Il caldo essendo cresciuto, e il lezzo che veniva dai dormitori di terza diventato pestifero, la maggior parte trasportarono il corpo di calza sfatta dal cassero al salone, e si abbandonavano qua e là pei divani e intorno ai tavolini. Oh l'insopportabile gente! Conoscevo già gli atteggiamenti e i più piccoli gesti abituali di tutti, e i titoli di tutti i romanzi che leggicchiavano da due settimane, e la nota musicale dello sbadiglio di ciascheduno: mi pareva di assistere per la ventesima volta a una stupida rappresentazione d'un teatro meccanico. Non era più tedio, ma una vera malinconia, che stringeva il cuore. Non si vedevan che facce allungate, fronti appoggiate sulle mani, occhi velati e immobili. La pianista sonava sul pianoforte non so che musica di funerale: il brasiliano venne a pregarla rispettosamente di smettere, perchè sua moglie, coricata in cuccetta, soffriva un mal di nervi terribile: la ragazza chiuse il pianoforte con un colpo secco, e se n'andò. L'agente mi disse che la signora grassa singhiozzava nel suo camerino. Perchè? Non lo sapeva. Effetti del Capricorno. Anche una signorina della famiglia in lutto, su nella seconda classe, piangeva. Una discussione acre nacque improvvisamente in un angolo tra un argentino e il marsigliese, dicendo il primo, con ragione, che dall'osservatorio di Marsiglia non si potevan vedere del Centauro altro che due stelle, quelle che segnan la testa e la spalla; mentre l'altro sosteneva che si vedevan tutte. - Toutes les sept, monsieur, toutes les sept! - Ma è assurdo! - Mais, monsieur, vous avez une façon.... La comparsa del comandante, che cercava qualcuno intorno con un brutto sguardo, li quietò. II salone ricadde in un silenzio di cripta.
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All'alba del giorno gli abitanti della parrocchia s'univano nella chiesa carichi di cibi e di bevande d'ogni specie; appena finita la messa, cominciava il banchetto, e il clero e i laici vi si abbandonavano con ardore uguale; la chiesa si trovava trasformata in una taverna, e diveniva teatro di contese, d'intemperanze e di ferite. Gli ecclesiastici e gli abitanti delle diverse parrocchie si disputavano il vanto a chi avrebbe le più splendide messe ghiottone, o a chi consumerebbe maggior copia di cibi e liquori in onor della Vergine. Allorché i sinodi provinciali proscrìssero questi scandali vergognosi, ebbero il dispiacere di sentirsi a tacciare di voler distruggere la religione. Kotzebue nell'operetta intitolata: La Confraternita del corno, dice: « Gli abitanti di Strasbourg, uomini » e donne, si univano il 29 agosto nella cattedrale » per celebrarvi la festa della dedica di questa » chiesa, non già con preghiere ma con bagordi. Invece » d'inni si cantavano canzoni bacchiche. Preti » e laici, tutti passavano la notte a mangiare e a » bere; l'altare maggiore serviva di credenza e appena » vi restava posto bastante pel prete che diceva » la messa nel mentre che sui gradini si cantava » e si danzava, per non dire di più. Gli altri altari » erano ugualmente carichi di bottiglie: era necessario » che ciascun bevesse; e quegli che assopito » da' vapori del vino s'addormentava in qualche angolo, » veniva svegliato con punture di spille. I domenicani » che servivano la chiesa, trovando il loro » conto in queste orgie , si guardavano bene dallo » screditarle. Solamente nel 1480, un predicatore » intrepido, chiamato Giovanni Geiler, vi si oppose » sul pergamo: ma in onta de' suoi sforzi questa festa » popolare si conservò sino al 1549 in cui fu totalmente » abolita da un sinodo tenuto a Saverne». A Parigi, quando un reo veniva condannato a morte, l'uso voleva che si desse vino ai giudici incaricati d'assistere all'esecuzione, ed era il carnefice che lo presentava: documenti autentici dimostrano che quest'uso fu osservato nel 1477, allorché fu strangolato il duca di Nemours. (XIV secolo). Quando i più alti monti sono occupati dalle acque, è forza conchiudere che ne sieno inondate le valli. Ora nel XIV secolo troviamo ministri, re, imperatori dediti all'ubbriachezza. Vinceslao re de' Romani, andato a Rheims nel 1397 per trattare con Carlo VI re di Francia, vi si ubbriacò più volte; cosicché un giorno non potendo venire GIOJA. Nuovo Galateo. Tom. II. 12 alla sessione, amò meglio accordare ciò che gli si dimandava di quello che cessar di bere del vino di Rheims. (Vie privée des Francois, t. III, p. 43). In un concilio tenuto a Winchester nel 1308 si condannano le proposizioni di matrimonio fatte nelle taverne, e si vieta all'uomo ed alla donna di far promessa di contrarlo se non sono digiuni (nisi ieiuna saliva). (XIII secolo ). I canoni de' concili possono essere documento dell'esistenza de'vizi che caldamente condannavano. Ora la maggior parte degli antichi concili della Francia minacciano differenti pene agli ecclesiastici che s'ubbriacano. Alcuni anco, e principalmente quello di Tours del 1282, interdicono ad ogni sacerdote l'ingresso in una taverna ed osteria, eccetto che siano in viaggio. S.Luigi, più severo dei concili, estese la stessa proibizione anco ai laici. (XII. secolo). Ció che sorprende di più, dice Kotzebue, sì è che gli imperatori stessi all'epoca della loro incoronazione erano obbligati di promettere con giuramento al Sommo Pontefice di non ubbriacarsi: (Vis ne sobrietatem cum Dei auxilio custodire?) Si fa salire l'origine de' pubblici gridatori del vino a Parigi al XII secolo, con sospetto però che vada più in su. Fra le particolarità di questa confraternita, che sussistette anche dopo la metà del secolo XVIII, v'era la seguente. Quando qualcuno d'essi moriva, tutti i confratelli assistevano al convoglio funebre in abito della confraternita. Il corpo veniva portato alla sepoltura da quattro di essi; due altri lo seguivano; carichi, il primo d'un vaso da bere, il secondo d'un altro molto maggiore pieno di vino. Il resto della confraternita andava avanti avendo in mano campanelli che facevano sonare lungo la strada. Ad ogni capocroce (ossia angoli della contrada) il convoglio soffermavasi; ciascuno de' portatori beveva un bicchiere di vino, ed altrettanto veniva offerto a chiunque, o passeggiero o spettatore si fosse; quindi l'onorevole compagnia continua il suo viaggio. In quel secolo Pietro di Blois diceva: « Se osservate » i nostri baroni e i nostri cavalieri allorchè partono » per una spedizione militare, vedrete i cavalli » destinati al trasporto de' bagagli carichi » non di ferro ma di vino, non di lance ma di » formaggi, non di spade ma, di bottiglie, non » di picche ma di spiedi, di modo che credereste » che vadano ad un gran pranzo piuttosto che alla » guerra. Alcuni ve n'ha che si contendono » il vanto a chi possa più mangiare e più bere, » vaghissimi della fama di gran divoratori e bevitori». Un viaggitore inglese parlando de' popoli semibarbari dell'Assam tra l'Ava e l'Arracan, dice: « Tra le loro idee singolari v'ha quella di giudicare » del merito di un uomo dal suo appetito; » essi riguardano come più virtuoso quello che » mangia di più e beve con eccesso ». (Nouvelles annales des voyages, fèvrier 1827, pag. 229.) I quali costumi diedero occasione di dire ad un vecchio poeta (Bruschius)
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I pranzi sembrano essere stati il principale piacere de' Germani, de' Galli, de' Bretoni e degli altri popoli Celtici, i quali ai più grandi eccessi si abbandonavano tutte le volte che presentavasi loro il destro. Presso queste nazioni, dice Pellontier, non si teneva pubblica assemblea regolare, sia per oggetti civili, sia per motivi religiosi; non succedeva matrimonio né convoglio funebre; non celebravasi un giorno di nascita, nè trattato di pace o d'alleanza credevasi stabile, senza un pranzo clamoroso. L'ubbriachezza era talmente innestata nelle abitudini di que' popoli, che l'abbondanza della birra e degli altri liquori non veniva giammai dimenticata nella descrizione de'beni che la loro religione prometteva ai guerrieri. Robertson, descrivendo i costumi degli Americani, dice: «Qualunque sia l'occasione o il pretesto » per cui gli Americani si radunano insieme, » l'assemblea va sempre a finire nello stravizzo. Molte » delle loro feste non hanno altro oggetto, e si » dà il ben venuto al ritorno delle medesime con » trasporto di gioia. Non essendo eglino avvezzi a » raffrenare alcun appetito, non pongono limiti nè » anche a questo. La gozzoviglia continua spesso parecchi » giorni senza intermissione; e per quanto » siano funesti gli effetti della sregolatezza, non » lasciano mai di bere finché di quel liquore ne rimane » una goccia. Le persone del più alto rango, » i più distinti guerrieri e i capi più rinomati per » la saviezza, non sanno vincer sè stessi più che » gli oscuri individui delle comunità. La loro smania » pel godimento presente li rende ciechi alle » funeste sue conseguenze; e gli uomini stessi, che » in altre occasioni mostrano d'essere corredati di » una forza di mente più che umana, sono in questo » frangente da meno dei fanciulli in antivedimento » e considerazione, e meri schiavi d'un brutale » appetito. Quando le loro passioni naturalmente impetuose » sono riscaldate dalle bevande, essi si fanno » rei de'più enormi oltraggi, festa di rado » finisce senza qualche atto di violenza o senza spargimento » di sangue» In tutti i tempi, in tutti i luoghi l'intensità delle passioni cresce a misura che scema il loro numero; e le passioni animali si mostrano tanto più forti, quanto è più languido l'esercizio delle forze intellettuali. Sovente, dice Diodoro Siculo parlando dei Galli, sorgono contese mentre essi stanno bevendo, e allora si battono col massimo furore. Tacito dice lo stesso de' Germani (V. la pag. 228 nota (1)). Nell'attuale incivilimento ci restano certamente degli ubbriachi; ma il vizio si è concentrato ne' più miserabili individui della plebaglia, almeno se si eccettuano i paesi freddi, ove la forza del clima rispinge tuttora gli effetti dell'incivilimento. E' questo il luogo di far osservare la sublime acutezza de' moralisti pedanti. Essi fanno rimprovero all'attuale incivilimento d'avere esteso il numero de' cibi e delle bevande:
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Zuambattista Benedetti era veramente l'abile nocchiero di quella nave in balla dei fiutti, ma i suoi occhi non abbandonavano il figlio giovinetto. Con mille sottili accorgimenti egli cercava sempre di essergli vicino e di affidargli gli incarichi meno rischiosi. La bufera andava aumentando di violenza. La pioggia e la grandine scendevano sempre più fitte. La bufera andava aumentando di violenza. In quel buio, sciami di. gabbiani, battuti dalle raffiche, scivolavano giù con volo incerto non sapendo dove posarsi, finchè si accasciavano impauriti sulle galee e s'impigliavano tra le alberature e le vele, gridando, rissosi e disperati. I lampi, sempre più frequenti e accecanti, illuminavano quella tempesta di ali che di tanto in tanto si abbattevano sul ponte come un candido e vaporoso ventaglio che si chiude. Il mare gonfio sembrava voler sommergere ogni cosa. Le onde s'impennavano e pareva volessero subissare il cielo. A sinistra e a destra, davanti e di dietro, le sagome delle altre navi sparivano e ricomparivano saltuariamente tra un lampeggiare infernale. Le folgori cadevano da ogni lato con uno schianto che faceva sussultare il cuore di quegli uomini intrepidi. Il vento urlava senza tregua. Le onde gigantesche si abbattevano, una dietro l'altra, sulle navi alla deriva. Le nubi scendevano fino a lambire le acque e pareva seppellissero l'universo sotto una cappa di piombo. - Alvise.... - La voce del padre era giunta fioca e quasi indistinta agli orecchi del ragazzo benchè non fosse che a pochi passi di distanza. - Babbo!... - rispose Alvise, correndogli vicino. Era pallido di stanchezza e inzuppato di pioggia. - Alvise, non ti allontanare da me. - Siamo in pericolo, babbo? - Sì, figlio mio. - Non possiamo far nulla? - Siamo nelle mani di Dio. - .... riuscì a far aggrappare Alvise al rottame.... Istintivamente, Alvise si aggrappò al padre con una stretta muta e disperata. Zuambattista Benedetti cinse con il suo forte braccio le spalle del figlio e lo tenne stretto a sè. La bufera ebbe un attimo di sosta, quasi volesse raccogliere tutte le sue forze prima dell'assalto supremo. Poco lontano dalla Santa Cattarina si formò un risucchio. Subito dopo, una tromba d'acqua si alzò gigantesca, corse minacciosa verso la nave, la investi, la sommerse. Uno scricchiolio tremendo, che per un attimo soffocò ogni altro rumore, si alzò dal mare in tempesta. Quando la tromba passò, perdendosi lontano, la bella galea di Zuambattista Benedetti non era più che un mucchio di rottami informi che fluttuavano sulle onde. In quei tragici istanti il padre non aveva abbandonato la sua creatura. La stretta del suo valido braccio si era fatta più forte e aveva sostenuto Alvise, lo aveva riportato a galla; poi i suoi muscoli cominciarono a stancarsi. Al vivido tremolare di un lampo egli scòrse il rottame di un'alberatura. Verso quel legno, che poteva essere l'unica salvezza di Alvise, il padre nuotò con il braccio che aveva libero. Ma la lotta per impossessarsene fu lunga, estenuante. Quando egli credeva di averlo raggiunto e stava per afferrarlo, un'onda glielo ricacciava lontano. Allora ricominciava, sempre trascinandosi dietro il dolce peso del figlio. L'amore paterno gli centuplicava le forze. Per riprendere coraggio, egli guardava di tanto in tanto gli occhi di Alvise, quei cari occhi che rispondevano fiduciosi al suo sguardo. Fili d'alghe si erano impigliati tra i riccioli bruni del giovane, e il padre delicatamente glieli tolse. Tanti e tanti anni sembravano annullati. Zuambattista. Benedetti stringeva tra le braccia il suo piccino, ritratto vivente della sposa scomparsa. E andavano insieme, così. Finalmente un'onda spinse verso di lui l'alberatura spezzata. Con uno sforzo disperato l'afferrò e la tenne stretta al proprio cuore palpitante. Ma a un tratto • sentì che la sua resistenza era agli estremi. Stringendo i denti, nello spasimo di tutte le membra irrigidite, il capitano riuscì a far aggrappare Alvise al rottame della Santa Cattarina; poi si tolse la cintola dalla casacca, e con quella legò strettamente il giovane all'albero spezzato. - Addio, Alvise, e Dio ti accompagni! - mormorò Zuambattista Benedetti, mentre tracciava un gran segno di croce con la mano stanca. Il vento rubò e disperse le parole paterne. Alvise non le udì. Ma la benedizione rimase sul capo del figlio e l'accompagnò in quella tragica avventura, come un viatico, come una speranza, come una preghiera accolta dall'Altissimo.
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Le due piccole, Pina e Coletta, leggevano già anch'esse avidamente tutto quello che loro capitava in mano, e, quando erano sole con Cosima, si abbandonavano insieme a commenti e discussioni che uscivano dal loro ambiente e dalle ristrettezze della loro vita quotidiana. E Cosima, come costretta da una forza sotterranea, scriveva versi e novelle. Da sua parte Andrea aveva molti difetti, ma era anche generoso e gioviale. Forse troppo: e la sua generosità era alimentata da un po' di amor proprio, di vanità, di boria; ma spesso era schietta e istintiva: aveva, poi, impeti di vero entusiasmo per cose che agli altri sembravano degne di poco aiuto, se non proprio di esser contrariate; e allora gli sembrava di fare atto di giustizia mettendosi dalla parte del debole. Cosí, quando si venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di quattordici anni che ne dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una piccola cerbiatta, era invece una specie di ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e anzi della razza, poiché s'era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea prese a proteggerla e tentò, in modo invero molto intelligente ed efficace, ad aiutarla. Egli aveva fatto solo il ginnasio, e sebbene avesse appena ventidue anni si occupava adesso dell'amministrazione dei beni lasciati dal padre, traendone, è vero, molto profitto per sé e per i suoi divertimenti; ma leggeva, anche, e in certo modo era al corrente degli avvenimenti letterarî. L'eco di questi era sempre portata alla piccola città da Antonino, lo studente di lettere, fratello del piú intimo amico di Andrea. Questo fratello si chiamava Salvatore, e aveva anche lui preferito allo studio la vita beata del piccolo proprietario sempre a cavallo per i suoi campi ad aizzare il lavoro dei servi e a divertirsi poi con le belle e ardenti ragazze del paese: e si beffava, pur ammirandolo in segreto, di Antonino, che aveva le mani bianche e affusolate di donna e gli occhi pieni di sogni; e non era buono neppure a montare sulla giumenta sulla quale balzavano d'un salto le servette di casa per andare a prender l'acqua alla fontana: come nei suoi eterni studi, nelle Università piú celebri del Continente, spendendo tutti i risparmi della famiglia, non riusciva o non voleva riuscire a prendere la laurea. Ad ogni modo questo bellissimo, questo elegante e quasi principesco studente (e in quei tempi e in quel luogo la parola studente significava ancora un essere superiore: un uomo al quale potevano essere assegnati i piú alti e potenti destini della terra), portava davvero, nella cerchia famigliare, primitiva, isolata, quasi condannata a un esilio dal mondo grande, un soffio di quella grandezza tanto piú luminosa quanto piú lontana. Egli parlava di re, di regine, di alti personaggi politici, di artisti e di letterati, come fossero tutti suoi intimi amici. Sulla figura di Gabriele d'Annunzio, allora in tutto il suo piú radioso splendore, circonfusa inoltre dall'aureola di notizie leggendarie, egli si appoggiava sopra tutto, come il credente si appoggia alla colonna del tempio per riceverne forza e maestà Cancellate, ma leggibili, nel manoscritto seguivano le parole: «Questo tempio, questo San Graal col tabernacolo d'oro piú sfolgorante del sole era la poesia di Gabriele d'Annunzio».. Le cose raccontate dal buono, dall'epico Antonino, infiammavano di folli sogni il cuore del rude, ma anche lui à suo modo epico Andrea. Egli cominciò a fantasticare sulla piccola Cosima. Bisognava pertanto aiutarla. La mandò a prendere lezioni d'italiano, poiché a dire il vero ella scriveva piú in dialetto che in lingua, da un professore di ginnasio. Queste lezioni accrebbero il senso di ostilità istintiva che la piccola scrittrice provava per ogni genere di studi libreschi, a meno che non fossero romanzi o poesie. Piú efficaci furono le lezioni pratiche che il fratello volonteroso le procurò facendole conoscere tipi di vecchi pastori che raccontavano storie piú mirabili di quelle scritte sui libri, e portandola in giro, nei villaggi piú caratteristici della contrada, alle feste campestri, agli ovili sparsi nei pascoli solitari e nascosti come nidi nelle conche boscose della montagna. Una di queste gite fu meravigliosa, anche perché fatta in buona compagnia. Oltre al fratello di Antonino, c'erano altri amici di Andrea, quasi tutti studenti mancati, che ai tormentosi fasti del vocabolario preferivano quelli della fisarmonica e la Odissea Nel senso popolaresco di avventura. se la creavano da sé prendendosi a pugni per qualche bella giovane paesana e poi 'riconciliandosi in banchetti ove le ossa degli agnelli arrostiti alla viva fiamma si ammucchiavano ai loro piedi come sotto le mense degli eroi e conti di Re Carlo. Uno di questi banchetti fu apprestato quel giorno, nell'ovile delle tancas paterne di Andrea e di Cosima. Ai pastori porcari, che avevano finito la loro stagione, erano seguiti quelli di pecore e di capre. Le pecore brucavano l'asfodelo secco, i cui lunghi steli dorati scrocchiavano fra i denti delle bestie come grissini, e le capre nere, dalle teste diaboliche, si profilavano sulla madreperla delle cime rocciose. Quel giorno Cosima imparò piú cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l'isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l'eternità. Era il mare, che Cosima vedeva per la prima volta. Certo, fu una giornata indimenticabile, come quella della cresima, quando un fanciullo che crede fermamente in Dio si sente più vicino a lui, lavato del tutto dal peccato originale. Tutto pareva straordinario a Cosima, persino il grido rapace delle ghiandaie e i cardi spinosi fra le pietre arse: ma invece di esaltarsi si sentiva piccola e umile accanto alle rocce che scintillavano come rivestite di scaglie, e ai lecci millenari che sembravano piú antichi delle stesse rocce. L'ombra era fitta, e se qualche nuvoletta solcava il cielo sembrava si afferrasse alle cime piú alte, in certi piccoli squarci del bosco, come i fanciulli che guardano in fondo a un pozzo. Ma il banchetto fu servito in una radura, per terra s'intende, tutta circondata da un colonnato di tronchi come un salone regale: per Cosima Andrea preparò con una sella e una bisaccia una comoda poltrona; e i migliori bocconi furono per lei: per lei il rognone dell'agnello, tenero e dolce come una sorba matura; per lei il cocuzzolo del formaggello arrostito allo spiedo, per lei il piú bel grappolo d'uva primaticcia portata appositamente dal fratello premuroso.
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Gli ufficiali svizzeri erano buoni e cortesi, assuefatti oramai alla dolcezza della vita napoletana, avendo lasciato a Napoli casa, famiglia, figliuoli, amici: addolorati di quella guerra che sentivano inutile, addolorati per quella causa che sentivano perduta: ma i soldati non tolleravano più freno di disciplina, erano diventati ribelli a ogni ordine, si abbandonavano alla ubbriachezza, al gioco. Dopo tre giorni avean consumato tutto il vino, tutto l'olio, tutta la farina di don Ottaviano: e chiedevano ancora, insoIentemente, bastonando i contadini, sgozzando le galline. La vecchie zie, le donne antiche di casa, stavano chiuse nello stanzone di famiglia; tacevano, non osavano neppure filare, pregando mentalmente. Le serve erano in cucina, intorno a certi caldaioni dove cuocevano i maccheroni che non bastavano mai. Tutta la notte era un cantare, un urlare, un litigare: don Ottaviano, chiuso nella stanzetta, leggeva ad alta voce i salmi penitenziali, per quietarsi o per stordirsi, ma non potava dormire, il poveretto. Ma la più forte, sebbene la più minacciata, era la signora Cariclea, la moglie dell'emigrato. Lo sapevano bene, i soldati, che era la moglie di un cospiratore, di un nemico, di uno che aveva tolta Napoli a Francesco II; e ogni volta che ella compariva sulla terrazza o attraversava il cortile, vi era un mormorio crescente di ostilità. Ella passava, quieta, serena, come se niente fosse, e pareva non udisse che la chiamavano moglie di brigande, moglie di assassino. Se ne Iagnava, ella, con qualche ufficiale, specialmente con un maggiore, alto, biondo, robusto, un colosso. - Signora mia - le diceva costui in inglese - io non so che farvi. Badate alla vostra vita, io non posso garantirvela. Non garantisco neppure Ia mia. Ella non teneva per sè, temeva per la sua creaturina. La bimba aveva un cappellino rotondo, chiamato allora alla Garibaldi, con un pom-pon tricolore: e la bimba voleva portarlo sempre, quel pericoloso cappellino. Quando i soldati la vedevano passare, tutta fiera di quel pomo di seta tricolore, era come una rivolta: -Tagliamo loro la testa, a questa razza di briganti, tagliamo la testa di questa creatura, così imparerà a portare il pomo tricolore! La madre tirava un poco a sè la bambina e fingeva di sorridere, e quando era sola, in camera sua, soltanto allora, abbracciava la bimba, con una stretta frenetica. Don Ottaviano urlava: - Ci farete ammazzar tutti, con quel vostro pomo tricolore! Ma la bimba non voleva lasciarlo, gridava, gridava, glielo aveva dato il suo papà, quel cappellino col pomo tricolore. Infine, i viveri cominciando a mancare, i soldati diventarono più rabbiosi e chiesero quattrini: il maggiore portò la imbasciata a don Ottaviano. Costui un giorno dette ai soldati trenta ducati messi da parte per le feste di Natale ma di notte, aiutato dalla cognata donna Cariclea, dalla zia Rachele e dalla serva Ottavia, seppellì, in un angolo dell'orto, il tesoro della Madonna, collane di oro, anelli, orecchini, ex-voto di argento, pissidi, calici, candelabri, altri arredi sacri. L'altare famigliare, che era nel grande salone di famiglia, dedicato alla Vergine, restò spoglio di ogni ornamento. Il seppellimento fu fatto misteriosamente: - Benedetto, benedetto! - diceva don Ottaviano, baciando piamente ogni arnese sacro, prima di sotterrarlo. E singhiozzava, il povero prete. Poi dette ai soldati altri venti ducati, che erano una dote da estrarsi, il primo di novembre, per far maritare una zitella del paese: ma non bastarono. Donna Cariclea dette loro venti marenghi che il marito le aveva lasciati; ma non bastarono. Zia Rachele dette a questi svizzeri furiosi quindici ducati di economie fatte, in molti anni, a grano a grano; ma non bastarono. Ottavia, la serva, aveva diciotto carlini: li dette. In breve, nel palazzo non ci fu più un soldo, nè un pizzico di farina, nè una goccia di vino. Gli ufficiali svizzeri si vergognavano: specialmente il maggiore, che era una persona assai gentile, chinava il capo, offeso nel suo orgoglio di militare. Ora i soldati volevano il tesoro della Madonna: lo volevano giocare a carte. - La Madonna non ha tesoro - diceva don Ottaviano: - ditelo voi, donna Cariclea, - La Madonna non ha tesoro - ripeteva la coraggiosa signora. Il maggiore andava e veniva, parlamentando fra i soldati e la famiglia. - Se non ci danno il tesoro, ammazziamo la bimba - mandavano a dire i soldati. - Raccomandiamoci alla Vergine, cognata mia - mormorava il prete. Così, prevedendo imminente la morte, tutta la famiglia si raccolse nello stanzone, innanzi all'altare denudato, e si mise a pregare. Don Ottaviano aveva vestito i paramenti sacri e stava inginocchiato sui gradini dell'altare. Era una settimana, dieci giorni di accampamento: nessuna notizia, nessun soccorso. Ora l'umore degli Svizzeri era cambiato. Chiedevano un banchetto: volevano che nel cortile s' imbandisse una grande mensa , volevano i gnocchi, se no , mettevano fuoco alla casa. Il parroco giurava di non aver nulla, nulla da dare, neppure un tozzo di pane: il maggiore con le lagrime agli occhi lo scongiurava, che cercasse, che mandasse, per pietà della vita di tutte quelle donne, vecchie e giovani. Furono spediti corrieri a, Carinoia, a Casale, a Cascano, per trovar farina. Ma intanto i soldati andarono nella legnaia, ne cavarono fuori tutte le fascine e le disposero attorno alle mura del palazzo. I corrieri che erano andati per farina tardarono assai: forse erano stati arrestati, forse erano morti. Un mormorio crescente saliva dal grande cortile. Nel salone le donne dicevano le litanie, salmodiando. L'ora passava, lenta. - Se fra dieci minuti non arriva il corriere con la farina, i soldati danno fuoco - venne a dire il maggiore. - Non potete fare più nulla per poi? - chiese donna Cariclea. - Più nulla, signora. - Portar via questa piccolina? Io non mi dolgo di morire; vorrei salvare la bimba. - Mi ucciderebbero con lei, signora. - Che Dio ci assista, dunque - mormorò donna. Cariclea. E Dio li assistette. Un corriere da Cascano ritornò. Portava farina: poca, insufficiente, ma ne portava. Così le serve lasciaron di pregare e scesero in cucina, a fare i gnocchi, per i soldati. Ma i soldati non vollero togliere le fascine: e la morte parve solo ritardata di qualche ora; si capiva che dopo il banchetto i soldati sarebbero diventati più feroci; non avrebbero conosciuto più ragione. Essi, nel cortile, tumultuavano; le povere serve, in cucina, manipolavano la pasta, instupidite; su, nello stanzone, il parroco aveva confessato e dato l'assoluzione a tutti i suoi parenti. La piccolina di donna Cariclea spalancava gli occhi, spaventata; ma non piangeva. A un tratto, il pesante martello del portone risuonò, tre volte, sonoramente. Un silenzio profondo. Ma nessuno aprì. Tre altri colpi: e il battito del piede ferrato di un cavallo risuonò innanzi al portone. - Chi va là? - chiese la sentinella, senz'aprire. - Viva Francesco II! - gridò una voce affannosa. - Viva, viva! - urlarono i soldati. Era una staffetta: un soldato pallido e grondante sudore. Chiese del colonnello, del maggiore, di un capo; non aveva che due parole da dirgli. Il maggiore alto e biondo, il colosso affettuoso e fiero, occorse; la staffetta si rizzò, gli parlò all'orecchio. Il maggiore restò imperterrito, assente col capo; la staffetta ripartì, precipitosamente. Il maggiore salì sul terrazzino interno che dava sul cortile, fece suonare la tromba, due volte: - Soldati - disse con voce tonante - abbiamo innanzi a noi Garibaldi, alle spalle arriva Vittorio Emanuele. Facciamo il nostro dovere. Viva Francesco II! - Viva! - disse qualche voce. E lentamente si misero in tenuta di partire. Andavano fiacchi, lenti, molli, attaccandosi la giberna, visitando i fucili; e il maggior loro dolore, per quei mercenari brutali, era di non poter banchettare, di non poter mangiare i gnocchi che le povere serve facevano in cucina. Gli ufficiali andavano, venivano, gridavano; ma inutilmente. - Consolatevi, signora - disse il maggiore a donna Cariclea, entrando nel salone ora vengono i Garibaldini. Ella non osò consolarsi. Stringeva la piccolina sul petto e non parlava. II parroco non levava la testa. - Addio, signori, non ci vedremo più - disse il maggiore. - Noi andiamo alla morte. E non tremava la sua voce. Uscì, si pose alla testa dei soldati, marziale, bellissimo a cavallo, camminando serenamente alla battaglia; dietro di lui i soldati svizzeri andavano, come pecore, stretti stretti, taciturni, torvi. Nessuno osò levare la voce, nel palazzo deserto, devastato; per un'ora tutti tacquero, innanzi all'altare, subendo ancora I'incubo di quell'assedio. - Ora vengono i Garibaldini - disse, a un tratto la bambina. E vennero. Portavano la camicia rossa, ma erano coperti di polvere, con le scarpe rotte, stanchi, sfiniti; volevano bere, volevano mangiare, non ne potevano più. - Che daremo loro? - diceva don Ottaviano, disperandosi. I Garibaldini non credevano che non ci fosse nulla. Erano una quarantina, estenuati; avevano trovato la devastazione dappertutto. Dappertutto i Borbonici avevano mangiato tutto, bevuto tutto, non vi era più nulla; come potevano dunque battersi? Un ufficiale, buonissimo, parlamentava con donna Cariclea e col parroco; era inutile, non vi era nulla, nulla. Ma un clamore venne dal cortile; i Garibaldini avevano scoperto la cucina e il caldaione dei gnocchi. - Ah, Borbonici, canaglia! Avevate da mangiare e ce lo negavate! Borbonici della malora, che vi porti via il diavolo! Ma fra quelle voci irritate, furiose, una vocina sorse: - Viva Garibaldi! La piccolina, in mezzo ai Garibaldini, agitava il suo cappelluccio col pomo di seta tricolore. Mentre la baciavano, levandola su in trionfo, ella strillava sempre. La madre piangeva.
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Un odore disgustoso, leggermente nauseabondo, si diffuse per la stanza, odore di cosa morta, che fece indietreggiare Maria, mentre i suoi occhi aridi non abbandonavano il guizzo serpentino della fiamma. Così dunque, o amore, disseccato non sei altro che una putredine - pensava - ed io ti portai otto anni sul cuore, ciocca immonda, umida dei, baci di tutte le donne ch'egli avrà conosciute prima di me!... Prima e durante; quando ella lo aspettava sitibonda d'amore alla finestra, ed egli passava le serate fuori, tornando poi pallido e tranquillo... Ella avrebbe voluto ora avventarsi su quella ciocca già distrutta, perchè il fuoco le sembrava troppo nobile fine; e rammentava, indignata, la dichiarazione di poche sere prima, una dichiarazione d'amore, adesso che era marito e padre.
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Dopo una lettera seria, asciutta, nella quale era stata considerata con calma la necessità di troncare l'inutile corrispondenza, essi si incontravano nel salotto e passando dietro la poltrona dell'infermo le loro mani si scambiavano una stretta eloquente; poi i loro sguardi non si abbandonavano più. Al domani egli le scriveva: «No, non sapete quanto mi siete cara e «dilettissima sopra tutte le donne, quante lagrime «secrete, quante interne e terribili battaglie «mi costi questo nostro amore. Io non «mi riconosco più. Abbandono gli studi che «mi furono tanto graditi, i miei classici mi «vengono a noia; ch'io vegli o ch'io dorma «non penso che a voi.» Felice di avergli strappato uno slancio di vero amore, Maria trovava la forza di ragionare a sua volta; ed era lei che parlava di doveri, di pura e di semplice amicizia. In queste alternative egli fu leggermente indisposto; aveva delle fatiche straordinarie di professione, delle noie, delle seccature infinite; il suo scetticismo tornava a galla; imprecava alla vita. E Maria a consolarlo con tutte le tenerezze della donna innamorata. Ma quell'amore non bastava ad Emanuele perchè egli non credeva all'amore. I suoi sogni giovanili si erano dileguati davanti a un convincimento, sempre crescente, che l'amore non è altro che illusione. Tolta la necessità materiale di unirsi ad una donna, il giovane scettico non vedeva, non sentiva altro. L'affetto appassionato di Maria se, qualche volta, riusciva a scuoterlo e a commuoverlo, gli lasciava però sempre lo sgomento di una grande aberrazione. Nei momenti più dolci, quando la fanciulla gli dava l'anima negli sguardi e sembrava implorarne la pietà, presso a cedere, una voce inesorabile gli mormorava all'orecchio: Anche questo non è altro che illusione. - E, si rifaceva freddo, non volendo essere trascinato in quel tumulto di palpiti e di desideri, non volendo soffrire, non volendo amare - amando tuttavia, debolmente, per impulso di lei e per la viltà del cuore che si faceva, a sua insaputa, alleato dei sensi. Una volta, la lettera che Maria trovò in fondo al vecchio vaso terminava con queste parole, che la gettarono in un turbamento indicibile: «un vostro bacio sarebbe il miracolo che muta l'inferno in paradiso.» Nelle sue lunghe ore solitarie, Maria doveva averlo provato il desiderio di un bacio, del primo bacio d'amore, che non sapeva, ma supponeva differente da tutti; mille volte questo desiderio doveva esserle salito dalle labbra allo sguardo; e nei colloqui della sera, sotto la blanda luce della lucernetta, un'attrazione invincibile doveva trascinarla verso la bocca di Emanuele, il disegno della quale, puro e gentile, spiccava con un fresco incarnato sulla barba bionda. È certo che non esitò. La stessa sera, quando Emanuele venne a congedarsi, ella gli fece un piccolo cenno, puntando l'indice nella direzione di una scaletta che egli doveva salire per recarsi in camera: poi si salutarono, freddi in volto, comprimendo i battiti del cuore. Trascorsero alcuni minuti durante i quali Maria tendeva l'orecchio al suono smorzato dei passi che si allontanavano; e intanto accomodava i guanciali sulla poltrona del padre, con un tremito nelle gambe, colle mani fatte di ghiaccio. Ascoltò ancora - nessun rumore. Egli era là. La scaletta si rizzava, ripida, parcamente illuminata nei gradini inferiori; buia in alto. Maria attese un richiamo, cercando cogli occhi nella semi oscurità, sperando di vederlo subito. Nulla. Guardò allora angosciosamente in alto dove i gradini si perdevano nelle tenebre fitte, Non un cenno, non un bisbiglio; ma nel silenzio di quell'ombra c'era una vertigine che l'attirava. Fece ancora qualche passo, smarrita, finchè un respiro affannoso le venne incontro e due braccia possenti la presero attraverso le reni. Il corpo di Maria si piegò come un giunco, abbandonandosi, provando l'impressione di una ferita acutissima. Sotto la dolcezza dell'amante ella sentiva fremere, repressa, una brutalità ignota. Eppure mentre tremava in quella violenta rivelazione, mentre un senso nuovo, quasi doloroso, si destava in lei dal bacio di Emanuele, una tenerezza struggitrice, un bisogno di darsi, di sacrificarsi le faceva mormorare: «ti amo, ti amo!» Al che egli non rispondeva altro che stringendola maggiormente, con un rantolo nelle fauci. Ed ora, coricata su quel letto straniero, cogli occhi aperti nella oscurità di una camera ignota, Maria rivedeva quella scaletta, risentiva quel primo bacio al quale molti altri erano seguiti di poi senza cancellarne la profonda impressione. Sostò per poco, ondeggiando col pensiero in un periodo di deliziosi incanti, durante il quale i giorni volavano in una continua ricerca di furberie e di astuzie per stringersi in un amplesso rapido, per ripetersi che si amavano. Nelle lettere, Emanuele diceva ancora che bisognava combattere una passione insensata, le chiedeva scusa per aver turbato co' suoi ardori la casta tranquillità di lei; le prometteva di frenarsi, di soffrire, di non chiederle più nulla. Un solo istante però distruggeva tutte queste saggie teorie. Così nel cuore di Maria ardeva sempre la fede, alimentata dai giovanili entusiasmi e dall'immenso amore. Ad onta delle sue letture, ella, dotata di molto idealismo, era rimasta ignorante sulle verità materiali dell'esistenza; come un cieco che abbia studiato a perfezione il meccanismo della vista, ma che non vede. Istintivamente sentiva che nell'amore di Emanuele per lei c'era qualche cosa che non poteva capire, differente dalle sensazioni sue proprie; ma che cosa fosse preciso non cercava. Non era curiosa, non era maliziosa. Quando la bocca di Emanuele così piccola, così gentile, le dava nel buio quei baci virili che la sorprendevano e la turbavano, ella rimaneva per poco sotto l'assillo di una curiosità indeterminata, che svaniva poi nei tranquilli colloqui intorno alla lucerna, allora che il giovane professore, calmo, colla sua voce monotona, rispondeva alle controversie del padre; e l'impressione violenta svaniva per lasciar posto a una idealità piena di dolcezza. Maria non pensava neppure che vi potesse essere un pericolo per lei in quell'amore. Era cresciuta con un principio di morale, non bigottamente ristretta, ma di una conclusione rigida e inflessibile. A' suoi occhi, l'abbandono completo di una donna, quando non fosse reso legittimo, metteva capo a una vergogna incancellabile. Certe parole grosse, brutte, ch'ella aveva udite per caso, le sembravano applicabili a tutte le donne che cedono; e nei momenti di maggior debolezza, il ricordo di quelle parole le faceva salire alla fronte una fiamma di vergogna. L'uomo ha un altro, diverso e vasto campo in cui esercitare la virtù; egli ha le virtù cittadine, politiche, patriottiche e guerriere; ha l'onestà della carica che occupa e dei commerci che intraprende. La donna non ha che questa povera, modesta virtù del resistere, che cresce nell'ombra, spoglia di gloria, quasi sempre inapprezzata. Non importa; Maria aveva fede in essa; sperava che Emanuele avrebbe superati gli ostacoli che li dividevano e si sarebbero alfine sposati. Si voltò dolorosamente nel letto; la successione delle idee che le presentava in quadri spiccati le scene principali nella sua vita, l'aveva condotta ad una scena ch'ella non poteva ricordare senza sentirsi dare un tuffo nel sangue. Sempre la tetra casa, l'abbandono, la miseria e suo padre morto - questa la cornice. Nel mezzo, lei, disperata, folle, abbracciata come un naufrago ai ginocchi di Emanuele... A questo punto, con tutte e due le mani, prese il guanciale e se lo pose sul volto, premendo, non trovandosi abbastanza nascosta nelle tenebre, desiderando nascondersi a sè stessa in un bisogno di annientamento; ma anche soffocata dal guanciale vedeva gli occhi di Emanuele senza lagrime intanto che la sua voce misurata le diceva: Non posso farti mia. E l'amava, sì, l'amava; ma non aveva la fede che ispira, non aveva il coraggio che spinge alla lotta, non si sentiva la forza di darle la sola prova d'amore che un uomo possa dare ad una donna onesta: soffrire con lei, lavorare per lei... E dopo tanti anni, lì, in quella camera che apparteneva a lui, su quel guanciale dove egli aveva forse appoggiata la testa sognando di un'altra, i singhiozzi della povera donna scoppiarono alti, irrefrenati.
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E che toni di verde giallino luminoso nelle chiome dei pini e in certi ciuffi di cespugli contorti che avevano appena cessato di combattere col vento marino e si abbandonavano ad una dolcezza stanca di convalescenti! Nuvole bianche e dure come grandi uova si posavano qua e là sulle cime dei pini: così basse che pareva bastasse arrampicarsi sugli alberi per toccarle e tirarle giù; mentre il cielo invece era alto e d'un azzurro brillante che quasi non si lasciava fissare. Ricordo tutto, di quel giorno, come di tanti altri giorni della mia vita: giorni che sono come i quadri meglio riusciti nella lunga monotona serie dei quadri dei nostri giorni, quando la nostra figura si stacca gigantesca sul paesaggio che la circonda, per dominarlo meglio e immedesimarlo nel suo dramma. Ed ecco che mentre sto per arrivare alla casa del dottore vedo una donna, una contadina piccola ma forte: ha in braccio una bimba di circa tre anni che pare morta, tanto s'abbandona, con le manine gialle pendenti e la testina bionda scarmigliata, sull'omero della madre. La raggiungo, nel sentiero sabbioso che va allargandosi sempre più, e mi metto a camminare con lei. La donna era a testa nuda coi capelli neri corti e con un aspetto quasi di zingara. Cominciò subito a guardarmi con diffidenza, poichè io le facevo dei cenni per domandarle che male aveva la bambina, poi accortasi della mia infermità s'illuminò d'un tratto in viso quasi avesse ritrovato un fratello, e toccò la testa e la nuca della bimba per indicarmi che il male era lì: in ultimo mi accennò col capo la casa del dottore. Si proseguì dunque assieme, e si continuò, dirò così, a parlare. Sì, a parlare, perchè la donna mi capiva dal solo moto della labbra, ed io capivo lei, come fossimo stati educati assieme. I suoi occhi brillavano di una certa intelligenza, il suo viso esprimeva con straordinaria mobilità i più intimi moti del suo animo, e sopratutto la sua curiosità e la sua pietà per me. La casa del dottore non era distante da noi più di un centinaio di metri, e già prima di arrivare alla porta io avevo fatto sapere alla donna che ero padre anch'io di una bambina orfana di madre, e di lei sapevo che era la moglie del guardiano della pineta: abitava in una casa laggiù in fondo verso il fiume; e oltre la bimba malata ne aveva una più piccola che stava a svezzare. Particolari piccoli che pure mi interessavano come quelli di un dramma. La mia serenità precedente s'era oscurata: un pensiero per poco dimenticato mi tornava più vivo di prima nella mente, mi faceva battere il cuore. Perchè palpo nella mia tasca la busta col denaro e la sento riscaldarsi al contatto delle mie dita palpitanti? perchè mi sembra I'esaudimento di un mio oscuro desiderio, che il dottore non sia in casa? La donna voleva aspettarlo: la serva dapprima parve contrariata, disse che il padrone tornava tardi, poi si lasciò intenerire per la bambina e ci fece entrare e sedere nell'ingresso arioso. Per qualche tempo stetti immobile come mi avessero inchiodato sul sedile, con quel pensiero che mi si attortigliava per ogni vena. No, non era il dottore che aspettavo per consegnargli il denaro: era quel pensiero che mi fermava. Passano i minuti, passano i quarti d'ora. La donna andava su e giù con la sua creatura febbricitante sempre buttata sulla spalla: d'un tratto balzo anch'io e mi rimetto al suo fianco: della donna: avevo preso la mia decisione! Le domando se vuol prendere a balia la mia bambina, le propongo di darle i denari anticipati. Ella stava incerta, ma tentata fortemente. I tempi sono così difficili per tutti e specialmente per i poveri! Piano piano traggo dalla busta, senza levarla dalla tasca, uno dei biglietti; e glielo faccio vedere; se vuole posso darglielo subito. Ella guardava il denaro quasi con meraviglia, come non ne avesse mai veduto. Il denaro è una grande forza: col denaro si può far venire anche il medico a casa quando i bambini sono malati, invece di trarseli così, peso ardente come un castigo, in cerca della loro salute. Ella mi accennò di sì: accettava: e mi promise anche, con la luce appassionata degli occhi, che avrebbe trattato bene l'orfana, e infine, per rassicurarmi del tutto, trasse dalla camicetta una mammella bruna e violacea come un fico maturo e ne fece con due dita schizzare il latte.
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- diceva Alfio Balsamo, come tutti lo abbandonavano. - Hai visto che vuol dire non aver giudizio? - gli veniva ripetendo sua madre, più angustiata di lui. - Debbo sentire anche voi? Non basta il guaio che mi casca addosso! - Non andare in collera, Alfiuccio mio; io lo so che non è colpa tua, ma dei compagni che ti portano alla cattiva strada. Cerchiamo frattanto il rimedio, ora che il fatto è fatto. - E che volete cercare? Non vedete che i paesani hanno paura di dir la verità? Donna Giovanna non lo contradiceva, dal gran bene che gli voleva; ma pensava che il mezzo d'accomodar la cosa non era quello della giustizia. Successe così che il pretore di Vallebianca condannò Alfio Balsamo, in contumacia, a due mesi di carcere e a cento lire di multa, nè più nè meno di quel che aveva previsto il cancelliere. - Questo si sapeva! - disse Alfio, quando vennero a portargli la notizia ai Pojeri, dov'era andato a lavorare - Volevate che il pretore mi assolvesse, dopo che quel vecchio pelato di don Gesualdo gli mandò a regalare una posata d'argento? Ma non finisce così, sangue del mondo! e io andrò in città, a pigliarmi il primo avvocato! - Alfiuccio, lascia stare - diceva donna Giovanna - che ci rimetterai le spese. Non sarebbe meglio di pensare ad accomodarla con le buone? - Ditelo un'altra volta, e io vi perdo il rispetto che v'ho sempre portato! Donna Giovanna non si diede per vinta, e come il figliuolo andò alla città, per l'appello, lei un bel giorno, senza che nessuno lo sapesse, cercò di Anna Laferra. Anna, quando aveva risaputa la condanna, aveva messo un gran sospiro, sentendo sedarsi il suo furore. - Siete contenta? - aveva chiesto suo marito. - Ora andrà in carcere, e lì imparerà a metter giudizio. - Bene gli sta! Donna Giovanna era venuta a implorare il suo perdono, umilmente, abbassandosi dinanzi a una che, in altro tempo, non avrebbe neppur salutata, incontrandola per istrada. - Che volete! Alfio è un ragazzo, un ragazzino, così lungo come lo vedete. Chiacchiera un po' troppo; se togliamo questo, nessuno può dir nulla sul suo conto. Non parlo di vizi: innocente come Gesù Bambino; voi mi capite. Se ha detto quella parola, non sapeva ciò che importava; domandate a chi volete, vi diranno tutti che è incapace di voler male ad anima viva. E poi, affezionato, con sua madre, che non si può ridire. Mai un dispiacere, da lui; e si che è rimasto orfano a otto anni... Donna Giovanna aveva gli occhi umidi di pianto. - Questo è il primo dispiacere, che ho per causa dei suoi cattivi compagni. Lasciatelo andare, non ci pensate più; fatelo per me che sono sua madre e vi domando perdono della sua imprudenza... Anna guardava per terra e non diceva niente. - Fatelo per lui. Così ragazzo, con quella condanna infame, è rovinato per tutta la vita. Quale compagnia troverà in carcere! Chi gli vorrà dare la propria figliuola, se un giorno il Signore lo benedice e potrà pensare a farsi una famiglia? - Sentite - disse a un tratto Anna Laferra, con un'animazione straordinaria in viso e il seno che le si sollevava affannosamente. - Vostro figlio m'ha ingiuriata a sangue, e vi giuro, com'è vero Dio! che se lo avessi avuto fra le mani, in quel momento, mi sarebbe bastato l'animo, donna come sono, di strappargli il cuore dal petto. Ora la collera è passata, e per me non ci penserei più. Ma il mondo parla e non si cura di sapere se chi mi ha ingiuriata è un uomo o un ragazzo. Per questo debbo avere una soddisfazione. Vostro figlio mi dica che non ha inteso offendermi, che non sapeva quel che diceva, che parlava d'altri, che aveva bevuto; mi dica ciò che gli piace, e io gli perdono e non ne parlo più. Quella era appunto la quistione: persuadere Alfio a domandarle scusa! Invece, egli era tornato dalla città più arrabbiato che mai, e non parlava che dell'appello, sicuro com'era di vincere, con l'avvocato Saetta. - Tutti lo vantano, e quando una causa gli piace, mette il mondo sottosopra per spuntarla. Leggendo la sentenza del pretore, è partito a ridere che nessuno lo teneva. Vogliamo vedere se i giudici avranno paura pei vecchi cornuti!
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