Nel caso in esame infatti i Trattati internazionali i cui dettami la legge (il testo unico sull'immigrazione), che il quesito referendario propone di abrogare, sono i Trattati comunitari. Questo - ad avviso dell'A. - induce la Corte a unire le argomentazioni tradizionalmente usate per dichiarare l'inammissibilità dei referendum inerenti a disposizioni esecutive di Trattati internazionali a riflessioni sull'erosione della sovranità nazionale a opera dell'integrazione comunitaria.
L'opinione di maggioranza rileva come la legge del 1996 di fatto consente al Presidente di abrogare o emendare la legge, impedendo che singole disposizioni acquistino "legal force and effects", con una procedura diversa da quella codificata nell'art. I della Costituzione, in forza del quale il bill, una volta approvato dalle Camere, deve essere presentato al Presidente per la firma e può solo essere sottoscritto o rinviato al Congresso con messaggio motivato. Più convincente appare la tesi dei giudici dissenzienti (Breyer e Scalia), i quali sottolineano come la Corte si sia lasciata fuorviare da una interpretazione letterale delle disposizioni impugnate e non abbia tenuto conto della effettiva portata dell'istituto, concepito soprattutto per combattere il fenomeno della c.d. "pork-barrell legislation" - fonte di dissipazione del pubblico danaro - e per ridurre il deficit federale, utilizzando i risparmi ottenuti grazie all'intervento cassatorio del Presidente.
Per un verso, molte Regioni hanno approvato leggi di "disboscamento" normativo, dirette cioè ad abrogare espressamente la normativa regionale non più applicata. Per altro verso, la l. cost. 1/1999, nel sopprimere la riserva al Consiglio dell'approvazione dei regolamenti regionali, ha aperto nuovi spazi per gli statuti, chiamati ora a definire il sistema delle fonti di ciascuna Regione, in coerenza con gli assetti della forma di governo. Il contributo dà conto di queste evoluzioni, auspicando che i nuovi statuti dettino anche i principi necessari per migliorare la qualità della legislazione regionale.
Il successivo intervento governativo in materia, con l'emendamento al disegno di legge sulla semplificazione amministrativa, sembra percorrere invece "una strada bizantina e squilibrata": se si ritiene così impellente una riforma della materia, si dovrebbe anticipare effettivamente la riforma del diritto societario ed allora abrogare il procedimento di omologazione per le s.r.l., precisando le modalità del controllo notarile in relazione alle modifiche statutarie.
L'A. analizza la scelta, fatta propria dalla delega sul lavoro approvata con la legge n. 30/2003, di abrogare la legge n. 1369/1960, con la contemporanea introduzione nel nostro ordinamento della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, alla luce del complessivo disegno della riforma. In tale contesto egli cerca di dimostrare che, anche nel nuovo sistema, l'illiceità dell'interpretazione non potrà che comportare la riconduzione diretta dei rapporti di lavoro in capo all'interponente. Ad avviso dell'A. tale conclusione non è destinata a mutare nemmeno all'esito della procedura di "certificazione", che la riforma intende introdurre anche allo scopo di asseverare alle lecite fattispecie interpositorie. La procedura di certificazione infatti, così come è costruita nella delega, non potrà autorizzare le parti individuali nè alla creazione di nuovi tipi negoziali nè conseguentemente alla disapplicazione di discipline inderogabili.
Particolare rilevanza assume la proposta di abrogare il secondo comma dell'art. 1 dell'attuale legge fallimentare relativo alla figura del piccolo imprenditore.
Ciò non pone l'Italia definitivamente al riparo da altre condanne da parte della Corte europea dei diritti umani e rilancia il dibattito sul destino del giudizio contumaciale, secondo taluni un rito da abrogare.
All'esito, l'A. affronta l'interrogativo di sintesi circa l'opportunità di abrogare la Legge Biagi e, rispondendo in senso negativo, argomenta piuttosto nel senso di un suo completamento come passaggio essenziale per proseguire sulla strada tracciata dalla stagione riformistica cui tale provvedimento è riconducibile e che ha avuto, nella ricostruzione prospettata dall'A., il merito di coniugare i valori della giustizia sociale con gli obiettivi di efficienza e competitività delle imprese.
Mutilato delle variazioni da consolidamento espressive della principale ragion d'essere di un reddito non imputabile ai "soggetti" Ires, il consolidato nazionale permane forma autonoma e meta-soggettiva di capacità reddituale e acquisisce il ruolo di ambito e presupposto di un regime dedicato della deducibilità degli interessi passivi, aperto ad una discutibile partecipazione "virtuale"; il legislatore, così, lo conferma aggregato ben oltre la somma algebrica dei redditi di partenza, con una manovra contraddittoria quanto il conio di una nuova rettifica nell'atto di abrogare le precedenti. Al regime di deducibilità eretto su presupposti surreali, eloquenti di un'inerzia, è latente la discriminazione, il vizio di legittimità comunitaria e costituzionale, perché non presuppone propriamente un consolidato del reddito.
Il fallito tentativo di abrogare surrettiziamente, nel silenzio generale, la legge che prevede la gratuità fiscale del processo del lavoro, il tentativo (ancora in itinere) di ridurre i poteri di indagine del Giudice del lavoro ad una verifica di mera legalità di istituti, contratti e situazioni di fatto legittimante ex ante sul piano giuridico, il tentativo (i cui effetti devono essere ancora verificati) di introdurre norme di contrasto al contenzioso al solo in fine di negare i diritti e favorire lo Stato, che il contenzioso ha provocato o esasperato, obbligano l'interprete a verificare in tutti i modi se vi siano degli strumenti di inibizione al caos normativo e interpretativo, che paralizza il giudizio del lavoro e la effettiva e rapida tutela di quei diritti che, un tempo, erano considerati di rango costituzionale. In realtà, il problema appare strutturale, i parametri diretti di valutazione della legittimità costituzionale delle norme vengono elusi dalla Consulta nei giudizi in cui è parte lo Stato e ciò provoca il collasso del sistema, rimanendo gli abusi della pubblica amministrazione sulle regole e sul processo privi di controlli e di sanzioni effettivi. L'unica soluzione possibile appare il rispetto di patti e regole che sono su un livello sovraordinato rispetto a quello dell'ordinamento nazionale e rafforzare attraverso la tutela comunitaria e internazionale il potere del giudice interno, organo dello Stato che abusa, di risolvere le controversie dando immediata protezione alle istanze di giustizia, senza inutili verifiche della legittimità costituzionale di norme palesemente illegittime.
Ma, l'antinomia atti amministrativi accessibili, atti elettorali preclusi cadrebbe se dalla lettera e contenuto della legge successiva si desumesse la volontà di abrogare la legge speciale anteriore. Lo stesso se dalle norme si evidenziasse impossibile la coesistenza della normativa speciale anteriore con quella generale successiva. Ora, la l. n. 241 del 1990 palesa l'esaustività delle regole sul diritto di accesso, volto al generale riordino del sistema nell'intento di adottare trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa.
Quale norma vogliono abrogare? Poniamo qualche domanda agli "abolizionisti", giusto per capire meglio i termini del problema. Ci renderemo conto che, ammesso che il problema esista, lo si può risolvere senza una legge.
Nello stesso tempo è indetto un referendum per abrogare l'art. 8 l. n. 148/2011, con giudizio negativo. Si va allora "in difesa'' dell'art. 8 perché, dopo l'eliminazione in via convenzionale della derogabilità sui licenziamenti, i "contratti di prossimità" restano solo una chance per le parti sociali al fine di risultati utili ostacolati o negati solo da formalismi.
Al fine di ''ovviare agli effetti negativi sul mercato interno di una globalizzazione in continua espansione'' il legislatore europeo ha scelto di abrogare espressamente la direttiva 77/799/CEE, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri dell'Unione europea in materia, tra l'altro, di imposte dirette, sostituendola con la direttiva 2011/16/UE del Consiglio dell'Unione europea relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale. Gli Stati membri sono così chiamati ad adottare, a partire dal 1 gennaio 2013, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla nuova direttiva. l'attuale direttiva offre più di qualche elemento ricostruttivo per ritenere che non sia da escludere - sul piano dello sviluppo delle indagini - che lo scambio di informazioni amministrative sia un possibile e logico antecedente di una richiesta di collaborazione non più solo amministrativa, ma anche giudiziaria, innanzitutto, in quanto finalizzata anche al contrasto alla frode fiscale, che in Italia passa attraverso precise fattispecie incriminatrici.
Si dovranno quindi abrogare le disposizioni incompatibili e riformulare le norme che necessitano di un migliore coordinamento. L'occasione potrebbe essere utile anche per intervenire su questioni interpretate in maniera difforme rispetto alla normativa comunitaria, come accade nel caso delle operazioni intracomunitarie poste in essere da operatori non iscritti al VIES [Vat Information Exchange System - Sistema elettronico di scambio di dati sull'IVA].
Inoltre, viene particolarmente criticata l'espunzione da parte del medesimo d.lgs n. 218, dalle norme da abrogare dell'art. 1-septies del d.l. n. 629 del 1982 che rischia di far rientrare dalla finestra il finalmente abrogato sistema delle certificazioni c.d. atipiche.
In particolare, la Direttiva, almeno nella sua originaria intenzione, era rivolta ad abrogare l'istituto della previa autorizzazione necessaria per recarsi all'estero, in quanto ritenuta una ingiustificata barriera alla libertà di movimento. La Direttiva ha stabilito che i singoli Paesi membri provvedessero a ratificare i contenuti della stessa nei propri ordinamenti giuridici. L'articolo analizza la Direttiva e le opportunità che dalla stessa derivano, nonché la sua implementazione nell'ordinamento giuridico italiano (d.lgs. n. 34/2014), evidenziando le limitazioni introdotte alla libertà di movimento, specie in un contesto di vincoli finanziari.
La misura tesa ad abrogare la norma che impone agli agricoltori in regime di esonero IVA di assolvere comunque all'obbligo della presentazione del cd. spesometro già per l'anno d'imposta 2013 ha avuto invece un epilogo inatteso, con la sua estromissione dal testo definitivo.
In base a quale fondamento, e a quali condizioni, la legge statale successiva può abrogare la legge regionale precedente? A chi spetta verificare la legittimità costituzionale, sotto il profilo della competenza, della legge statale abrogativa (e correlativamente l'illegittimità costituzionale di quella regionale, conseguentemente abrogata): alla Corte costituzionale o al giudice comune? E vale la reciproca, nel senso che un'identica forza abrogativa può o deve riconoscersi anche alla legge regionale successiva competente rispetto a leggi statali precedenti incostituzionali?
Abrogare il già abrogato ovvero l'abrogazione al quadrato. Considerazioni sul D.lgs. n. 212 del 2010 di abrogazione espressa cumulativa di leggi statali
In secondo luogo, l'A. formula la domanda "Può la desuetudine abrogare una norma?", ricostruisce due risposte che sono state già formulate in letteratura, una riposta affermativa e una risposta negativa, e ne propone una terza. Secondo la prima risposta (affermativa), la desuetudine può determinare l'invalidità della norma. Secondo la seconda risposta (negativa), la desuetudine non può determinare l'invalidità della norma. Secondo la terza risposta, proposta dall'A., la desuetudine determina non l'invalidità, ma la quiescenza della norma
La scelta del legislatore delegato di abrogare il T.U., sostituendolo con una disciplina ex novo, è condivisi bile ai fini della semplificazione normativa; quanto al contenuto dell'intervento, lo stesso ribadisce per grosse linee la disciplina dell'apprendistato professionalizzante del 2011, con alcune varianti in tema di fonti; senz'altro più corposo è l'intervento sul primo e sul terzo tipo, che vengono saldamente ancorati al sistema di istruzione e formazione professionale, divenendone parte integrante, ed incentivati attraverso una corposa riduzione dell'onere economico a carico del datore di lavoro per le ore di formazione esterna.
Oltre ad abrogare il metodo del "first sale price", le disposizioni del codice prevedono una rilevante estensione dei casi in cui i diritti di licenza sui beni immateriali e le "royalties" concorrono al valore doganale. Tra le altre novità, va evidenziata la possibilità di richiedere in Dogana la forfetizzazione del valore di transazione, qualora il ricorso alla procedura della dichiarazione incompleta comporti un onere eccessivo.