Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbagliato

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Ricordi d'un viaggio in Sicilia

168865
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1908
  • Giannotta
  • Catania
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Non ero mai andato per terra da Messina a Palermo; feci questo viaggio in una giornata bellissima; ne fui abbagliato e incantato. Questo versante Tirrenico, che rappresenta la quarta parte dell'area totale dell'isola, e contiene oltre un terzo dell'intera popolazione, con una densità molto superiors alla media del regno d'Italia, pure essendo meno maravigliosamente florido del versante Jonico, compreso fra Messina e Siracusa, è per bellezza di paesaggio e per ricchezza di vegetazione una delle più ammirabili regioni d'Europa. E' una successione di golfi e di seni dalle curve graziosissime, dominati da alti promontorii dirupati, che si specchiano nel più maraviglioso azzurro marino che abbia mai sorriso al sole. Si percorre il primo tratto, lungo il mare, in vista delle diciassette isole dell'Arcipelago Eolio, che par che sorgano l'una dopo l'altra dalle acque, con le loro belle forme vulcaniche, ardite e leggere, tinte di colori soavi, d'un'apparenza quasi vaporosa. E le pianure verdi, solcate da innumerevoli corsi d'acqua, succedono alle pianure verdi, i boschi ai boschi, i vigneti ai vigneti, e vaghe città biancheggianti sulle alture, e monti scoscesi coronati di chiese aeree e di castelli spagnuoli e normanni e d'avanzi di colonie greche e romane. E fuggono accanto al treno i boschetti d'aranci, le siepi di fichi d'India, le spalliere di áloi, i gruppi di palme, tutte le varietà di piante di tutte le terre italiche, accarezzate e mosse da un'aria imbalsamata che vi delta nel sangue e nell'anima un sentimento delizioso della vita. E quante grandi immagini del passato vi sorgono dinanzi da ogni parte! Su quel ridente azzurro del golfo di Spadafora fu distrutta da Agrippa la flotta di Sesto Pompeo; su quell'altre acque luminose, fra il Capo Orlando e la foce della Zapulla, fu sconfitta l'armata di Federico dalle armate riunite di Catalogna e d'Angiò; laggiù riportò Duilio la prima vittoria navale di Roma; su questa pianura l'esercito cartaginese di Amilcare fu sbaragliato dall'esercito greco di Gelone e di Terone. A grandi lampi vi passa dinanzi tutta la storia dell'isola fatale, intorno a cui gravitò per secoli la vita storica e sociale di tre continenti, e d'in fondo al passato immenso vedete sorgere l'albore d'una speranza: poiché se l'Italia peninsulare, come fu detto con felicissima immagine, è un braccio teso dall'Europa nella direzione dell'Africa, la Sicilia è pur sempre la mano di quel braccio; ed è ancora una grande verità quella affermata dal Fischer, ch'essa possiede una stoffa di colonizzatori di primordine "atta a metter radici sopra ogni terra, a prosperare sotto ogni cielo". Chi sa che nell'avvenire dell'Africa non sia il risorgimento dell' "organo prensorio" d'Italia? Ed ecco Monte Pellegrino, ecco la Conca d'oro, ecco Palermo!

Cipí

206559
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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Una fredda sera che il sonno tardava a venire, Cipí si sporse dalla tegola e vide un fatto straordinario: nel muro della casa di fronte c'era un buco tutto nero e ad un tratto in quel buco si accesero due scintille che allargandosi sempre piú mandarono tutt'intorno infiniti raggi dorati, e questi raggi erano cosí brillanti che Cipí ne fu abbagliato. — Passerì, vieni a vedere! — Nel buco nero ci sono due luci... ah, sono sparite! — brontolò Cipí. Uscì dalla tegola, volò su quel tetto, ispezionò: nulla. — Eppure le luci erano là! - esclamò indicando il buco. La passeretta fece una risatina poi disse: — Là c'è la casa del signore della notte, il vecchio saggio dagli occhi parlanti. — E chi sarebbe codesto vecchio saggio? — Ma guarda un po'! Si dà tante arie e non sa nulla! — disse ridendo Passerí. — Il vecchio saggio vive là da tanto tempo, dicono che sia sempre stato là dentro. La mamma della mia mamma diceva che la sua bisnonna già lo conosceva e che lui è vecchio come il mondo e che non morirà. — O bella... — disse Cipí, — ma lui chi è? — Dice che lui è al mondo per proteggere noi poveri uccelli; la mia povera mamma ci andava spesso da lui e lui le diceva buone parole che l'aiutavano a portare pazienza. — O bella... — ripeté Cipí, — ma si può sapere chi è lui? — Un uccello! — spiegò Passerì. — Un uccello come me e te? — Oh no... i suoi occhi sono come due soli, il suo grosso becco è uncinato, la sua testa soffice e piumata e le sue ali, quando vola, sono silenziose come le nuvole. — O bella... — interruppe Cipí, — io non l'ho mai visto volare, e tu? — Lui non ha bisogno di volare come noi... sta sempre chiuso nel suo castello, disdegna la luce del mondo... — E non mangia? — Dicono che si nutre di raggi di luna, di ombre di comignoli; quando ha sete beve il tremolio delle stelle... — O bella... — continuò Cipí sempre piú meravigliato, — ma dimmi, se non mangia come noi, perché ha il becco? — L'avrà per parlare. — Ma se parla con gli occhi. — Uffa, come sei curioso! — concluse Passerí ritornando a dormire. Ma Cipí era poco persuaso e brontolò: — Io ci credo poco che lui abbia un grosso becco uncinato soltanto per parlare... mi sbaglierò, ma qui sotto c'è un mistero... e se c'è lo voglio scoprire!...

Pagina 81

Angiola Maria

206942
Carcano, Giulio 1 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Quindi, poco o nulla abbagliato dallo splendore di audaci o sollazzevoli menzogne, desideroso più della verità che della opinione, prefersi contemplare e studiare quella che chiamar vorrei la nostra vita invisibile: la quale è come un mistero di caldi desiderii e di meste aspettazioni; tedio e anche disdegno del presente, ma serena certezza del futuro. E fin da quel tempo, avute a dispetto l' incomposta gaiezza de' pensieri e la foga fantastica, cercai l'incanto e il sorriso dell'anima (nel che solo panni essere poesia) là dove mi si rivelasse qualche cosa dell'infinito; unica via, per la quale l'intelletto, libero e forte, sollevandosi al di sopra d'ogni superbia e d' ogni sventura umana, riesce a trovare alcuna spiegazione del gran mistero dell' universo, ln quella legge eterna d'amore, che tu il nuovo soffio di Dio sul creato. Pensando io, dunque, ogni sapere poetico essere piuttosto fede e sentimento che dottrina e tessitura di formole e di precetti, fui pago di ricercar ne' libri degli uomini, e in quello assai più arcano e maestoso della natura, quanto valesse a farmi aperti i veri uffici dell'arte, elemento il più gentile di sociale comunanza, e ad apprendermi insieme come si deva rispettare, ovunque ci avvenga di riscontrarli, la dignità del dolore e l'eroismo del sacrificio. Così trovai dappertutto fratelli da amare, sventure da piangere e virtù da venerare. Ma non per questo, in una tale aspettazione del bene, da alcuni battezzata quasi poltroneria malinconica, comechè a me sembri il migliore, se non il solo conforto a vivere quando si deve anche soffrire; non per questo, io dico, tacque nel mio cuore la simpatia per quelle volontà generose che non s'acquietano, ma sfidano e combattono sempre tutto ciò ch' è ingiusto o violento sulla terra. Anche la patria è una religione, e la santità de' nostri focolari e l'amarezza di vedere usurpata la nostra parte d' eredità, dalla forza o dalla fortuna altrui, mi fecero contento del vedermi confuso nella moltitudine degli oppressi; e mi animarono a unir la mia parola, forse inutile, ma sincera, alla potentissima voce di coloro che con determinato intento vogliono dirizzare il vigor degl' ingegni ad operoso e concorde rinnovamento civile. Poichè, la verità è una sola, è la stessa per tutti. Allorchè, repugnante da ironia e da disperazione, incominciando l'arduo e sfiorito cammino delle lettere, io scrissi, nol feci già per orgoglio di mente, o per voluttà di non so qual gloriuzza accademica; ma soltanto per non lasciarmi fuggir gli anni, portando muto nel cuore quel bisogno ineffabile che si sente di poter dire, almeno, come si creda e si speri in qualche cosa di più che non sia l'apparente sicurezza della forza materiale, usa a trionfare sulla terra; o la dimenticanza delle sventure e del fine ascoso per cui la Provvidenza ci educò al dolore. E mi provai, per quanto lo scarso poter della mente me 'l consentiva, a ripetere la storia di qualche semplice e dimenticata virtù; a raffigurare in qualche innocente creatura, destinata al patimento e pur fedele al dovere e al suo stesso sagrificio, quasi un simbolo di codesta nostra povera vita ; la quale solo nella espiazione e nella giustizia può arrivare a pace e sicurezza d' animo; onde diventiam forti contro coloro che tutto sterpano o lasciano avvizzire, così nel cuore come nell' esistenza. Che se io, conoscendo quanto severo e malagevole, in quest'urto terribile d'avvenimenti e d'opinioni di cui siamo testimonii, divenga l'ufficio delle lettere, pur non ho temuto di fare alcuna prova de' pensieri e degli affetti miei, mi giovi almeno il dire che sempre ho voluto parlare di quel poco di verità che per me si poteva conoscere. E poichè qui m'avvenne di farvi troppo lungo discorso di me, sola una cosa voglio dire ancora, e m' è dolce dirla, più che ad ogni altro, a voi, mio maestro ed ora amico venerato e caro: che umili saranno bensì e scarse di pregio le pagine da me scritte man mano che me 'l concedevano le ingrate necessità del mio destino; ma che tutte, se non altro, furono dettate dalla persuasione della mente e del cuore. E ora, raccogliendo in questo volume le primizie de' miei saggi letterarii, come un ricordo d'un tempo più bello che non tornerà più, a voi le mando quali esse sieno, siccome cose inspirate da que' primi pensieri che voi mi deste; facendomi vedere come si possa volgere al bene qualunque menoma forza dello ingegno; poichè, del resto, a nulla giovano sapere, bellezza, valore, a chi non serbi fede alla virtù, alla patria, a Dio. Voi farete, lo spero, buon viso alle modeste pagine che v' offro, con quella riverenza, con quell' affetto, che, come un tempo, mi legano a voi; perchè da voi ebbi, colla vita del pensiero, la sola immutabile e vera consolazione dell' animo. Milano, 1.° giugno 1852. GIULIO CARCANO. NOTA. Questa lettera fu dall' autore premessa all' edizione fiorentina, del 1852, del volume che, con questo racconto, conteneva altre cose sue letterarie. E oggi, ristampandola, vuol rendere quel tenue e onesto tributo di ricordanza e d'affetto ch'egli ancora deve al Baroni, morto di recente. Uomo di mente eletta e di sincero animo, colto nelle lettere latine e greche, scrittore di nobili versi, quali poteva dettarli un ingegno educato alla scuola del Parini, fu per molti anni professore, prima nel collegio Longone di Milano, poi nel ginnasio pubblico di Brera. Non pochi de' nostri giovani, che consacrarono la propria vita al bene e alla indipendenza della patria, lo ebbero maestro, e gli conservano amore riverente. Il governo nazionale si ricordò dell' egregio prete, mandandogli le insegne dell'Ordine Mauriziano, bench' egli si fosse allontanato dalla vita dell' insegnamento, e ritirato già da qualche tempo nella modesta sua villa di Carugate, vicino a Monza, ove morì d'anni settantatrè, fermo nelle sue cre- denze come nelle sue aspirazioni: gli ultimi giorni gli furono agitati e contristati dalla lotta, non ancora composta in pace, tra il clericato e la libertà. ANGIOLA MARIA

Pagina 2

L'uccellino azzurro

212895
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Tyltyl, abbagliato, sperduto, immerso nella luce che emana dal giardino). Oh!... il cielo!... (volgendosi agli altri che erano fuggiti). Venite!... Venite!... Eccoli!... Son loro! Son loro! Son loro!... Finalmente!... Migliaia di uccellini azzurri!... Milioni!... Miliardi!... Troppi!... Vieni, Mytyl!... Vieni, Tylô! Venite tutti!... Aiutatemi! (Gettandosi fra gli uccellini). Si possono prendere con le mani!... Non sono selvatici, no.... Non hanno paura di noi!... Venite qua! Venite qua!... (Mytyl e gli altri accorrono. Entrano tutti, meno la Notte e la Gatta, nel giardino maraviglioso). Guardateli!.... Son troppi.... Vengono sulle mani!... Guardate, si nutrono di raggi di luna?... Dove sei, Mytyl?... Ci sono tante ali azzurre, tante piume in giro, che non ci si vede più.... Non morderli, Tylô!... Non far loro male!... Prendili piano piano.... MYTYL (tutta circondata da uccellini azzurri) Ne ho già presi sette!... Oh, come sbattono le ali!... Non posso, teneteli.... TYLTYL Nè anch'io!... Ne ho troppi!... Volano via!.. Tornano!... Anche Tylô ne ha presi!... Ci portano in alto con loro.... Ci portano in cielo!... Vieni, usciamo da questa parte!... La Luce ci aspetta.... Come sarà contentai... Venite di qua, di qua.... (Fuggono via dal giardino, le mani piene d'uccellini che si dibattono, e attraversando la sala in una confusione di ali azzurre escono a destra, da dov'erano prima entrati, seguìti dal Pane e dallo Zucchero i quali, soli fra tutti, non hanno preso neanche un uccellino. La Notte e la Gatta, rimaste sole, risalgono verso il fondo, guardando ansiosamente verso il giardino). LA NOTTE Non l'hanno mica preso, spero?... LA GATTA No, lo vedo lassù, su quel raggio di luna.... Non hanno potuto raggiungere, era troppo in alto.... (Cala la tela. Subito dopo, davanti al sipario calato, entrano simultaneamente, da destra la Luce, e da sinistra Tyltyl, Mytyl e il Cane, tutti quasi nascosti sotto gli uccellini che hanno preso. Ma questi appaiono giù inanimati, e, il capo penzoloni e le ali spezzate, non sono più nelle loro mani se non delle spoglie inerti). LA LUCE Dunque, lo avete preso?... TYLTYL Sì, Sì ! E non uno solo!... Ce n'erano a migliaia!... Eccoli!... Guarda!... (Guarda gli uccellini, nell'atto di porgerli alla Luce, e si accorge che sono morti). O Dio! Sono morti.... Come mai?... Anche i tuoi, Mytyl?... Anche quelli che ha, preso Tylô!... (Gettando con collera in terra i cadaveri degli uccellini). Ah no, è una cosa terribile!... Chi li hai uccisi?... Oh, come sono infelice!... (Si nasconde la testa col braccio, e scoppia in singhiozzi). LA LUCE (stringendolo maternamente fra le braccia) Non piangere, bambino mio.... Tu, non avevi preso l'uccellino che può vivere alla luce del giorno.... Quello era volato via, chi sa dove.... Ma lo ritroveremo!... IL CANE (guardando gli uccellini morti) Mi permetti di mangiarli?... (Escono tutti da sinistra).

Quell'estate al castello

213754
Solinas Donghi, Beatrice 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Uscendo dalla grotta non avevamo fatto caso che la gran luce che ci aveva abbagliato era riflessa da un nuvolone di quelli ammucchiati su alti alti come torri. Poi l'abbiamo visto; era bellissimo, tutto a sboffi e bianco accecante, ma col nero sotto. E la mattina dopo, giú acqua. Cosí gli stivali di gomma ce li siamo dovuti infilare davvero, Ippolita i suoi, io un paio in dotazione del castello, che i piedi mi ci ballavano dentro; ma solo per fare un salto nel parco tra una mandata di pioggia e l'altra. Era tutto zuppo, bastava che scontrassimo un ramo per fare la doccia completa. Siamo dovute riscappare in casa quasi subito, perché veniva di nuovo giú il finimondo. Nelle sale scure del castello, i grandi alzavano gli occhi verso i vetri inondati e dicevano, come si usa in questi casi: - Eh, il tempo si è proprio rotto! - E l'anima no?! - fece Ippolita tra i denti, in maniera che sentissi io sola. Difatti era seccante. Con quell'acqua saltava anche la nostra esplorazione delle grotte. Veramente, se c'era un posto dove si sarebbe state al riparo dalla pioggia era proprio là dentro, però, non so come, non veniva per niente in mente di andarcisi a ficcare. Era stata un'idea da bel tempo e col brutto non funzionava. Ippolita poi aveva il nervoso, per questo aveva detto quella frase dell'anima rotta. Non era ancora arrivata la posta del pomeriggio (già, a quei tempi la portavano due volte al giorno anche in campagna). Lei era sempre nervosa, quando aspettava la posta. Bisognava capirla. Dalla sua mamma in tutti quei giorni non aveva piú ricevuto niente. Cioè, mi sbaglio, era arrivata una cartolina da Nuova York, a colori, con i grattacieli, ma diceva solo baci, scriverò. Su quelle due parole Ippolita ci aveva studiato un'ora. - Da New York? - Lei diceva New, pronunciato Niú, io Nuova come dicevano in casa mia se mai capitava di nominarla. - Ma stava a... - , e disse un altro nome americano che non mi ricordo. - Perché a New York? Di colpo si illuminò tutta, tipo mano con una candela dietro, vedi al capitolo 3. - Oh! Forse sta per imbarcarsi, forse torna! - Si spense subito: - Ma allora perché non ha scritto addirittura che viene presto? No, no, per ora si vede che non è partita. Forse vuoi scrivermi appena sa di preciso quando potrà partire; senz'altro è cosí. Per forza dunque che era sulle spine, in questa aspettativa. Le lettere del papà invece non aveva da aspettarle perché arrivavano regolarmente, una alla settimana, mi sembra che avesse detto. Lei le leggeva, gli rispondeva, non dico mica che non le facessero piacere. È che, sotto, aveva la spina di quelle altre lettere che non arrivavano. Io, come ho già detto, il papà di Ippolita lo conoscevo dalla foto che teneva sullo scrittoio. Molto abbronzato, con un cappellone di paglia; si vede che c'era un gran sole in quei paesi là dove lavorava. Teneva gli occhi un po' stretti, per il sole, e non sorrideva, però non sembrava nemmeno arrabbiato. Calmo, diciamo. Torniamo al primo giorno di pioggia e a Ippolita che aspettava la posta. Anzi no, perché quel giorno non arrivò niente, dunque è inutile che ci torniamo. Allora andiamo alla mattina dopo, quando venne la signorina Ricciarelli, anche questa volta prima del postino, e Ippolita andando a lezione, lo sapeva lei con quanta goduria, mi domandò per piacere di farci caso io. - E se arrivasse una lettera, - (da sua madre, sottinteso), - devo portartela su? - Se vuoi; oppure tienimela da parte. In ogni modo mi fa piacere che la ritiri tu, ecco. Da questo discorso si potrebbe già capire che aveva dei sospetti, per ora non dico quali perché non ero ancora al corrente. Al momento non ci feci caso. Non mi costava niente farle questo piacere di aspettare la posta; del resto speravo che arrivasse qualcosa anche dai miei e magari il numero nuovo del giornalino di enigmistica, che col brutto tempo, in campagna, è quasi la risorsa principale. (Era il conte Ottavio l'abbonato, ma lui faceva solo due o tre giochi difficilissimi, di quelli per ultraesperti.) Dunque mi misi di sentinella nell'ingresso. Era sempre lí che mettevano la posta appena arrivava, su un vassoio d'argento sopra un mobile a tre gambe che si chiamava consòl. Stavo li, aspettavo, senza piú farmi impressionare dall'ingresso imponente perché ormai c'ero abituata e mi ci sentivo come a casa mia; e intanto disegnavo scheletri sui margini del numero vecchio dell'Enigmistica. Mica scheletri da far paura: no, di quelli che si disegnano di nascosto a scuola, tanto per far passare l'ora. Avevo fatto lo scheletro ricco, col cilindro naturalmente e tanti anelli sulle falangi delle dita, e stavo terminando una scheletressa in guanti e cappellino, quando entrò Remigio con la posta. L'Enigmistica c'era, la vidi subito, e una cartolina per me scritta da mamma ma con le firme dí tutti; e poi una busta color crema, di una bella carta spessa. Mentre prendevo la mia cartolina buttai l'occhio per vedere se la lettera fosse per Ippolita. Nello stesso momento la porta della biblioteca si apri e venne fuori lo zio Ottavio. Anche lui, allora, era stato di sentinella? - Ah grazie, Remigio, - disse, prendendogli di mano la busta crema. Non aspettò, quel giorno, che gliela mettesse sul vassoio. Io però avevo fatto in tempo a vedere che la calligrafia era quella che avevo già visto sulla cartolina da Nuova York. Almeno, a me pareva la stessa. Stesi la mano: - È per Ippolita? Posso prenderla io? Cosí poi gliela do subito. - No, è per mia moglie - . Difatti me la fece vedere, e c'era proprio scritto Contessa Augusta, e il cognome. Però la calligrafia era quella, non mi ero sbagliata. Lo zio andò di sopra con la lettera, immagino per portarla alla zia. Anch'io me ne andai, perché adesso non c'era piú motivo di fare la sentinella. Avevo la mia cartolina con quelle tre righe di notizie indispensabili e i saluti e bacioni e tante firme scritte un po' per tutti i versi per farcele stare. E poi avevo l'Enigmistica nuova nuova con le figure dei rebi da guardare prima di provare a decifrarle, peccato che ci riuscivo solo coi piú facili, e con le barzellette fresche di settimana e le curiosità da leggere. Il conte aveva voluto lasciarmela; era cosí gentile che mi dispiaceva persino di dovercela avere con lui per amore di Ippolita. Lei venne a cercarmi dopo la lezione, con la barba fino ai piedi, si fa per dire. Le dissi subito, per non farla penare, che non erano arrivate lettere dalla sua mamma, cioè una si, ma era per la sua zia. - Non ci credo, - saltò su, nemmeno l'avessi punta con uno spillo. - Eppure ti dico che ho riconosciuto la scrittura. - Macché, è impossibile. Vuoi che scriva a zia Augusta, che non le è mai stata simpatica, e a me no? Veramente era strano. Neanche a me tornava tanto, ora che ci pensavo. La mia mamma per esempio non era granché tipo da lettere e poi aveva poco tempo, però in compenso abbondava in cartoline, insommita senza notizie non mi lasciava di sicuro. Forse le mamme divorziate erano diverse da quelle normali? - Però la busta l'ho vista bene, - dico, perché non ero mica persuasa d'essermi sbagliata. - Grande cosí, color crema... - Color crema? Di una carta spessa e come un po' ondulata? - Ecco, sí. - È la carta da lettere di mia madre. Scrive sempre su quella. - Dunque vedi che non mi sono sbagliata. E sopra c'era proprio il nome di... Volevo dire «tua zia», ma fece prima lei a domandare di scatto: - Da dove veniva? Hai visto il timbro? O il francobollo, almeno? - No, non ci ho fatto caso. Ippolita pensò un momento. Il suo occhio vago era tutt'altro che vago, adesso, anzi aveva un lampo come d'acciaio. Puro acciaio inossidabile. Sbottò, decisa: - Voglio vedere quella lettera. Bisogna assolutamente che la legga. - Ma dài, Ippolita! - Devo ammettere che ero scandalizzata. Non mi pareva una cosa da lei, andare a ficcare il naso in una lettera destinata a un'altra persona. - Pardòn! - scattò lei, e poi diventò rossa come il fuoco. Le seccava sempre quando le scappava di parlare come sua zia Augusta. - Scusa, - si corresse, - è un secolo che non ho notizie di mia madre, avrò ben il diritto di sapere cosa scrive! - Potresti domandarlo a lei. - A chi, a mia zia? - Fece quella che nei libri si chiama una risata amara: ha, ha. - Allora non hai capito proprio niente. Mi tengono nascosto qualcosa, lei e lo zio, è un pezzo che me ne sono accorta. Qualcosa che riguarda mia madre. Per questo non arrivano piú lettere, sono loro che le fanno sparire. Ma io devo sapere... devo, assolutamente... si tratta della mia mamma... Le tremavano le labbra come a una bambina piccola. Volevo farle coraggio, ma non sapevo piú cosa dire, adesso che era uscito fuori quali erano i suoi sospetti. Che brutta, bruttissima storia. Non ero abituata a storie di questo genere, io: in casa mia non usavano i distinti parenti capaci di manovrare alle spalle della nipote e di far sparire le lettere a tradimento, magari mettendosi d'accordo col postino o l'impiegato postale; non per niente erano i signori conti e pieni di soldi fin qui. Chissà che belle mance avevano dato per fare questa schifezza, perché lo era proprio, una schifezza, nessun'altra parola si adattava al caso. Finii col dire solo: - Dài, non ti disperare. - Io non mi dispero, - rispose Ippolita, col mento in su. Poi, saltando di palo in frasca, - Andiamo a vedere se è nel salone. Non si capiva se volesse dire la lettera, oppure la zia. La zia ad ogni modo c'era. Era seduta in un angolo del sofà e pencolava col suo gran naso sulle carte del solitario. Ippolita cominciò a girellare canticchiando tutta stonata per far finta di niente e guardando su tutti i tavoli, i tavolini e le consòl se si vedeva la busta crema; ma quella non c'era. Allora mi fa: - Oh! - Anche quell'oh suonava stonato, uno strazio: si capiva benissimo (lo capivo io, almeno) che stava recitando per farsi sentire dalla zia. Dunque mi fa, recitando: - Oh! m'è venuto in mente che devo andare un momento su, fai tu conversazione con zia Augusta! Traduzione: tienila occupata mentre io vado a cercare la lettera in camera sua. Figuriamoci che bell'imbroglio. Io non ci volevo mica stare, solo che la contessa venne fuori a dirmi fresca fresca: - Sí, cara, mi farai piacere - . (Sarebbe stato cava, mi favai piaceve, ma ormai mi ero abituata alla sua erre moscia e non la sentivo quasi piú.) Cosí non potevo piú dire di no, a parte che Ippolita se l'era già battuta zitta zitta, fingendo di non vedere i segnali di «no, questa non me la devi fare!» che le lanciavo con gli occhi. Dunque non mi restava che andare a sedere nell'angolo libero del divano, e far conversazione. Ma che bel divertimento. Non so più di preciso di che cosa parlassi. Della pioggia, credo. (Palpitante, come argomento.) Già, perché pioveva sempre, il salone era mezzo al buio e fuori l'acqua continuava a venir giú fitta fitta, con un rumore come di pesciolini che friggessero in padella. Frrzz frrzz frrzz, un rumorino cosí. Una malinconia da non dire. Il sofà mi faceva l'effetto d'esser tutto imbottito di spilli. Si doveva vedere che non ero per niente a mio agio, perché a un dato punto la zia di Ippolita mi guardò con l'aria di domandarsi cosa mai avessi. Poi mi sorrise, certo per incoraggiarmi. A me questo mi fece sentire ancora peggio. Falsa come Giuda, mi sentivo, di star qui sul suo medesimo sofà a cianciare del piú e del meno, mentre lei mi faceva i sorrisi senza sapere che intanto Ippolita di sopra raspava nella sua corrispondenza privata, e che io lo sapevo. Ippolita era mia amica e mai al mondo avrei fatto la spia contro di lei. Ma era giusto che per non fare la spia dovessi invece far la parte della Giuda con una persona che a me in fondo non aveva mai fatto niente di male, anzi al contrario? Com'è complicata la vita, certe volte! Non durò tanto, per fortuna. Ippolita chiamò d'in cima alle scale e io scattai su come una molla, giuro che mai nessuno aveva alzato tanto velocemente il sedere da quel sofà. - Compermesso. - Sí, vai, cara - . E dài con questo cara. Voleva proprio farmi venire i rimorsi per forza. Ippolita mi aspettava di sopra, sul pianerottolo. Mi mancavano ancora quattro o cinque scalini per arrivarci quando buttai fuori, mezzo sottovoce caso mai ci fosse qualcuno in giro: - E allora? L'hai letta? Tant'è, la curiosità. Io non lo avrei fatto, di leggere di nascosto una lettera d'altri, ma se lei invece sí, tanto valeva che lo sapessi anch'io cosa c'era dentro. Toh che invece mi fa, secca secca: - Ma neanche per sogno, - guardandomi male come se me lo fossi inventato io che prima aveva intenzione di farlo. Ah ecco. Lo dicevo bene, io, che non era roba da Ippolita. Però in qualche modo qualche cosa era venuta a saperla lo stesso, glielo leggevo in faccia.

Pagina 57

C'era una volta...

218702
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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Rimase abbagliato! E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba: — Io sono il Re: vola tua figliuola per moglie. — Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la prima volta e le farà provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo provare. — Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò: — Se questa malìa è la sua buona sorte, costei dev' essere destinata a sposare un regnante. — C' era una volta.... 10 — E tutto allegro disse al ciaba: — Proviamo. — Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima. — Buon giorno, bella ragazza. — Buon giorno, signore. — Lei non sapeva nulla della malia. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò: — Non ti senti nulla? — Nulla. Che cosa dovrei sentirmi? - Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, eh' era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza: — Badate, è Sua Maestà! — Ahi! ahi! ahi! — La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano: — Ahi! ahi! ahi! — Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella ragazza del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore! Prese in disparte il ciaba e gli disse: — Lascia fare a, me; la tua figliuola sarà Regina. — Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore: — Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno dee sapere dove tu vada e perchè. — Maestà, sarà fatto. - Prese la lettera e partì. A metà di strada incontrò quella vecchina: — Dove vai, figliuolo mio? — Dove mi portare le gambe. — Ah, poverino! tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto. — Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio. Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui. Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza: — Quell'uomo dev' esser morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri. — Maestà, come voi volete. - Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala.

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