Nei settori recentemente liberalizzati, gli ex monopolisti, abituati per anni alla protezione offerta dal regime della riserva legale, una volta che essa è stata eliminata, tendono a replicarne gli effetti tramite comportamenti escludenti, rifiutando ai concorrenti l'accesso a un'infrastruttura essenziale o pregiudicandone la permanenza nel mercato mediante l'adozione di strategie predatorie. Si tratta di comportamenti particolarmente negativi, che si inseriscono in un contesto di grandi asimmetrie già penalizzanti nei confronti dei nuovi entranti e che contribuiscono a mantenere nel tempo, anche a danno della crescita economica, posizioni dominanti altrimenti assai meno solide.
La decisione del Consiglio di Stato del maggio 2009, con la quale è stato cancellato dalla programmazione dei pubblici esercizi il contingente numerico - ovvero il criterio del numero massimo di autorizzazioni concedibili per nuove aperture - ha attirato l'attenzione di molti operatori del settore, ormai abituati ad adottare, a fini programmatori, il concetto di saturazione legato al rapporto esercizi-territorio oppure esercizi-abitanti, che comporta, pur sempre, una visione statica del mercato, legata alla riserva, ad ogni operatore, di quote predefinite o predefinibili del mercato stesso. Molti ci hanno chiesto come operare per programmare il settore, avendo sempre seguito, in passato, il criterio del numero o contingente massimo di autorizzazioni rilasciabili nelle singole zone del territorio comunale. Nel nostro piccolo, abbiamo cercato di dare una risposta al quesito, suggerendo un aggancio funzionale della programmazione dei pubblici esercizi a quella urbanistica.
Siamo abituati a guardare alla terra - considerata nella sua fisicità di terra feconda - solo in termini di appartenenza, cioè di oggetto di proprietà e di altri diritti escludenti, quindi di merce. Ma la terra, proprio perché è fonte di vita, non può essere ridotta a merce; la sua natura prevalente è quella di bene comune, legato alla soddisfazione di esigenze riconducibili a diritti fondamentali: la salute, il lavoro, il paesaggio, le tradizioni. La terra perciò è (deve essere) aperta alla fruizione e al godimento dell'intera collettività. Tale natura non entra in contraddizione con i diritti escludenti, ma opera su un piano diverso: questi rilevano sul piano dell'avere e perciò del mercato; quella sul piano più elevato dell'essere e perciò dei valori fondamentali delle persone. Se la terra è aperta alla fruizione dell'intera collettività il proprietario non può fame un uso che incida su quella fruizione. Un uso siffatto non rientra nel contenuto della proprietà: non già per l'esistenza di norme che delimitano il suo diritto, bensì perché quell'uso inerisce a diritti che sono della collettività. Perdono così di vigore la teoria del contenuto minimo della proprietà e la concezione dello "ius aedificandi" come facoltà inerente al diritto di proprietà: l'una e l'altra finiscono per confliggere con il diritto della collettività a fruire e a godere della terra. Nello stesso tempo si riapre la possibilità di una vera legge sui suoli. Affermare che la terra è bene comune e che perciò deve esserne conservata l'integrità non significa pretendere di arrestare il dinamismo del rapporto città-campagna; significa invece che tale dinamismo non può più essere condizionato dalle logiche proprietarie perché sono logiche di esclusione e quindi di violenza. Solo attraverso la partecipazione della collettività è possibile incidere sull'assetto della terra e sulla sua stessa integrità senza violarne la natura di bene comune.
Questi ultimi, infatti, sono da reputarsi non solo gli intellettuali "militanti per la Costituzione" per antonomasia, ma anche i "giuristi di frontiera per eccellenza", abituati a percorrere territori ai confini del diritto. Insomma, a loro, in simili frangenti, si impone un impegno rafforzato al fine di ricercare soluzioni che siano in grado di legare la normatività alla fattualità, di conciliare le esigenze di continuità assiologica con le spinte rinnovatrici, di accordare lo studio delle strutture portanti dell'ordinamento, e dei suoi meccanismi nomopoietici, all'analisi delle innumerevoli trasformazioni che avvengono nel mondo circostante.
Il problema è di rilievo, essendo indiscutibile che la rete informatica si sottrae ai concetti tradizionali di spazio e luogo con i quali siamo abituati a ragionare. Le stesse banche dati sono d'altronde, oggi, collocate sovente in una "nuvola" non localizzabile: che senso avrebbe utilizzare nei loro confronti concetti ancorati al luogo in cui essa si trova?