurosamente da Napoli alla volta di Gaeta, e vi giungeva l'indomani dell'arrivo di mia madre, latore di quella lettera famosa, da me indirizzata al papa sotto la salvaguardia della confessione, e da lui intercettata e aperta. Mia madre tornando dal pontefice lo trovò cambiato. "Signora," le disse con gravità, "fate che vostra figlia si contenti di quello che ha ottenuto finora; chi troppo vuole, niente ha. Ella vorrebbe mutar abito e condizione: non possiamo consentirvi. Che direbbero, che farebbero le altre monache, vincolate nella medesima sua condizione? Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.
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