Quelle amabili bestiole considerano, si sa bene, ogni ospite del loro padrone come nemico personale, e gli vanno incontro ringhiando e abbaiando. La musica dura spesso un bel pezzo, e intanto il visitatore non può nemmeno scambiar una parola coi padroni di casa, che invano cercano di far tacere l'insolente, e spesso credono di giustificarsi dicendo questa bella ragione: non abbia paura, non fa nulla. Meglio tenerlo chiuso nel luogo suo, tanto più che simile diletto si rinnova spesso anche nel momento del congedo. E a proposito del congedo non sarà male avvertir le signore che per quanto siano in confidenza con una visitatrice, per quanto sia loro cara la sua compagnia, non devono trattenerla mezz'ora sulla porta o nell'anticamera. Questo avviso naturalmente va dato anche a chi fa la visita. Giungendo in un paese nuovo, o recandosi ad abitare un nuovo casamento, tocca a chi arriva far visita alle persone cui desidera entrar in relazione. La prima visita va restituita entro gli otto giorni. Non sarà male accennar qui ai biglietti da visita, che spesso sostituiscono la nostra persona....Essi devono essere in cartoncino bianco elegantissimo e devono portar col nome e cognome della persona, i suoi titoli e il suo grado. I professionisti vi mettono talvolta il loro indirizzo. Vi son però dei personaggi così insigniti di gradi e titoli, che la litania ne sarebbe un po' troppo lunga: molto opportunamente si suol usar da loro due specie di biglietti da visita: l'una solo col nome e cognome, l'altra con l'elenco dei gradi e dei titoli; adoperando la prima con amici e parenti, la seconda nelle relazioni ufficiali. Il titolo nobiliare non si mette quando si pone la corona. Le signore hanno il loro biglietto da visita col nome e cognome da fanciulla e da maritata; col titolo o colla corona se sono nobili per via di marito. Il cognome del marito precede sempre quello di nascita. Un tempo le signorine non avevano biglietto da visita; ora però questa regola si va eliminando. Una donna generalmente non mette sul suo biglietto titoli professionali; se però le è necessario essere conosciuta anche professionalmente, preferisce ricorrere, come già detto a proposito degli uomini, al doppio biglietto: uno col titolo per la professione ed uno senza per la vita di società. Il biglietto da visita di una signorina non porta nè titolo nobiliare nè corona. L'abitudine di mettere lo stemma sui biglietti è caduto in disuso e sopravvive un po' soltanto in provincia. Sul biglietto si scrivano poche parole di circostanza; non è bello ricorrere alla sigle p. p. c. - p. c. - p. a., che sono asciutte e volgari. Si mandano i nostri biglietti in occasioni d'auguri, di condoglianza, ecc.: si lasciano alla porta quando non si è potuto fare una visita, piegandoli all'angolo. Visitando il Sommo Pontefice l'uomo avrà l'abito nero da mattina, la signora sarà vestita di nero con velo. Non si portano guanti. Dinnanzi al Santo Padre, i visitatori si inginocchiano, Gli prendono la mano senza stringerla, e ne baciano l'anello. Le domande di udienze private si rivolgono al Ministro dei Sacri Palazzi o al Vescovo della propria Diocesi, che le trasmette alla Santa Sede. Nel visitare un Vescovo, la signora si presenta in abito serio e corretto, ma non occorre il velo. Si accenna una genuflessione presso la poltrona ove siede Monsignore, il quale raramente permette che si eseguisca, e si bacia l'anello pastorale.
Se possibile, non lasciate il cane solo in casa, perché abbaiando non disturbi i coinquilini.
Può darsi per esempio, che un cane vi dia fastidio abbaiando, che un televisore sia tenuto troppo alto fino a sera tardi impedendovi di dormire, e così via. Se siete invece voi i colpevoli, riconoscete i vostri torti, non offendetevi e correte subito ai ripari. Se date una festa e prevedete un po' di chiasso, avvertite le persone che abitano accanto a voi o negli appartamenti superiore o inferiore. Magari invitateli.
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Ettore si fermò sotto una catasta abbaiando con furore. La catasta era una di quelle sulle quali era costruita una fortezza. Sulla cima del cubo c'era un bastione di legna in pezzi e sopra un'asticciuola sventolava uno stendardino rosso e verde. II cane saltellò intorno alla fortezza e continuava ad abbaiare. — Cosa c'è? — chiese il biondino al cane, perchè bisogna sapere che il biondino era molto amico del cane nero, forse perchè, all'infuori di lui, Ettore era l'unico soldato semplice dell'esercito. Nemeciech guardò su verso la fortezza. Non vide nulla, ma sentì che qualcosa si muoveva tra il legname. Si mise allora ad arrampicarsi aiutandosi con le sporgenze delle travi. Si trovava a metà percorso quando sentì distintamente che qualcuno frugava tra la legna spaccata. Il suo cuore si mise a battere forte. Avrebbe forse voluto tornare indietro ma quando, guardando giù, vide Ettore si fece coraggio. — Nemeciech, non aver paura, disse a sè stesso. E continuò ad arrampicarsi con cautela. Ad ogni gradino prendeva coraggio e ripeteva: — Nemeciech, non aver paura! Nemeciech, non aver paura! E giunse in cima alla catasta. Lì si disse un ultimo: «Non aver paura, Nemeciech!», ma quando volle scavalcare il muro basso del bastione, la sua gamba che già si era alzata rimase sospesa per lo spavento. — Gesù! E precipitosamente si lasciò cadere lungo le sporgenze fino a terra. II suo cuore batteva a galoppo. Guardò in su, verso la fortezza: accanto alla bandiera, col piede destro posato sul bastione della fortezza, stava ritto Franco Ats, il terribile Franco Ats, il nemico di tutti loro, il capo dei ragazzi dell'Orto Botanico. II vento agitava la sua larga camicia rossa. Sorrideva beffardo. E si rivolse al ragazzino per dirgli con tranquillità: - Nemeciech, non aver paura! Ma Nemeciech aveva invece tanta paura che gia s'era messo a correre. E il cane nero gli correva dietro; e s'infilarono insieme tra cubi di legname, dirigendosi verso il campo; ma sulle ali del vento li raggiunse il grido beffardo di Franco Ats: - Nemeciech, non aver paura! Quando, dal campo, Nemeciech si volse, in cima alla fortezza non v'era più la camicia rossa di Franco Ats. Ma anche la bandiera era scomparsa dal bastione, la bandiera rosso e verde che era stata cucita dalla sorella di Ciele. Il nemico era scomparso tra le cataste di legna. Uscito forse dalla parte di via Maria, verso la segheria, o fors'anche appiattato in qualche angolo con i suoi amici, i fratelli Pastor. E all'idea che anche i Pastor potessero essere presenti, un brivido freddo percorse la schiena di Nemeciech. Egli sapeva cosa significasse incontrare i Pastor. Ma Franco Ats l'aveva visto da vicino, ora per la prima volta. S'era spaventato molto, ma a dir la verità il giovane gli piaceva. Era un bel ragazzo bruno, largo di spalle e la camicia rossa gli stava a meraviglia. C'era qualcosa di garibaldino in quella camicia rossa. I ragazzi dell'Orto Botanico indossavano tutti la camicia rossa per imitare Franco Ats. Sullo steccato del campo si bussò con quattro colpi regolari. Nemeciech trasse un sospiro di liberazione: i quattro colpi erano il segnuale convenuto dei ragazzi della via Pal. Corse alla porticina sprangata e l'aprì. Entrarono Boka, Ciele e Ghereb. Nemeciech moriva dalla voglia di raccontar loro la tremenda notizia, ma non dimenticò di essere un soldato semplice e di fare il suo dovere verso i tenenti e i capitani. S'irrigidì sull'attenti e salutò militarmente. — Salve! — dissero i nuovi venuti. — Che c'è di nuovo? Nemeciech sospirò affannosamente ed avrebbe voluto raccontar tutto d'un fiato. — Terribile! — disse. — Cosa? — Orrendo! — Parla! — Non vorrete credermi! — Che cos'è accaduto? — C'è stato qui Franco Ats! Ora toccò agli altri d'essere ansiosi e atterriti. — Non è vero! — esclamò Ghereb. Nemeciech pose la mano sul petto e disse: — Vero quant'è vero Iddio! — Non giurare! — intimò Boka, e, per dare maggiore efficacia alle sue parole: — Attenti!!! — ordinò. Nemeciech battè i tacchi uno contro l'altro. — Racconta minutamente quello che hai veduto! — Stavo passeggiando tra le viuzze quando il cane si mise ad abbaiare. Lo seguo. E nella cittadella centrale sento dei rumori. Mi arrampico e in cima v'era Franco Ats in camicia rossa. — In cima? Sulla cittadella? — In cima, sì! — disse il biondino e stava di nuovo per giurare. Aveva già la mano sul petto, ma la ritrasse davanti allo sguardo severo di Boka. Aggiunse: — Ha anche portato via la bandiera! Ciele sussulto: — La bandiera? — Sì. Corsero tutti verso il luogo della sciagura. Nemeciech modestamente veniva ultimo, in parte perchè era soldato semplice, in parte perchè non era ben sicuro che in qualche angolo non fosse nascosto Franco Ats. Si fermarono davanti alla fortezza: nemmeno l'asta c'era più. Tutti erano molto agitati: il solo Boka conservava il suo sangue freddo. — Dì a tua sorella — ordinò rivolto a Ciele — che per domani prepari un'altra bandiera. — Sta bene; — rispose Ciele — ma non ha più stoffa verde. Rossa ne ha ancora, ma verde è finita. Boka rispose imperturbabile: — Stoffa bianca, ne ha? — Ne ha. — Faccia allora una bandiera rossa e bianca. D'ora in poi i nostri colori saranno rosso e bianco. Si rassegnarono a questa modifica. Ghereb chiamò Nemeciech: — Fante! — Presente! — Per domani siano corretti i nostri statuti. I nostri colori non sono più rosso e verde, ma sono bianco e rosso. — Sta bene, signor tenente! E Ghereb accordò benignamente al biondino irrigidito: — Ri..poso!!! — E il biondino allora riposò. I ragazzi s'arrampicarono sulla fortezza e constatarono che l'asta della bandiera era stata spaccata da Franco Ats: non rimaneva più che il pezzettino che l'inchiodava. Dal campo giunsero richiami: — Ahò, oò! Ahò, oò! Questa era la parola d'ordine: anche gli altri erano dunque arrivati e stavano cercando di loro. Da molte parti s'intese il richiamo: — Ahò, oò! Ahò, oò! Ciele fece un cenno a Nemeciech: — Fante! — Presente! — Rispondete agli altri! — Sì, signor tenente! E facendosi portavoce con le mani davanti alla bocca per ingrossare la sua vocina di bimbo, gridò: — Ahò, oò! Dopo di che scesero strisciando e s'avviarono verso lo spiazzo. Nel mezzo del prato c'erano gli altri aggruppati: Cionacos, Vais, Colnai ed alcuni altri. Quando s'accorsero di Boka tutti si misero sull'attenti perchè Boka era il capitano. — Salute a tutti — disse Boka. Colnai si fece avanti. — Porto a conoscenza del signor capitano — disse — che quando siamo entrati, la porticina non era chiusa. Secondo il regolamento la porticina deve essere sprangata dall'interno. Boka si volse severo verso il suo seguito. E tutti gli occhi fissarono Nemeciech. E Nemeciech aveva già la mano ancora sul petto e voleva proprio giurare che non era stato lui a lasciarla aperta, quando il capitano domandò: — Chi è entrato per ultimo? Si fece un gran silenzio. Nessuno era entrato per ultimo. E allora il viso di Nemeciech si rasserenò. Una voce disse: — Per ultimo è entrato il signor capitano. — Io? — chiese Boka. — Signorsì! Boka riflettè un poco. — Hai ragione — disse serio — Ho dimenticato di chiudere la porticina. Signor tenente, scrivete il mio nome sul libro delle punizioni! Si era volto a Ghereb e Ghereb tolse di tasca un taccuino nero sul quale scrisse: «Giovanni Boka» e per sapere di cosa si trattava aggiunse: «porticina». Questo piacque ai ragazzi. Boka era un giovane giusto. Questa autocondanna era un esempio di virilità quale non si trova nemmeno nella lezione di latino, benchè la lezione di latino sia sempre piena di caratteri romani. Ma Boka era anche un uomo e neanche Boka era esente dalle debolezze umane. Aveva fatto segnare il suo nome, è vero, ma poi s'era rivolto a Colnai che aveva denunziato la porticina aperta e disse: — E tu non ciarlare troppo! Signor tenente, iscrivete Colnai sul libro delle punizioni per essere stato delatore! Il signor tenente tornò a cavar di tasca il terribile taccuino e scrisse il nome di Colnai. Nemeciech che era in fondo balò in segreto di gioia per non essere questa volta iscritto sul libro delle punizioni, perchè bisogna sapere che in quel libro non c'era altro nome che quello di Nemeciech. Tutti sempre e per qualunque motivo iscrivevano il suo nome. E il tribunale militare che teneva udienza ogni sabato condannava sempre lui. Non poteva essere che così, essendo egli l'unico soldato semplice dell'esercito. A questo punto s'iniziò la grande discussione. In pochi minuti tutti furono al corrente della grande novità, che Franco Ats, capitano delle camicie rosse, aveva avuto l'audacia di spingersi fin nel cuore del campo nemico, di arrampicarsi sulla cittadella centrale e di portar via la bandiera. L'indignazione era generale. Tutti stavano intorno a Nemeciech che ripeteva sempre nuovi particolari. — E ti ha detto qualche cosa? — Certamente! — affermò Nemeciech. — Che cosa? — Mi ha gridato... — Che cosa? — Mi ha gridato: «Non hai paura, Ne- meciech?» E qui il biondino inghiottì saliva, perchè sentiva che non era precisamente la verità. Anzi era proprio il contrario della verità. Sarebbe stato come se egli si fosse dimostrato molto coraggioso tanto che Franco Ats, meravigliato, gli avrebbe domandato: «Come mai non hai paura, Nemeciech»? — E tu non avevi paura? — Io no! Mi sono fermato ai piedi della fortezza; e lui si lasciò cadere dall'altro lato e sparì. Se la svignò. Ghereb l'interruppe gridando: — Questo non è vero! Franco Ats non se la svigna davanti a nessuno, mai! Boka fissò Ghereb: — Ma guarda come lo difendi! — Ho parlato — disse con maggior pacatezza Ghereb — ho parlato perchè non mi sembra verosimile che Franco Ats si sia spaventato di Nemeciech. A queste parole risero tutti perchè in verità non era verosimile. Nemeciech rimaneva sconcertato in mezzo al gruppo e scrollava le spalle. Allora Boka prese il comando delle operazioni: — Ragazzi, qui bisogna fare qualche cosa. Era, stato fissato che oggi avrernmo eletto un presidente. Eleggiamo il presidente e che sia un presidente con pieni poteri: bisognerà seguire ciecamente i suoi ordini. Può darsi che dall'incidente di oggi scoppi una guerra ed allora occorre qualcuno che prepari le cose come in una vera guerra. Soldato, fatevi avanti! Attenti!!! Preparate tanti pezzettini di carta quanti siamo noi; ciascuno scriverà sul pezzettino che gli sarà dato il nome di colui ch'egli desidera sia presidente. Le schede verranno buttate in un berretto e chi avrà riportato maggior numero di voti sarà il presidente! — Evviva! — gridarono tutti ad una voce e Cionacos emise un fischio di allegria, un fischio che pareva quello di una locomotiva. Dai vari taccuini furono strappate delle pagine e Vais mise a disposizione la sua matita; ma poi nacque una discussione per sapere quale berretto avrebbe avuto l'onore di servire da urna. Colnai e Barabas che trovavano sempre di che litigare stavano già in procinto di prendersi a pugni. Colnai sosteneva che il berretto di Barabas non poteva servire perchè troppo unto. D'altra parte Chende affermava che il berretto di Colnai era ancora più unto. Vollero far subito la prova del grado di untume: con un temperino si misero a grattare la striscia di pelle nell'interno del berretto, ma arrivarono in ritardo. Ciele aveva già offerto alla comunità il suo elegante berrettino nero, ed in materia di berretti, inutile discutere, nessuno poteva superare Ciele. Ma Nemeciech, con grande sorpresa di tutti, invece di distribuire i foglietti, approfittò dell'attenzione che per un istante s'era rivolta a lui, e stringendo i foglietti nella manina sporca, si fece avanti. Dritto sull'attenti, coi tacchi accostati, disse con voce tremante: — Perdoni, signor capitano! Veramente non è giusto che io sia il solo soldato semplice... Da quando s'è fondata la società tutti sono divenuti ufficiali e io soltanto sono rimasto senza grado e tutti mi comandano e io devo fare tutto e io... Qui il biondino si commosse molto e sul suo visino sottile colarono grosse lagrime. Con una piccola smorfia di disgusto Ciele osservò: — Bisogna esciuderlo! Piange! Una voce dal fondo esclamò: — Singhiozza! Tutti si misero a ridere. E questo esasperò definitivamente Nemeciech. II cuore del poverino era troppo addolorato e le lagrime ora si misero a scorrere liberamente. Singhiozzava e in mezzo al suo gran pianto diceva: — Anche nel... libro delle punizioni... anche lì non ci sono scritto che io... Sempre iI mio nome... Io sono... il cane... Boka disse calmo: — Se non smetti subito di strillare sarai espulso. Noi non possiamo giocare con i mocciosi... La parola «moccioso» fece il suo effetto. Nemeciech, il povero piccolo Nemeciech si spaventò molto e pian piano smise di piangere. II capitano gli mise la mano sulla spalla: — Se vi comportate bene e vi distinguete, nel maggio potrete diventare anche voi ufficiale. Per ora rimarrete soldato semplice. Tutti approvarono, perchè se anche Nemeciech fosse divenuto ufficiale, allora tutt'il giuoco avrebbe perduto di sapore. Non ci sarebbe stato più nessuno a cui comandare. La voce acuta di Ghereb intimò: Fante, temperate questa matita! Gli venue consegnata la matita di Veis che, nella tasca, per la vicinanza delle biglie aveva rotta la punta. Il soldato semplice prese in consegna la matita, rimanendo sull'attenti; poi con gli occhi ancora lagrimosi, col viso umido, obbediente, incominciò a temperare ansando un poco, come si fa dopo un gran pianto, e tutto il suo dolore, tutta la sua amarezza si concentravano nel temperare la matita Faber numero 2. — E'... temperata, signor tenente! La restituì e trasse un profondo sospiro. E con questa sospiro rinunciò per il momento alla promozione. I foglietti furono distribuiti. Ognuno si ritirò in disparte, perchè l'affare era di somma importanza. Poi il soldato semplice raccolse i foglietti che mise tutti nel berretto di Ciele. Ma quando il berretto di Ciele fu portato in giro per la raccolta delle schede, Barabas diede un colpo di gomito a Colnai mormorando: — E' unto anche quello! Colnai guardò nel berretto; e tutt'e due sentirono che non avevano più da vergognarsi. Se anche il berretta di Ciele era unto, allora voleva dire veramente che il mondo era sottosopra. Raccolti i foglietti, Boka cominciò lo spoglio e passava le schede lette a Ghereb che gli stava vicino. Lesse: Giovanni Boka, Giovanni Boka, Giovanni Boka. Poi una volta lesse: Desiderio Ghereb. I ragazzi si scambiarono un'occhiata: sapevano che questa era la scheda di Boka il quale aveva votato per Ghereb per cortesia. Seguivano altri Giovanni Boka, poi da capo un Desiderio Ghereb, ed infine un ultimo Desiderio Ghereb. In totale Boka aveva ottenuto undici voti e Ghereb tre. Ghereb sorrise sconcertato; gli accadeva per la prima volta di esser posto apertamente di fronte a Boka. E i tre voti gli facevano piacere. A Boka invece due di quei tre voti contrari gli facevano dispiacere e riflettè per un attimo chi potessero mai essere i due che non lo volevano presidente, ma poi disse: — Dunque voi: mi avete eletto a vostro presidente. Grida di evviva e nuovo fischio di Cionacos. Gli occhi di Nemeciech erano ancora umidi ma anch'egli gridava «evviva» con entusiasmo perchè voleva un gran bene a Boka. Il presidente accennò a voler parlare. Si fece silenzio. — Amici, — disse — vi ringrazio. Cominciamo subito a lavorare. Credo che tutti siamo d'accordo nel ritenere che le camicie rosse vogliono usurparci il campo e le cataste di legna. E' di ieri la prepotenza dei Pastor che si presero le biglie dei ragazzi. E' di oggi l'intrusione di Franco Ats che portò via la nostra bandiera. Prima o poi le camicie rosse saranno qui per cacciarci. Ma noi difenderemo questa terra. Cionacos l'interruppe urlando: — Evviva il nostro campo! Si guardarono attorno; fissarono lo spiazzo libero e le cataste di legna illuminate dal dolce sole di un pomeriggio di primavera. Si vedeva nel loro sguardo l'amore che portavano alla loro terra e come avrebbero lottato, se fosse stato necessario, per essa. Era una specie di amor di patria. Gridavano: «Evviva il campo» come avrebbero gridato: «Evviva la patria!» E i loro occhi brillavano e il cuore di tutti traboccava di entusiasmo! Boka continuò: — Prima che essi vengano qui, andremo noi da loro, all'Orto Botanico! In un altro momento un progetto così audace avrebbe sconcertato i ragazzi. Ma in quell'ora di entusiasmo, tutti esclamarono ad una voce: — Ci andremo! E poiché tutti gridavano: «Ci andremo!», anche Nemeciech gridò: «Ci andremo!». In ogni modo egli sarebbe venuto per ultimo portando i cappotti dei signori ufficiali. In mezzo alle voci dei ragazzi c'era una voce rauca e profonda, che anch'essa aveva gridato: «Ci andremo!» Si volsero tutti. Era lo slovacco. Era lì, con la pipa tra i denti, e rideva. Ettore gli era vicino. I ragazzi risero. Lo slovacco anche: gettò il suo cappello per aria ed urlò: — Andiamo! Con questo le faccende ufficiali erano terminate. Si passava al gioco quotidiano: il tennis. Uno disse con dignità: — Fante, andate nel magazzeno e portateci le palle e le racchette . E Nemeciech corse al magazzino. Il magazzino era sotto una catasta di legname. Scivolò sotto e ricomparve con le palle e le racchette. Accanto alla catasta c'era lo slovacco ed accanto allo slovacco Chende e Colnai. 4 Chende aveva in mano il cappello dello slovacco: Colnai vi fece la prova dell'untume. Il cappello dello slovacco era senza dubbio il più unto di tutti. Boka si accostò a Ghereb: — Hai avuto tre voti anche tu! — gli disse. — Sì — rispose fiero Ghereb e lo fissò orgogliosamente negli occhi.
Non soltanto la vallata dove vivevano Insubat e Mutkul, e le pendici su cui il cane zoppo correva abbaiando dietro le capre: ma molte altre valli e cime, capanne e recinti, stambecchi visibili e serpenti invisibili, strapiombi e laghetti con le salamandre. Tutto lentamente nasceva, fatto di quello che Madurer e Sakumat sapevano e immaginavano e desideravano, abbozzando, cambiando, disegnando, colorando. Il movimento della mano di Sakumat era pacato: sapeva attendere che attraverso la parola, le risate e i ricordi, il segno fosse insieme concordato. Scomparve il bianco della prima parete, e al suo posto ci fu una parte montagnosa del mondo, uno spazio ben distribuito tra il vicino e l'infinito, tra il basso e l'altissimo. Ogni colpo di pennello aveva creato una dimensione, una direzione e una verità. La pittura non si fermò. Scivolando sulla curva che raccordava le pareti, le montagne continuavano, mutando tessitura e tinta, abbassandosi in colline brune, spoglie di boschi e ricche di pietraie. Una zona pianeggiante fu poi distesa, con casupole sparse e lontani villaggi dai muri bianchi, molto simili a quelli di Nactumal. In primo piano, anzi in secondo, giacché in primo piano vi era una sensazione luminosa di aria, una trasparenza adatta a guardare, un carro di nomadi con la tenda azzurra attraversava un ponticello di legno su un torrente. Era una illustrazione trovata da Madurer su uno dei suoi libri, e cosí amata e guardata che Sakumat l'aveva rifatta sulla parete. Ma dietro, sul piccolo cavallo pelo-di-pepe che trottava legato al carro, avevano aggiunto una bambina col fazzoletto rosso in testa, che si chiamava Talya. — Dove va il carro, Madurer? — Va molto molto lontano, Sakumat. — Sí, ma è diretto verso le colline, laggiú, o dall'altra parte? — Perché lo chiedi? — Vedi, qui, dopo la curva, la strada non è ancora disegnata. Possiamo farla proseguire verso le colline, cosí, con un largo giro, fino a quel villaggio; oppure possiamo farla andare a destra, verso la nuova parete. — Cosa ci sarà sulla nuova parete, Sakumat? — Continuerà il mondo. Non avevamo pensato di metterci una pianura? Terra e terra fino all'orizzonte. — Sí. Fa' la strada che va verso la pianura, — disse il bambino, — il carro di Talya va laggiú. Quando arriverà laggiú, Talya scenderà dal cavalluccio e raccoglierà fiori... Però, per favore, fai anche una strada che va verso il villaggio. Il carro prenderà l'altra, ma perché lo vuole, non perché c'è una sola strada. — Certo, Madurer. Non c'è una sola strada, al mondo. La terza parete, e anche la quarta, diventarono una pianura. Ci vollero due pareti perché era una pianura molto grande e conteneva moltissime cose: due villaggi, uno vicino e uno lontano, campi di grano e tabacco, mulini a vento simili a quelli della lontanissima Olanda. Era proprio verso i mulini che viaggiava il carro di Talya, su una strada che tagliava campi e villaggi, costeggiava un fiume verde: finché, ormai nella quarta parete, a sinistra dell'ingresso da cui la pittura era partita, arrivava ad una città assediata. Coloratissimi accampamenti di soldati circondavano le mura giallastre della città fortificata, batterie di panciuti cannoni sparavano palle e drappelli di cavalieri sollevavano polvere in carosello attorno alle mura. C'erano anche una catapulta e una torre di legno da cui gli arcieri scagliavano frecce contro i difensori della città. Ma gli assediati si difendevano bene, e si vedeva che avrebbero potuto resistere ancora per molto tempo. Sulla cima delle muraglie, incuranti di frecce e proiettili, donne belle ed eleganti osservavano l'accampamento avversario come una festa di parata. E, a ben osservare, che altro facevano i cavalieri assedianti, se non delle manovre per farsi ammirare dalle donnine di lassú? Che senso aveva il loro trotto, sotto le inespugnabili mura della città? Pensavano forse di poter spiccare un salto, e portare l'attacco all'interno? Ma le mura erano cosí alte e munite che i poveri fanti, piú in là, cadevano a grappoli dal tentativo di scalarle, e finivano come oche e porci nel fossato. Sakumat impiegò tre mesi a dipingere l'assedio. Era una scena molto complicata, e ogni giorno si aggiungevano personaggi, vicende, storie da raccontare. Poi, con l'aggiunta di un piccolissimo principe assediante che spediva con un piccione un messaggio ad una principessa assediata, quella parte dell'opera fu compiuta. Sarebbe riuscito, il piccione messaggero, a volare illeso nel cielo turbinoso della battaglia? Molte frecce, in basso e in alto, erano puntate nella sua direzione; molti proiettili percorrevano la loro rotta invincibile, senza badare al bianco delle sue penne... Sakumat e Madurer sapevano che i soldati, guerreggiando, spesso si annoiano: e preferiscono mirare a un uccello, che cade senza un grido, piuttosto che tra corazza e corazza dei nemici, con il rischio di colpirli, e sentirli gridare e vederne sgorgare sangue come da una brocca rotta... Tuttavia, per ora, il piccione era là, puro e chiaro nei primi metri del volo: e da lassú, sporta da una feritoia come dalla speranza, la principessa lo guardava arrivare, e col suo sguardo lo proteggeva. Erano ormai trascorsi otto mesi dall'arrivo di Sakumat a Nactumal: ma la pittura, avvolgendosi all'angolo smussato della soglia, non si fermava. Come un orizzonte aperto, la pianura la trapassava verso la seconda stanza, allontanandosi da mulini e assedi, e innalzandosi in dolci ondulazioni nella forma di nuove colline. — Perché ancora colline, Sakumat? — diceva il bambino. — Non abbiamo deciso che in questa stanza comincia il mare? Sakumat non rispose, continuando rapido il disegno. Ma non passò molto che la linea morbida dei colli si interruppe, e un segno netto calò, disegnando una scarpata quasi verticale. Poi, tenendo leggermente il carboncino fra due dita, il pittore tracciò una linea sottile, continua, perfettamente orizzontale, per l'intera parete. — Ecco il mare, Madurer. Il bambino seguiva con lo sguardo la nascita dell'orizzonte. — Non ti fermare, per favore, — disse. Sakumat aveva ormai superato l'angolo tra le pareti. — Ancora? — chiese senza voltarsi. — Sí, ancora! Per tutta la parete, e anche l'altra... per favore! — disse Madurer. — Facciamo tutto il mare, in questa stanza! Sakumat non si fermò. Lentamente, con sicurezza, tracciò la linea orizzontale tutto intorno interrompendola all'ingresso della terza stanza e riprendendola dall'altra parte, fino a tornare alla porta tra la prima stanza e la seconda. — Ecco, è tutto il mare, — disse. Madurer, in piedi al centro della stanza, girava lentamente su se stesso, guardando intensamente la linea leggera che divideva lo spazio bianco della parete. Girò piú volte, rosso in faccia, con gli occhi lucidi e le mani che stringevano l'aria in strane contrazioni. — Sopra è il cielo, e sotto è il mare, — disse. All'improvviso, con uno dei suoi scatti leggeri, corse nella prima stanza e tirò una corda appesa vicino all'ingresso principale. Dopo un istante entrò la piú anziana delle servitrici. — Alika! Corri a chiamare mio padre! — disse il bambino. — Non stai bene, mio piccolo signore? — chiese la donna guardandolo in faccia. — Sto molto bene, Alika, — disse Madurer. — Voglio soltanto che venga mio padre, per mostrargli una cosa. Fai in fretta, per favore!
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IL CANE (balzando su e abbaiando) Sì, sì, sì!... TYLTYL E il Pane, dov'è?... IL PANE (dal fondo della sala) Sono qui.... Sto vicino alla porta per impedir loro di uscire.... (Ma poi che uno degli Spettri si avanza da quella parte, il Pane fugge via a gambe levate urlando dallo spavento). LA NOTTE (acciuffando tre degli Spettri) Venite qua, voi....(a Tyltyl) E tu, socchiudi appena la porta.... (spinge gli Spettri nella caverna). Ecco, così va bene.... (Il Cane ne riconduce altri due). Dentro anche questi.... Su, presto, tornate a casa vostra.... Lo sapete che fino a Ognissanti non dovete uscire.... (Richiude la porta). TYLTYL (andando verso un'altra porta) E dietro a questi, che cosa c'è?... LA NOTTE Perchè vuoi saperlo?... Te l'ho già detto, l'Uccellino Azzurro non è mai venuto dai queste parti.... Ma fai come vuoi.... Apri pure la porta, se ti fa piacere.... Là dentro ci sono le Malattie.... TYLTYL (mettendo la chiave nella serratura) necessario usare molta prudenza nell'aprire?... LA NOTTE No, non è il caso.... Se ne stanno là, dentro quiete quiete, povere figliuole.... Son poco fortunate, ora. L'Uomo, da qualche tempo, fa loro una guerra spietata.... Specialmente dopo la scoperta dei microbii.... Apri e vedrai.... (Tyltyl spalanca la porta. Non vien fuori nessuno). TYLTYL Perchè non vengono fuori?... LA NOTTE Te l'ho detto, sono quasi tutte sofferenti e scoraggite.... I medici sono poco garbati con loro.... Entra un momento, e vedrai.... (Tyltyl entra nella caverna, e ne esce quasi subito). TYLTYL L'Uccellino Azzurro non c'è.... Hanno l'aria molto malata le vostre malattie!... Non hanno neppure alzato il capo quando sono entrato.... (Una Malattia piccina piccina, in pantofole, veste da camera e cuffia da notte, scappa fuori dalla caverna e si mette a saltellare). Guarda! Una piccina che scappa!... Chi è?... LA NOTTE Nessuno d'importante.... È la più piccola di tutte, è il Raffreddore di naso.... È la meno perseguitata, e perciò sta meglio di tutte in salute.... (Chiamando il Raffreddore). Vieni qui, piccina.... Sei uscita troppo presto: bisogna aspettare l'inverno.... (Il Raffreddore tossisce, sternuta, si soffia il naso, e rientra nella caverna di cui Tyltyl chiude la porta). TYLTYL (avviandosi verso la porta accanto) Guardiamo un po' che cosa c'è qua dentro.... LA NOTTE Bada, là dentro ci sono le Guerre.... Sono più che mai terribili e potenti.... Dio sa che cosa succederebbe se una di esse scappasse fuori!... Per fortuna il riposo le ha fatte ingrassare e si muovono a fatica.... Ma teniamoci pronti tutti a far forza contro la porta, mentre tu getterai uno sguardo là dentro.... (TYLTYL, con molta prudenza, socchiude appena la porta, in modo da lasciare soltanto uno spiraglio attraverso il quale getta un'occhiata nella caverna. Ma tosto si ritrae gridando): TYLTYL Presto! Presto!... Richiudete!... Mi hanno veduto!... Vengono fuori tutte!... Aprono la porta.... LA NOTTE Venite qua, tutti!... Fate forza!.. Che fai tu costì, Pane?... Spingete, spingete!... Sono così forti, loro!... Ecco, ci siamo.... Cedono.... Era ora!... Hai visto?... TYLTYL Sì, sì!... Sono enormi, spaventevoli!.. No, non credo che l'Uccellino Azzurro sia là dentro.... LA NOTTE E Come potrebbe fare a starci?... Lo mangerebbero subito.... in un boccone.... Ebbene, ne hai abbastanza, ormai?... Come vedi, qui non c'è nulla da fare.... TYLTYL Io devo veder tutto.... La Luce vuole.... LA NOTTE La Luce vuole così!... è facile a dirsi per chi ha paura e resta a casa!... TYLTYL Andiamo verso quest'altra porta. Che cosa c'è là dentro?... LA NOTTE Qua dentro stanno rinchiuse le Tenebre e i Terrori.... TYLTYL Si può aprire?... LA NOTTE Sì, certo.... Anch'essi, come le Malattie, sono tranquilli, ormai.... TYLTYL (schiudendo la porta con una certa diffidenza, e gettando uno sguardo nella caverna) Non c'è nessuno.... LA NOTTE (guardando essa pure dentro alla caverna) Ebbene, Tenebre, che cosa state facendo? Uscite per un momento: vi farà bene, vi scioglierà i muscoli.... E anche voi, Terrori.... Non abbiate paura.... (Alcune Tenebre e alcuni Terrori, sotto l'aspetto di persone velate, quelle con veli neri, questi con veli verdognoli, arrischiano timidamente qualche passo fuori della caverna; ma a un gesto appena abbozzato di Tyltyl, rientrano precipitosamente). Su, coraggio!... Non vedete che è un bambino?... Che male può farvi?... (A Tyltyl). Sono diventati costì timidi, tutti, meno i più grandi, quelli laggiù in fondo.... TYLTYL (guardando in fondo alla caverna) Dio! Mettono spavento a guardarli... LA NOTTE Sono incatenati.... Essi soli non hanno paura dell'Uomo.... Ma ora chiudi la porta; se no si arrabbiano.... TYLTYL (andando verso la porta appresso) Guarda!... Questa qui è ancora più cupa. Che cosa c'è qua dentro?... LA NOTTE Dietro a questa porta ci sono molti Segreti.... Se proprio ci tieni, puoi aprirla.... Ma ti consiglio di non entrare.... Sii prudente; e noi, teniamoci pronti a richiuderla presto, come abbiamo fatto per le Guerre.... TYLTYL (schiudendo la porta con infinita precauzione, e inoltrando timidamente il capo attraverso lo spiraglio) Oh!... Che freddo?... Mi frizzano gli occhi!.... Presto, chiudete!... Spingete forte!... Fanno forza dal di dentro contro la porta... (La, Notte, il Cane, la Gatta e lo Zucchero chiudono a forza la porta). Oh che cosa ho visto!... LA NOTTE Che cosa? TYLTYL (sconvolto) Non so, ma metteva spavento!... Stavano lì seduti come tanti mostri senza occhi.... Chi era il gigante che voleva acciuffarmi?... LA NOTTE Probabilmente era, il Silenzio; ce l' ha lui in custodia questa porta.... Ma era dunque tanto spaventoso a vedersi?... Sei ancora pallido e tremi tutto.... TYLTYL Sì. Non avrei mai creduto.... Ho le mani gelate.... LA NOTTE Vedrai qualcosa di ancora più terribile se ti ostini a voler andare avanti.... TYLTYL (andando alla porta accanto) E dietro a questa?... Ci sarà qualcosa altrettanto orribile?... LA NOTTE No.... Qui c'è un po' di tutto.... Ci metto le Stelle disoccupate, i miei profumi personali, alcune Luci di mia particolare proprietà, come i Fuochi fatui, le Lucciole.... Ci rinchiudo dentro anche la Rugiada e il Canto degli Usignoli.... TYLTYL Ah, le Stelle, il Canto degli Usignoli!... Dev'essere proprio questa.... LA NOTTE Apri, apri pure, se vuoi.... Tutte cose innocue.... (Tyltyl spalanca la porta. Le Stelle, sotto l'aspetto di belle giovinette velate da luci multicolori, fuggono subito fuori dalla loro prigione; corrono qua e là per la sala e formano sui gradini e intorno alle colonne dei graziosi girotondi rischiarati da una specie di penombra luminosa. I Profumi della Notte, quasi invisibili, i Fuochi fatui, le Lucciole, la Rugiada trasparente si uniscono ad esse, mentre il Canto degli Usignoli, uscendo a fiotti dalla caverna, inonda il palazzo della Notte). MYTYL (entusiasmata, battendo le mani) Oh! Che belle signore!... TYLTYL E come ballano bene!... MYTYL E come sono profumate!... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino Azzurro. 7 TYLTYL E come cantano bene!... MYTYL Chi sono quelli laggiù che si vedono appena?... LA NOTTE Sono i Profumi della mia ombra.... TYLTYL E quegli altri che sembrano fatti di vetro filato?... LA NOTTE Sono le Rugiade delle foreste e delle pianure.... Ma ora basta. Non la smetterebbero più!... Se sapeste che fatica ai farli rientrare là dentro, se fanno tanto di cominciare a ballare!... (Battendo insieme le mani). Via, presto, voialtre Stelle!... Non è il momento, ora, di ballare.... Il cielo è coperto, grossi nuvoloni appaiono qua e là.... Via, sbrigatevi, rientrate tutte, altrimenti chiamo un raggio di sole.... (Le Stelle, i Profumi, ecc. fuggono via spaventati e si precipitano nella caverna la cui porta si richiude dietro di loro. Intanto cessa anche il Canto degli Usignoli). TYLTYL (andando verso la porta di fondo) Eccoci al grande portone centrale.... LA NOTTE (con accento solenne) Non aprirlo!... TYLTYL Perchè?... LA NOTTE Perchè è proibito. TYLTYL Allora è segno che là dentro c'è l'Uccellino Azzurro.... La Luce me l'aveva detto.... LA NOTTE (maternamente) Ascoltami, bambino mio.... Sono stata finora buona e compiacente.... Ho fatto per te quello che non avevo mai fatto per nessuno.... Ti ho rivelato tutti i miei segreti.... Ti voglio bene, sento pietà per la tua giovinezza, per la tua innocenza, e ti parlo come ti parlerebbe una madre.... Ascoltami, dàmmi retta, bambino mio; rinunziaci, non andare più oltre, non tentare il Destino, non aprire quella porta!... TYLTYL (un poco scosso) Ma perchè?... LA NOTTE Perchè voglio salvarti.... Perchè nessuno, intendi, nessuno di coloro che hanno osato di socchiuderla, appena appena, foss'anche per lo spessore di un capello, è ritornato vivo alla luce del giorno.... Perchè tutto quello che si può imaginare di più spaventoso, tutte le peggiori angoscie, tutti gli orrori di cui si parla nel mondo, sono un nulla in paragone a ciò che di meno terribile assale l'uomo non appena il suo sguardo si affissa sull'orlo di quell'abisso al quale nessuno osa dare un nome.... Tanto che io stessa, vedi, se tu nonostante tutto ti ostinassi a voler aprire quella porta, io stessa dovrei pregarti di aspettare finchè io fossi al riparo dentro alla mia torre senza finestre.... E ora rifletti, decidi tu.... (Mytyl, tutta in lacrime, getta urli di terrore cercando di trascinare via con sè Tyltyl). IL PANE (battendo i denti dalla paura) Non aprite, non aprite, padroncino caro! (Gettandosi in ginocchio). Abbiate pietà di noi!... Ve lo chiedo in ginocchio.... La Notte ha ragione.... LA GATTA State per sacrificare la vita di noi tutti.... TYLTYL È inutile.... Debbo aprire quella porta!... MYTYL (singhiozzando e pestando i piedi) Non voglio!... Non voglio!... TYLTYL Voi, Zucchero e Pane, prendete Mytyl per la mano e scappate con lei.... Ora apro LA NOTTE Si salvi chi può!... Presto!... Presto!... (Fugge). IL PANE (fuggendo smarrito) Aspettate almeno finchè siamo arrivati in fondo alla sala.... LA GATTA (fuggendo anch'essa) Aspettate! Aspettate!... (Si nascondono entrambi dietro alle colonne, dalla parte opposta della sala. Tyltyl resta solo col Cane, presso la porta monumentale). IL CANE (affannosamente, pieno di terrore contenuto) Io rimango.... rimango con te.... Non ho paura, io.... Io rimango!... Rimango vicino al mio piccolo dio.... Io rimango! Io rimango!... TYLTYL (accarezzando il Cane) Bravo, Tylô, bravo.... Qua, un bacio.... Siamo in due.... E ora, in guardia!... (Introduce la chiave nella serratura. Un urlo di terrore parte dal punto opposto della sala, dove si sono rifugiati quelli che sono fuggiti. Non appena la chiave ha toccato la porta, i grandi battenti si aprono nel mezzo, scorrono lateralmente e spariscono a destra e a sinistra, nella grossezza del muro, scoprendo a un tratto, immerso nella luce notturna, un maraviglioso, irreale, sconfinato giardino di sogno nel quale, fra le stelle e i pianeti, dei fantastici uccellini azzurri, illuminando tutto ciò che toccano, volando senza posa di pietra in pietra, da un raggio di luna all'altro, fanno perpetue armoniose evoluzioni fino agli estremi confini dell'orizzonte. Sono innumerevoli, e paiono essi il soffio, l'azzurra atmosfera, l'essenza stessa del giardino maraviglioso. Tyltyl, abbagliato, sperduto, immerso nella luce che emana dal giardino). Oh!... il cielo!... (volgendosi agli altri che erano fuggiti). Venite!... Venite!... Eccoli!... Son loro! Son loro! Son loro!... Finalmente!... Migliaia di uccellini azzurri!... Milioni!... Miliardi!... Troppi!... Vieni, Mytyl!... Vieni, Tylô! Venite tutti!... Aiutatemi! (Gettandosi fra gli uccellini). Si possono prendere con le mani!... Non sono selvatici, no.... Non hanno paura di noi!... Venite qua! Venite qua!... (Mytyl e gli altri accorrono. Entrano tutti, meno la Notte e la Gatta, nel giardino maraviglioso). Guardateli!.... Son troppi.... Vengono sulle mani!... Guardate, si nutrono di raggi di luna?... Dove sei, Mytyl?... Ci sono tante ali azzurre, tante piume in giro, che non ci si vede più.... Non morderli, Tylô!... Non far loro male!... Prendili piano piano.... MYTYL (tutta circondata da uccellini azzurri) Ne ho già presi sette!... Oh, come sbattono le ali!... Non posso, teneteli.... TYLTYL Nè anch'io!... Ne ho troppi!... Volano via!.. Tornano!... Anche Tylô ne ha presi!... Ci portano in alto con loro.... Ci portano in cielo!... Vieni, usciamo da questa parte!... La Luce ci aspetta.... Come sarà contentai... Venite di qua, di qua.... (Fuggono via dal giardino, le mani piene d'uccellini che si dibattono, e attraversando la sala in una confusione di ali azzurre escono a destra, da dov'erano prima entrati, seguìti dal Pane e dallo Zucchero i quali, soli fra tutti, non hanno preso neanche un uccellino. La Notte e la Gatta, rimaste sole, risalgono verso il fondo, guardando ansiosamente verso il giardino). LA NOTTE Non l'hanno mica preso, spero?... LA GATTA No, lo vedo lassù, su quel raggio di luna.... Non hanno potuto raggiungere, era troppo in alto.... (Cala la tela. Subito dopo, davanti al sipario calato, entrano simultaneamente, da destra la Luce, e da sinistra Tyltyl, Mytyl e il Cane, tutti quasi nascosti sotto gli uccellini che hanno preso. Ma questi appaiono giù inanimati, e, il capo penzoloni e le ali spezzate, non sono più nelle loro mani se non delle spoglie inerti). LA LUCE Dunque, lo avete preso?... TYLTYL Sì, Sì ! E non uno solo!... Ce n'erano a migliaia!... Eccoli!... Guarda!... (Guarda gli uccellini, nell'atto di porgerli alla Luce, e si accorge che sono morti). O Dio! Sono morti.... Come mai?... Anche i tuoi, Mytyl?... Anche quelli che ha, preso Tylô!... (Gettando con collera in terra i cadaveri degli uccellini). Ah no, è una cosa terribile!... Chi li hai uccisi?... Oh, come sono infelice!... (Si nasconde la testa col braccio, e scoppia in singhiozzi). LA LUCE (stringendolo maternamente fra le braccia) Non piangere, bambino mio.... Tu, non avevi preso l'uccellino che può vivere alla luce del giorno.... Quello era volato via, chi sa dove.... Ma lo ritroveremo!... IL CANE (guardando gli uccellini morti) Mi permetti di mangiarli?... (Escono tutti da sinistra).
IL CANE (abbaiando di gioia) Anch'io!... anch'io!... LA FATA Meno male! È troppo tardi, in ogni modo, per tornare indietro. Non sta più in voi di scegliere; perciò verrete tutti con noi.... Ma tu, Fuoco, abbi cura di non avvicinarti a nessuno; e tu, Cane, non punzecchiare la Gatta e tu, Acqua, procura di star bene diritta e di non sgocciolare dappertutto.... (Si odono novamente dei colpi violenti alla porta di destra) TYLTYL (ascoltando) È il babbo, di nuovo.... Questa volta si è alzato davvero, lo sento camminare.... LA FATA Usciamo dalla finestra.... Verrete tutti a casa mia, e cercherò di vestire come si conviene gli animali e le cose.... (Al Pane) Tu, Pane, prendi la gabbia nella quale metteremo l'Uccellino Azzurro.... L'affido a te.... Presto, presto, non perdiamo tempo.... (La finestra si allunga a un tratto e si trasforma in una porta. Escono tutti, dopo di che la finestra riprende la sua forma primitiva, e si richiude come se nulla fosse. La stanza è ritornata buia, e i due lettini sono immersi nell'ombra. L'uscio a destra si schiude, e attraverso lo spiraglio fanno capolino Babbo Tyl e Mamma Tyl). IL BABBO Non era nulla, te lo dicevo.... è il grillo che canta.... LA MAMMA Li vedi?... IL BABBO Sì. Dòrmono quieti quieti.... LA MAMMA Li sento respirare.... (L'uscio si richiude). CALA LA TELA
Lampo, il cane, fiutava, frugava scodinzolando, abbaiando a scatti, quasi sottovoce, e il padrone spiava qua e là, col fucile in mano. Cuddu lo guardava, pronto a turarsi gli orecchi appena glielo avrebbe visto inarcare. Ed ecco Lampo che si agita, che si avventa addosso a una macchia e insiste; ed ecco compare Nunzio che con una mano accenna a Cuddu di fermarsi... Il colpo era partito prima ch'egli potesse turarsi gli orecchi; e il cacciatore, in due salti, aveva già raccolto la preda: un coniglio di pelo rosso, che dava gli ultimi tratti. - Prendi, mettilo nella rete della carniera. Cuddu non osava. Il povero animaletto che si dibatteva, insanguinato, nelle strette dell'agonia, lo aveva talmente impietosito da farlo impallidire e fargli venire le lacrime agli occhi. Sciocco!... Hai paura? Non si move più... Cristo! E compare Nunzio, buttato il coniglio per terra, accorreva verso il punto dove Lampo, col corpo mezzo ficcato nella densa macchia che copriva la costa, abbaiava. Tenendo inarcato il fucile, egli lo incitava con gridi gutturali, sporgendo la testa per guardare da tutti i lati onde il coniglio insidiato poteva sbucare, e Cuddu con l' indice delle mani si comprimeva gli orecchi per non udire il botto. - Ehi!... Lampo!... Addosso! Compare Nunzio era balzato sur un masso, col calcio del fucile accostato alla gota, pronto a sparare. Lampo investiva la macchia saltando ora da una parte, ora dall'altra, abbaiando, ringhiando... Bum! A Cuddu parve di sentirsi la fiammata su la testa e si buttò per terra. - Mamma mia! - Grullo! - gli gridò compare Nunzio. - Qua, Lampo! E Lampo accorreva col coniglio tra i denti, altero della preda, sbalzando sulle quattro zampe, scherzando col padrone col far le viste di non volergliela cedere. - Ah! Sei tu! - esclamò compare Nunzio riconoscendo il coniglio, da esperto cacciatore. - Oggi però non sei riuscito a farmela!... Senti come pesa! Cuddu sorrise mentre compare Nunzio, ficcando il coniglio nella rete della carniera, gli diceva: - Giacché non vuoi fare il sarto, impara questo mestiere. Più in su, la vallata si allargava ancora, e l'inoltrarsi diveniva difficile, tanto le macchie, gli arbusti e le erbe ingombravano il terreno. Di lassù Cuddu vedeva la mandra e le vampe e il fumo della legna sotto la caldaia di rame dove il pecoraio faceva bollire il latte. - Dopo, andremo a mangiare la zuppa col siero. Gireremo da quella parte. Sei stanco? - No! - rispose Cuddu, che però si sentiva un po' indolenzite le spalle dal peso della carniera e della gabbiola del furetto. Lampo si era allontanato: fiutava, frugava e
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Un cane, fiutando qualche estraneo, le si precipitò incontro, abbaiando a squarciagola. Ella non poteva vederlo. — Fido! Fido! cominciò a chiamare con accento amico. Non era Fido; ma un compagno di lui, che appena ebbe riconosciuta l'antica padrona, mutò tono e prese a fare un baccano infernale per manifestare la sua contentezza. Venne gente su l'uscio. - Chi è? — chiesero diverse voci esili e robuste in coro. - Sono io! — rispose la nuova arrivata. - Chi? Ma la madre che non l'aspettava, la madre che non ci vedeva, le corse addosso e se la prese tra le braccia, stringendola quanto quelle povere braccia vecchie potevano stringere. - Tu, Nina mia, tu? — badava a ripeterle. Leda le aveva chinato il viso su la spalla, e non le diceva nulla: piangeva. Fu una sera felice. Sotto la cappa ospitale del camino di antica pietra, dove eran volate via insieme alle faville tante belle favole, la famiglia si raccolse anco una volta in giro, aspettando che sonasse la campana della chiesa. Le zampogne faceano echeggiare le loro note ingenue, le loro cantilene selvatiche in lontananza, come prima, come sempre; e nel paiuolo bollivan le castagne. Soltanto, invece delle novelle di fate, Leda udì dal suo fratello maggiore il racconto della vita dei soldati d'Africa: vita penosa ed eroica; poi dalla Giulietta l'idillio di un suo amore virginale per un garzone di fattoria al quale ella era fidanzata. Così si fece l'ora di recarsi alla messa; e come prima, come sempre, uscirono tutti in processione; il padre, innanzi agli altri, ormai lento nel camminare, con la lanterna in mano. L'aria era fredda; ma sul terreno, sonoro perchè ghiacciato, dove battevano le grosse scarpe ferrate, non si vedeva traccia di neve; qua e là, anzi, restavan su' rami de' frutti Contessa Lara 24 e degli arbuscelli parecchie foglie ancor verdi o appena ingiallite: la stagione era stata mite. Come al solito, Leda aveva accosto la sua sorellina, non più attaccata alla sottana, ma al braccio; la madre, più curva, seguitava a pregare ad alta voce Gesù Bambino; gli uomini parlavano famigliarmente. Quando la famiglia si fu aggruppata in chiesa, Leda s'inginocchiò presso un confessionale, nell'ombra, vergognosa di farsi fissare in viso dagli estranei curiosi di rivederla; e lì, mezzo seduta per terra, mezzo in ginocchio, stette per quanto durarono le tre messe di rito. A momenti pregava; la più parte del tempo fantasticò. E le parve così naturale di trovarsi lì tra i suoi, nella chiesetta del suo villaggio nativo appollaiato su' monti, mentre alla voce del parroco si univano le note dell'organo che ripeteva la vecchia aria di teatro, chi sa come giunta là su, e le note delle zampogne festive, selvatiche, insistenti; le parve così benefico quel tepore, accresciuto sul proprio corpo dalla lana del suo umile scialletto, di popolana; così sereno il sorriso che le volgeva ogni poco sua madre, ch'ella si domandò con pietosa incredulità se era lei, lei veramente, la quale per anni e anni avea vissuto lontano da quel centro di purità e di pace, tra gente ignota, senza affetto, senza fede, senza stima. Era stato un sogno brutto e cattivo?... Forse. Ah, Vergine Santa, Gesù Bambino, misericordia!.. Quando tornarono giù, verso casa, la Giulietta, tutta serrata al suo braccio, le domandò piano: - Di', rimarrai sempre con noi? La sorella maggiore chinò la testa, e rispose più piano ancora: - Credo di sì. FINE.
Ohè...» iI cane della fattoria, abbaiando e sgambettando, si era buttato in mezzo alle vigne, per corrergli addosso. - È Alfio Balsamo - disse massaro Filippo quando intese gridare perchè chiamassero I'animale. - Bella accoglienza!.. - veniva dicendo Alfio, mentre s'avvicinava a lunghi passi. - Invece di darmi il benvenuto, mi mandate addosso il cane, quasi fossi un ladro. - O tu perchè arrivi a quest'ora? - rispose il fattore - Qui ora bisogna lavorare per davvero: il patto lo sai, ma è meglio ripeterlo, se vuoi che l'amicizia duri. - E voi, fattore che non so come vi chiamate - gridò Alfio fingendo di andare in collera - sapete forse che io mangio il pane a tradimento? Non per vantarmi, ma se tutti i zappatori della Falconara valessero quanto me, l'uva a quest'ora sarebbe matura! E come ebbe assegnata la sua filiera, si mise al lavoro, con una gran lena, scagliando la zappa furiosamente, come dovesse spaccar legna, scavando dei solchi profondi. Egli avanzava rapidamente, e dileggiava il fattore e massaro Filippo, che lavoravano a fianco - Su, su, sangue del mondo! Par che stiate facendo la barba alla vigna! - e mostrava il suolo sconvolto dai suoi grandi colpi di zappa. - Le prime furie della granata nuova! - diceva il fattore. Alfio Balsamo, per fargli vedere che gli bastava il fiato, si metteva per giunta a cantare, come un merlo, così forte che lo sentivano dai punti più discosti della vigna, e perfino dall'altra riva del fiume. Dall'abbeveratorio, dalla fattoria, dal poggio, quel canto si sentiva nettissimamente, nel gran silenzio del mezzogiorno, e le donne che legavano le viti, gli zappatori, i mulattieri che menavano le bestie a bere, avevano imparato a conoscerlo al verso. - È quel buonavoglia di Alfio Balsamo! - Io vo' stare allegro - diceva lui - perchè ho la salute e la gioventù! - Tu sei un ragazzinaccio - rispondeva il fattore - ed hai ancora il cervello sopra la berretta. Alfio lo sapeva che era un ragazzo forte come un uomo, e se ne teneva! Avreste voluto vedere, per esempio, il figliuolo di massaro Filippo, che aveva venti anni suonati, e intanto era debole e malaticcio che se pigliava una zappa in mano gli cascava addosso e lo schiacciava. Intanto, sorte infame! a quello sfiaccolato capitava ogni giorno qualche partito, perchè massaro Filippo aveva dei soldi da parte, e lui non lo voleva nessuna - Massaro Filippo, che è vero che vostro figlio Matteo si marita con la Rosa di massaro Ignazio? - A te cosa t'importa? - Niente, dico per semplice curiosità. Ma piglierete degli anni di tempo, perchè Matteo non è molto forte in sella. - Allora - disse il fattore - vedi un po' se danno la Rosa a te! Alfio Balsamo ammutoliva e pigliava la terra a gran colpi di zappa, senza più badare se qualche ceppo robusto restava sfiancato dall'urto del ferro lucente. Ma erano nuvole che duravano poco; egli era un ragazzinaccio, e non pensava due minuti alla stessa cosa. Nel pieno mezzogiorno, quando il sole pioveva a picco, i lavoratori si riposavano, chi dietro le cataste dei sarmenti morti, chi all'abbeveratorio, chi alla fattoria. Alfio Balsamo e gli altri pagati a giornata si riunivano nella stanza del fattore, a merendare: ognuno aveva la sua porzione di pane e le cipolle erano a discrezione. - Già, questo fattore è un boia, che ci tratta peggio degli animali. Che cosa vi costa di metter fuori un po' di formaggio, di quello che vi dà il pecoraio del pascolo? Ma le quistioni grosse erano pel vino. - Brrr!.. - faceva Alfio, scostando dalle labbra il fiaschetto, chiudendo gli occhi, come se avesse bevuto un veleno. - Dite la verità, che ci avete fatto pisciare il mulo? Il fattore beveva a sua volta, senza dargli retta. - Ma dov'è il buono? Dove l'avete nascosto? - E visto un mazzo di chiavi sul tavolo, lo afferrò ad un tratto. - Ah, finalmente!... Ora vado a ubbriacarmi in cantina... Il fattore, afferatogli il polso, gli diede una stretta così forte da farlo lagrimare. - Ahi! ahi! Che bestia! Ha creduto che dicessi davvero!... Avete dunque paura che vi rubi? Già, voi dovete avere dei denari nascosti, sotto qualche mattone... Dimenticando il braccio ancora indolenzito, Alfio si metteva a misurare il pavimento, a piccoli passi, battendo i calcagni, per scoprire il nascondiglio. - Dovete esser ricco, così pezzente come sembrate. Una di queste sere voglio tirarvi una carabinata, dietro una siepe! Così, mentre gli altri se ne stavano sdraiati, a godere intera quell'ora di riposo, Alfio andava di su e di giù, non stava fermo un minuto, parlava per tutti e tornava al lavoro più stanco di prima. Ma quando la giornata era finita, e si tornava alla fattoria, anche lui stava quieto come gli altri, ed in quel solo momento non assordava i compagni con le sue cicalate. Come il sole si nascondeva dietro i poggi, di là dal fiume dove le rane e i ramarri cominciavano il loro concerto, i contadini andavano a sciogliere le cavezze alle cavalcature e partivano a un po' per volta, cacciando avanti gli asini o tirandosi dietro i muli restii, con le donne a fianco e i ragazzi appresso. Comare Santa, quella che gli era morto il marito e veniva a coltivarsi il suo pezzo di vigna insieme col figliuolo, era sempre l'ultima ad andarsene, e quando dalla fattoria vedevano la piccola macchia nera che l'asino, curvo sotto il peso delle due persone, faceva in fondo al vallone su cui si stendeva già l'ombra, voleva dire che non c'era più nessuno. Il fattore preparava una minestra di fave e Alfio Balsamo se ne stava buttato per terra, dinanzi ai casamenti, giuocando coi cani, o stando a sentire i discorsi che facevano i più grandi di lui, sullo stato delle vigne, sul buon tempo che assicurava un prodotto abbondante, o sui prezzi del bestiame o sui casi che capitavano al prossimo... Una sera, che aveva appena smesso di lavorare, e stava sorvegliando una pentola in cui bollivano delle lumache, glie ne capitò uno a lui, che non se lo sarebbe aspettato neanche in sogno. - Dice tua madre - venne a riferirgli il fattore dei Pojeri passando dalla Falconara - che Anna Laferra ha fatto querela contro di te, dinanzi al pretore di Vallebianca, per ingiurie, e se non pensi alla difesa la condanna è certa.
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