E compare Nunzio, buttato il coniglio per terra, accorreva verso il punto dove Lampo, col corpo mezzo ficcato nella densa macchia che copriva la costa, abbaiava. Tenendo inarcato il fucile, egli lo incitava con gridi gutturali, sporgendo la testa per guardare da tutti i lati onde il coniglio insidiato poteva sbucare, e Cuddu con l' indice delle mani si comprimeva gli orecchi per non udire il botto. - Ehi!... Lampo!... Addosso! Compare Nunzio era balzato sur un masso, col calcio del fucile accostato alla gota, pronto a sparare. Lampo investiva la macchia saltando ora da una parte, ora dall'altra, abbaiando, ringhiando... Bum! A Cuddu parve di sentirsi la fiammata su la testa e si buttò per terra. - Mamma mia! - Grullo! - gli gridò compare Nunzio. - Qua, Lampo! E Lampo accorreva col coniglio tra i denti, altero della preda, sbalzando sulle quattro zampe, scherzando col padrone col far le viste di non volergliela cedere. - Ah! Sei tu! - esclamò compare Nunzio riconoscendo il coniglio, da esperto cacciatore. - Oggi però non sei riuscito a farmela!... Senti come pesa! Cuddu sorrise mentre compare Nunzio, ficcando il coniglio nella rete della carniera, gli diceva: - Giacché non vuoi fare il sarto, impara questo mestiere. Più in su, la vallata si allargava ancora, e l'inoltrarsi diveniva difficile, tanto le macchie, gli arbusti e le erbe ingombravano il terreno. Di lassù Cuddu vedeva la mandra e le vampe e il fumo della legna sotto la caldaia di rame dove il pecoraio faceva bollire il latte. - Dopo, andremo a mangiare la zuppa col siero. Gireremo da quella parte. Sei stanco? - No! - rispose Cuddu, che però si sentiva un po' indolenzite le spalle dal peso della carniera e della gabbiola del furetto. Lampo si era allontanato: fiutava, frugava e
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Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla C'era una volta.... soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. — Perchè non vieni fuori? Perchè mi farete ammazzare. — E chi ti ha detto questo? — Me l'ha detto mamma cagna. - La Regina, maliziosa, volea indurla colle buone: — Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata. Sorellina non me n' è nata, A peso d' oro fu comprata. Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. — O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una strega: — Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev' essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette. — Fra un anno li avrete. - In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: — Quello lì lo voglio io! — E Testa-di-rospo glielo dava. Passato l'anno, la Regina tornò alla strega. — Maestà, i vestiti son pronti; ma baciate di non scambiarli. Per non sbagliare, in questo incantato ci ho messo un diamante di più. — Ho capito. — Chiamò le due figliuole e disse: — Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di- rospo. - Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n' era uno di più, comincia a strillare: — Quello lì lo voglio io! — La Regina non permise. che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi: — Quello filo vogliò io! quello lì lo voglio io!— Accorse il Re e disse: — Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai. - E stava per infilarglielo. — No, Maestà, — disse Testa-di-rospo. Vestito bello, fatto da poco, Vestito nuovo fatto di fuoco, Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. - O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per quest' altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: - Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà. — Il Re, per contentarla, rispose: — Sia pure. — Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov' esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: — È mai possibile che l' altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?
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Con l'infallibile istinto africano, i negri avevano tutti scoperto che Geraldo era un cane che abbaiava ma non mordeva, e ne approfittavano vergognosamente. Si sentivano sempre alte minaccie di vendere gli schiavi o di frustarli a sangue, ma nessuno schiavo era mai stato venduto fra quelli di Tara e una sola frustata vi era stata; somministrata soltanto perché il cavallo preferito di Geraldo non era stato strigliato dopo una lunga giornata di caccia. Gli occhi azzurri di Geraldo osservavano come erano ben tenute le case dei suoi vicini e con che facilità le donne dai capelli ravviati e dagli abiti fruscianti, dirigevano la servitú. Egli ignorava l'attività di queste donne dall'alba a mezzanotte, fra la sorveglianza della cucina, del bucato, del rammendo e l'allevamento dei bimbi. Vedeva soltanto i risultati esteriori e questi l'impressionavano. L'urgente necessità di una moglie gli apparve chiaramente una mattina mentre si stava vestendo per recarsi in città ad assistere a un'udienza al Tribunale. Pork tirò fuori la miglior camicia a pieghettine di Geraldo cosí malamente rammendata che ormai solo il domestico avrebbe potuto metterla. - Mister Geraldo - aveva detto mentre ripiegava con riconoscenza la camicia e Geraldo strepitava - quello che tu avere bisogno è moglie; una moglie che avere buon numero di negri per la casa. Gerardo rimproverò Pork per la sua impertinenza, benché fosse convinto che aveva ragione. Aveva bisogno di una moglie e aveva bisogno di bambini; e se non provvedeva subito, poi sarebbe troppo tardi. Ma non voleva sposare la prima venuta, come aveva fatto il signor Calvert, che aveva impalmato la governante inglese dei suoi bambini orfani di madre. Sua moglie doveva essere una signora, una vera signora dignitosa ed elegante come la signora Wilkes, e capace di governare Tara come la signora Wilkes governava la sua proprietà. Ma nelle famiglie del Contea vi erano due difficoltà. La prima era la scarsità di fanciulle in età da marito. La seconda, piú seria, era che Geraldo era un «uomo nuovo», malgrado i suoi dieci anni di residenza, e uno straniero. Non si sapeva nulla della sua famiglia. Pur essendo meno inespugnabile dell'aristocrazia della Costa, la società della Georgia settentrionale non avrebbe mai ammesso che una delle sue figliuole sposasse un uomo del quale si ignorava chi fosse il nonno. Geraldo sapeva che, malgrado la simpatia sincera degli uomini della Contea coi quali cacciava, beveva e parlava di politica, non avrebbe potuto sposare la figlia di nessuno di loro. E non voleva che si potessero far delle chiacchiere attorno alle tavole, a cena, sul fatto che questo o quell'altro padre avesse con rammarico rifiutato a Geraldo O'Hara il permesso di far la corte alla sua figliuola. Non per questo Geraldo si sentiva inferiore ai suoi vicini; d'altronde nulla e nessuno avrebbe mai potuto far sí che egli si sentisse inferiore a chiunque. Soltanto, riconosceva che era una strana costumanza della Contea, quella che faceva maritare le ragazze solo con persone appartenenti a famiglie che vivevano nel sud da oltre vent'anni, e che durante tutto quel tempo erano stati possessori di schiavi e si erano dedicati unicamente ai vizi eleganti. - Prepara il bagaglio. Andiamo a Savannah - disse a Pork. - E se ti sento emettere una sola imprecazione, ti vendo immediatamente, perché sono espressioni che io stesso uso ben raramente. Giacomo e Andrea avrebbero potuto certamente dargli dei consigli intorno a questa faccenda del matrimonio; e forse tra i loro vecchi amici poteva esservi qualche fanciulla che avesse i requisiti voluti e che lo trovasse accettabile come marito. I fratelli ascoltarono pazientemente la sua storia ma non gli diedero eccessivo incoraggiamento. Non avevano parenti a Savannah a cui rivolgersi, perché entrambi erano già sposati quando erano venuti in America! E le figlie dei loro vecchi amici erano maritate da un pezzo e avevano già dei bambini. - Sei un uomo ricco ma non di grande famiglia - osservò Giacomo. - Sono diventato ricco e la grande famiglia me la farò. Ma non voglio sposare la prima venuta. - Hai delle vedute alte - replicò Andrea seccamente. Ma fecero del loro meglio per aiutare Geraldo. Erano ormai anziani e si erano creati a Savannah un cerchio di amicizie. Per un mese condussero Gerardo di casa in casa, facendogli frequentare balli, cene, picnic. - Ce n'è una che mi piace - disse finalmente Geraldo - una ragazza che quando io sbarcai in America non era ancora nata. - E chi sarebbe? - Miss Elena Robillard - e la risposta cercò di avere un tono indifferente, perché gli occhi neri e lievemente obliquati in basso di Elena lo avevano colpito piú di quanto volesse dire, e il suo modo di fare, ingannevolmente incurante, cosí strano in una fanciulla quindicenne, lo aveva affascinato. Inoltre vi era in Elena una continua espressione di disperazione che gli andava al cuore e lo rendeva piú gentile con lei che non fosse mai stato con nessun altro. - Ma potresti esser suo padre! - Sono nel fiore della vita! - ribatté Geraldo, punto. Giacomo prese la parola, con calma. - Ascoltami, Jerry: non vi è ragazza in Savannah con la quale tu possa aver minori probabilità. Suo padre è un Robillard; e questi francesi sono orgogliosi come Lucifero. E sua madre - Dio l'abbia in gloria - era una gran signora. - Non me n'importa - si ostinò Geraldo. - Del resto, sua madre è morta e il vecchio Robillard mi vuol bene. - Come uomo, sí; ma come genero, no. - E poi la ragazza non ti accetterebbe - intervenne Andrea. - Da un anno fa l'amore con quel ragazzaccio di suo cugino, Filippo Robillard, benché la sua famiglia la tormenti giorno e notte perché lo lasci. - È partito il mese scorso per la Luisiana. - Come lo sai? - Lo so. - E Geraldo non volle svelare che quest'informazione gli veniva da Pork né che Filippo era andato in Occidente per espresso desiderio della sua famiglia. - E non credo che ne sia tanto innamorata da non poterlo dimenticare. Quindici anni son troppo pochi, perché l'amore sia profondo. - Preferiranno quel rompicollo di cugino a te. Giacomo e Andrea furono quindi stupiti come tutti gli altri quando si sparse la notizia che la figlia di Pierre Robillard avrebbe sposato il piccolo irlandese. I commenti furono infiniti e tutta la città chiacchierò sul conto di Filippo Robillard che era andato in Occidente; ma le chiacchiere rimasero lettera morta. E fu sempre per tutti un mistero perché la piú bella delle figlie di Robillard accettasse di sposare quel rumoroso ometto dal viso rosso, che le arrivava appena alle spalle. Neanche Geraldo comprese mai perfettamente com'era andata la cosa. Sapeva soltanto che era accaduto un miracolo. E fu l'unica volta in vita sua che si sentí umile umile, quando Elena, pallidissima ma calma, posò leggermente una mano sul suo braccio dicendogli: - Vi sposerò, Mr. O'Hara. I Robillard, sbalorditi, conobbero la risposta; ma solo Elena e la sua Mammy seppero tutta la tristezza di quella notte in cui la fanciulla singhiozzò fino all'alba come una bambina col cuore spezzato, alzandosi al mattino con una ferma decisione. Con un doloroso presentimento, la bambinaia aveva portato alla sua padroncina un pacchetto proveniente da Nuova Orléans, con l'indirizzo scritto da una mano ignota; nel pacchetto era una miniatura di Elena, che ella lasciò cadere a terra con un grido, quattro lettere scritte da lei a Filippo Robillard e poche parole di un sacerdote di Nuova Orléans che le annunciava la morte di suo cugino in una rissa d'osteria. - Lo hanno cacciato via, il babbo, Paolina e Eulalia. Lo hanno cacciato via. Li odio. Non voglio piú vederli. Voglio andar via. Voglio andare tanto lontano da non vedere mai piú né loro né questa città né chiunque mi ricordi... lui. E al sorger del giorno, la nutrice, che aveva anch'essa pianto china sul capo bruno della sua padrona, aveva esclamato: - Ma non puoi far questo, tesoro! - Lo farò. È un brav'uomo. Lo farò, o andrò a chiudermi in un convento a Charleston. Fu la minaccia del convento che finalmente strappò il consenso a Pierre Robillard, che non rinveniva dallo stupore e dal dolore. Era un fedele presbiteriano, benché la sua famiglia fosse cattolica; e l'idea che sua figlia diventasse monaca gli era anche piú penosa del pensiero che fosse moglie di Geraldo O' Hara. Dopo tutto, contro costui non si poteva dir nulla, se non che non aveva famiglia. Cosí Elena, non piú Robillard, volse le spalle a Savannah per non rivederla mai piú e partí per Tara con un marito di mezz'età, la sua nutrice e venti «negri di casa». Dopo un anno nacque la prima bambina a cui diedero il nome di Caterina Rossella, come la mamma di Geraldo. Geraldo fu deluso, perché desiderava un maschio, ma ciò nondimeno fu abbastanza soddisfatto della sua bambina bruna da offrire, in segno di gioia, il rum a tutti i suoi schiavi, ubbriacandosi anche lui, felice e rumoroso. Nessuno può dire se Elena rimpianse mai la sua decisione di sposare Geraldo; meno di tutti suo marito, il quale non stava nella pelle ogni volta che la guardava. Ella aveva scacciato dalla sua mente Savannah e i suoi ricordi, da quando aveva lasciato quella graziosa città marittima; e dal momento in cui era giunta nella Contea, la Georgia era diventata il suo paese. Lasciando per sempre la dimora di suo padre, ella aveva abbandonato una casa le cui linee erano dolci e morbide come quelle di un corpo di donna, come quelle di una nave a vele spiegate; una casa intonacata di un pallido rosa, costruita nello stile coloniale francese, elegantemente sollevata sul suolo da palafitte a colonne, e a cui si saliva mediante scale a spirale, con ringhiere di ferro battuto che sembravano un merletto: una casa ricca e graziosa, ma lontana. Ella aveva abbandonato non solo la bella abitudine, ma anche tutta la civiltà che era dietro quell'edificio; e si trovava in un mondo cosí strano e diverso come se fosse addirittura in un altro continente. La Georgia settentrionale era una regione aspra, abitata da gente aspra anch'essa. Dall'altipiano che si ergeva al disotto delle cime delle Montagne Azzurre, ella vedeva ovunque distese ondulate rossicce, con vasti spazi su cui affiorava il granito sottostante ed enormi pini che torreggiavano cupamente dovunque. Tutto sembrava selvaggio e inospitale ai suoi occhi abituati alla costa e alla tranquilla bellezza delle isole drappeggiate nel muschio grigio e verde, con le larghe strisce di rena ardente sotto il sole semitropicale, le lunghe distese di terra sabbiosa ornata di palmizi. Questa era una regione che conosceva tanto il freddo dell'inverno quanto il calore dell'estate; e nel popolo erano un vigore e un'energia che la sorprendevano. Era gente buona, gentile, generosa, ma risoluta, virile, facile all'ira. Gli abitanti della Costa che ella aveva abbandonato si vantavano di occuparsi di ogni cosa, anche dei loro duelli e delle loro proprietà, con aria noncurante; ma questi Georgiani erano invece dotati di violenza. Sulla Costa la vita era molle; qui era giovanile, nuova, piena di vivacità. Tutte le persone che Elena aveva conosciuto a Savannah erano dello stesso stampo: avevano tutti quanti gli stessi punti di vista, e le stesse tradizioni; qui vi era invece una grande varietà. I colonizzatori della Georgia settentrionale venivano da molti luoghi diversi: da altre parti della Georgia stessa, dalla Carolina, dalla Virginia, e anche dall'Europa e dal Nord. Alcuni, come Geraldo, erano individui recatisi colà a cercar fortuna. Altri, come Elena, erano membri di vecchie famiglie che trovavano la vita insopportabile nel loro paese e avevano cercato rifugio altrove. Altri ancora si erano trapiantati senza alcuna ragione se non che il sangue irrequieto dei loro padri nomadi scorreva ancora nelle loro vene. Questa gente, arrivata da luoghi diversi e con diverse origini, dava alla vita della Contea una mancanza di formalismo che per Elena era assolutamente nuova ed alla quale non riuscí mai ad abituarsi completamente. Sapeva per istinto che cosa avrebbe fatto uno della Costa in certe date circostanze; non riuscí mai a prevedere che cosa avrebbe fatto, nelle stesse circostanze, un Georgiano del nord. Ciò che dava vita al commercio della regione era l'ondata di prosperità che allora volgeva verso il Sud. Tutto il mondo chiedeva cotone, e il nuovo terreno della Contea, fertile e non sfruttato, ne produceva in abbondanza. Il cotone era la pulsazione del cuore del paese; la semina e il raccolto erano la sistole e diastole della vermiglia terra. Dai solchi sinuosi veniva la ricchezza e anche l'arroganza; arroganza fondata sui verdi cespugli e sugli ettari di un bianco fioccoso. Se il cotone poteva farli ricchi in una generazione, quanto piú ricchi sarebbero nella prossima! La certezza dell'indomani dava entusiasmo e gioia di vivere; e la gente della Contea godeva la vita con un fervore che Elena non riuscí mai a comprendere. Avevano abbastanza denaro e abbastanza schiavi per avere anche il tempo di divertirsi; e si divertivano volentieri. Sembrava che non fossero mai tanto occupati da dover mancare a una partita di pesca, a una caccia o a una corsa di cavalli: ed era raro che passasse una settimana senza la sua riunione a base di porchette arrostite e il suo ballo. Elena non avrebbe mai potuto o voluto diventare simile a loro - aveva lasciato a Savannah troppo di se stessa - ma li rispettava e, col tempo ammirò la franchezza e la rettitudine di quel popolo che aveva poche reticenze ed apprezzava un uomo per quel che valeva. Divenne la signora piú amata della Contea. Era una vigile ed economa padrona di casa, una buona madre e una moglie devota. L'altruismo che avrebbe dedicato alla Chiesa fu invece consacrato al servizio dei suoi figliuoli, della sua casa e dell'uomo che l'aveva allontanata da Savannah e dai suoi ricordi e non le aveva mai rivolto alcuna domanda. Quando Rossella ebbe un anno - piú sana e vigorosa di qualsiasi altra bambina, secondo Mammy - nacque la seconda bambina di Elena, Susanna Eleonora, sempre chiamata Súsele, e, alla debita distanza, venne Carolene, iscritta nella Bibbia familiare come Carolina Irene. Seguirono poi tre maschietti, ognuno dei quali morí prima di avere imparato a camminare; tre bambini che ora dormivano sotto i cedri contorti, nel cimitero a cento metri dalla casa, sotto tre pietre ciascuna delle quali portava l'iscrizione «Geraldo O' Hara, Jr.» Dal giorno in cui Elena giunse a Tara, il luogo fu trasformato. Benché avesse solo quindici anni, ella era nondimeno pronta per tutte le responsabilità di una padrona di piantagione. Anche allora, prima del matrimonio, le ragazze dovevano essere soprattutto belle, gentili, decorative; ma dopo sposate, bisognava che fossero in grado di dirigere un'azienda domestica che contava oltre cento persone, fra bianchi e negri; e venivano educate in vista di questo. Elena aveva ricevuto quella preparazione per il matrimonio che veniva data a tutte le fanciulle di buona nascita; inoltre aveva con sé Mammy, la quale, con la sua energia, era capace di galvanizzare il negro piú inetto. In breve ella portò nel governo della casa di Geraldo ordine e dignità e diede a Tara una bellezza che non aveva mai avuta prima. La casa era stata costruita senza alcun piano architettonico prestabilito, aggiungendo delle camere quando occorrevano; ma con l'attenzione e la cura di Elena, acquistò un fascino speciale che derivava appunto dalla sua mancanza di disegno. Il viale di cedri che conduceva dalla strada principale alla casa - quel viale di cedri senza il quale nessuna casa di piantatore georgiano sarebbe stata completa - spandeva un'ombra cupa e fresca che per contrasto dava maggior vivezza e splendore al verde degli altri alberi. Il convolvolo che si arrampicava sulle verande appariva di un verde chiaro sul bianco delle mura; e insieme ad esso il rosa dei cespugli di ibisco accanto alla porta e le magnolie dai candidi fiori che si ergevano sulla spianata, nascondevano alquanto le linee goffe dell'edificio. In primavera e in estate il trifoglio e l'erba medica del prato diventavano color smeraldo, di uno smeraldo cosí seducente che rappresentava una tentazione irresistibile per i branchi di tacchini e di oche bianche che avrebbero, in realtà, dovuto abitare solo le regioni dietro alla casa. I volatili tentavano sempre delle clandestine avanzate sulla spianata, attratti dal verde dell'erba e dalla seducente promessa dei cespugli di gelsomini del Capo e delle aiuole di zinnie. Contro le loro ruberie era stata installata sotto al porticato una piccola sentinella nera. Il bambino seduto sui gradini, armato di un grande straccio bianco, faceva parte del quadro di Tara; ma era molto infelice perché gli era proibito di inseguire i gallinacei e doveva limitarsi a gridare e ad agitare lo straccio per spaventarli. Elena addestrava a questo còmpito dozzine di bambini negri: era il primo ufficio con una responsabilità che gli schiavi maschi avessero a Tara. Dopo i dieci anni venivano mandati dal vecchio Daddy, il ciabattino della piantagione per imparare il suo mestiere, o da Amos, il carpentiere, o da Filippo, il vaccaro, o da Cuffee, il guardiano delle mule. Se non mostravano attitudine per alcuno di questi mestieri, diventavano coltivatori e, nell'opinione dei negri, avevano perso il diritto a qualsiasi posizione sociale. La vita di Elena non era facile né felice; ma ella non si era aspettata che fosse facile, e quanto alla felicità, quello era il destino della donna. Il mondo era degli uomini ed ella lo accettava cosí. L'uomo era lodato per l'ordine della sua proprietà e la donna lodava la sua abilità. L'uomo rugghiava come un toro se una scheggia gli si ficcava in un dito e la donna soffocava i gemiti, quando metteva al mondo un figlio, per timore di disturbarlo. Gli uomini erano sgarbati e spesso ubriachi. Le donne ignoravano le cattive parole e mettevano gli ubriachi a letto senza parlare. Gli uomini erano rudi e brontoloni, le donne erano sempre buone, gentili e disposte a perdonare. Era stata educata nella tradizione delle grandi dame e le era stato insegnato a sopportare i propri dolori conservando il suo sorriso; ed ella intendeva che anche le sue tre figlie fossero, come lei delle vere signore. Con le figlie piú giovani era riuscita, perché Súsele desiderava tanto di essere piacente che prestava orecchio attento agli insegnamenti di sua madre, e Carolene era timida e facile da guidare. Ma, per Rossella, figlia di Geraldo, la via della signorilità fu dura. Con grande indignazione di Mammy, ella preferiva compagni di gioco che non fossero le sue ubbidienti sorelline o le bene educate fanciulle Wilkes, ma i bambini negri della piantagione e i maschietti del vicinato, ed era capace di arrampicarsi su un albero e di lanciar sassi. Mammy era molto turbata che la figlia di Elena avesse simili inclinazioni, e spesso la scongiurava di «condursi come una signora», ma Elena considerava la faccenda con una tolleranza piú lungimirante. Ella sapeva che i compagni d'infanzia sarebbero piú tardi diventati dei corteggiatori; e il primo dovere di una ragazza era sposarsi. Diceva quindi fra sé che la bimba era semplicemente piena di vita e che vi era tempo per insegnarle le arti e i modi che attraggono gli uomini. A tal fine Elena e Mammy riunirono i loro sforzi, e col passare degli anni, Rossella divenne una buona allieva, ma solo in questa materia, ché per tutto il resto imparava assai poco. Malgrado una successione di istitutrici e due anni trascorsi nella Accademia Femminile di Fayetteville, la sua educazione era incompleta; ma nessuna fanciulla della Contea parlava piú graziosamente di lei. Ella sapeva sorridere con garbo, camminare facendo ondeggiare i cerchi della sua gonna in modo attraente, sapeva guardare un uomo in faccia e poi abbassare gli occhi e battere le palpebre rapidamente in modo che sembrasse il tremito di una dolce emozione; e, soprattutto, aveva imparato a nascondere agli uomini un'intelligenza acuta sotto un viso dolce e semplice come quello di un bambino. Elena con la sua voce ammonitrice e Mammy con le sue costanti censure cercavano d'inculcare in lei le qualità che l'avrebbero resa veramente desiderabile come moglie. - Devi essere piú dolce, cara, piú remissiva - diceva Elena. - Non devi interrompere gli uomini che ti parlano, anche se credi di saperne piú di loro sull'argomento. Gli uomini non amano le ragazze troppo perspicaci. - Ragazze superbe che darsi arie e dire «voglio questo, voglio quello» di solito non trovare marito - profetizzava cupamente Mammy. - Le ragazze dovere abbassare occhi e dire «bene signore» e poi «Sí signore» e «avete ragione signore.» Le insegnarono dunque tutto ciò che una gentildonna doveva sapere, ma ella imparò soltanto la vernice della gentilezza. Non apprese mai la grazia interiore da cui questa gentilezza doveva sgorgare, e non vedeva neppure la ragione di apprenderla. Le apparenze bastavano, perché le apparenze della signorilità le acquistavano dei corteggiatori; ed ella non desiderava di piú. Geraldo proclamava che sua figlia era la piú bella di cinque Contee, e con un certo fondo di verità; infatti ella ebbe proposte di matrimonio da quasi tutti i giovani del vicinato ed anche da luoghi lontani, come Atlanta e Savannah. A sedici anni, grazie a Mammy e ad Elena, appariva gentile, simpatica e briosa, mentre in realtà era volontaria, vana e caparbia. Aveva ereditato la facile eccitabilità del padre irlandese e nulla della natura altruista e indulgente di sua madre, se non d'apparenza. Elena non si rese mai completamente conto che era soltanto una vernice, perché Rossella le mostrava soltanto il suo volto migliore, nascondendo le sue scappate, piegando il suo temperamento e apparendo in presenza di Elena piú dolce che poteva, perché sua madre, con un solo sguardo di rimprovero, riusciva a mortificarla fino alle lagrime. Ma Mammy non aveva illusioni sul suo conto ed era continuamente sul «chi vive» per le screpolature della vernice. Gli occhi di Mammy erano piú acuti di quelli di Elena, e Rossella non ricordava di essere mai riuscita ad ingannarla per molto tempo. Non che questi due mentori affettuosi deplorassero la vivacità, il fascino e la disinvoltura della giovinetta. Di tali qualità le donne meridionali andavano fiere. Erano invece preoccupate dalla natura impetuosa e dalla cocciutaggine di Geraldo che risorgevano in lei; e talvolta temevano che questi difetti non si sarebbero potuti nascondere prima che ella facesse un buon matrimonio. Ma Rossella intendeva sposarsi - e sposare Ashley - e perciò voleva apparire modesta, docile, e leggera, se queste erano le qualità che attraevano gli uomini. Non sapeva perché gli uomini fossero cosí; sapeva soltanto che questi metodi funzionavano. La cosa non l'interessò mai tanto da farle cercare la ragione di questo, poiché ella ignorava il lavorio interiore di ogni essere umano, e perfino il suo. Sapeva soltanto che se ella diceva o faceva «cosí - e cosà» gli uomini invariabilmente rispondevano col complimento «cosí - e cosà». Era come una formula matematica e non piú difficile di questa, perché la matematica era l'unica materia che era sembrata facile a Rossella quando andava a scuola. Se conosceva poco il raziocinio maschile, conosceva ancor meno quello femminile, perché le donne l'interessavano poco. Non aveva mai avuto un'amica e non ne aveva mai sentito la mancanza. Per lei tutte le donne, comprese le sue due sorelle, erano nemiche naturali che inseguivano la stessa preda: l'uomo. Tutte le donne, eccetto sua madre. Elena O'Hara era diversa, e Rossella la considerava come qualche cosa di sacro, fuori da tutto il resto del genere umano. Da bambina confondeva sua madre con la Vergine Maria, ed ora che era grande non vedeva ragione di mutare la sua opinione. Per lei Elena rappresentava la completa sicurezza che solo il cielo o una madre possono dare. Ella sapeva che sua madre era la personificazione della giustizia, della verità, della tenerezza affettuosa e della profonda saggezza: una gran dama. Rossella desiderava molto di essere come sua madre. La sola difficoltà era che essendo giuste e sincere, tenere e altruiste, si lasciavano sfuggire la maggior parte delle gioie della vita e senza dubbio si allontanavano molti corteggiatori. La vita era troppo breve per rinunciare a tante cose piacevoli. Un giorno, quando avesse sposato Ashley e fosse vecchia, un giorno, quando ne avrebbe il tempo, cercherebbe di essere come Elena. Ma fino allora...
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Lo stesso cane aveva una diversa disposizione verso di me: abbaiava, e il ragazzo doveva tenerlo fermo per impedirgli di entrare nella casa. Io non avevo più paura di nulla, di nessuno: mi sentivo la forza di lottare anche coi cani arrabbiati. Misi il foglietto con l'indirizzo nel portafoglio e anche questa volta lasciai intravedere il denaro che avevo là dentro. Vidi il ragazzetto che si volgeva agli uomini come per dire: "vedete che non sono stato bugiardo,,, e subito mi pentii del mio atto. I mietitori erano tutti dei poveri diavoli, tristi, bruciati dal sole e dalla fatica: mi pareva di averli insultati col far loro vedere il mio denaro e la mia speranza. Se ci fosse stata un'osteria lì accanto, li avrei invitati a bere: non potevo domandare del vino a quell'uomo che non cessava di tenermi d'occhio, con la sua roncola in mano: però mi venne una delle solite idee: salutai, e nell'andarmene feci segno al ragazzetto che mi venisse incontro nella strada. Ci arrivò lui prima di me. E io gli diedi una moneta, accennandogli di comprare del vino e distribuirlo a mio nome ai mietitori. Avevo fatto qualche centinaio di passi quando due di essi mi raggiunsero e mi si misero uno per fianco cercando subito di farmi intendere qualche cosa: mi proponevano, a quanto ho potuto capire, di farli lavorare nel mio terreno. Erano tutti e due scalzi, coi piedi enormi di vagabondi, coi capelli rossicci e il petto nudo che pareva scorticato. Al tramonto le loro ombre si allungavano come due pali davanti a me ai fianchi della mia ombra tozza; e le loro falci scintillavano. Mi destarono dapprima un senso di diffidenza: mi sembrava, guardando le nostre tre ombre sul bianco della strada, di essere Cristo fra i due ladroni. Ma gli occhi dei due uomini erano buoni, dolci, e mi rassicuravano. Si arrivò al paese che era già sera. Il mio treno partiva alle dieci e io mi fermai per mangiare qualche cosa in una piccola trattoria popolare vicina alla stazione, ove di solito cenavano i ferrovieri, gli operai, i carrettieri e i facchini. Anche i miei due compagni entrarono poco dopo di me e presero posto a una tavola accanto alla mia. Ma ordinarono solo del vino. Avevano con loro del pane e pomidoro; ed uno di essi mi accennò scherzosamente se volevo partecipare al loro pasto. II locale costruito in legno, cucina e sala da mangiare assieme, era rischiarato da lumi ad acetilene che spandevano un odore soffocante e una luce cruda velata dal fumo dei fornelli. Uomini in camiciotto azzurro, soldati e ferrovieri entravano ed uscivano. Non si vedeva una donna, tranne quelle che stavano nella cucina. Io ordinai uova e frutta e del vino bianco che subito mi diede una leggera ubriachezza. Alcuni soldati vennero a sedersi alla mia tavola; erano giovani allegri e si urtavano ridendo e, offrendosi il vino con tale insistenza che se lo versavano addosso. Mi venivano in mente i miei compagni d'Istituto, i giuochi e gli spintoni con loro. Una grave tenerezza mi vinceva: quel movimento, quelle luci attorno, mi davano un piacevole capogiro; pensavo di prendere il treno, ma di non fermarmi presso la zia: potevo proseguire in cerca di Fiora: consultai l'orario: quando sollevai gli occhi non vidi più i due mietitori. Il locale era pieno di gente; il padrone con tre bottiglie e tre piatti per mano non faceva a tempo a servire tutti. Suonai più volte perchè mi portasse il conto: egli sembrava più sordo di me. Stanco di aspettare, mi alzo e vado in fondo, verso la cucina: urto contro qualcuno; finalmente riesco a farmi capire: ma quando cerco i denari per pagare mi accorgo che non ho più il portafoglio.
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Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.
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Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.
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Essa non faceva altro che leticare, se ai piani di sotto tenevano aperte troppo a lungo le chiavette e si portavano via tutta l'acqua; se il trattore del cortile accendeva il forno e affumicava il vicinato, come le persone fossero aringhe; o se il cane del tappezziere abbaiava e le si avventava alle gonne, quando usciva pel servizio. - Ah, non lo vogliono sentire? - gridava - Qualche giorno gli dò la polpetta e me lo levo davanti. - Pròvati un po' - rispondeva il tappezziere - e vedremo come ti finisce! - Come mi finisce? Come mi deve finire? Questa è una porcheria, il cane tra le gambe; vorrei vedere un altro! E non mi fate gli occhi grossi, avete inteso? che io non ho paura... - Basta! - strepitava il trattore, che le voci si sentivano dall'altra parte, nel restaurante. - Sentiamo quest'altro, adesso! Voi di che v'immischiate? Pensate ai fatti vostri, che ai miei ci penso io... La causa della collera di Rosa era Paolino, il giovane del tappezziere, che un tempo le era andato dietro e le aveva promesso di sposarla. - Insomma - diceva il portinaio - che cosa è successo? Vi siete bisticciati? - M'importa assai, di lui e di voi! - rispondeva Rosa, con la sua voce squillante. - Ma che non ti vuole più? - insisteva quello, per farla arrabbiare. - Gli dò troppo onore, di guardarmi soltanto in faccia! - replicava lei, con gli occhi un po' rossi. - Davvero, troppo onore!.. - E si voltava dalla parte del tappezziere, perchè sentissero di chi voleva parlare. - Questa è una cosa che non si può più tollerare! - borbottava il trattore, e minacciava di andare a parlare col padrone. Ma il guaio più grosso fu a maggio, quando venne al quartierino dirimpetto la famiglia di un certo don Felice, che era protetta dal marchese Giaccuglia, per amore della signora: una donna sulla quarantina che s'imbellettava fin sul collo e andava vestita come una ragazza appena uscita dal collegio. «Non mi toccare che mi sciupo» - l'aveva subito soprannominata Rosa, che non la poteva soffrire. Una razza di sguaiati, lei, le sue figlie e il piccolino che cresceva una bellezza! A vederli per le strade, le fanciulle avanti, con due vestiti eguali dal cappello agli stivalini; la mamma appresso, tutta lezii e smorfie, tenendo per mano il figliuolo vestito da marinaio, con un gran cappello di tela cerata e lo scritto Duilio; il babbo due passi indietro, col cane, parevano una gente per bene, educata e tranquilla. - In casa, bisogna vederli! Dal cortile si sentivano a ogni momento grida e fracassi, che la signora Giacomina voleva comandare a bacchetta, e le ragazze, con la testa sempre agli innamorati, non le davano ascolto. - Se vedo ancora quel pezzente andarti dietro - strepitava con Antonietta, la maggiore - t'accomodo per le feste! - Voi che cosa cercate? Dovete forse sposarlo voi? - Ah si? Vediamo dunque s'io ti farò più andar fuori! - Me n'importa un corno! Lo vedrò lo stesso... Allora si sentivano i ceffoni della signora Giacomina, e gli scoppii di pianto della ragazza. Se la sorella Angiolina si interponeva, ne toccava anche lei. - Guardate che razza di screanzate! Voglio farvi veder io, se non tirate dritto! Con tanti di quei calci... Poi, come s'avvicinava l'ora di andare dal marchese, lei usciva, in gran toletta. Le ragazze asciugavano le lagrime e mandavano Milia, la serva, a portar le lettere agl'innamorati. Milia lasciava la casa sottosopra, i letti disfatti che mostravano le lenzuola annerite; i panni sciorinati fuori le finestre, sulle sedie, per terra, un po' da per tutto. Se la signora Giacomina tornava a tempo per accorgersi di quella confusione, erano scenate che non finivano più. - Guardate qui, fino a mezzogiorno, la casa sottosopra! E voi altre scanzafatiche, che cosa fate? Perchè non date una mano a ravviare? E Milia, dov'è la Milia?... Milia, come l'uragano s'addensava su di lei, rispondeva male. - Tutto questo baccano, per un letto disfatto!... Vi pare: che la gente sia di ferro?.. - Oh, con chi parli, sgualdrina? Se non stai al tuo posto... La Milia pestava i piedi per terra, piangendo. - Or ora ... or ora voglio andarmene!... non ci voglio restare più un momento!.. - Zitta, non è niente!.. - s'interponevano le ragazze, per timore che si scoprissero le loro magagne - Mamma, non lo farà piú... e tu domandale perdono... Ma la casa della signora Giacomina andava sempre più a soqquadro, malgrado che lei ci spendesse un occhio, e comprasse continuamente nuova biancheria, e rifacesse i mobili, e pretendesse la più gran nettezza, per figurare, all'occorrenza. Le ragazze non si davano nessun pensiero delle faccende domestiche, e sotto le vesti all'ultima moda e gli stivalini dai tacchi alti, portavano camicie ricamate a furia di sdruci, e calze bucate e spaiate. - Sciagurate! Senza pensieri! Come vi fidate di campare così! Chi vuol essere tanto pazzo da pigliarvi così sciagurate! - gridava la signora Giacomina, che non poteva soffrire quel malverso, e avrebbe voluto veder la sua casa come quella d'un signore. Per questo s'era anche messo in capo di far la visita alla baronessa Scilò, che era venuta a stare al piano nobile, dalla scala grande; ma come mandava l'ambasciata, se la baronessa riceveva, quella faceva rispondere un po' che non era in casa, un po' che stava male. - Tutte le fusa non vengon dritte! - diceva Rosa - e la visita può levarsela di testa; son'io che glie l'assicuro! Come non le riusciva di essere ricevuta, la signora Giacomina volle almeno la stessa pettinatrice della baronessa, la Liberata, e le mandò a offrire dodici lire il mese, perchè quella andava soltanto nelle case dei signori e non voleva salir troppe scale. - Ci mancava quest'altra, tra i piedi! - borbottava Rosa, vedendo la pettinatrice salire dalla signora Giacomina - Guardate che c'è: scialle di seta!.. stivaletti verniciati!.. pendenti d'oro!.. Auf, quante cose si debbono vedere! - Tu di che t'impicci? - I'ammoniva maestro Titta. - Io? Me n'importa assai! Dico anzi che le treccie finte glie le combina bene! Mentre le passava il pettine fra i rari capelli, la Liberata parlava alla signora Giacomina delle ricchezze dei casati che lei serviva, degli abiti che le signore aspettavano da Parigi, del trattamento che facevano alle persone di servizio, dei regali che davano anche a lei: ora un cestino di frutta primaticcie, ora qualche bottiglia di vino dolce, ora un palchetto a teatro; quasi per farle sentire la miseria delle sue dodici lire. E la signora Giacomina, quando il marchese le mandava dei regali, prelevava la parte di Liberata. - Non bisogna far cattive figure! E se la pigliava con don Felice che, se restava in casa, sbottonato, in ciabatte, si buttava sui divani e sulle poltrone, trascinandosi dietro gli origlieri, per star più comodo, e con Totò sempre lercio indosso, la faccia allumacata di carbone, di gesso e d'ogni sorta di sudicerie, che abbruciacchiava le sedie coi cerini rubati al babbo, affossava il pavimento, rompeva le vetrate con la trottola, ingombrava le stanze e vi disseminava i pezzi di vetro, la carta stracciata e il terriccio portato via dai vasi della terrazzina dentro un suo carrettino con una ruota mancante. La guerra scoppiò per causa sua, un martedì quando Rosa aveva sciorinato i panni alla funicella che andava dalla sua finestra alla terrazzina di don Felice sulle carrucolette di rame. Totò aveva fatto un nodo alla fune, talchè quando lei volle tirarla, non riuscì a farla andare nè avanti nè indietro, e mentre ci si arrabbiava e cominciava a gridare, il ragazzo, mezzo nascosto tra i i vasi, le fece le fiche, cantando: - Ohè! Ohè! - Ah, figlio di non so chi, ti prudono le mani? La signora Giacomina, sentendo questo discorso, venne fuori come una vipera a gridare contro quella ciabatta che rispondeva in tal modo a suo figlio. - Se non la finisci, ti faccio pigliare a calci e chiamare dalla questura! Rosa se la legò al dito. - Ciabatta a me? Io in questura? Le voglio far vedere, a quella buona donna! Così, quando i vicini si affacciavano al balcone, ora la mamma e ora le figliuole, lei si metteva a parlare ad alta voce, rifacendo il verso di quella gente, guardandosi addosso e stringendosi nelle spalle, o raggiustando le pieghe della veste, dinanzi alle vetrate che le servivano da specchio, o facendosi vento col soffietto della cucina. - Milia! - fingeva di chiamare - La polvere di cipria! Milia, lo spillone!.. presto, dico, Milia!.. Poi, quando il giuoco era durato un pezzo, sbatteva loro in faccia l'affisso e se ne andava contenta a spazzar le stanze o a tagliar cipolle. La signora Giacomina andava a pigliarsela con suo marito, ma don Felice non voleva rotta la testa e per questo le lasciava ogni libertà di fare quello che più le piaceva. - Mettetevi in capo che io voglio stare in pace e non cerco gatte a pelare. L'altro martedì, quando la fune piena di biancheria s'incerchiava per aria sotto il peso delle lenzuola, delle camicie, delle mutande ancora gocciolanti, Totò prese un coltello e mentre nessuno gli badava la tagliò. Voleste vedere allora tutta quella resta di panni spenzolare fin giù al primo piano, attaccandosi e insudiciandosi alle inferriate! Quando Rosa s'accorse di quella rovina e vide il suo lavoro sciupato, non seppe più tenersi, e cominciò a sfilare la litania delle contumelie, con la sua voce acuta e stridente che faceva affacciare tutto il vicinato, come se stessero ammazzando qualcuno. E appena scorse la signora Giacomina dietro la finestra, si mise a gridare: - Insegnategli l'educazione, ai vostri figli, che se non la sapete ve l'insegno io! - Con chi parli, sguaiata? - rispose la signora Giacomina, venendo fuori sulla terrazzina - Se non vuoi star zitta ti lascio correre questo vaso in testa! - Parlo con voi, signora marchesa! e non ho paura nè di voi nè del vostro Dio! e un'altra volta che vostro figlio mi farà qualche scherzetto, lo accompagno a sculacciate! - Faccia velenosa, provati a guardare il ragazzo soltanto di traverso, e l'avrai da far con me. Aspetta, aspetta che chiami suo padre. - È troppo lontano! Dovreste andar fuori di casa!.. Nel cortile scoppiavano a ridere, perchè infatti si sapeva che Totò era figlio del marchese. Rosa era diventata così intrattabile dopo che Paolino aveva lasciato il principale, e di matrimonio non se ne parlava più. - Ti contenti di me? - le chiedeva maestro Titta, guardandola di sotto gli occhiali - Parola d'onore che se tu mi vuoi, io per me ti sposo! - Andate là, pulcinella! - rispondeva quella, mostrandogli il pugno. - Voglio dire che mi sei simpatica, purchè non letichi e non strilli. Allora mi sembri la scimmia della Villa, tal'e quale. Rosa alzava le grida: - Se sembro la scimmia della Villa, voi voltatevi dall'altra parte. V'ho forse pregato di portarmi qualche ambasciata? - Al solito, prendi subito fuoco? Che t'ho detto di male? di non farti una cattiva fama, di lasciare in pace il vicinato? - Il vicinato! il vicinato! Quando si affittano le case a certa gente che so io!... - Che sai? Don Felice?.. Un galantomone! La signora Giacomina? Un cuor d'oro! Le ragazze cercano marito, come tant'altre di mia conoscenza; il piccolino va messo in collegio. Che vai cercando?..
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