Vi si vedevano materasse abballinate e coltroni ammonticchiati sui tavolini; tavole da letto appoggiate contro il muro; trespoli di ferro che reggevano cataste di roba di cui non si capiva più nè il colore, nè la forma. Quadri anneriti dal tempo, stampe di diverse dimensioni, nere e a colori, di santi che il fumo aveva resi irriconoscibili, tappezzavano i muri, fra mensole gremite di bocce, boccette, boccettine, tazze, caffettiere, grattugie, insomma di arnesi disparati, ridotti inservibili dalla ruggine e conservati lì, allo stesso posto, sin dal tempo in cui gli erano morte, in meno di tre mesi, la moglie e le due figlie. In fondo alle stanze, soltanto la camera da letto e la cucina erano un po' ravviate. Egli viveva relegato colà, quasi le altre stanze non fossero sue, non permettendo mai che anima viva vi penetrasse, e uscendone di rado, quando non doveva andare in campagna, o alla messa la domenica mattina. Le uniche creature viventi che abitassero con lui quella tana, erano l'asino e un gatto; l'asino, vecchio, spelato, con le orecchie basse e gli occhi cisposi; il gatto, magro, egualmente spelato per vecchiezza, e che, quando non si aggirava lentamente per le stanze miagolando con voce flebile, faceva la fusa su una seggiola, o su la catasta delle materasse o dei coltroni. Don Paolo durava quella vitaccia da più di trent'anni, divenendo sempre più aspro, più burbero, più drago, come andavano notando i vicini. Oramai era ridotto un mucchio di grinze, bianco di barba e di capelli, un po' curvo, ma rubizzo e agile più che non sembrasse a vederlo. E se qualcuno della sua età, incontrandolo, lo fermava per domandargli: - Che fate, don Paolo? - Aspetto la morte, — rispondeva. — Che altro posso fare? Ed era vero. Si era visto vuotare la casa in tre mesi; il tifo gli aveva portato via moglie e figliuole, ed egli non aveva saputo più consolarsi di quella disgrazia. Diventato misantropo, drago, non aveva voluto più vedere nessuno, quasi moglie e figliuole gli fossero state ammazzate dalla gente. Abballinate le materasse, ripiegati i coltroni, disfatti i letti delle sue care creature, aveva buttato ogni cosa lì, alla rinfusa; e non aveva più toccato niente da anni e anni, senza occuparsi se i topi, le tignuele, la polvere, i ragnateli avessero rovinato coltroni e materassi. Per chi dovevano servire? Non aveva parenti lontani, neppure dal lato della moglie. Così egli aspettava la morte, fra tutte quelle cose morte. E la sera, prima di andare a letto, recitando la corona, pregava per coloro che lo avevano lasciato solo solo, e invocava che venissero a prenderselo. Ma non arrivavano mai; s'erano scordate di lui! Quell'anno però, a poco a poco, gli era entrata in mente la convinzione che la sua vitaccia sarebbe finita in autunno. I segni erano evidenti, secondo lui. Non si sentiva insolitamente impietosire dalle miserie altrui? Quasi ne aveva rabbia e vergogna. Forse gli altri mostravano pietà e compassione per lui? Lo chiamavano drago; e drago avrebbe voluto essere fino all'ultimo respiro! Affacciandosi alla finestra, per fumare la sua vecchia pipa di terra cotta, aveva notato le due orfanelle della strega, venute ad abitare da poco tempo lì di faccia, e il cuore gli si inteneriva per ricordi che egli credeva scancellati da un pezzo. Era illusione della sua fantasia o realtà? Gli pareva che le due orfanelle raccolte dalla zia strega — non la chiamava altrimenti — somigliassero davvero alle di lui figliuole quand'erano state bambine. Ebbene, che doveva importargliene? Non erano perciò le sue figliuole. Quelle erano morte, e oramai se le erano mangiate i vermi della sepoltura nella chiesa dei Cappuccini. Che doveva importargli di queste qui? Eppure, dalla finestra e fumando la pipa senza barattare una sillaba coi vicini che non gli rivolgevano la parola perchè sapevano che non rispondeva a nessuno, eppure le osservava mentre giocavano davanti la porta di casa loro, le covava con lo sguardo, mugolando sotto voce ogni volta che la stregaccia le prendeva a maltrattare: — Ma che deve importarmene di costoro? Se lo ripeteva, per vincere così quel senso di pietà e di commiserazione da cui si sentiva invadere con suo gran dispetto. Poi, per parecchi giorni non le vide più. Dove erano andate? Che ne aveva fatto quella stregaccia? Era stato inquieto, irrequieto tutta la giornata, affacciandosi più volte alla finestra, stizzito di tale assenza. Gli mancava qualche cosa. Almeno prima si distraeva, mentre stava a fumare la pipa alla finestra! E la mattina che, andando in campagna, le aveva trovate fuori della città, sul muricciolo del ponte, a domandare l'elemosina, aveva sentito uno strano rimescolio in quel suo cuore indurito dalle disgrazie e dalla solitudine; ma la prima volta s'era limitato soltanto a guardarle con una occhiataccia, ed era passato oltre. Due giorni appresso però non aveva potuto frenarsi; gli era costato un grande sforzo il trattenersi dall'apostrofare la stregaccia della loro zia, quando la sera, al ritorno dalla campagna, l'aveva trovata seduta su lo scalino della porta, con le bambine sdraiate per terra ai due lati, come due bestiole. Quella notte aveva dormito male, pensando sempre alle poverine, brontolando parole contro la strega che le mandava a chiedere l'elemosina e voleva vivere alle loro spalle, senza fatica, stregaccia! La mattina, mettendo il bardo all'asino, aveva continuato a pensare alle due sventurate prive di babbo e di mamma, che avrebbe trovate certamente sul muricciolo, anche dopo che aveva leticato per loro con la strega; e aveva preparato la mezza pagnotta per dargliela e rimandarle a casa, pur ripetendosi di tanto in tanto: — Che deve importarmene? Non sono mie figlie ! Le mie figliuole, laggiù, ai Cappuccini, se le sono mangiate i vermi della sepoltura! E tutt'a un tratto, quasi qualcosa d'indurito gli si fosse liquefatto nel cuore, quel giorno non aveva più resistito, e se le era cacciate avanti dentro casa, e aveva chiuso la porta in faccia alla strega e ai vicini. **
Pagina 6