Era un volto da dipingere; bianco e vermiglio, come un fiore; due occhi cilestrini, vivissimi; capelli lunghi, biondi, come oro filato: ma poltrone, e quel che è peggio, ambizioso e spregiatore d’altrui a più non dire; i quali difetti gli s’erano abbarbicati; perché essendo il cucco della mamma, de’falli aveva il più delle volte l’impunità; e del poco bene che faceva, venendo soverchiamente lodato, pigliava baldanza; difetti però che col crescere degli anni, sotto la scorta del padre e collo specchio del fratello, in gran parte scomparvero. La mattina ci volevan gli argani a cavarlo di sotto le coltri. Enrichetto lo svegliava, lo sollecitava. Ma sì; ci voleva dell’altro. Ogni dì si ripeteva un dialogo su per giù in questa forma: - Sandrino, Sandrino, gridava Enrichetto, destati; si fa tardi. - Sei già così noioso? Non seccarmi che voglio ancora dormire: e cogli occhi tuttavia chiusi si volgeva dall’altra parte, tirandosi le lenzuola sul capo. - Bada, Sandrino, che a momenti viene il babbo, e se ti trova ancora in letto guai a te! - Ti dico di farla finita, sor tormentatore. - Ma presto vien l’ora della scuola, e tu hai ancora da finire il còmpito, e..... - O scuola, o còmpito, non rompermi il capo, brutto seccatore. Tutte le mattine così…. mi verrebbe voglia…! e in così dire si scopriva il capo, e si voltava dalla prima parte. - Insomma, o t’alzi, o ti tiro le lenzuola di dosso, come mi dice sempre il babbo di fare. - Provati, provati, brutto ceffo! Vedilo: pare una bertuccia… Vo’ dire alla mamma che mi tolga di questa camera; con te non ci si può reggere; sei un.... E tutto dispettoso si sedeva, brontolando sul letto, e cercava intorno i calzaretti, e s’arrovellava di non trovarli. - Sei così ordinato, che non trovi più nulla! Veh uno stivaletto qui, l’altro in capo alla camera; il panciotto là, i calzoni giù in terra nella guardaroba de’ cani, il cappello sotto il letto…! - Ma dov’è l’altra calza? dov’è? E così sotto le lenzuola s’infilava adagio adagio le calzette, e poi i sotto calzoni; ma così lentamente da far scappar la pazienza a Giobbe. - Sei la pigrizia in carne ed ossa!... Bada che ti affoghi, vai troppo in fretta… adagino, adagino; veh che sei tutto sudato!... Poveretto! ? uno sfinimento badar a te! Coraggio, giù del letto; chè stai a covar la poltroneria costì? - Fai un bel dire tu, che sei bello e vestito; ma io ho freddo, io! - E credi tu; tirando in lungo, come fai, di scansare il freddo? Ti ven addosso a poco a poco e t’alzi tutto ingranchito. Chè se in fretta ti buttassi giù, e in men che non ci pensi ti vestissi, il freddo non avrebbe presa. - Sì, tu parli bene, tu, ma io non sono mica di ferro, io!... Che calzonacci, non vogliono infilarsi su; e questi occhielli non vogliono abbottonare!..... Ah sarto della malora! borbottando e bestemmiando scendeva del letto e si calzava gli stivalini. – E questi stivaletti non vogliono andar su! ahi, ahi, come mi dolgono i piedi! - Ma insomma, non c’è nulla che ti vada! Sai tu che dice il proverbio? A cattivo lavoratore ogni zappa dà dolore. - Va al diavolo tu e i tuoi proverbi!... - Ah queste le son belle parole! Che? Te l’ha insegnate il maestro?... Che stai lì pensieroso? Animo! Sandrino postosi alla catinella per lavarsi, metteva sospettoso un dito nell’acqua, e subito lo tirava fuori, esclamando: Ahi che è diaccia, Gesummaria! E quella Margheritona, Dio ne liberi dal farci scaldare un po’ d’acqua!... - Veh che ti scotti! Non mettere così le mani nell’acqua! Ieri un ragazzo ha posto una mano nella catinella, e si gelò subito lì tanto forte, che non potè più distaccarla, e gli restò il catino attaccato. - Sì, dà ancora la baia tu; ma se sentissi il freddo che ho io!... - Ma se lo tiri co’ denti il freddo!... Se tu senza paura mettessi subito giù tutte due le mani e in fretta te le stropicciassi, e ti gettassi su l’acqua nella faccia e negli occhi, il freddo se ne andrebbe tosto via. Nel primo gitto certo v’è un po’ di ribrezzo, ma poi si sta subito bene, anzi vien caldo; perché succede una reazione, come dice il dottore. E così un po’ co’ motteggi, un po’ colle minaccie riesciva a farlo vestire; ma tanto lentamente che era un agonia il vederlo.
Pagina 10
I dialetti sono abbarbicati alle terre e alle popolazioni. Dunque, restando nei limiti del possibile, accontentiamoci per ora che ogni italiano intenda e sappia parlare al bisogno la propria lingua, e le scuole, l'esercizio, l'accomunarsi degli interessi e delle relazioni tra le varie parti d' Italia devono condurre indubitatamente a codesto risultato. Vi sono molti, e non appartenenti alle classi meno educate, i quali non sanno o non vogliono usare che il loro vernacolo anche in puliti convegni e alla presenza di persone d'altre città, che è gran ventura se capiscono una su dieci delle loro parole. Chi non vede lo sconcio grossolano di siffatta abitudine coll' Italia unita, con Firenze, custode e maestra della lingua di Dante per capitale ? Altri, e in gran numero, uomini o donne del così detto bel mondo, si piacciono d'ingemmare il loro discorso con una gragnuola perenne di vocaboli francesi e inglesi ; e se ne tengono come fossero eleganti parlatori. Qui bisogna distinguere come fanno gli scolastici. O trattasi di una invenzione recente, di una nuova macchina, d'una scoperta di storia naturale, e allora ci è forza indicarla col nome di battesimo che ricevette dalle acque della Senna o del Tamigi: o trattasi di cosa che ha in Italia il nome corrispondente, e allora a quale scopo usare la parola forestiera a preferenza della nostra? Io non vi farò osservazioni da pedante, ma vi metto in guardia contro una moda la quale coll'andare del tempo non può che imbastardire la nostra lingua, specialmente perchè il lungo uso fa si che una voce straniera dal parlare trafori nello scritto; e in verità si veggono certe lettere e si leggono certi stampati, originali o tradotti, siffattamente infarciti di forestierume che muovon la bile. Avvezzatevi adunque coll' esercizio, coi buoni libri a parlare e a scrivere speditamente la nostra lingua, ma la schietta, la vera, non quella di falsa lega che è privilegio degli ignoranti e consiste nell' usare parole del dialetto appiccicandovi in fine una desinenza italiana. Oggi è grande la smania di scrivere nei giornali. Vi hanno taluni che, appena lasciati i banchi delle scuole, non si peritano a entrare in una redazione qualsiasi e, con una inqualificabile sicurezza e meglio diremmo temerità, si pongono a sentenziare di politica, di letteratura di belle arti, di tutto. Un valentuomo ha detto: « Il giovane che troppo presto si slancia nella carriera del giornalismo è rovinato. » E perchè ? Perchè, fatta la rara eccezione di qualche forte e distinto ingegno, non avrà più nè tempo nè volontà d'occuparsi d'altro e resterà sempre in una cerchia secondaria con limitato corredo di cognizioni. Dunque, dato il caso che alcuno di voi, miei cari giovinetti, sentisse codesta inclinazione, abbia un po' di pazienza ; aspetti, ci pensi bene e intenda al maturo compimento dei suoi studi. Che se poi ha fermo di cimentarsi nell'arduo e spinoso arringo, vi entri colla persuasione di accingersi a un nobile ufficio e non dimentichi mai che le leggi del galateo si vogliono osservare anche nelle quistioni più ardenti e nella più franca libertà di linguaggio. Vuoi nelle discussioni di politica e delle scienze che le sono compagne, vuoi nell'argomento delle lettere, delle arti della grammatica, della musica, lo scrittore ha il diritto, anzi il dovere di rendere omaggio alla verità. Ma la stessa verità può essere o no offensiva secondo la forma di cui si veste. Le contumelie non sono ragioni, e anche il ridicolo, che è pur condimento così gustoso d'uno scritto, non è spesse volte che l'unica arma rimasta a chi ha spuntate tutte le altre. Non loderai chi non lo merita: anzi è debito del critico onesto e coscienzioso avvertire schiettamente l'autore novizio che si è posto sopra falsa via. Giudicherai con imparzialità gli artisti di teatro, d'ogni categoria, notandone i pregi e i difetti; ma non imiterai la goffa e scortese inurbanità di quel critico che, rendendo canto di una compagnia drammatica, uscì a dire: « Tolta la prima attrice, le donne ponno andar tutte all'ospitale degli invalidi; » nè di quell'altro che a proposito di un dilettante di musica il quale aveva prestato gentilmente l'opera sua in un'accademia di beneficenza, ebbe a scrivere: « Il signor tale ha stonato dalla prima all'ultima nota. » L'acerbezza dell'ironia poi non è lecita che con certi autorelli e artisti presuntuosi e incorreggibili che, lungi dal far loro pro dei consigli benevoli della critica, vere vesciche piene di vento, ostentano a suo riguardo la più fredda indifferenza o il più superbo disprezzo. L' uomo o la donna che sa di musica sia compiacente e s' arrenda subito al desiderio generale della brigata, ricreandola col canto o col suono. Ma se la persona pregata se ne scusa con qualche giusto motivo, sarebbe inciviltà l' insistere oltre misura. Vi sono due parole, convenienza e delicatezza, le quali abbracciano un gran numero di tratti urbani, di gentili uffici, e si potrebbero dire il compimento del galateo. Io ve ne metto innanzi un brevissimo saggio. Voi, poniamo, date una festa da ballo. La convenienza ci prescrive di rendere avvertiti i casigliani ai quali i suoni notturni ponno recare disturbo. Ma la delicatezza vi dice d'invitare la famiglia a cui ballerete sul capo. - Un amico ebbe una promozione, un distintivo onorifico? Il cuore vi spinge a fargliene le vostre sincere congratulazioni. Con un conoscente sarà la convenienza che vi suggerirà quest' atto di cortesia. - Un giornale ha parlato con lode di un vostro lavoro? Bisogna ringraziarne l'autore dell' articolo o, se non era segnato, il redattore del foglio. - Se vi è noto che un amico versi in gravi angustie economiche, e a voi sovrabbondano i beni di fortuna, fate di toglierlo spontaneamente e in modo delicato dalle sue strettezze, risparmiandogli la pena di domandare; e così sarà doppio il valore del servizio che gli rendete. - Il vostro cuor generoso vi muove a soccorrere un operaio e più ancora un artista in bisogno? Dategli una commissione, e la vostra beneficenza non sarà una elemosina, ma il compenso della fatica, il pagamento di un' opera. Un' ultima parola, prima di congedarmi da voi, cari giovinetti e care giovinette che mi avete accompagnato sin qui con tanto buon volere. Non pochi di voi apparterranno al ceto patrizio: ma ponetevi bene in mente che sono passati i tempi dei privilegi di casta, e che oggigiorno la vera nobiltà è posta nell' educazione, nel carattere, nell' ingegno, nella sapiente filantropia, nell' accordo della mente, del cuore e delle opere verso il bene, in quell' efficace amore di patria che pospone il proprio interesse al vantaggio dei più. Non insuperbite adunque di ricchezze e di titoli ereditati, che non vi danno diritto a nessun vanto; e però badate di non assumere una cert' aria di superiorità coi vostri compagni meno favoriti dalla fortuna, e non guardate dall' alto al basso la gente del popolo come fosse formata d' altra carne e d' altro sangue, ma trattate sempre anche i vostri inferiori di condizione con affabilità, con dolcezza, con modestia. Sapete quel che insegna il Vangelo. Di tal guisa crescerete cari a tutti, delizia e ornamento delle vostre famiglie, e coll' andare degli anni concorrerete voi pure, nei diversi uffici che sono assegnati all'uomo e alla donna, alla grandezza di questa nostra Italia, di cui avete salutato fanciulli il prodigioso risorgimento. FINE.
Pagina 150