Dopo qualche iniziale cautela, in parte dovuta alla consolidata abitudine dei giudici di fare prevalente, se non esclusivo, riferimento all'ordinamento interno, le giurisdizioni degli Stati membri hanno abbandonato ogni cautela e sono sempre più propense ad investire la Corte quando i casi che devono discutere prospettano, per la loro soluzione, qualche applicazione controversa del diritto europeo. A questa diversa attitudine del giudice nazionale si deve affiancare l'intenso impegno volto a far valere, per iniziativa della Commissione, la responsabilità dello Stato membro per l'inadempiente degli obblighi che gli derivano dal patto comunitario. L'istituzione del Tribunale di primo grado ha consentito di distinguere le competenze per le quali riservare alla Corte un intervento di seconda istanza e, tuttavia, l'Europa a venticinque ha reso pressante il problema di contenere e selezionare il contenzioso comunitario, tanto che sarebbe bene considerare l'opportunità d'introdurre un filtro inteso ad evitare l'eccessivo ricorso alla Corte anche per la via dell'interpretazione pregiudiziale prevista dall'art. 234 del Trattato.
A seguito di incessanti atti persecutori, minacce di vario tipo e con ogni mezzo, che hanno costretto la vittima a mutare ogni sua abitudine di vita, infine viene disposta nei confronti del soggetto assillante la misura cautelare prevista dall'art. 283 c.p.p. Tale inquietante caso è stato preso in esame per effettuare una ricognizione sulle norme penali tese a punire il fenomeno dello stalking, evidenziandone l'insufficienza, e sulle proposte legislative in tal senso, non sempre aderenti al principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale.
Che sia a causa di radicate opzioni culturali o per consolidata abitudine, i giudici di merito hanno fin da subito ridimensionato il portato della novella legislativa cui avrebbe dovuto conseguire, per opinione pressoché unanime, l'affermazione della indennità risarcitoria come regola e della reintegrazione come sanzione residuale. La tecnica utilizzata a tal fine è duplice: da un lato, vi è il rigetto della distinzione concettuale che nel nuovo testo della disposizione statutaria separa il profilo relativo alla illegittimità del licenziamento da quello concernente l'individuazione della sanzione applicabile, attraverso la riproposizione di una nozione di "fatto", rilevante ai fini del licenziamento, comprensiva sia dell'elemento oggettivo che soggettivo; dall'altro, la perdurante applicazione del principio di proporzionalità tra fatto e sanzione. Il contributo analizza la più recente (per quanto esigua) produzione giurisprudenziale in materia di licenziamenti per motivi soggettivi senza trascurare le contestuali precisazioni in ordine al nuovo rito.