Neppure alcun nome scrisse sinora la Storia dell’arte che accoppiasse le due virtuosità di cui si abbellirono d’autoconsenso parecchi restauratori. Duplice esercizio che non si potrebbe condurre di pari passo senza che l’uno finisse per prevalere sull’altro; non consentaneo alla costituzione fisiologica dell’artista, il quale non è chi da solo forma teorica alle sue concezioni, ma colui che le estrinseca in forma sensibile. Duplice esercizio — per fortuna dell’arte nuova e che fu — non necessario alla conservazione dei dipinti e alla razionale esecuzione del restauro presente ed avvenire.
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Tale è la ragione onde il comune degli uomini risguarda come qualità de' corpi le accennate modificazioni del proprio sentimento, e convien che intervenga una profonda ed assidua meditazione filosofica per disingannarli a pieno, e spogliare le forze esterne delle vesti usurpate, di cui si coprirono fino dalla nostra infanzia, si abbellirono, e per così dire rimpolparono e rinsanguinarono. E veramente quelle forze denudate in tal modo dall' inesorabile pensiero del filosofo si rimangono aridi scheletri, e quasi volevo dire tenui, impercettibili spiriti e nulla più. Da queste osservazioni nasce la singolare conseguenza, che il bambino, che nel suo essere di animale opera al tutto soggettivamente, nel suo essere di uomo cominci ad operare dietro a de' motivi oggettivi, assai prima che il suo intelletto e la sua volontà conosca ed ami ciò che è soggettivo, ciò che si riferisce a sè stesso. Perchè le cose stesse sensibili, che al soggetto propriamente appartengono, quella piccola intelligenza non le vede come tali, ma come altrettanti oggetti li contempla e li ama o li abborrisce. Quindi fu giustamente osservato ne' bambini un mirabile disinteresse anche in quelle cose che fanno tratti dal piacere e dal dolore; ed a torto si pretende da alcuni incapaci di osservare la natura umana, che l' amor proprio sia il primo degli affetti che si manifesta (1). Un' autrice, che noi abbiamo citata sovente, con gran finezza dice che il bambino [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo raccogliere da tutto ciò qual sia la virtù morale del bambino, diciamo che questa consiste tutta nella sua benevolenza, perchè questa benevolenza è oggettiva e però imparziale, fornita di disinteresse, preceduta dalla stima dell' oggetto da lui amato: insomma è quella benevolenza stessa, a cui si riduce finalmente la virtù dell' uomo in qualsiasi altra età, perocchè esser buono è lo stesso che amare (1). Di qui si scorge che la differenza della virtù del bambino e di quella dell' adulto (prescidendo dal merito) non istà nell' essere l' una benevolenza e l' altra no: chè l' una e l' altra è ugualmente benevolenza; ma consiste nell' oggetto diverso di questa benevolenza: perocchè l' oggetto della benevolenza si amplifica in ragione dell' età e del progresso della cognizione. Ora, oggetto della benevolenza, lo dicemmo già, non è che il bene. Qual è dunque il bene che può esser noto al bambino non arrivato più in là del second' ordine delle sue intellezioni? Se queste intellezioni non han per oggetto che le cose sensibili, egli è chiaro che egli amerà ciò che i suoi sensi gli rappresentano come bello e come amabile, il cibo, la luce, il volto ridente d' un altro essere umano: questi e somiglianti sono gli elementi da cui trae quel concetto di bene, che dirige poscia tutti i suoi affetti. Egli dunque ritrova e riconosce il bene in tutto ciò, da cui gli vengono delle sensazioni aggradevoli, e tutto ciò l' ama con effusione di cuore imparzialmente. Ecco la sua regola morale: non è certamente la nostra, ma ella è vera per lui, è l' unica che egli possa avere: se noi non lo disturbiamo ne' suoi interni movimenti, egli la segue con semplicità e con ogni fedeltà: egli è giusto ne' suoi atti benchè non lo sappia: la sua moralità già esiste, quantunque non se ne sia formato ancora alcuna coscienza. Il bambino che giunge col suo intendimento alle intellezioni di second' ordine potrebbe guastare la sua moralità in due modi: 1 Formandosi delle regole false del bene e del male; 2 Non dirigendo i suoi affetti e le sue operazioni fedelmente a seconda delle regole del bene e del male ch' egli si è rettamente fatte. Supponendo che il fanciullo operasse da se stesso senza l' influenza d' altre persone, egli non potrebbe formarsi delle regole false, se non a condizione che nelle sue prime percezioni apprendesse gli oggetti buoni per cattivi, e gli oggetti cattivi per buoni: conciossiachè è da queste sue percezioni, ch' egli trae poscia i concetti del bene e del male, che gli servon di regola. Ora questo è impossibile: conciossiachè le percezioni seguono le sensazioni, e queste non ricevono in sè errore (1). Ma il bambino non fa tutto questo da se stesso: i concetti sono astrazioni e però egli se li forma coll' uso del linguaggio che riceve dalla società. Egli è vero che chi gli parla da principio non può ingannarlo del tutto; perocchè se gli si dicesse sempre che è bene quello che i suoi sensi gli presentano per male, egli finirebbe col persuadersi che il vocabolo bene significasse male, e che il vocabolo male significasse bene; il che non sarebbe errore di cosa, ma sol mutazione di vocaboli. Ma se nel primo imparar della lingua il bambino non può essere ingannato, perchè non potrà egli sottostare all' inganno tosto che ha già conosciuto alcuni vocaboli? Poniamo che al vocabolo bene aggiunga pure il significato d' un giusto concetto (benchè sempre ristretto agli elementi del bene de' quali egli ha sperienza): e lo stesso dicasi del vocabolo male . Ora non può egli cominciare qui tosto a soggiacere alle altrui delusioni? (1) Se altri gli dice che è male quello che è bene, quando egli già intende il vocabolo male, non finirà egli a persuadersi che l' oggetto di cui gli si parla è male? Il suo senso gli dice il contrario: sia pure: ma in questa età è egli vero che creda solo al proprio senso, alla esperienza propria? Egli è certo che oltre le facoltà del senso e dell' intelligenza si risveglia assai per tempo nel bambino la facoltà della persuasione (2) di cui una funzione è la credenza volontaria, la volontaria adesione a ciò che altri ci afferma. Non solo noi possiamo credere arbitrariamente a ciò che altri ci dice, ma noi n' abbiamo altresì l' inclinazione, ed è principalmente per questa inclinazione che riescono tanto dannosi a' fanciulli i mali discorsi: fossero questi anco di cose prave, a cui il fanciullo non sente ancora alcun malo eccitamento, egli tuttavia con facilità vi aderisce pel solo bisogno di credere, di uniformarsi all' altrui sentimento. Ora una tale tendenza già si manifesta assai visibilmente nel bambino il più tenero, ed ella anzi lo aiuta mirabilmente ad apprendere con facilità il linguaggio materno. Di qui ne viene la conseguenza, che la veracità nelle educatrici o negli educatori è una dote necessaria fin dalle prime parole, ch' essi rivolgono ai fanciulli tenerissimi. E veramente se questi educatori non dicono costantemente bene a ciò che è bene pel fanciullo, questi troverà una discrepanza tra ciò che sente col suo senso, e ciò che gli viene affermato dalle persone. Indi le sue due facoltà del sentire e del credere sono poste in contradizione fra di loro, e non vi ha nulla che più ritardi e imbarazzi lo sviluppo del fanciullo di quello che il porre le sue facoltà in lotta tra di loro, sicchè l' una distrugga quello che l' altra tenta di edificare. Il povero infante non sa più a cui attenersi; non sa se sia la facoltà del senso che lo inganni, o la facoltà della credenza ; confuso la mente, egli non ha più l' agio di formarsi delle opinioni ben ferme sul merito delle cose, e fino che non si delibera per l' una facoltà o per l' altra, egli è in uno stato d' inutile incertezza, e violenza: lungi dal fare de' passi innanzi, perde anzi per molto tempo la disposizione della tranquillità, della chiarezza, dell' ordine che gli è indispensabile per avanzarsi nella sua via. Quando poi si deliberi verso l' una delle due opposte facoltà, egli non crederà mai alla prescelta fermamente, ma in modo vacillante; di che formerà un carattere debole, senza profonde impressioni, grandi e semplici sentimenti, decisa attività che nasce da quelle e da questi. Che se prestasse fede all' altrui voce rinnegando il proprio sentimento, egli perde in questo una guida sicura e potrebbesi quindi prevedere che il bambino riuscirà almen uomo leggiero. Se poi s' attiene al sentimento proprio rinunziando all' altrui autorità, egli semina con ciò solo in sè medesimo la diffidenza verso de' suoi simili, e dopo una gioventù indocile egli raccoglierà nell' età più adulta i frutti della disunione, dell' egoismo, d' una inesplicabile malignità. Parlare adunque al bambino col linguaggio il più preciso, il il più verace, il più conforme a' migliori suoi sentimenti dee essere un' avvertenza importante per l' educazione di questa età. Il fanciullo che ingannato dalle altrui parole si forma de' concetti imperfetti o falsi del bene, egli certamente si forma con ciò delle regole false od imperfette della sua morale. Tuttavia non si potrebbe riconoscere immoralità nel fanciullo che cede in tal modo all' inganno: egli non dispregia con ciò, nè fa torto volontariamente, nè odia: si attiene ad una delle due potenze nell' impossibilità di attenersi ad entrambe: la scelta non è dovuta al suo arbitrio, ma alla prevalenza dell' inclinazione verso una delle due potenze. Tuttavia hassi a distinguere l' immoralità dalla disposizione alla immoralità: i falsi concetti e le false regole del fanciullo non costituiscono immoralità, sono bensì una disposizione alla immoralità pel tempo avvenire. Noi ci proponevamo oltracciò un' altra questione, se il bambino pervenuto al second' ordine d' intellezioni seguita sempre le regole del bene e del male, o talora volontariamente se ne allontani. Ora a questo rispondiamo ch' egli le seguita fedelmente, e che non potrebbe allontanarsene senza pervenire al terzo grado d' intellezioni. Perocchè dopo essersi formata la regola del bene e del male per allontanarsene egli dovrebbe giudicare praticamente, che è male ciò che quella regola gli mostra esser bene, il che suppone una nuova riflessione, della quale parleremo nella Sezione seguente. Non conviene perder di vista che ogni bontà morale si riduce alla benevolenza, e che ogni male morale non è che odio, ovvero limite imposto alla benevolenza. Ora due sono gli uffizi dell' educatore relativamente alla benevolenza del fanciullo: 1 il farla nascere, 2 l' ordinarla convenientemente (1). Non è meno importante il primo del secondo di questi due uffizi: perocchè la mole di benevolenza che sorge nell' animo umano è la materia, onde si compone la virtù (2): colui che ha un gran sentimento di benevolenza diverrà assai facilmente un uomo virtuoso. Noi faremo dunque qualche riflessione primieramente sulla maniera di far crescere la benevolenza nel fanciullo, e poi sulla maniera di ordinarla. Nella prima e nella seconda età il fanciullo che non possedeva ancora nè linguaggio nè concetti astratti, non potea ricevere il sentimento della benevolenza se non dalle aggradevoli sensazioni che gli oggetti esterni gli procuravano; perciò abbiamo già detto che il mantenere il bambino in uno stato di tranquillità, di serenità e di gioia abituale apre il suo cuore a sentimenti benevoli. Ma ora nella terza età conviene che l' educatore si giovi anco del linguaggio ad ottener questo fine, ed egli può assai agevolmente giovarsene attesa la facoltà della persuasione, che nel bambino assai per tempo si manifesta non solamente colla funzione della percezione, ma ancora con quella della fede . Le persone dunque che educano o che semplicemente parlano al bambino potranno usare a tal fine la regola di lodare generalmente le cose buone e ben di rado biasimare le cose cattive, ma di queste piuttosto tacersi; il che è quanto dire far un grand' uso delle parole bello, buono, bene , ecc. e fare un uso assai scarso delle parole contrarie brutto, cattivo, male, ecc.. Sarebbe poi errore gravissimo l' applicare quest' ultime parole a persone (1). Così udendo il bambino a lodare come buone e belle tutte le cose e niente a biasimare, farà sì, che i suoi affetti di benevolenza che seguono indubitatamente i suoi pensieri, si svolgano più prontamente e più ampiamente che non gli affetti contrarŒ di malevolenza: egli verso tutto ciò che lo circonda profonderà il suo amore e la sua gratitudine. Ed è poi difficile per non dire impossibile che v' abbia tal cosa, la quale non si possa da qualche lato presentare come buona e bella al fanciullo e fargliela amare. Quando il fanciullo comincia intendere i segni convenzionali delle parole, egli comincia ad intendere ancora i segni naturali de' gesti e degli atteggiamenti. La lingua naturale aiuta il fanciullo ad apprendere la convenzionale e viceversa: le due lingue sono apprese insieme come una cosa sola (1). Quando i gesti e gli atteggiamenti esprimono degli affetti, egli al veder quelli sente questi, sia per un' operazione animastica, sia perchè l' istinto d' imitazione il conduca a riprodurre in sè quegli atteggiamenti stessi che sono dalla natura associati a quegli stessi affetti, sia che l' una e l' altra di queste due cagioni entrino a formare quella mirabile simpatia , che si osserva ne' fanciulli. Ma nella terza età non fa solamente tutto ciò, ma per lui i gesti e gli atteggiamenti gli sono de' veri segni che gli appalesano l' interno delle persone colle quali egli usa. Mi si permetta di riferire ancora le altrui osservazioni. [...OMISSIS...] . Questi fatti si debbono mettere a profitto. Conviene che anche colle lingue naturali si comunichi al bambino pensieri di bontà e di rispetto: egli apprenderà la maniera di concepirli, se tutto ciò che vede d' intorno di sè glieli mostra e glieli comunica. Quindi medesimo apparisce il danno che alla tenera anima del bambino risulta dai segni esterni dell' ira, del livore, dell' odio, della malignità, della derisione ecc.. Sono altrettante parole seduttrici, dove egli attinge una ineffabile malizia. Dannosi sono parimenti al bambino i terrori e le paure incussegli o con parole o con atti: ma di questo fu già parlato da tanti che è inutile il fermarvisi. Solo farò un' osservazione. Ho già detto che nell' educazione conviene aver per maestra la natura. Or se noi osserviamo la natura, noi troveremo ch' essa inclina sempre il bambino alla speranza ed ai pensieri gai; e che all' incontro l' allontana da' timori e da' pensieri mesti. Non avviene mai che il bambino si componga da se stesso delle imaginazioni cupe, tristi, dolorose: ma sì egli va fantasticando cose belle, liete, ridenti. Non appartiene solamente questo fare al bambino: ella è una legge costante di tutta la natura umana: e ci torneremo sopra. Ora ci basta di chiedere: Perchè non aiutiam dunque gli avviamenti di questa natura? Perchè non ci facciam dunque discepoli alla providenza che ha costituita la natura? Perchè vorremo impaurire o rattristare quell' animo che questa spinge al coraggio ed alla allegrezza? Ma non è egli anche il timore un affetto posto dalla natura nel seno dell' anima umana? Perchè dunque ve l' ha posto? Per contenere, anche mediante il timore d' una forza superiore, l' uomo ne' suoi doveri, e perchè l' uomo mediante il timore abbia il sentimento della propria debolezza comparata a ciò che vi ha di possente fuor di lui, che è il Creatore, ovvero degli enti che fanno la volontà del Creatore. Ora, il nostro bambino non ha bisogno d' un timore procuratogli, giacchè nè potrebbe ancora riconoscere il timore come ministro della giustizia divina, nè quel timore fantastico che pazzamente gli si cagionasse avrebbe il carattere d' un timor morale, ma unicamente d' un timor cieco atto a conturbare e non a raddrizzare la sua riflessione. Quanto poi al sentimento della propria debolezza, egli lo ha troppo; nè il timor riverenziale verso l' essere supremo può suscitarsi in lui altramente che dall' idea di quest' essere ottimo massimo; e non da altro. Escluso dunque ogni timore fantastico e procurato al nostro tenero fanciullo, rimane tuttavia a cercare se giovi l' adoperar con lui alcuna resistenza a' suoi voleri, e caso che sì, in qual misura ella debba essere. Or per rispondere alcuna cosa a questa questione, in primo luogo non v' ha dubbio, che ove qualche cosa possa nuocere alla sua salute corporale, questo non gli si dee concedere: glielo si dee però diniegare in modo da cagionargli la minor pena possibile; e però il miglior precetto consiste a predisporre le cose in modo che tali voglie in lui non insorgano. Queste voglie non sono morali ma fisiche, ed è perciò appunto che sarebbe cosa ingiusta che noi non procurassimo tutte le vie per eluderle senza sua pena. Ma oltre di questo disordine fisico possono benissimo manifestarsi delle disposizioni contrarie alla morale. Prendendo noi a parlare della resistenza che dobbiam fare a queste, verremo a rispondere alla seconda questione propostaci « in qual modo si possa ordinar la benevolenza del nostro bambino ». Ora, una delle prime disposizioni anti7morali che si manifestano nel bambino è l' impazienza; benchè questa stessa trae più forza dall' abitudine che da altro. L' esercizio di pazienza che può convenire anco al bambino non si dee trascurare, ma dee farsi con somma delicatezza; ed ecco una madre che ne suggerisce il modo. [...OMISSIS...] Qui la pazienza non è un sofferir fisico (ciò che si dee sempre allontanar dal fanciullo), ma è un sofferir morale, se pure è sofferire; è di più una scuola in cui guadagna l' intendimento e l' animo del fanciullo. Egli aspetta di buona voglia, e questo è già un gran bene: egli comincia con ciò ad ordinare la sua benevolenza. Il senso di natura sua è impaziente (1): l' aspettare pazientemente è sempre un esercizio d' intelligenza. L' impazienza che proviene dal senso all' uomo non è ella stessa un male morale, ma è una mala disposizione alla moralità, che di buon tempo conviene addestrarsi a superare. L' ira si trova pure nel senso, e in quanto si trova nel senso è anch' essa nulla più che una mala disposizione. Questa si dee prevenire nel bambino acciocchè non nasca, e ne abbiam parlato. Queste passioni e delle altre, di cui parleremo in appresso, si appalesano fino dalla prima infanzia, nella quale età l' operar sensuale può assaissimo: e però esigono una resistenza sapiente assai più morale che fisica. Le passioni poi influiscono immensamente sulla volontà, e questa sull' intendimento; onde avviene che l' intendimento giudichi per bene quello che è favorevole alle passioni, e per male quello che è ad esse contrario. Se dunque sono insorte le passioni nel bambino ed egli perciò non si trova più in uno stato di tranquillità, avviene ch' egli falsifichi i suoi concetti. Perocchè egli non prende più a misura del bene il natural suo sentimento e il sano istinto; ma un sentimento passionato e un istinto guasto. La falsità di questi concetti sul bene e sul male delle cose passa per vero inosservata; ma que' concetti intanto sono le regole dell' operar del bambino, e per conseguente egli ama falsamente, ed odia ciò che dovrebbe amare. Tali semi di falsità nell' intendimento e di traviamento nel cuore sono minuti come quello della senapa, ma crescono occultamente in un grande arbusto: n' escono di que' giovani il cui freddo e cattivo carattere è inesplicabile: n' escono degli uomini pessimi e incorreggibili. In somma la sorte degli uomini dipende sovente da quegl' ignorati cominciamenti. Come dunque convien talor prevenire, talor far resistenza alla passione; così giova correggere i falsi concetti del bambino. Grand' errore è l' adularlo, come pur si fa per voglia di dargli piacere; grand' errore è confermare i suoi concetti se falsi; noi dobbiamo anzi sostituirgliene di migliori: e sopratutto guerreggiare in lui que' concetti che lo portano all' odio, quelli co' quali egli giudica sfavorevolmente delle cose. Noi dobbiamo mostrargli il lato buono delle cose; e sebbene egli non intenda a quest' età se non il bene e il male sensibile oggettivizzato, tuttavia noi possiamo anco dirgli buone quelle cose che hanno un effetto buono in futuro; il che è un facilitargli l' atto intellettivo, col quale un tempo giungerà a conoscere la verità del nostro giudizio. Noi possiamo far ciò giovandoci della sua facoltà di credere, come abbiam detto. L' impazienza e l' ira, che hanno la loro culla nell' animalità e fino che rimangono in questa non sono più che disposizioni anti7morali, ben facilmente tirano a sè l' assenso della volontà, e allor tosto si cangiano in atti ed abiti immorali. Una passione che pur s' origina nel senso animale, ma che passa prontamente nell' ordine dell' intendimento, si è l' avversione che in odio si trasmuta. Io non credo che a quest' età possa aver luogo nell' animo umano l' invidia che è dolore del bene altrui. Il fatto che narra S. Agostino del bambino suggente il latte e risguardante con biechi occhi il suo collattaneo (fatto che si rinnova non di rado) mostra un' apparenza d' invidia; ma io tuttavia lo dichiarerei una semplice avversione. Suole anche nelle bestie avvenire il simile: due cani che mangiano ad una scodella ringhiano e si mordono. Non può dirsi che il movimento nasca dal dispiacere che l' un cane ha del bene dell' altro, ma piuttosto nasce, io crederei, dall' apprendere il compagno come impedimento e diminuzione del suo ben proprio. L' animale non per intelligenza ch' egli abbia, ma per la forza unitiva del suo sentimento può benissimo apprendere il cibo che scema alla presenza dell' altro cane, e odiare questa diminuzione di cibo, e con essa insieme l' altro cane che ad essa congiunge nella sua fantasia. La quale operazione animale somigliantemente avviene nel bambino, ma sopraggiungendosi poi il giudizio dell' intelletto, o anche solo l' atto della volontà, in vero odio si cangia. Ora questi accidenti sono da prevenire con diligenza nei bambini, perocchè eglino difficilmente possono sostenere la gravezza della tentazione, nè hanno armi a difendersene. Nata poi qualche avversione, conviene impiegare tutte le vie acciocchè se ne purghino le loro anime, e si potrà, quando si usi il bambino, o la persona qualsiasi, oggetto della malevolenza, a procurare all' odiatore i piaceri ch' egli brama; nel qual caso essa perderà l' odievolezza e il bambino l' odio. Uno de' fenomeni difficili a spiegarsi nel bambino (ed è un fatto proprio dell' umanità) si è come essendo egli di sua natura benevolo, tuttavia un po' alla volta venga limitando i suoi affetti ad un circolo determinato di persone e di cose. Egli par certo che il neonato sia indifferente all' una od all' altra persona; almeno egli è certo che s' affeziona a qualsiasi lo aiuti ne' suoi bisogni e lo accarezzi. Indi è ch' egli prende talora affetto alla nutrice più che alla madre ove con quella abbia più di consuetudine che con questa, e da quella, non da questa, riceva i materni servigi. Nè il neonato sceglie da se stesso la nutrice, ma egli l' ama quale gli venga data: e in capo a sei settimane sorride imparzialmente a quel volto femmineo che prima a lui ride. Ella è dunque universale la disposizione che ha il bambino alla benevolenza prima che questa si attui, ma attuata in lui la benevolenza, ella prende tosto una forma limitata ed esclusiva. Al bambino d' un anno le persone nuove già fanno sinistra impressione, e questo adombramento, che egli prende dagli sconosciuti, va aumentandosi fino a un certo tempo coll' età: egli divien rispettoso, ritroso, ruspo, ispido agli stranieri, e gli bisogna buon tempo a dimesticarvisi. Come si può egli spiegare un tal fenomeno? Io credo che più cause concorrano a produrlo, ed è forse difficile il conoscerle tutte. Primieramente gli affetti razionali prendono legge dall' intendimento che propone loro gli oggetti. Ora nella sfera della intelligenza si dee por mente al fenomeno dell' attenzione. L' attenzione è un concentramento delle forze sparse, e da prima allentate dello spirito, le quali così tutte unite si applicano ad un punto solo, ad un oggetto solo. E quando lo spirito raccoglie così la sua attenzione in un solo oggetto, egli non è più per gli altri, le sue forze sottratte loro o non gli danno più di essi contezza, o glie la danno ben languida. Or l' accentramento delle forze, che avviene nell' intendimento, avviene somigliantemente nella volontà. Le virtù di questa potenza fino a tanto che rimangono lente e dissolute sono indifferenti all' uno ed all' altro oggetto e disposte ad applicarsi a qualsiasi; ma tosto che sono richiamate ed applicate ad uno o ad una data periferia d' oggetti, a tutti gli altri fuori di quella rimangono nulle; perocchè la quantità disponibile per così dire della benevolenza della volontà è già in determinati oggetti esaurita. E questa spiegazione basterebbe se si trattasse di dar ragione solamente del perchè l' animo del bambino affezionato ad un dato circolo di persone e di cose si mostrasse a tutte le cose nuove freddo ed indifferente. Ma nel fenomeno che noi vogliamo spiegare si mostra un altro accidente. Il bambino nella terza età e in alcune delle susseguenti non è solo senza affezione per le persone non più vedute, ma egli riman sorpreso e intimorito al loro comparire, si arretra da esse se l' avvicinano, si mostra loro turbato, corrucciato, ostile. E perchè mai tutto ciò? Tentiamo d' indicare alcune delle principali cagioni che noi crediamo influire a produrlo, senza assicurarci tuttavia di rilevarle tutte. Mi sembra probabile che quando l' animo umano non ha più della benevolenza da distribuire, gli rimangono gli affetti contrari del timore, della malevolenza, dell' odio estremamente suscettibili (1). Quando il bambino vede de' suoi simili e non ha amore da donare ad essi, questi suoi simili rimangono per lui degli esseri misteriosi, da cui non aspetta bene, e de' quali teme la forza: non essendo agl' occhi suoi abbelliti del suo amore, conciossiachè l' amore è quello che a noi abbellisce e indolcia gli oggetti, quegli esseri tornan molesti al suo pensiero che rimane nell' incertezza sulla loro favorevole o avversa natura. Fu già osservato da altri, che al comparir nella mente del fanciullo un' idea nuova, nasce in lui un cotale sbigottimento. Se un' idea nuova fa quest' effetto, una percezione nuova deve farlo anche più, quando un tale effetto non venga eliso o coperto da un altro affetto maggiore di benevolenza. S' aggiunga un' altra legge psicologica, quella per la quale « è sempre molesto all' uomo il tornare indietro sia co' suoi pensieri, sia co' suoi affetti, il disfare cioè gli atti delle sue potenze intellettive ed affettive per doverli rifare in altro modo ». Se si vuole averne la prova in qualche sperimento fatto sui fanciulli basta raccontar loro qualche storiella: essi la gustano sommamente: ma guai se voi mutate qualche menoma circostanza, o anco semplicemente vi aggiungete nel contarla loro la seconda volta! essi tosto vi correggeranno: vogliono assolutamente la stessa scena. E perchè? perchè avendo quella scena viva nelle loro menti, essi ripugnano a guastare o a cancellare quel bel quadretto imaginario per ridipingerlo. Or quel che avviene ne' fanciulli rispetto alla fantasia ed all' intendimento avviene somigliantemente in essi rispetto alla volontà. Non sono i fanciulli come gli adulti: questi riserbano sempre indietro qualche parte de' loro affetti per poterli collocare poi in quegli oggetti nuovi che li meriteranno: ma i fanciulli all' incontro senza pensare al futuro, concetto che ancor non hanno, ne' primi oggetti versano tutto il tesoro del loro cuore. Ho già osservato la veemenza e la semplicità delle affezioni e passioni fanciullesche. Ciò posto, egli è manifesto che quando si presenta loro una persona nuova hanno un naturale invito ad amarla; ma tuttavia nol posson fare se non a condizione di tirare indietro dell' amore già distribuito, e darne una parte a quella persona. Or questo invito è loro molestissimo per due ragioni; la prima perchè dovrebbero disfare un atto di benevolenza già fatto, riducendolo a più breve misura; la seconda, imperocchè in qual maniera potrebbero essi ritirar l' amore posto alle cose amate? Non sarebbe egli un far torto a queste? In qual maniera cominciar a disamar quelle a cui hanno dato tutto il loro amore? Che demerito si hanno? Che colpa? Insorge appunto ne' bambini un sentimento simile, ma opposto, a quello della gelosia. Come la persona gelosa soffre e s' irrita al timore che altri gli rubi o scemi l' amor dell' amante; così il bambino che è l' amante teme che altri gli rubi o scemi al suo cuore quell' amore che egli pone alla persona amata, e alla quale non lo vuol torre. Quest' affetto del bambino non si attacca solamente alle persone, ma a tutte le cose che lo circondano. Indi è che le mutazioni d' oggetti o di ordine nella loro vita riescono talora al bambino grandemente moleste, e gli mettono del mal umore. Una terza cagione che si lega a questa seconda ha parte nel fenomeno che noi cerchiamo di spiegare. Il bambino ha l' istinto primieramente di evitare il dolore, in secondo luogo di godersi in calma il proprio benessere; la sua natura è piena di piacere perchè piena di vita e di sensibilità. Oltracciò, quando ha distribuiti tutti i suoi affetti alle persone e alle cose tra cui si trova, ha tracciato in ciò stesso la sfera della sua felicità. Quivi ritrova tutti i suoi beni, nè pensa che ve ne possano essere altri. Qual meraviglia adunque ch' egli possa esser geloso di questo suo cotal dominio? Un essere nuovo che gli si presenti già gli sconcia quel tutt' insieme che forma il suo stato, e che percepisce come una cosa sola: già gli rompe quel cotal suo paradiso infantile a cui è attaccato e che non vuol vedere mutarsi, come non vuole che gli si muti niun accidente della novella che gli si narra. A questa ragione è affine l' istinto che hanno i fanciulli, e l' idea che ben tosto loro nasce della proprietà. Tutte le cose che li circondano diventano per la forza unitiva del loro sentimento altrettante parti di sè stessi: il levargliene alcuna è uno squarcio fatto nel loro sentimento. Questo fenomeno si manifesta anco negli animali perchè tutto si compie mediante la forza unitiva, che anco nella natura animale si trova; ed ha le apparenze di pensiero ed amore della proprietà, sebben non sia tale. Nondimeno l' idea della proprietà sopraggiunge, come dicevo. Mad. Neker de Saussure racconta di aver veduta una bambina di diciotto mesi che piangeva se alcuno toccava al passeggio il panierino della sua bona . [...OMISSIS...] Finalmente, una quarta ragione e più profonda non dubito aver gran parte nella limitazione che si mette a certa età nella benevolenza de' bambini: questa è l' indole dell' amore che ha per oggetti individui sussistenti. E in vero due forme comuni ad ogni ente sono l' idealità, principio dell' universalità, e la realità, principio della particolarità. A queste due forme dell' ente corrispondono in noi due potenze, cioè l' intelletto che intuisce ogni idealità, e il sentimento che costituisce ogni realità. La realità del sentimento viene poi affermata dal giudizio che è una terza potenza. Nell' ordine intellettivo adunque l' intelletto dà allo spirito nostro l' idea, e il giudizio dà allo spirito nostro la cosa (res) . La volontà poi co' suoi affetti si porta in entrambi questi oggetti, nell' idea e nella cosa; le due forme dell' essere possono ugualmente esser termine alla nostra volontà. Or poi, se noi amiamo un oggetto qualsiasi per le eccellenti sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. Se poi noi amiamo un oggetto per se stesso, e non meramente per le sue qualità, il nostro amore ha per oggetto l' ente nella sua forma reale. L' idea essendo principio d' universalità, come abbiam detto, anche il nostro amore nel primo caso è universale , di maniera che è pronto a volgersi a qualsiasi oggetto, dove ritrovi le stesse qualità e doti che sole esso cura. Il reale all' incontro essendo principio di particolarità, anche il nostro amore nel secondo caso è particolare ed esclusivo, di maniera che egli rifiuta un altro oggetto unicamente perchè è un altro, eziandio che avesse le stesse buone qualità del primo. Questo secondo amore è il principio della restrizione e limitazione della benevolenza; ed ha una natura anti7morale ove non termini nel divino. L' amore di noi stessi è di questa seconda specie: noi ci amiamo non già per le belle qualità che abbiamo, ma perchè siamo noi. L' amore de' genitori verso de' figliuoli è pure della stessa natura. Qual padre o qual madre soffrirebbe che il suo brutto e malvagio figliuolo gli fosse mutato in un angelo di bellezza e di bontà? Vuole il suo e l' ama sopra tutti gli altri personalmente. L' amor fisico è un terzo esempio d' amori di questa specie: gli amanti non vogliono amar altro che la identica persona cui consecraronsi, e vogliono essere amati nello stesso modo: indi la gelosia, cioè il timore che l' amor individuale personale dell' amante gli sia distratto da un amor ideale, cioè dai pregi che si trovano in altre persone. Ora ne' bambini l' amore che termina ne' pregi della cosa o persona (idealità) è intimamente congiunto all' amore che termina nella cosa stessa o persona sussistente; e degenera facilmente in un amore ove quest' ultimo elemento (amor dell' individuo reale) prevale e domina. A recare una prova di quel che voglio dire mi varrà il seguente fatto, narrazione d' una sagace osservatrice: [...OMISSIS...] Ogni madre, ognuno che di continuo ha sotto gli occhi dei bambini potrà testimoniare altri fatti simili, in cui il loro amore non termina a delle belle qualità delle persone, ma alla realità della persona stessa. Vero è che un tale amore nasce anch' egli in origine dall' amor ideale e universale, cioè dall' amore di qualità amabili o vere o supposte; perchè il cuore umano non può cominciare ad amar nulla se non sub specie boni , ma posteriormente degenera quell' amore e si corrompe: alle belle qualità si sostituisce la persona o la cosa dove quelle belle qualità o doti si son vedute o si costumano di vedere; da prima si crede che sieno così proprie di quella persona o cosa che non possano esistere altrove, ma in essa solamente; di poi si amano le belle qualità ancor più perchè sono in quella persona o cosa amata che se fossero tutt' altrove: e finalmente si ama la persona o la cosa sola per se medesima, foss' anco priva delle qualità che prima si amarono in essa, e le qualità medesime non si amano più se si rinvengono altrove collocate. Qui l' amore è divenuto sommamente immorale. Or poi si noti bene: quando io parlai dell' amore che ha per oggetto l' idealità, non parlavo tuttavia d' un amore che escludesse la realità. Se questo amore escludesse la realità, sarebbe un amore incipiente più tosto che formato: esso è l' amore che fu denominato platonico, e che non ha luogo ne' bambini e nè pure nel popolo: ma solo ne' filosofi naturali che giungono alle idee, ma non possono trapassarle, ossia compirle. Questa maniera d' amor filosofico, a cui veramente si riduce il meglio della naturale virtù, non entra ora nel nostro discorso. L' amor nostro che fu da noi descritto, dicemmo aver per oggetto l' ente nella e per la sua forma ideale. L' idea dunque, cioè il bene veduto nell' idea, è la regola secondo la quale si amano i sussistenti: questi si amano certamente, ma non meramente perchè sussistono, ma perchè sussistono con quelle doti e pregi che ce li rendono amabili. L' altra specie d' amore all' opposto, di cui parliamo, ama i sussistenti senza più; dimenticando le doti amabili, talor anco ad esclusione di queste. Ora, io so bene che questi soli preamboli ch' io fo a ciò che vo' dire, fanno in pure udendoli agghiacciare il cuore delle madri, delle spose, de' padri e de' mariti; ma io pur debbo dire il vero e a tutto anteporre la dignità dell' umana natura, la quale ampiamente ricatta il valor d' ogni affetto che per essa perdere si dovesse. Tuttavia parrò men crudele, ove s' aspetti il compimento di questo discorso. Esaminando dunque il valor morale de' due amori da noi distinti, convien fare le seguenti riflessioni. Il sentimento è ciò in cui consiste la realità. Un essere reale come tale, cioè in quanto è sentimento, non cerca che il reale, non ha attrazione ad altro, non inclina a congiungersi se non col suo simile, cioè con altro essere reale. Tutte queste tendenze, e se si vogliono così chiamare affezioni, sebben cieche, tuttavia finchè non eccedono la sfera del sentimento, non sono riprovevoli, ma più tosto in se sole considerate non hanno alcun prezzo morale, non appartengono nè a virtù nè a vizio, non son merito nè demerito; benchè abbiano un valore eudemonologico. Ma quando l' uomo intelligente, la persona morale dà loro un prezzo, allora esse diventano materia di moralità: se il prezzo loro dato dall' intendimento è giusto, la persona che le ha giudicate fece un atto di virtù; se è ingiusto, fece un atto riprovevole. Ora qual è il giusto prezzo che si dee dare a quelle affezioni? Nullo, per se stesse considerate: considerate però in quanto sono elementi di felicità, esse hanno un prezzo allor quando diventano premio della virtù. In questa loro relazione diventano giuste ed appetibili anco dalla persona morale. Ma quanto non è grande il pericolo che si stimino per se stesse indipendentemente da questa relazione ch' esse hanno colla virtù! - Ecco uno de' primarŒ fonti della depravazione umana. Lasciando dunque da parte le affezioni meramente sensuali e sentimentali, parliamo della moralità dell' amore razionale avente per oggetto il reale. Primieramente, il reale finito considerato da se solo senza veruna dote non si può concepire: egli è nulla, non presenta veruna base al nostro amore. Il solo reale infinito può come tale essere amato: egli solo E`. In secondo luogo, l' amare i reali finiti secondo il merito delle loro buone doti e qualità è certamente giusto. Ma in tal caso abbiamo l' amore di seconda specie illuminato dall' idea: un amore che non è esclusivo, ma che si espande a tutti gli oggetti, dove trova le stesse doti e qualità: un amore che non è immobile, ma che cresce e diminuisce secondo che crescono o diminuiscono quelle doti o qualità: finalmente un amore che non è eccessivo , ma compartito a misura de' pregi stessi. L' amore che ha per oggetto il reale di natura sua esaurisce tutte le proprie forze nel suo oggetto. In terzo luogo, tra l' amore del reale per sè e l' amore dell' ideale nel reale, avvi l' amore di beneficenza e l' amore di gratitudine; i quali sono pure regolati dall' idea . L' amore di beneficenza è quello che ama di produrre negli oggetti suoi le belle qualità e doti che si propone. Lo scopo adunque di questo amore è morale; perchè ama non propriamente il reale per se solo, ma la realizzazione delle qualità e doti e pregi che meritano d' esser amati (1). L' amore di gratitudine ama la beneficenza della persona amata, e però termina ne' suoi pregi. Ella brama ancora di restituire i beneficŒ ricevuti; ed anche questo sentimento è morale, perchè o vuol produrre nella persona benefica qualche pregio e suo perfezionamento, e in tal caso si riduce all' amore di beneficenza, o vuol darle qualche bene eudemonologico ed egli ancora è morale, perchè un bene eudemonologico dato per gratitudine è un bene dato in merito e premio dell' altrui buon' azione da chi l' ha ricevuta (2). In tutti questi casi l' amor del reale non manca, ma regolato dall' idea è l' amor sempre dell' idea realizzata, e però si riman libero, non rinserrato, non cieco, non esclusivo. Noi abbiam veduto fin qui quali sieno le cagioni che ristringano il cuore del bambino e limitino la sua benevolenza. Una importantissima regola di educazione sarà per tanto la seguente. « Usare tutti que' mezzi pe' quali la benevolenza del fanciullo rimangasi libera, illuminata, non esclusiva, ma universale ». La scienza pedagogica, quanto spetta all' infanzia, avrà toccato la cima, quando sarà giunta a determinare quali sieno tutti questi mezzi, sì negativi pe' quali al fanciullo si sottraggono tutte le occasioni di limitare i suoi affetti, sì positivi pe' quali si ottiene che il fanciullo distribuisca i suoi affetti con universalità e giustizia. Noi direm solo alle madri, alle nutrici, ai genitori che se in conseguenza di questa dottrina pare loro di perdere qualche cosa del desiderato amore de' loro bamboli, essi s' ingannano così credendo. Il risultamento non ne sarà che di cangiare un amore ingiusto con un altro amore giusto, un amore impetuoso sì ma perituro, con un amore pacato ma eterno, qualche carezza infantile con un rispetto profondo, il quale nell' istesso tempo che darà a' loro nati quella dignità morale che è l' altissimo bene dell' uomo, darà ad essi stessi sicurtà pienissima di attendere da' figli ogni efficace aiuto e sostegno in qualsivoglia vicenda della vita, in ogni loro età, e memoria ed onoranza oltre il sepolcro. Ma il principale tra tutti i mezzi positivi co' quali si possa mantenere e rendere universale e sapiente la benevolenza nell' uomo fin dall' ugne tenerelle, si è quello di volgere fin dall' infanzia il corso del suo cuore verso la prima sua origine, il Creatore. Iddio comprendente in sè tutto l' essere, dove ogni cosa, che è, è Iddio amante di tutte cose, perchè tutte le ha fatte e le fa, raccoglie in sè tutto il bene, a cui tenda ogni cuore; e nell' amore divino vi ha perciò implicito l' amore ordinato ad ogni cosa. Laonde egli è a questo fuoco che s' accende la benevolenza, e s' espande immensamente e si ordina tutt' insieme. Veramente invano volle Rousseau far credere che il culto della deità non foss' opera da lingua che chiama babbo e mamma. Anzi il tenero infante, quasi più vicino all' origine sua, egli pare che vi si rivolga con trasporto, che la ricerchi con ansietà, che la ritrovi più rattamente dell' adulto medesimo; ed appartiene assai più a Dio che all' uomo il comunicarsi all' anima semplicetta che sa nulla e che pure intende il suo fattore. Laonde avvenne quel che dovea: ed il sofista ginevrino del secolo scorso trovò di questo, nella sua stessa patria, pienissima confutazione (1). Già vedemmo che nella terza età il fanciullo, comincia a concepire l' idea di Dio: dunque egli può altresì volgergli amore, o più tosto non può non farlo. Se poi consideriamo che per tutti quegli che ammettono l' esistenza di Dio, Iddio è il nodo che stringe insieme l' universo, la ragione delle cose, il principio e il fine di tutto, il bene di ogni bene, il bene essenziale: chi non vede che questa idea di Dio per chi non vuol esser ateo o inconseguente dev' esser pur quella che domina, che ordina, che dirige tutte le altre? Chi non vede che da essa sola può prendere la sua unità, il suo principio, ogni sua luce l' educazione umana, e non men quella de' fanciulli che degli adulti, degl' individui che delle società, delle nazioni che dell' umanità intera (2)? Se dunque abbiam già fatto conoscere al nostro fanciullo il valore di questa voce Dio, insegniamogli tosto anche a indirizzare a lui tutti i suoi teneri affetti. Ho già detto che dando l' uomo a Dio tutti i suoi affetti non li toglie alle altre cose, perocchè queste in Dio stesso si riscontrano. Non fa altro che santificarli, impedire che trasmodino, renderli ad un tempo e più sublimi e perenni. Io voglio qui dire una parola alle madri ed a' padri cristiani: agli altri genitori la parola che dirò è inintelligibile e per ciò stesso insopportabile: chiudano dunque qui gli orecchi quanti non hanno ne' lor sentimenti tanta elevatezza, quanta è quella che nelle madri e ne' padri veramente cristiani non infonde la natura, ma la parola dell' Altissimo. A' piedi di questi è lucerna la legge di Dio: e però essi non s' atterriscono a consultarla. Veggano dunque in qual maniera questa legge determini gli affetti de' loro figlioli sì verso di essi che verso l' Essere supremo. Che cosa ordina la legge di Dio verso l' Essere supremo? - L' amore: eccone le parole: « « Amerai il Signor Dio tuo di tutto il cuor tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(1). » Che cosa ordina la legge di Dio a' figliuoli verso i genitori? - L' onore: eccone ancora le parole: « « Onora il padre tuo e la madre tua, acciocchè sii longevo sulla terra che il Signore Iddio tuo ti darà »(2) ». Perchè riserba l' amore a Dio e comanda l' onore a' genitori? Che cosa significa questa distribuzione d' affetti? Questa distribuzione d' affetti che fa la divina legge è direttamente opposta alla distribuzione che ne fa la natura; giacchè la grazia si trova in opposizione continua colla natura, essendo quella più ampia di questa nelle sue vedute e ne' suoi affetti, e contornandosi questa di limiti, cui quella rompe e trasporta. La natura dunque inclina l' uomo ad amare i suoi genitori; non tanto ad amare l' invisibile Creatore, ma più tosto ad onorarlo . Ma volle forse la legge divina condannare o l' amor naturale verso de' genitori, o l' onore verso la Divinità? - No certamente: ella volle soltanto impedire che le inclinazioni naturali non trasmodino e degenerino in corruzione. A tal fine all' onore verso Dio suggerito dalla naturale ragione congiunse e contrappose il precetto dell' amore ; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose il precetto dell' onore . Di più, all' onore verso Dio congiunse e contrappose l' onore verso i genitori; e all' amore verso i genitori congiunse e contrappose l' amore verso Dio. Così gli affetti naturali, contrabilanciati dai precetti divini, possono conservarsi senza eccedere e pervertirsi. Si consideri che ciò che è naturale non ha bisogno d' essere comandato, ma solo regolato . I genitori possono starsene pienamente tranquilli sull' affetto de' loro figli: la natura glielo garantisce: basta solamente ch' essi stessi colla loro rea condotta non vi pongano impedimento. Ma s' arricordino ancora (parlo sempre a' genitori cristiani) che relativamente all' amore della loro prole non è già che questo scarseggi, ma che da una parte ecceda, dall' altra che degeneri in tenerezze sterili, le quali, appunto perchè effetto dell' istinto, cedono poi a un altro istinto maggiore, l' egoismo. Contro al primo di questi due pericoli che rende l' amore de' loro figlioli immorale si guarentiranno, facendo che nel cuore de' loro fanciulli Iddio abbia un posto maggiore di essi, memori delle parole del Redentore: « « Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me »(1) », e le altre che dimostrano come nella collisione iddio va preferito a' genitori: « « Se taluno viene a me e non odia il padre suo e la madre.... non può essere mio discepolo »(2) ». Contro al secondo pericolo si guarentiranno pure, se esigeranno dal fanciullo il debito onore alla loro autorità, fonte d' un amor rispettoso, di ubbidienza e di efficaci servigi: perocchè la legge di Dio tutto questo racchiude (3), ed è buon cambio verso a sensuali tenerezze. L' amore dunque verso i genitori vien migliorato inserendo in esso l' onore comandato dalla legge di Dio: questo determina qual debba essere la qualità e il modo di quell' amore: di che gravità, di che efficacia. Al modo stesso l' onore verso Dio vien migliorato e determinato dal comando che in esso dee esistere l' amore : non dee essere dunque nè un amore puramente esterno e materiale, nè un onore procedente da timor servile d' un' immensa potenza, ma si vuol essere un onore amoroso, pieno di confidente speranza: è il culto in ispirito e verità de' veri adoratori che, vogliosi di fare la volontà divina, trovano questa stessa in tutto ciò che fanno a vantaggio de' loro genitori, come pure di tutti gli altri uomini. Mi sia dunque permesso di dire che ogni usurpazione torna in danno di chi la fa; così i genitori cristiani, i quali più amano la loro prole, debbono vegliare su di se stessi (e forse niuno loro fin qui lo disse!), acciocchè non forse usurpando essi quel finale affetto che i figliuoli debbon dare a Dio solo, essi perdano anche quel legittimo che loro è dovuto e che a loro la divina legge tribuisce. Ma ritorniamo su' nostri passi. Il culto del bambino non può andare che dietro i passi che vien facendo in lui la cognizione dell' Essere supremo. Noi abbiamo accennato quale ella possa essere a questa età. Il culto che corrisponde alla medesima dee essere semplicissimo: affetti di amore e parole che lo esprimano. L' adorazione vien dopo: è un sentimento e un concetto più complesso: lo stesso dicasi dell' ossequio e del rendimento di grazie: essi appartengono alle età avvenire. Anco io crederei importante di dar tempo, acciocchè si sviluppi sufficientemente la grande idea di Dio nella mente dell' infante, prima di circondarla d' altre idee accessorie e d' altre religiose dottrine. Conviene che lo spirito del fanciullo si concentri nella maestà dell' Essere supremo; e quando egli è giunto a sentirla altamente questa maestà, quando il pensiero di Dio e de' suoi attributi domina in lui, allora tutte le altre idee religiose trovano in quell' idea una saldissima base su cui elle si edificano, un centro intorno a cui si aggruppano: la religione allora cresce, per così dire, quasi tempio augusto nell' animo dell' uomo. L' ordine delle intellezioni segna un' epoca fissa della mente: colla prima intellezione d' un dato ordine che faccia il fanciullo, egli entra in un nuovo stato intellettivo: gli si è aperto innanzi un campo immenso dove potrebbe spaziare senza trovare un confine, quando anche egli fosse limitato a quell' ordine a cui è arrivato, e non gli fosse dato di ascendere ad uno maggiore. Ma quando si voglia determinare il tempo preciso in cui la mente passa da un ordine all' altro, allora s' incontra un' estrema difficoltà. Primieramente non tutti i fanciulli fanno questi passaggi intellettivi agli stessi momenti. Di poi, anche trattandosi di determinare questi momenti in un determinato fanciullo, la cosa riuscirebbe difficilissima; perocchè e non si può accertare che il passaggio nasca sotto i nostri occhi, ed anco ove nascesse mentre il fanciullo forma l' oggetto della nostra attuale osservazione, egli facilmente ci sfuggirebbe, sia perchè quel primo atto d' un ordine superiore verrebbe fatto dal fanciullo in un modo sfuggevole, sia ancora perchè costa molto più di tempo e di sagacità all' istitutore l' analizzare gli atti della mente fanciullesca, che non costi al fanciullo il porli e il farli celeremente gli uni agli altri succedere. Sarebbe dunque impossibile il determinare in un trattato del Metodo, a qual tempo precisamente ciascuna età del fanciullo comincia, a qual finisce. E tuttavia non è inutile, anzi stimiamo assai vantaggioso, il determinare questi periodi per approssimazione. La qual opera rimane ancora cosa difficile, e noi non possiamo tentarla che su quella poca esperienza che abbiam presa de' giovani. Speriamo tuttavia che l' esperienza altrui verrà in progresso di tempo correggendo e perfezionando il nostro tentativo, forse il primo di questo genere. Diremo qual principio abbiam seguito e quale intendiam seguire nel compartimento delle età. Non avvenendo in tutti i fanciulli il passaggio d' un ordine all' altro d' intellezioni nello stesso momento, noi abbiamo preso a determinare questo passaggio, quel tempo entro il quale suole avvenire nel più de' fanciulli, e per accertarci sempre che questo sia avvenuto, abbiamo voluto averne un segno certo in qualche atto intellettivo che comunemente fanno i fanciulli, e che indubitatamente appartiene ad un ordine d' intellezioni. Così a segnare il principio della seconda età, abbiam presa la fine delle sei settimane; perocchè questo è il tempo in cui solitamente i bambini sorridono alle madri, primo segno certo di loro intelligenza. A segnare il principio della terza età, abbiamo preso la fine d' un anno; perocchè i bambini sulla fine dell' anno sogliono cominciare a parlare, e il parlare è un atto che appartiene certamente al second' ordine d' intellezioni. Ora medesimamente prenderemo la fine del second' anno a segnare il principio della quarta età di cui ci proponiamo a parlare in questa sezione, perchè nel terz' anno i bambini possono comunemente cominciare a leggere; e il leggere è indubitatamente un atto intellettivo appartenente al terz' ordine d' intellezioni. Da questa maniera che noi usiamo nel dividere le età, si vede: 1 che noi prendiamo gli ordini d' intellezioni per regola, secondo la quale compartire le età diverse; 2 che questa regola non è applicabile a determinare il tempo se non per approssimazione. Quando dunque diciamo che col secondo anno comincia la terza età del fanciullo e col terzo la quarta, non intendiamo mica di sostenere che avanti il secondo anno non abbia fatto il fanciullo nessuna intellezione di second' ordine, ma solamente che quelle sono da noi trascurate, perchè non osservabili ne' fanciulli comunemente. Così parimenti, quando facciamo cominciar la quarta età dal terz' anno, non vogliamo sostenere che non possa il fanciullo aver fatto anco prima di questo tempo qualche intellezione di terz' ordine; ma cominciamo al terz' anno a parlare di quest' ordine d' intellezioni, perchè cominciano allora queste intellezioni ad apparire comunemente ne' fanciulli non equivoche nè sfuggevoli di soverchio. Questa è avvertenza che vogliamo aver data una volta per sempre; la quale il lettore applicherà a tutte le età successive della vita che ancor ci restano da percorrere. Laonde quando anche il fanciullo passasse il terzo anno senza ascendere ad un nuovo ordine d' intellezioni, non continuerebbesi men tuttavia lo sviluppo di tutte le sue facoltà, quantunque limitate a non muoversi fuori del confine segnatole dal second' ordine d' intellezioni. In ciascuno degli ordini precedenti: 1 si aumenterebbe il numero delle intellezioni; 2 le intellezioni stesse si perfezionerebbero, ripetendosi e ricalcandosi nello spirito, traendo in atto una maggiore attenzione dal fondo di questo, e fondendosi nel sentimento universale che sempre esse cagionano, e che è principio di nuova attività. Questi due progressi del numero e della perfezione delle intellezioni avvengono entro ciascun ordine delle medesime, e non si debbono perdere giammai di veduta da chi vuol tenere dietro allo sviluppamento umano. Ma noi vogliamo averlo detto qui una volta, acciocchè il lettor lo applichi in ogni età a tutte le intellezioni degli ordini precedenti. A paro colle facoltà passive dell' intendimento procedono pure le facoltà attive della volontà: e con quelle e con queste va di conserva lo sviluppo di tutte le facoltà animali, che tutte si vanno vestendo d' abitudini diverse di forza e di qualità. Come le intellezioni di second' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti delle intellezioni del primo ordine tra loro, o coi sentimenti che l' uomo ha anteriormente al second' ordine (1); così parimenti le intellezioni del terz' ordine sono quelle che hanno per loro oggetto i rapporti che hanno le intellezioni di second' ordine tra loro, o tutto ciò che v' ha nell' uomo di pensiero e di sentimento precedentemente a loro. Le intellezioni dunque del second' ordine si dividono in due classi: I Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine tra loro. II Classe delle intellezioni del second' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di primo ordine coi sentimenti che sono nell' uomo. Le intellezioni del terzo ordine essendo quelle che fa lo spirito mediante una riflessione sulle intellezioni del second' ordine, si complicano alquanto di più; e si dividono nelle classi seguenti: I Classe delle intellezioni di terz' ordine; quelle, che hanno per oggetto i rapporti (1) delle intellezioni (2) di second' ordine tra loro. A. - Rapporti della prima classe delle intellezioni di second' ordine tra loro. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni di second' ordine fra loro. C. - Rapporti tra le intellezioni della prima classe, e le intellezioni della seconda classe, sempre di second' ordine. II Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine colle intellezioni di prim' ordine. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni di secondo ordine colle intellezioni del primo ordine. B. - Rapporti della seconda classe delle intellezioni del secondo ordine colle intellezioni di prim' ordine. III Classe d' intellezioni di terz' ordine; quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di second' ordine coi sentimenti ad esse precedenti. A. - Rapporti della prima classe d' intellezioni del secondo ordine coi sentimenti antecedenti. B. - Rapporti della seconda classe d' intellezioni del second' ordine coi sentimenti antecedenti. Questo specchio dimostra che tutte le classi delle intellezioni di terz' ordine già crescono al numero di sette; il che non è piccola prova dell' immensità dell' umano pensiero, e del labirinto ch' egli è a volerlo percorrere e rilevarne il disegno. E posciachè ci recherebbe troppo a lungo il dar qui un esempio di ciascuna delle sette classi, mi restringerò a porgerne uno solamente dell' ultima, dove gli atti dello spirito umano più che nell' altre si complicano. Se io ricevo le diverse sensazioni che una rosa può darmi mediante i diversi miei organi, io insieme colle sensazioni mi formo di essa la percezione intellettiva (1 ordine d' intellezioni). Ora, se dopo di ciò di notte sentomi ferire le nari da un odore di rosa, io da quest' odore posso argomentare all' esistenza della rosa in vicinanza al mio naso: argomentazione che fo in riflettendo sul rapporto che la sensazione odorosa ha colla passata mia percezion della rosa: e che perciò appartiene alle intellezioni di second' ordine (2 classe). Ora poi se io continuo a riflettere su questa rosa, di cui ho argomentato l' esistenza, e riflettendo di nuovo argomento meco medesimo che « se qui v' ha una rosa, son certo che in essa vi hanno anco delle spine, le quali mi cagioneranno dolore, se colle dita io la stringo »; io formerò con ciò delle intellezioni di terz' ordine, e tra le intellezioni di terz' ordine una di quelle dell' ultima classe, perchè congiungo mediante la riflessione la rosa invisibile (intellezione di second' ordine) con un mio sentimento, cioè il dolore. Ora, se noi volessimo tener dietro a tutte le classi in cui si divide il terz' ordine d' intellezioni, e più ancora gli ordini successivi, saremmo infiniti. Omettiamo adunque, per non dipartirci dallo scopo di quest' opera, un lavoro sì vasto, benchè utilissimo, lasciandolo agli avvenire, e cerchiamo di prescriverci quinc' innanzi un piano più semplice ma regolare nell' esposizione de' gradi di sviluppo intellettivo che di mano in mano fa l' uomo, a cui possiamo riscontrare quel metodo che più s' avviene. In prima, in ciascuno degli ordini d' intellezioni, di cui avremo a parlare in appresso, cominceremo dal divisare diligentemente le varie classi nelle quali quell' ordine si parte, affine di presentare agli occhi del lettore una cotal tavola, dove rilevi e l' estensione di quell' ordine ed i confini e la varia complicatezza di ciascuna delle intellezioni che gli appartiene. Dopo di ciò, lasciando da parte quest' abbozzo di maggiori ricerche, noi prenderemo a considerare tutte in corpo le intellezioni di quell' ordine, seguendo il seguente progresso. In prima parleremo delle operazioni dello spirito colle quali si formano le intellezioni di quell' ordine di cui si tratta: di poi parleremo degli oggetti di quelle operazioni, cioè delle cose che noi per esse siam venuti a conoscere. Ora poi, quanto agli oggetti conosciuti, questi o sono idee elementari (1) comuni a tutte le conoscenze, ovvero sono conoscenze appartenenti all' una o all' altra delle tre nostre supreme categorie, in cui consideriamo partite tutte le cose che cadono nel pensiero o che sono. Riassumendo adunque, lo schema seguente presenterà agli occhi de' lettori il metodo che noi terremo trattando di ciascun ordine d' intellezioni, e giova non poco averlo presente, quasi carta geografica, affin di conoscere il cammino che noi facciamo. A. Operazioni, colle quali lo spirito si forma le intellezioni d' un dato ordine. B. Oggetti di quelle operazioni intellettive. I Comuni o idee elementari. II Categorici, cioè: 1 Reali e ideali; 2 Morali. In quest' età del fanciullo adunque le operazioni, alle quali la mente sua si fa idonea, sono i giudizi sintetici (1). E veramente essendosi formato il fanciullo nella terza età degli astratti di cose sensibili, per esempio, del colore, del sapore, o almeno certamente del bene e del male sensibile; egli è in caso di servirsi di questi astratti come di altrettanti predicati che aggiunge ad un soggetto, e perciò egli è nel caso, al cadergli sotto gli occhi d' un cibo, di dire: « Questo è buono »; ovvero: « questo è cattivo ». Si noti qui bene il progresso della mente fanciullesca. Io ho confutati i giudizi sintetici a priori di Kant (2); ma nello stesso tempo ho ammesso anch' io un giudizio sintetico a priori , ma un solo: quello che ho chiamato la sintesi primitiva o la percezione. Ho dichiarato a priori questo giudizio primissimo, col quale l' uomo dice seco stesso: « qualche cosa esiste », perchè in esso il predicato è l' esistenza , che non viene dall' esperienza, ma che è intuito con un atto interiore dello spirito. Questo giudizio sintetico a priori è l' operazione corrispondente al prim' ordine d' intellezioni. Ma tostochè lo spirito ha percepite le cose, egli esercita sulle sue percezioni e sulle memorie delle medesime de' giudizi analitici (1), cioè scompone le sue percezioni e memorie delle medesime. Veramente la scomposizione delle percezioni nasce in due modi: il primo nel modo naturale, onde avviene che la mente contempli la sola idea della cosa senza attendere al giudizio sulla sua sussistenza. Questa scomposizione dell' idea dal giudizio sulla sussistenza, che avviene naturalmente, non è un giudizio analitico; perchè nulla si giudica con essa: la sussistenza e l' idea sono cose eterogenee che si dividono da sè: lo spirito non fa che limitare la sua attenzione piuttosto all' una che all' altra di quelle due cose già per natura disparate. Il secondo modo di scomposizione si fa artificialmente sulle idee imaginali, traendosi da queste un loro elemento, e questa operazione è un vero giudizio analitico, perocchè è una vera scomposizione d' un' idea sola in più. Ed è il linguaggio quello che aiuta la mente, come abbiam veduto, a ciò fare; e sotto questo aspetto compete alle lingue la denominazione di metodi analitici data loro da Condillac. Tal è l' operazione che corrisponde al second' ordine d' intellezioni. Vedesi da ciò che con tale operazione appartenente al second' ordine la mente umana acquista de' nuovi predicati . Da principio essa non avea che quello innato nello spirito dell' esistenza, il quale gli servì a fare i primi suoi giudizi sintetici. Questi diedero materia ai giudizi analitici che susseguirono. I giudizi analitici fornirono alla mente de' nuovi predicati che, potendo esser congiunti ad altri e altri soggetti, diedero possibilità alla mente di fare dei nuovi giudizi sintetici. Perocchè se io già so, a ragion d' esempio, che cosa sia il bene e il male sensibile, al vedere un cibo del tutto simile nell' apparenza a quello che altre volte tornò gradevole al mio palato, io posso unire il predicato buono coll' oggetto da me veduto, pronunziando il seguente giudizio sintetico: « questo è buono », ovvero: « ciò che veggo è buono ». Non si dee mica qui confondere il giudizio sintetico, pel quale io dico: « questo è buono »colla semplice apprensione sensibile che si manifesta anche nell' animale, attesa l' associazione che nasce in lui delle varie sensazioni. Se il cane trema d' allegrezza al solo vedere presente il cibo che pure non può prendere ancora, non fa egli un giudizio: solo la vista del cibo gli desta il fantasma del grato sapore altre volte da lui provato e gli suscita l' affezione e l' azione corrispondente (1). Giudizio non si dà, se non in un essere il quale intuisca il predicato da sè solo (astratto), e poi lo congiunga al soggetto, cioè a dire vegga lo stesso predicato in un soggetto. Appartiene adunque al terzo ordine d' intellezioni la seconda fila de' giudizi sintetici. E prima di passar oltre non dee riuscire inutile l' accennare qui la legge universale cui seguita lo sviluppo dello spirito umano, la quale si è la seguente: « I giudizi sintetici ed i giudizi analitici si avvicendano per siffatto modo che se noi disponiamo in una serie i diversi ordini d' intellezioni, i numeri dispari dei medesimi sono formati da altrettante file di giudizi sintetici, e i numeri pari sono formati da altrettante file di giudizi analitici ». E che la cosa debba riuscire a questo è per sè manifesto: conciossiachè non si può scomporre se non quello che hassi prima composto. Laonde alla composizione dee susseguire la scomposizione, e alla scomposizione dee susseguire la ricomposizione, e così di mano in mano sempre procedendo. Questi ordini d' intellezioni adunque, i quali si formano mediante composizioni ovvero sintesi, danno allo spirito de' nuovi soggetti da analizzare, e quegli ordini d' intellezioni che formansi mediante scomposizioni o analisi, arricchiscono la mente di sempre nuovi predicati che sono atti ad essere sintesizzati, cioè uniti ad altri soggetti. E tuttavia oltre i giudizi sintetici proprŒ della quarta età del fanciullo, continua il fanciullo ad esercitare anche l' analisi . Già abbiamo notato che le operazioni dello spirito che cominciano nelle età inferiori continuano poi nelle superiori senz' interruzione, aumentando i loro prodotti di numero e di perfezione, il che complica sempre più lo sviluppo dello intendimento umano. Tuttavia si dee aggiungere, che all' analisi e all' astrazione vien data in ogni età nuova materia, perchè l' analisi del pensiero scompone tutto e continuamente, e perciò anche quello che è stato prima scomposto. Avvi certamente rispetto ai pensieri quella stessa divisibilità all' infinito, che si ravvisa nella scomposizione della materia, ond' è che sono vani gli sforzi di tutti quei logici che hanno voluto ridurre tutto lo scibile ad idee assolutamente elementari. Di qui poi scaturisce un' altra conseguenza ed è, che sebbene l' analisi appartenga al second' ordine d' intellezioni, tuttavia certi suoi prodotti sono proprŒ del terzo, e innanzi questo non si potrebbero avere, e lo stesso può ripetersi d' ogni altro ordine d' intellezioni superiore, di maniera che ad ogni ordine intellettivo l' analisi contribuisce qualche cosa del proprio lavoro. Le prime astrazioni che si fanno dal bambino sono le qualità sensibili degli enti, cioè il buono sensibile, il male sensibile, ecc.. Queste qualità non sono finalmente che effetti prodotti dagli enti nella nostra facoltà di sentire. Egli è naturale che il bambino da principio non può mettere la sua attenzione che in quel che sente, giacchè ciò che non sente non esiste ancora per lui. Ma tostochè egli giunge a mettere tra di loro in armonia le sensazioni de' suoi varŒ organi e a ricever l' una di esse come annunzio d' un' altra, ad aspettar questa, perchè gli è venuta prima quella, ecc., egli con ciò un po' alla volta giunge a porre la sua attenzione anche sulle azioni degli enti e ad astrarre queste da essi, sempre mediante il linguaggio, cioè mediante i verbi che segnano appunto l' azione delle cose. Mi si permetta qui d' aggiungere ancora le osservazioni d' una madre sulla maniera onde il bambino, mediante il linguaggio, giunge a formarsi gli astratti delle azioni. [...OMISSIS...] Queste osservazioni sono piene di verità, e di sagacità non comune. I giudizi sintetici di questa età sogliono essere la conseguenza d' un raziocinio catatetico , che si forma nella mente del fanciullo. A ragion d' esempio, quando il fanciullo giudica buono il cibo che vede prepararglisi, egli concepisce nella sua menticina un discorso, che, se potesse essere espresso in proposizioni, prenderebbe questa forma. « Ciò che veggo adesso è uguale a ciò che ho veduto altra volta, ma ciò che ho veduto altra volta era buono al mio palato e al mio stomaco; dunque ciò che vedo è buono al mio palato e al mio stomaco ». E` ben lontano il nostro fanciullo da poter esprimere tali proposizioni, ma la sostanza di esse passa indubitatamente pel suo spirito. Or poi, se il bambino della età accennata può fare dei raziocinŒ catatetici, e così salire al terz' ordine d' intellezioni; egli non potrebbe però ancora concepirne di ipotetici, o di disgiuntivi , perocchè i raziocinŒ di queste due forme esigono la maggiore composta di due predicati confrontati insieme, dei quali l' uno suppone l' altro, o l' uno esclude l' altro. Ora egli ha bensì de' predicati , ma per confrontarli tra loro e trovarne il rapporto dovrebbe salire ad un ordine più elevato d' intellezioni, come vedremo nelle sezioni seguenti. Or quali sono dunque gli oggetti, che l' uomo viene a conoscere colle operazioni indicate del terz' ordine? - Noi parleremo di alcune classi principali di tali oggetti, e prima dei reali, poi degl' ideali, e finalmente de' morali. Cominciamo dai primi. Fra gli oggetti reali dobbiamo in prima esaminare il progresso che fa lo spirito ne' concepimenti di collezioni. Gli astratti , e le idee collettive furono confuse insieme da' sensisti, e dagli Scozzesi, ma differiscono tra loro interamente (2): gli astratti sono il fondamento delle collezioni, ma non sono le collezioni. Io non potrei avere l' idea collettiva d' una mandra di pecore, se non avessi prima l' idea astratta della pecora, in cui ciascuna pecora della mandra conviene; perocchè la collezione non è che una moltitudine di cose sotto un certo rispetto uguali. Vediamo dunque per quali passi lo spirito si forma i concetti delle collezioni. Al primo vedere di più cose, che fa il fanciullo, o al primo sentirle contemporaneamente, egli non si forma già l' idea di collezioni, nè di pluralità, nè di differenze. Concedendo che il suo intendimento si mova alla percezione , e concedendo però che quelle sensazioni non rimangano meri fenomeni sensibili; non ne viene ancora che l' intendimento acquisti alla prima i concetti indicati di moltiplicità ecc.. Ciò che soltanto si può osservare si è questo, che, allorquando il fanciullo vede due cose a sè presenti, egli ha una percezione diversa d' allora che vede una cosa sola. Da ciò ne viene che il fanciullo distingua nel primo caso due oggetti, nel secondo un solo; egli non distingue se non due percezioni diverse, di cui non sa ancora farne l' analisi; la moltiplicità è tale per chi sa distinguere e separare le unità che la compongono; ma quando queste unità si percepiscono a un tratto e, come diceva la Scuola, « per modum unius », la mente allora non concepisce alcuna collezione. La diversità tra la percezione di un oggetto, e la percezione di più oggetti fu ciò che trasse in inganno Bonnet, al quale parve d' avere un fondamento per dire, che « « le idee di collezioni si formano dall' azione degli oggetti sensibili sui nostri organi, come si formavano pure, a suo credere, le idee semplici »(1) ». All' incontro concedendo noi, che l' impressione che ricevono gli organi del bambino alla vista d' un branco di pecore sia grandemente diversa da quella, che riceve dalla vista di una pecora, neghiamo al tutto che la diversità consista nell' essere quella un' impressione rispondente ad un' idea collettiva, e questa un' impressione rispondente ad un' idea di cosa unica: anzi esse sono due impressioni semplici, l' una più variegata dell' altra, ma che non dà allo spirito ancora alcuna vera idea di collezione. Si vede in questo errore di Bonnet, che questo filosofo non conobbe la vera natura delle idee collettive, nè credette necessario d' investigarla; ma osservata la differenza dell' impressione che fanno le collezioni di cose dall' impressione delle cose singole, ne dedusse che in questa differenza d' impressione consistesse appunto la natura dell' idea collettiva. Nè il sistema de' sensisti poteva difendere la mente dall' errore preso da Bonnet; perocchè in questo sistema non essendo essenzialmente separata la sensazione dall' intellezione, era impossibile l' accorgersi, che l' intendimento non percepisse ad un tratto quanto vi ha nella sensazione, ma soltanto un poco alla volta. Noi abbiamo veduto (1) che l' intendimento da principio non percepisce che la forza del corpo, dove ravvisa l' ente; e che solamente da poi colloca la sua attenzione sulle qualità sensibili dell' ente, le quali per buona pezza rimangono nel senso, sentite bensì dal soggetto, ma al soggetto ignote. Di più abbiamo veduto che l' intendimento con ogni suo atto percepisce il menomo possibile; cioè a dire percepisce solamente quel tanto dell' oggetto sensibile, che è costretto a percepire dal suo bisogno, che è lo stimolo che lo fruga e sveglia a' suoi atti; e nulla affatto di più. Quando anche adunque le due sensazioni di una collezione di cose e d' una cosa sola potessero prestare la materia all' intendimento per giungere a comporci l' idea di collezione e l' idea di cosa unica, non ne verrebbe mica di conseguenza che l' intendimento anche si componesse, di fatto e tosto, tali idee; ma anzi solamente allora, che nasce al soggetto intellettivo il bisogno di esse e non prima. E in ogni caso rimane al filosofo il dovere di descrivere tutto il processo delle operazioni che va facendo l' intendimento, quando dalla materia datagli da' sensi giunge effettivamente a lavorarsi e comporsi quelle idee. Egli è dunque questo che a noi conviene ora investigare. Egli è certo intanto che l' analisi d' idea di una collezione somministra per risultamento: 1 che questa idea suppone, che chi la ha sappia che cosa sia unità; 2 che sappia che più unità sono insieme adunate nello stesso spazio; per restringerci ora a questa specie di collezioni, come quelle, che sono più facili. Questa seconda notizia ne racchiude poi un' altra, cioè l' uguaglianza sotto un certo rispetto delle unità componenti la collezione; conciossiachè se più cose fossero in tutto e per tutto differenti tra loro, niuna collezione più formerebbero (1). Ora non è già a credersi, che il concetto dell' unità nella forma astratta, che vien significata nella parola, si formi assai presto nella mente del fanciullo. L' uno ideale esiste implicitamente nell' ente , che è il lume naturale della mente, e perciò il fanciullo lo suppone e l' adopera; ma senza porvi sopra attenzione, appunto perchè non ha bisogno d' un' astrazione così elevata. Nondimeno, allorquando egli sente a nominare (ed è ancor qui il linguaggio che aiuta la sua mente) un oggetto, due oggetti, ecc., egli arriva dopo qualche tempo ad accorgersi, che i due oggetti sono l' oggetto stesso ripetuto. Il fare coll' intendimento il giudizio seguente: « Questi oggetti, che io vedo sono due », è un' operazione complicata. Noi possiamo considerarla primieramente come un' analisi di quell' unica impressione sensibile, nella quale gli si rappresentano i due oggetti. La mente ritorna sopra questa impressione, la percepisce, e in essa distingue un oggetto dall' altro. Ma a far questo conviene che la mente abbia sentito a pronunciare il nome comune de' due oggetti, supponiamo il nome pera ; conviene, che abbia sentito ad applicar questo nome all' uno e all' altro oggetto, e che abbia compreso, che questo nome significa ciò che quelli oggetti hanno di comune; conviene, che la qualità comune de' due oggetti l' abbia nella sua mente legata a quel nome, e perciò stesso astratta dagl' individui. Nè si può dire, che perciò l' intendimento sia giunto ancora a formare il giudizio: « Questi oggetti sono due ». Conciossiachè la qualità comune, che restò nella mente legata al nome, non suppone alcuna dualità perchè è unica, e l' esser venuta da più oggetti non induce la necessità che anche la pluralità di questi oggetti sia restata nella mente, potendo aver ciascuno di essi deposto nella mente l' elemento comune senza che la mente li abbia considerati insieme, e abbia notato il rapporto numerico che hanno tra loro. Ma quando il fanciullo da una parte ha la qualità comune nella mente sua legata al nome, poniamo di pera , e dall' altra sente ripetersi agli orecchi la parola una pera, due pere, e vede questi oggetti presenti, allora egli finisce coll' assegnare un senso alle parole uno e due , e a fermare la sua attenzione sull' unità e sulla qualità delle pere. Laonde se noi consideriamo questo processo di operazioni, colle quali la mente giunge a concepire la dualità degli oggetti, noi facilmente ci accorgeremo che non può il fanciullo giungere a tanto se non arrivato al terz' ordine d' intellezioni. E infatti la qualità astratta appartiene al second' ordine, come abbiamo veduto. Il riflettere al rapporto numerico che hanno due oggetti partecipanti la stessa qualità astratta, esige manifestamente una riflessione di più, cioè un' intellezione di terz' ordine. Ma qui gioverà, che seguitando il discorso accenniamo ancora il modo, pel quale la mente passa a concepire gli altri numeri superiori al due; il che sebbene ella faccia sollevandosi ad ordini d' intellezioni sempre maggiori, onde il discorso apparterrebbe alle sezioni seguenti, tuttavia l' unir qui tutto ciò, che spetta alla cognizione dei numeri, renderà la dottrina più lucida. Egli è dunque evidente, che pei numeri tre, quattro, cinque e tutti gli altri maggiori, hassi a fare un ragionamento in parte simile a quello, che abbiam fatto per ispiegare la concezione del due. Sono sempre necessarie le parole, che fissino nella mente il rapporto numerico, cioè la trinità delle cose, la quaternità ecc.. Di più egli è impossibile il passare a numerare tre oggetti senza numerarne prima due, come è impossibile giungere al concetto dei quattro, se prima non si è formato il concetto dei tre. Questo dimostra che ciascun numero appartiene ad un ordine d' intellezioni superiore (1); di guisa che la mente è costretta a salire per tanti ordini d' intellezioni, quanti sono i numeri di cui ella giunge a formarsi una distinta idea. E dico una distinta idea, perocchè non è mica da credere che l' uomo abbia un' idea distinta di ogni numero che egli pronuncia colla sua bocca. E chi è mai che abbia una idea distinta di un milione, e anche solo del numero mille? Io credo per lo contrario che convenga discendere a un numero sommamente piccolo per trovar quello di cui gli uomini, anche dotti, abbiano un' idea distinta propria, e non aiutata da qualche formola generale. E infatti io credo impossibile, che l' uomo avesse pur nel linguaggio i nomi di numeri altissimi, quando egli non avesse altra via di concepirli se non quella che abbiamo accennata, di analizzare cioè la percezione, ch' egli riceve dalle collezioni, numerando le unità in esse distinte, e però notando il rapporto della seconda unità colla prima, della terza colle due prime, della quarta colle tre prime, e così trascorrendo tutti gli ordini delle collezioni a cui i numeri appartengono. In vece la mente, come diciamo, s' aiuta con delle formole generali; che se non le danno l' idea propria e distinta d' un dato numero, le danno almeno un' idea di rapporto del numero ignoto con un numero noto, e la cognizione di questi rapporti determinanti i numeri è sufficiente per avere implicitamente l' idea del numero, perchè si ha gli elementi coll' uso dei quali possiamo trovare il numero stesso. Mi spiego. Se io non conosco per se stesso il numero mille, ma so però ch' egli è dieci volte il cento, nella cognizione del dieci e del cento io ho implicitamente la cognizione del mille. Che se io non conosco il numero cento, ma so però ch' egli è dieci volte il dieci, io nella cognizione del dieci e del suo rapporto al cento ho implicitamente la cognizione del numero cento. Che se di nuovo io non conosco il dieci per se stesso, ma so però che è due volte il cinque, io nella cognizione del due e del cinque e del loro rapporto col dieci ho implicitamente la cognizione del dieci. Che se finalmente non conoscessi nè pure il cinque, ma sapessi però che è un numero che si compone di due volte il due più l' uno; io nella cognizione dell' uno e del due, e del loro rapporto col cinque avrei implicitamente la cognizione del cinque. Or dunque, se io conoscessi l' uno e il due, e i rapporti detti cogli accennati numeri, direi che la cognizione dell' uno e del due è propria e distinta; e la cognizione degli altri non è una cognizione distinta e propria, ma è una cognizione implicita ed espressa in formole . Da questo esempio si vedrà facilmente che ad acquistarsi la cognizione de' numeri mediante formole, la mente giunge assai più celeremente che non sia ad acquistarsi la cognizione propria e distinta de' singoli numeri; giacchè nel descritto modo la mente giunge al mille con quattro passi, con quattr' ordini di riflessione, là dove per acquistarsi la cognizione propria e distinta del mille dovrebbe impiegare mille passi, superare mille ordini di riflessioni; cosa quasi all' uomo impossibile. Ora la scienza de' rapporti de' numeri è l' aritmetica, ed essa perciò è quella che spiana la via per la quale il fanciullo possa più facilmente giungere molto avanti nella cognizione de' numeri. Si domanderà forse qual sia la prima formola che trova naturalmente il fanciullo per avanzarsi nella scala numerica, e a qual ordine appartenga: ecco ciò che a me ne pare. Ritorniamo alla nostra percezione collettiva: il fanciullo vegga un drappello di trentadue soldati; e sia già pervenuto alla cognizione dell' uno e del due. La maniera più semplice colla quale possa giungere, se non ancora a contarli, almeno a trascorrerli, a dividerli l' uno dall' altro, sarà la seguente. La percezione sua del drappello da principio è unica. Ma egli è già atto a fissare l' attenzione sopra un soldato solo. Egli può accorgersi allora che quel drappello non è un soldato solo, perchè vede, oltre il soldato da lui distintamente osservato nella sua percezione, esister ancora qualche cos' altro ch' egli chiama due. Ma questo due è più simile alla percezione totale che all' unico soldato ch' egli mise da parte: può dunque ripetere la stessa operazione e cavar dalla frotta, che restagli, un altro soldato: egli può ripetere la stessa cosa fino che ha fatto passare ad una parte i soldati tutti. Dopo di ciò egli non sa ancora il numero de' soldati; ma gli ha trascorsi uno per uno: ha avuto sempre sotto gli occhi due corpi; ma ha capito che il numerare uno e due si può ripetere quante volte egli voglia: questa è una cognizione nuova per lui ed importante. Se egli volesse qui continuare a riflettere, potrebbe formare due coppie di soldati, e poi due altre di queste coppie, e così procedendo trovare il rapporto del due col trentadue, o sia avere l' idea del trentadue tutto espresso col solo numero due, la qual sua formola sarebbe 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 .per . 2 equivalente a trentadue. Quindi facilmente si vede come il numero due sia un passo immenso per la mente fanciullesca; giacchè questo numero è la base di tutta la numerazione e l' aritmetica primitiva; non potendovi esser numero alcuno che non sia un composto di uno e di due, presi questi numeri e i loro composti una o due volte. E questa importanza del numero due nelle umane cognizioni spiega, se non erro, perchè nelle lingue antichissime v' abbia una terminazione a posta pel duale , nè si confonda il duale col plurale, come si fa nelle lingue moderne. Egli è vero che il duale delle lingue antichissime si applica, il più, a quegli oggetti che sono due in natura come gli occhi, le labbra, le mani, i piedi, le macine, ecc.; ma ciò appunto dimostra la speciale attenzione che fece la mente primitiva sulle cose doppie, e come avendo potuto notare in esse il due, poi con questo ebbe aperto il campo a tutti gli altri numeri che indefinitamente li comprese sotto una sola terminazione plurale. Un altro prodotto delle operazioni intellettive del fanciullo in questa età sono i primi principŒ definiti che acquista la sua mente, de' quali si serve per giudicare. Conviene conoscere chiaramente che cosa sia un principio o sia una regola di giudicare: egli non è altro che « un' idea che viene applicata mediante un giudizio (1) ». Quando io al vedere un oggetto, giudico che è « una pianta »; io applico l' idea della pianta all' oggetto che veggo; e il mio giudizio non è che una proposizione colla quale io affermo che « ho riscontrato nell' oggetto veduto ciò che contemplavo in quella idea ». L' idea dunque della pianta è la regola che seguo in formando questo mio giudizio. Ciò conosciuto, apparisce che vi sono altrettanti principŒ quante idee (2): e che l' essere più ampŒ o più ristretti i principŒ non dipende se non dalla maggiore o minore ampiezza che hanno le idee che vengono applicate. L' uomo, la natura umana è formata da un' idea sola (intuizione dell' essere). Se non ne avesse alcuna non sarebbe un essere intelligente, conciossiachè l' atto caratteristico dell' intelligenza è il giudizio, e il giudizio non è che l' applicazione di un' idea. Quando adunque l' uomo comincia ad usare dell' intelligenza formando i suoi primi giudizŒ, egli non può farli che dietro l' unica idea che ha, quella di esistenza, ondechè prima di giudicare qualsiasi altra cosa, giudica che la cosa esista, ne pronuncia l' esistenza. Allorquando pronuncia intellettivamente l' esistenza d' una realtà applicandole l' idea (percezione intellettiva) quest' idea gli serve di principio . Fino adunque dai primi atti intellettivi l' uomo ha nella mente sua un principio secondo cui giudica; perchè ogni giudizio suppone una regola che si applica in giudicando. Tuttavia questo principio, secondo il quale l' uomo giudica che le realtà esistano (percepisce), è un principio indefinito e illimitato; perchè si applica egualmente a tutte le realtà sensibili; e questa sua indefinitezza è quella che la distingue da' principŒ definiti che, secondo me, non compariscono nel fanciullo, se non quando questi è giunto al terz' ordine delle sue intellezioni. E veramente nel primo ordine d' intellezioni non ci sono che percezioni e idee imaginali. Le percezioni non possono servire di principio per la loro particolarità, e lo stesso dicasi delle memorie di esse. Le idee imaginali potrebbero, essendo universali; ma non trovandosi più individui del tutto uguali, non hanno un' applicazione possibile. Oltre di che applicare quelle idee non si possono, se non ripetendosi le percezioni avute: or queste non hanno mai bisogno di quelle idee per loro regola, quando anzi esse sono il loro effetto. Il second' ordine poi somministra delle idee astratte, ma non fa più che somministrare queste alla mente, e preparargliele per le operazioni del terz' ordine d' intellezioni. E veramente, quando la mente applica a giudicar delle cose quelle idee ch' ella si procacciò nel second' ordine d' intellezioni, allora ella fa appunto di quelle operazioni colle quali si eleva al terz' ordine. Ora, questi principŒ sono definiti, perocchè le idee astratte e semi7astratte, che il second' ordine somministra, hanno tutte una limitazione, non abbracciano l' essere in tutta la sua estensione, ma diviso, e da certi confini più o meno estesi circoscritto. Le idee astratte di cibo, di cane, ecc., non si applicano a tutti gli esseri; ma servono solo a riconoscere tutti quegli enti che sono cibi, tutti quelli che sono cani, ecc. (1). Quelle idee adunque diventano principŒ più ristretti che non l' idea dell' essere in universale, nella loro applicazione. Dai principŒ che dirigono i giudizi teoretici, passiamo ai principŒ morali e pratici che dirigono le azioni del fanciullo. E` un errore il credere, che il bambino non abbia regole di moralità, un errore compreso nel pregiudizio comune e oltremodo antico, ch' egli non abbia uso di ragione, la qual ragione si fa dal volgo comparire nell' uomo tutt' all' improviso e quasi per incanto all' età di sett' anni. Tutto ciò che diciamo in quest' opera tende a distruggere questo tristo errore popolare. E quanto alle regole della moralità, noi abbiamo veduto che appariscono nel bambino fino dal second' ordine delle sue intellezioni. Queste regole primissime si riducono a due, e le abbiamo formolate così: 1 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita ammirazione ». 2 « Ciò che è bello, animato e intelligente, merita benevolenza ». Non è già che il bambino abbia idea del merito; ma sente la necessità, uscente dalla sua natura intelligente e morale, di ammirare e di amare quella cosa bella, animata e intelligente, che per le sue sensazioni egli percepisce, e colla quale vitalmente comunica. Qual modificazione soffrono queste regole intrinseche alla natura morale del fanciullo, quando questi giunge al terz' ordine d' intellezioni? Cessano esse? Perdono esse di forza? Se ne sopraggiungono delle altre? La natura morale dell' uomo non può perdere le sue regole primitive; sentirà ella sempre il bisogno di ammirare e di amare ciò che è bello, animato e intelligente: e ci vorrà una violenza, qualche cosa che la pervertisca, acciocchè ella cessi dal farlo. Ma egli è vero però, che al fianco di quelle regole primitive ne insorgono delle altre nell' animo umano. Ogni età, ogni ordine di intellezione ha le sue regole; il fine, l' essenza loro è la medesima, tendono tutte a prescrivere la stima e l' amore a ciò che è bello, animato e intelligente: ma esse conducono l' uomo a questo fine comune per diverse strade, gli parlano con un linguaggio sempre nuovo, conveniente al nuovo stato della sua mente: l' uomo crede di far guadagno di sempre novelle massime morali, quando infatti ella è sempre la stessa massima, immutabile, eterna, che prende nuove forme nel suo spirito che fa di sè nuove manifestazioni. Noi dobbiamo dunque tener dietro a queste manifestazioni, a queste espressioni sempre nuove del dovere morale che nella mente dell' uomo s' ingenerano ad ogni nuovo ordine d' intellezioni; ed è questo che noi vogliamo ora fare nel terzo di questi ordini. Quali sono dunque le regole morali del bambino giunto al terz' ordine d' intellezioni? Nel secondo l' ammirazione e la benevolenza è già nata in lui: queste volizioni, effetti delle regole primitive, al terz' ordine si cangiano esse stesse in regole morali. Le regole morali adunque pel nostro bambino al terz' ordine d' intellezioni sono le seguenti: Ciò che è conforme alla mia ammirazione è bene. Ciò che è conforme alla mia benevolenza è bene. Ciò che è contrario all' una e all' altra è male. Ciò che non è nè conforme nè contrario alla mia ammirazione e alla mia benevolenza, è indifferente. Queste regole morali che segue il bambino nella sua quarta età differiscono non poco dalle regole primissime ch' egli segue nella età anteriore. Noi abbiamo già veduto, che le persone che governano il bambino possono influire assaissimo sullo sviluppare e sul dirigere la sua ammirazione e la sua benevolenza; con questa influenza da loro esercitata con tutti i loro atti e con tutte le loro parole, possono restringere o allargare la benevolenza infantile, possono dar luogo nell' animo dell' infante alla malevolenza, ispirargli dell' avversione per certi oggetti, della propensione per certi altri; ed abbiamo mostrato quanto giovi, quanto sia necessario tener lontano da quell' animo la percezione e opinione del male, cioè del brutto, e dar opera perchè il semplice cuore s' empisca di benevolenza e di ammirazione, sicchè questi affetti conservino la maggior possibile universalità. Io credo che possa influir questo immensamente sul far prendere all' uomo un corso di vita morale e virtuoso, e giovi a prevenire le passioni a quell' età che sogliono dar all' uomo il più fiero assalto. Ma la felice influenza di quella primissima educazione morale si manifesta già tosto nell' età intellettiva susseguente. Perocchè da essa dipende che le regole morali, che si forma il fanciullo nell' età rispondente al terz' ordine, sieno vere o false, sieno conformi o diformi dalla natura delle cose, lo ingannino o lo dirigano rettamente. E in vero se queste regole sono le sopra accennate « Ciò che è conforme alla mia ammirazione o benevolenza, è bene; ciò che si oppone alla mia ammirazione o alla mia benevolenza è male ecc. »; egli è evidente che queste regole sono vere o false, rette o torte, secondochè la benevolenza e l' ammirazione del bambino è ben formata e ben ordinata; o vero mal formata e mal ordinata. La condizione dunque delle regole morali, ch' egli si forma, dipende dalla composizione che ha preso il suo animo nella precedente età. Si vede di qui l' importanza di procurare, che la prima forma, che prende l' animo suo, la prima mole di stima e di benevolenza che in lui si pone, sia tutta pura e naturale, non contraffatta, non alterata dall' arte, non avvelenata dall' ignoranza e dalla malizia; perocchè se le stesse regole morali del suo operare vengono contraffatte e falsificate dalla prima mala forma che prenda l' animo suo, come potrà camminar diritto quel fanciullo che ha dinanzi agli occhi delle regole false? Eziandio che volesse andar bene, non potrebbe. Si declama sovente dai genitori e dagl' istitutori sulla perversa indole de' fanciulli. Eh! quest' indole non è sempre in essi necessità fisica; qualche cosa d' innato: ella prende questa apparenza, perchè non si vede il lavoro occulto che è venuto formandosi di continuo nelle loro piccole menti, onde si è bel bello immensamente falsato il loro pensare: esistono nelle loro testicciuole dei principŒ falsi che essi seguono fedelmente anche prima di saperli esprimere, e di cui nessuno saprebbe spiegare l' origine: nessuno infatti gli ha forse loro insegnati; ma il loro spirito che non resta mai ozioso, e che si va sempre lavorando dei principŒ, osservando anche in ciò le sue leggi indeclinabili, venne pur componendosi e rassodandosi certe persuasioni profondamente false, che dirigono poi segretamente il fanciullo e cagionano gli atti, atti suoi, fino i più capricciosi ed inesplicabili; conciossiachè esse sono i soli fanali che mandano nell' animo suo quella luce fallace, alla quale camminando gli è forza aberrare. Nel nostro fanciullo non si può ancor parlare di libertà: le sue azioni appartengono alla spontaneità . Mirabili sono le leggi, colle quali opera la spontaneità sia meramente animale, sia intellettiva e morale: noi le abbiamo esposte nell' « Antropologia ». Fra le volizioni spontanee si distinguono le affettive , le apprezzative , e le appreziative . Nella seconda età, in conseguenza del primo ordine d' intellezioni, già cominciano nel fanciullo tanto le volizioni affettive quanto le apprezzative. Nella terza età in conseguenza del second' ordine d' intellezioni cominciano nel fanciullo le volizioni apprezzative in un modo più esplicato. Nella quarta età continuano a svilupparsi i due predetti generi di volizioni; ma non per anco comparisce il terzo genere, cioè le appreziative, perocchè avendo queste bisogno di paragone tra due o più oggetti, non si possono formare fino a tanto che non si è giunti non solo a numerare due oggetti, ciò che si fa nel terz' ordine d' intellezioni, ma ben anco a raffrontarli tra loro, e trovare le differenze, ciò che spetta al quart' ordine, come vedremo. L' aumento delle volizioni affettive e apprezzative che succede nel fanciullo, porta in lui una spontaneità sempre maggiore, una sempre maggior mole di attività effettiva. Questa spontaneità poi non essendo temperata e diretta dalla libertà colla quale l' uomo comanda a se stesso, si spiega in modo che lascia vedere l' indole e le leggi sue proprie. Io ho mostrato che le leggi principali della spontaneità sono due: 1 l' aver ella bisogno di uno stimolo, acciocchè venga suscitata all' azione; 2 suscitata poi, il produrre ella un' azione maggiore di quella che sarebbe proporzionata allo stimolo stesso (1). Questa soprabbondanza d' azione, parte è messa dall' attività dello spirito, parte dalla legge d' inerzia, per la quale « ciò che è già in moto si continua nel suo moto fino che questo non venga da altra forza distrutto ». Questa legge può osservarsi nell' attività de' fanciulli. Cercando noi sempre di raccogliere i fatti, e di sottoporli agli occhi del lettore come i soli documenti fededegni di quanto avanziamo, recheremo anche quello che venne osservato da chi non pensava certamente di venire in appoggio delle nostre dottrine. [...OMISSIS...] Un altro carattere dell' attività del nostro bambino è la sconnessione de' suoi atti volitivi, e delle sue azioni esterne che vengono in conseguenza di quella (1). Quando sia ammesso il principio che ogni attività nell' uomo viene da una passività precedente, e che in conseguenza tutta l' attività volitiva seguita le concezioni dell' intelletto, quella sconnessione di movimenti ed azioni esterne è spiegata appunto dalla sconnessione delle sue idee. Nella seconda età le concezioni che eccitano e dirigono l' attività intellettiva (2) sono le percezioni, ciascuna delle quali è indipendente dall' altra. Tuttavia la sconnessione di quell' attività non dà tanto negli occhi, perchè l' attività messa in moto nel fanciullo è ancor poca, ed il bambino giunge all' oggetto della sua attività immediatamente. Nella terza età l' attività del bambino si muove anco dietro gli astratti. Questi primi astratti sono tra loro divisi; e però anche l' attività riesce sconnessa, e tratta di qua e di là quasi da mille centri diversi. Comincia poi la sconnessione ad apparir maggiormente quando l' attività che si muove è maggiore. L' attività in questa età non giunge, come nella precedente, immediatamente al suo termine, l' oggetto reale che cerca, ma con un passo in mezzo, cioè colla mediazione dell' idea astratta. Nella quarta età ancor più cresce la mole d' attività che gioca nel fanciullo, e non v' ha tuttavia niente che la notifichi; conciossiachè i principŒ secondo i quali ella opera sono infiniti, cioè altrettanti quante le idee che vengono da lui applicate. Andando innanzi col suo sviluppo, queste idee si raggrupperanno, questi principŒ si renderanno lentamente più generali, ed allora anche l' attività dell' uomo verrà da se stessa e quasi per incanto ordinandosi, raccogliendosi e avvicinandosi sempre più all' unità. Intanto all' adulto riesce molesta quella versatilità fanciullesca, non l' intende, e vuole imporre al fanciullo di quelle regole che ottimamente presiedono ad una attività unita, ma che sono inutili ed inapplicabili ad un essere che non ha un' effettività sola, ma molte scucite l' una dall' altra, ciascuna delle quali non è suscettibile di quelle regole, e tutte insieme non esistono, perocchè l' una non sa dell' altra: indi una delle maggiori difficoltà dell' educazione (1). Vedremo più tardi come nell' attività del fanciullo irruisca la fantasia, e n' accresca la versatilità. All' attività sconnessa del fanciullo appartengono quei giochi dove avvi gran movimento e una successione d' impressioni sconnesse, ma sempre nuove. L' inclinazione ad esercitarsi in tutti i possibili movimenti si spiega anco cogl' istinti animali. Il movimento è piacevole e salubre all' animale, e i movimenti ch' egli fa non sono certo diretti da alcun principio di ragione, che in lui non si trova, ma ciascuno ha la sua ragione e determinazione nelle leggi dell' animalità. A que' movimenti che sembrano fatti a caso e unicamente per diletto, noi attribuiamo il nome di giochi, gli consideriamo in un aspetto burlevole, quasi tendano a far ridere. Tuttavia per l' animale non sono già scherzi più quelli che il prender cibo: tutto ciò che si riferisce al sentimento del riso, è a lui straniero. Ma il disordine capriccioso di que' gesti e moti ha per noi quel turpicolo improvviso che cagiona il riso. Vi ha il turpicolo in que' movimenti raffrontati a' movimenti ordinati della ragione, e vi ha l' improvviso ed inaspettato per la loro continua novità e apparente stranezza. Quello che è singolare si è che il fanciullo trova ben presto qualche cosa di bernesco ne' proprŒ giochi: egli ve lo trova di mano in mano che si sviluppa in lui la ragione; e divien per lui una nova cagione di diletto. Ride di ciò che fa egli stesso e che vede fare agli altri fanciulli: tuttavia egli non ride propriamente di se stesso, perocchè mai di sè non si ride. E` il segnale ch' egli riconosce della frivolità, della sconcezza nei suoi atti; e di questo segnale dee cavar profitto l' istitutore: egli dee coltivare e perfezionare la conoscenza che il fanciullo si forma da sè del poco accordo che passa fra i suoi trastulli e la sua dignità di essere ragionevole: e giovandosi di questa cognizione dee condurlo ad un contegno composto e regolato. Egli è dunque un errore l' applaudire a ciò che v' ha di ridicolo nelle azioni fanciullesche: i movimenti naturali possono essere permessi fino che la natura animale li produce, quasi direi all' insaputa della ragione: ma tosto che la ragione interviene e li giudica come piccole turpitudini, allora debbono incominciare a cessare; debbono rendersi cagione di un cotal sentimento di pudore. L' istitutore dee sempre allora aggiungersi alla ragione per darle forza, e mantenere le sue parti. Ai giochi di moto disordinato debbono succedere gli esercizi ordinati dell' arte ginnastica. I giochi poi che consistono in abbattimenti di casi sempre nuovi non sono conosciuti dalle bestie; essi sono proprŒ del solo uomo, il quale vi trova il diletto di appagare la sua curiosità, la voglia di percepire e di sapere le cose sotto tutti i loro possibili aspetti. Ho già detto che questi possono essere assai utili allo sviluppo dell' intendimento, se l' istitutore ne saprà profittare; e nelle sue mani si cangeranno in vere e ben ordinate e dilettevoli istruzioni di matematica. L' attività morale del fanciullo a questa età si spiega principalmente sotto le due forme, quella di diritto di proprietà e quella di ubbidienza . L' una e l' altra di queste due forme sono l' effetto della benevolenza e dell' ammirazione del fanciullo. Al primo ordine d' intellezioni egli non possedeva ancora, nè ubbidiva; ma ammirava ed amava. Egli aveva percepito degli esseri intelligenti e belli oggetti della sua affezione e della sua ammirazione, co' quali comunicava per mezzo della simpatia e dell' istinto d' imitazione; ma dei quali non intendeva ancora nè i pensieri, nè i voleri; si noti che la simpatia e l' istinto d' imitazione, che si manifestano nell' ordine dell' animalità, sono comuni anche all' ordine dell' intelligenza; di maniera che vi ha anche una simpatia ed un istinto d' imitazione intellettivo. Queste leggi comuni ai due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo, sono quelle che mirabilmente si legano tra loro; e fanno sì che l' uno all' altro si continui, quasi direi, senza che se ne vegga la commessura (1). Ora tostochè il fanciullo apprezzò ed amò un oggetto, egli concepisce il sentimento della proprietà, cioè quell' oggetto acquista una cotale unione spirituale con lui, e da lui staccandolo se ne risente, come se gli si dividesse una parte di se stesso (1). Percepisce ancora le cose delle persone a lui care unitamente con queste, e però gli ripugna il veder trasportare gli oggetti da queste usate, non altramente che se essi oggetti formassero parte delle stesse persone. Da principio questo fatto ha per cagione la forza unitiva dell' animale (onde anche fra le bestie si notano de' fenomeni simili); poscia serve all' inclinazione della natura animale la volontà (volizioni affettive); in appresso l' intendimento percepisce anch' egli il vantaggio di contemplare le cose belle, e gliene duole se vengono sottratte alla sua contemplazione; in quarto luogo finalmente (e certo molto più tardi) l' intendimento perviene a conoscere gli usi delle cose e ad apprezzarle anche per questi; dietro al quale apprezzamento la volontà si affeziona ad esse di un nuovo amore men nobile del primo, dell' amor interessato. Di questi elementi viene successivamente componendosi a parte materiale del diritto di proprietà: la parte formale non può essergli aggiunta che dal dovere, dalla legge morale. Se nel primo ordine d' intellezioni il bambino percepisce il bello, nel secondo, in occasione di rimanerne privo, prova il doloroso sentimento della privazione; nel terzo astraendo le azioni delle cose comincia a pregiarle pe' loro usi, o almeno a ciò si va disponendo. Dallo stesso fonte dell' ammirazione e della benevolenza nasce come dicevo l' ubbidienza del fanciullo. L' ubbidienza non è in lui che il desiderio, la volontà di uniformare se stesso agli enti intellettivi divenuti oggetti de' suoi affetti. Da principio, come dicevo, egli si uniforma loro come può, cioè colla simpatia e colla imitazione animale intellettiva. Ma col second' ordine d' intellezioni imparando il linguaggio, egli acquista un nuovo mezzo di comunicazione della sua colle anime da lui stimate e care. Gli si comunica una nuova luce: vede dentro a quelle anime: discuopre in esse pensieri e volontà: trova con ciò nuovi lati, da cui poter se stesso a loro uniformare e acconciare. Queste scoperte egli le fa col linguaggio, che comincia ad apprendere col second' ordine delle sue intellezioni e continua cogli altri. Giunto dunque al terz' ordine già in possesso del linguaggio, di questa chiave dell' interno de' suoi simili, vede coll' uso di esso le loro opinioni ed i loro voleri. Conosciuti questi tosto incomincia a manifestarsi nel fanciullo la credulità e l' ubbidienza. La credulità non è altro in lui che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse opinioni che hanno le persone colle quali usa. La ubbidienza parimente da principio non è altro che il desiderio, la tendenza ad avere le stesse volontà pure delle persone colle quali usa. In questa loro prima apparizione la credulità e l' ubbidienza del bambino nascono dunque dal bisogno, ch' egli sente di rendersi uniforme colle persone da lui conosciute. Questo bisogno di uniformità che sentono tra loro le anime tosto che si conoscono, è veramente cosa profonda, misteriosa: per darne una soddisfacente ragione converrebbe scendere nel religioso segreto dell' ontologica dottrina. Non è questo che possiam noi fare adesso: basterà che constatiamo bene i fatti. « Il primo fatto si è, che il bambino dà segni di stima e di affetto a qualsiasi persona che da principio gli sorrida »: egli allora è giusto, non avvi presso lui accettazione di persone, è un giudice, dinanzi al quale i nomi de' piaggiatori rimanendo celati, giudica con integrità « secundum allegata et probata »: la sua tendenza ad esser rispettoso e benevole è universale. Dunque nell' essere intelligente, nel fondo della natura, trovasi una cotale necessità primitiva di dare stima ed amore a qualsivoglia essere intelligente ch' egli conosca. Questo è il gran fatto sul quale come sopra saldissima base sta fondata tutta la moralità: rimetto il lettore alla teoria che noi n' abbiamo data (1). Se da questa necessità primitiva nascono gli affetti che il bambino dà alle persone conosciute; da questi affetti nasce pure la necessità di essere con esse perfettamente d' accordo. Si suol dire che « l' amore o trova simili le persone amate o le fa ». Si dee aggiungere con egual verità che « l' amore fa simile chi ama alla persona amata ». La ragione ne è manifesta: l' amore vuole unione, vuole unione sì stretta che tende ad una cotale immedesimazione. Ora l' unione che vuole l' amore, l' immedesimazione a cui tende non può aver luogo, se non mediante conformità di opinioni, per la quale uniformità due menti sono unite in una sentenza, e conformità di voleri, per la quale due cuori sono uniti nel medesimo voto, hanno il medesimo bene, il medesimo male, godono insieme quello, soffrono insieme questo, si muovono con un passo solo a quello e si rimuovono pure con un medesimo passo da questo. Ripeto che qui ci covano dei misteri, nei quali non voglio io ora entrare, ma dico solo che il fatto sta così; me n' appello a tutti, perchè non vi ha creatura umana, la quale non ami. Se noi vogliamo dare a questo fatto una espressione diretta e se vogliasi così chiamarla scientifica, potrà annunciarsi in questo modo: « Quando un essere intelligente e volitivo ne percepisce un altro qualunque, gli effetti che in lui naturalmente si manifestano sono i sentimenti della stima e dell' amore ». Questa è la prima parte del fatto: la seconda parte è quest' altra: « Quando un essere intelligente che n' abbia percepito un altro, cedendo alla legge della sua natura abbia ammesso in sè i sentimenti della stima e dell' amore, questi sentimenti portano in lui una morale necessità di uniformare le proprie credenze alle credenze (1) dell' ente conosciuto e i propri voleri ai voleri pure del medesimo, tosto che venga a conoscere quali sieno queste credenze e questi voleri »(2). L' idea di essere ingannato non può venire al fanciullo se non dall' esperienza; come pure dalla sola esperienza gli può venire l' idea che dall' aderire all' altrui volontà gl' incolga alcun male. Lo stesso concetto dell' errore o del male è posteriore a tutto ciò nella mente del fanciullo. Rimangono adunque in lui le due sole tendenze della credulità e dell' ubbidienza tutte semplici, da nessun sospetto turbate o represse, e però nella loro maggior forza: ecco il primitivo fondamento della facilità colla quale il bambino crede e ubbidisce: son tendenze naturali dell' essere intelligente, a cui il fanciullo cede, perchè niente si oppone alla sua spontaneità. Veniamo ora all' istruzione e all' educazione morale, che risponde all' ordine d' intellezioni fin qui esposto. Già il lettore ha inteso prima d' ora, che cosa noi intendiamo per « istruzione rispondente a un ordine d' intellezioni ». Nondimeno mi si permetta il metterlo oggimai in espressi termini, affine di togliere ogni equivoco od obbiezione al metodo che proponiamo. L' istruzione adunque rispondente ad un dato ordine d' intellezioni abbraccia tre parti bene distinte, le quali sono: 1 Quella istruzione che serve per accrescere alla mente del discepolo il numero e la perfezione delle intellezioni degli ordini precedenti. 2 Quella istruzione che serve per far passare la mente del discepolo dall' ordine d' intellezioni in cui si trova, a quello che gli è prossimamente superiore. 3 Quella istruzione che serve a esercitare e perfezionare il discepolo nella dottrina appartenente all' ordine nel quale la sua mente ha già posto il piede. La distinzione importante di queste tre parti basta a rimuovere il timore, che il metodo nostro potesse rallentare i progressi della mente umana: anzi non fa che indicare la via più diretta, più spedita, più soave, per la quale ad essa mente conviene naturalmente procedere. Quindi facilmente si può inferire, come la lingua e lo stile, che usano le persone che istruiscono il fanciulletto, dee variare ad ogni ordine di sue intellezioni. Perocchè nella lingua e nelle varie parti, di cui ella si compone, cade ben sovente il bisogno di usare un ordine di intellezioni assai grande; onde non tutti i vocaboli d' una lingua possono essere usati col fanciulletto ad ogni sua età; ma anzi quelle che non si possono classificare nelle tre parti indicate dell' istruzione a lui conveniente cioè o tra le intellezioni degli ordini anteriori, o tra quelle dell' ordine prossimo a cui può salire col primo passo della sua mente, o tra quelle di questo medesimo ordine a cui è già salito, sono vocaboli del tutto perduti, inintelligibili al fanciullo, e però attissimi a confonderlo, a turbare il progresso delle sue idee come le pietre turbano i passi di chi cammina, ed a rendergli però assai più malagevole l' intelligenza di quei vocaboli, che pur sono alla sua portata. Noi abbiamo veduto che al second' ordine d' intellezioni il bambino può intendere i nomi (1), al terzo i verbi, non però le declinazioni di quelli, le coniugazioni di questi, che troppe altre riflessioni esigono sui nessi delle cose: intende dunque il nome indeclinato e il verbo nel suo infinito e ne' participi, forme nelle quali il verbo è ancor nome ma esprimente azione. Chi dunque è arrivato al terz' ordine non potrà intendere se non quei vocaboli e quelle forme, le quali non suppongono che un solo ordine di più, quello a cui la mente dee sollevarsi, e nel caso nostro è il quarto. Si dovrà dunque cercare di comporre il discorso che si fa a' bambini di queste voci e forme per quanto è possibile; ed allora la comunicazione tra noi adulti ed essi sarà trovata, sarà apertissima. Lo stesso dicasi dello stile , lo stesso pure de' concetti che si esprimono nel discorso: conviene che o quello o questi non contengano intellezioni, se non tutt' al più di quart' ordine, e tali che si possano rannodare alle prime intellezioni degli ordini precedenti che sono già nella mente del fanciullo. Conviene che il fanciullo in ogni sua età operi . L' attività del fanciullo, abbiamo veduto, che è di tre specie: corporale, intellettuale, morale. Egli ha bisogno di tutte e tre queste specie di attività, colle quali si sviluppa, ma debbono essere guidate come conviene. Quanto alla quantità d' azione , non dee già esser soppressa l' azione naturale del fanciullo, nè eccitata; ma soltanto moderata quand' essa, eccedendo, recherebbe un danno alla sanità del fanciullo. Quanto alla qualità , dee essere alimentata quella, e non altra, che è proporzionata all' ordine delle sue intellezioni; e il difficile consiste appunto nel trovare giustamente quale ella sia. Quanto alla regolarità, si dee introdurre in essa due ordini: 1 L' ordine tra una specie e l' altra, che subordina e fa servire l' attività corporale alla intellettiva, e l' attività corporale non meno che l' attività intellettiva alla morale. 2 L' ordine entro ciascuna specie, in modo che in ciascuna attività si trovi quella uniformità, costanza, regolarità, e, per dire ancor meglio con una sola parola, ragionevolezza , che è possibile. L' ammaestrare e guidare in queste cose il fanciullo è veramente un educarlo. Sebbene, tosto che il bambino sa un po' favellare, potrebbe essere posto alla lettura; tuttavia io stimo da preferirsi il trattenerlo ancora nella scuola preparatoria dell' esercizio orale. Nell' esercizio orale si distinguono due parti, cioè la parte intellettiva e la parte meccanica . L' esercizio che si fa fare al fanciullo deve riguardare l' una e l' altra. Io ho già raccomandato, che fin dal secondo grado d' intellezioni si faccia fare al bambino l' esercizio di nominare più cose che sia possibile (1). Questo esercizio appartiene alla parte intellettiva, ed esso deve continuare ora e per molte ancora delle intellezioni che devono venire. Mentre poi allora non si poteva fare che co' nomi , in questa età e nelle susseguenti si può fare anco coi verbi (1) e coll' altre parti del discorso, osservando delle regole simili alle accennate. Ma ora egli è tempo di cominciare insieme anche l' esercizio meccanico e alternarlo all' intellettivo, e questo estenderlo via più. Questo esercizio meccanico è quello di rettificare la pronuncia de' bambini, e insegnar loro l' uso perfetto degli organi della favella. E in vero, dopo che i fanciulli hanno imparato qualcosa a parlare, la prima operazione è quella di rettificar bene i suoni che pronunciano, giacchè essi dapprima vi commettono molti difetti e imperfezioni; balbettano, smozzicano parole, strozzano suoni, scilinguano, ecc.. Onde innanzi di venire a farli leggere o scrivere si rendano perfetti nella pronuncia, facendo loro vincere le difficoltà delle sillabe più difficili. Al quale intendimento già si pose mente da' benemeriti promotori delle scuole infantili anco in Italia, e si conobbe che a tal fine è uopo far pronunciare « « nettamente e giustamente tutti i suoni elementari, di cui si compongono le parole intere (2) » ». Io credo che gioverebbe cominciare questo esercizio dal far emettere i toni musicali , prima secondo la scala naturale, di poi per li salti; i quali saranno già mezzi impressi nello spirito del bambino, se gli si fecero udire nelle età precedenti (3). A questo esercizio può tener dietro o intromettersi quello della pronuncia de' suoni vocali e articolati della favella. L' ordine nel quale si devono far pronunciare al fanciullo nostro i suoni elementari, parmi dover esser quello stesso, nel quale poi egli deve imparare a leggerli e scriverli. Ora a me sembra che devasi cominciare dalle vocali, e poi dai composti di vocali, appresso dalle sillabe che ciascuna altra lettera dell' alfabeto fa con ciascuna vocale, poi le sillabe di tre lettere, e così di mano in mano (1). Perfezionata la pronuncia di tutte le lettere, sillabe e parole, giova passare alla parte intellettuale dell' esercizio orale. Il far apprendere al fanciullo a nominare gli oggetti, come abbiamo detto, appartiene alla parte intellettiva. Appartiene pure a questa parte il fargli analizzare i suoni. Nel « Manuale » dell' Aporti ve n' ha un bell' esempio (2), solamente che non parmi che sia ancor tempo di parlare al nostro bambino di dittonghi o trittonghi, ma solo di pluralità di suoni; anzi parmi del tutto impossibile ch' egli intenda che cosa sia dittongo e trittongo, quando l' idea di due o tre suoni gli è facilissima (3). Così sarebbe impossibile, a mio parere, il fargli capire che l' ia in abbia è dittongo e non l' è in ubbi7a , e l' esempio recato dall' Aporti della voce ai così isolato non mostra che deva essere dittongo piuttosto che due semplici suoni, potendosi egualmente pronunciare ài, aì , ne' quali casi è dittongo, e à7ì separando le sillabe, nel qual caso non è dittongo, ma semplicemente doppio suono. Oltracciò, volendosi porre per base dell' educazione il procedere rigorosamente logico, parmi che non si deva dire che le consonanti divise dalle vocali abbiano un suono. Esse non sono suoni, ma cominciamenti o finimenti di suoni (1), i quali cominciamenti e finimenti non esistono senza i suoni stessi, come non esiste il punto senza la linea, o la linea senza la superficie, o la superficie senza il solido. Ciò posto, non parmi giusto che quando il maestro pronuncia la sillaba bi , e poi domanda al fanciullo: Quanti suoni avete udito? gli si faccia rispondere come nel « Manuale » dell' Aporti: Due suoni. Anzi egli deve rispondere: un suono solo; come risponderà da sè sicuramente, perchè quella sillaba è un suono solo. Bensì che, avutane questa risposta, gli si deve pronunciare prima i e poi bi, e domandargli se sono lo stesso suono. Egli risponderà che bi è un suono diverso da i . Allora gli si domanderà dove stia la diversità, se nel principio o nella fine del suono. - Nel principio. - E il suono ib è lo stesso suono di i, e di bi? - Anzi diverso. - Ma in che è diverso da i; nel principio o nella fine? - Nella fine. - E da bi? - Nel principio. E questo esercizio si deve continuare per tutte le sillabe. Conviene esercitare il bambino a scomporre le parole ne' loro suoni, cioè nelle loro sillabe, e nel riconoscere e notare le differenze loro (1). Questo esercizio orale sarà utilissima preparazione alla scuola di lettura che verrà appresso, e gioverà grandemente allo studio intellettivo del fanciullo (2). Giova ancora in questa età fargli numerare le cose uguali, acciocchè egli ascendendo per la scala dei numeri, si ecciti ad ascendere per le intellezioni di vari ordini. Nel che però egli da principio sembra mostrare più speditezza che non parrebbe doverne avere da ciò che per noi fu detto innanzi, che ogni numero è un ordine nuovo d' intellezioni. Ma la ragione di questa speditezza si è la formola semplicissima che egli tosto apprende per passare da un numero all' altro. Questa formola consiste nell' aggiungere sempre un' unità alle cose numerate. Egli ripete dunque la stessa operazione, e la segna con un numero nuovo. Quando dice uno e uno due, due e uno tre, tre e uno quattro, e così via, non ha mica per questo la distinta cognizione del due, del tre, ecc. che nomina e che distingue colle operazioni replicate; ma senza badare alla somma accumulata, egli vi aggiunge ogni volta l' unità, e poi vi dà un altro nome. Ciò non di meno anche questo solo è un esercizio utile al bambino; e a tal fine sarebbe da dargli prima due oggetti uguali, pallottole od altro, poi tre, poi quattro, ecc., lasciandoglieli a suo trastullo fino che si scorge esser egli venuto in possesso del numero che gli si vuol far apprendere. Altri esercizi sono indicati nel « Manuale » per le scuole infantili (1). A questa età ancora giova il mostrare al fanciullo le cose per imagini. Egli le ama, e se ne rallegra sommamente (2). Tra gli altri vantaggi, che cavar si potrebbe dall' uso delle imagini, vi sarebbe quello di disporre il fanciullo alla scuola di lettura e di scrittura che deve susseguire ben tosto. Sembra che la prima scrittura fosse per imagini: queste poi si raccorciarono in geroglifici: la scrittura letterale fu probabilmente l' ultima ad essere inventata. Fu già proposto di tenere il medesimo andamento col bambino; ma il difficile sta nel trovare imagini che, rattratte, si potessero convertire in altrettante lettere dell' alfabeto. Ancor più difficile riesce, se si esige che il nome dell' imagine porti nella prima sillaba il nome della lettera stessa, il che incredibilmente facilita ai bambini la lettura. Nondimeno io mi sono ingegnato di mettere insieme un sì fatto alfabeto ad uso delle scuole de' Fratelli della Carità, e delle Suore della Providenza, al quale rimetto il lettore (1). La moralità nei bambini fu giudicata diversamente: la più parte degli uomini non ve ne trova alcuna: alcuni osservatori sagaci vi scoprono una moralità, ma si dividono poi nel giudicarla; altri la vogliono bona e tutta bona; altri malvagia e malvagia per intiero. La ragione, onde i più non vedono moralità nell' età prime, si è perchè sono adulti quelli che ve la cercano, e vi cercano la moralità dell' adulto. Quello che abbiamo detto, crediamo che sia sufficiente a dimostrare che il bambino ha la sua propria moralità. Che nel bambino poi appariscano per tempo de' vestigi manifesti di un principio di errore e di disordine morale, questo è quello che hanno riconosciuto sempre tutti i savŒ uomini che hanno considerata la natura umana senza sistemi precedenti; egli è altresì uno de' dogmi più profondi e più maravigliosi del cristianesimo. Noi ci riserbiamo a dire su di ciò ancora una parola, quando il bambino comincerà ad operare con scelta; fin qui egli ubbidisce ad una spontaneità che lo determina, mediante la preponderanza de' gradi di sua benevolenza, determinati questi pure da ragioni esteriori (1). Noi vogliamo dunque restringerci per ora ad osservare la moralità del bambino in se stessa; non in ciò che potrebbe contenere di guasto radicale. Gli amici de' fanciulli, che attentamente gli osservarono, credettero di dover notare una grande incostanza nella loro moralità, nella quale non si potesse trovare, per poco, nulla di fisso. Ecco come ne giudica una madre, che avrebbe pur voluto dire il meglio del mondo delle care creature che sono i bimbi: [...OMISSIS...] . In fatti certi atti del bambino a questa età dimostrerebbero un estremo egoismo, e certi altri un estremo disinteresse. Onde quest' apparente contraddizione? Per rispondere a ciò conviene entrare in un mistero dell' età infantile; e non so se nessuno vi sia penetrato. Ecco la porta per la quale io vorrei farvi entrare il mio lettore. Il bambino ha il sentimento di se stesso, ma non l' idea , non la cognizione; egli non può percepire intellettivamente se stesso, se non pervenuto a un ordine più elevato d' intellezioni: questo è quello che noi dimostreremo nella sezione seguente, e che preghiamo intanto il lettore di qui concederci per postulato (2). Ora, in tutto il tempo che passa prima che il bambino percepisca intellettivamente se stesso, egli non può colla sua volontà riferire al SE conosciuto il bene ed il male; perchè il SE conosciuto non esiste ancora. Questa è la ragione degli atti sommamente disinteressati del bambino: il suo operare è ancor tutto oggettivo, il soggetto non esiste ancora pel suo intelletto e per la sua volontà. Ma onde dunque avviene che moltissimi altri atti del bambino appariscono pieni d' egoismo? Primieramente, nel tempo stesso che opera l' attività intellettiva nel bambino, opera in una sfera inferiore l' attività animale . Ora l' attività animale ha tutte le apparenze dell' egoismo sebbene non le si possa applicare questa parola (1), che venendo dall' ego, significa l' amor proprio di un soggetto che conosce se stesso, perchè l' io è appunto un soggetto che si conosce (2). In secondo luogo, quantunque il bambino non percepisca se stesso, tuttavia egli prova ed anche percepisce intellettivamente piaceri e dolori; ma questi non avendo un soggetto a cui riferirli, li riferisce agli oggetti che glieli cagionano; alla percezione e imagine di essi sì fattamente li associa, che nel suo concetto diventano una cosa sola con essi. Egli vuole dunque gli oggetti: il suo operare è sempre oggettivo: ma questi oggetti sono composti, come d' un loro elemento, di piaceri e dolori che sarebber suoi proprŒ, s' egli lo sapesse. Convien dunque distinguere i piaceri e i dolori percepiti in se stessi, senza il soggetto e imaginati essere nell' oggetto, da' piaceri e da' dolori riferiti allo stesso soggetto. L' operare in quant' è morale, prende forma dalla concezione e dall' intenzione di chi opera. Se dunque l' intenzione del bambino concepisce i dolori e i piaceri che prova negli oggetti che percepisce, egli opera dietro un principio oggettivo; ma l' apparenza che mostra il suo operare è tutta soggettiva; perocchè veramente egli va in traccia continuamente degli oggetti piacevoli, e rifugge dai dolorosi. Ora quest' apparenza soggettiva siamo noi che l' aggiungiamo alle azioni del bambino; perocchè siamo noi che le riferiamo al bambino soggetto, il che non fa il bambino stesso. Noi facciamo delle azioni del bambino quel che facciamo delle azioni nostre: riferiamo queste a noi stessi, perchè ci abbiam percepiti e continuamente ci percipiamo. Applichiamo dunque per analogia all' operar del bambino, quanto avviene nell' operar dell' adulto; ecco il solito errore: la fonte delle tante contraddizioni che ci sembrano scorgere nelle infantili azioni. Quanto è stato detto intorno alla misura ed alla qualità della resistenza, che si deve fare al bambino nell' età precedente, è necessario applicarsi anche alla presente, ed a quelle che verranno appresso. Esercizio moderato di pazienza, rettificazione di concetti, purgazione delle malevolenze, rimozione de' limiti alla benevolenza sono i quattro scopi che si dee prefiggere la resistenza e il rigore da usarsi col nostro fanciullo. Quanto più egli cresce, è altresì capace di sostenere una medicina più forte. Perocchè, posto il principio importantissimo che noi trattando con lui « dobbiamo applicare i suoi principŒ morali e non i nostri, cui egli non intenderebbe »ne viene di conseguente che quanto più i suoi principŒ si amplificano, tanto maggior appiglio noi abbiamo da influire su di lui e pretender da lui più di prima. Dico anche pretender da lui più di prima; perocchè « noi non possiamo pretendere dal fanciullo se non che egli sia coerente a suoi principŒ »noi non possiamo esigere se non che egli abbia la moralità sua propria e non altra; e solo quando egli se ne dispensa, noi abbiamo il diritto e il dovere di richiamarvelo, anco coll' aggiungere il dolore a tutte quelle azioni che disconvengono da' principŒ morali a lui noti, acciocchè egli sia aiutato anco dall' istinto del dolore a fuggire quelle azioni, la cui dolcezza lo inganna. E questo aumento di resistenza suol rendersi necessario per questo appunto, che crescendo in età si disviluppano nel bambino per varie cagioni diverse malevolenze e ritrosità; le quali si vogliono levare via tostochè nascono, scuoprendole con occhio sagace, acciocchè non invecchino e si distendano. Si deve proseguire in questa età il culto a quel modo che fu da noi dichiarato nella sezione precedente. Ma dopo qualche tempo che gli si nominò Dio e glielo si fece conoscere come un personaggio amabilissimo, il sommo bene; si dee per tempo fargli conoscere Iddio7umanato e Maria sua madre, e fargliene invocare i nomi spessissimo e, per quanto si può, ad ogni bisogno per soccorso, ad ogni azione per aiuto, ad ogni cagione di letizia per rendimento di grazie. Egli è incredibile quanto quest' esercizio gioverà a perfezionare nella mente del bambino l' idea di Dio, a far nascere la religione nel suo cuore, a rinforzarlo in tutte le sue disposizioni ed abitudini virtuose. Finalmente non si trascurino di procacciare al bambino quelle grazie, di cui abbiamo parlato alla prima età. Tutte le operazioni proprie degli ordini precedenti continuano a ripetersi, a complicarsi, a produrre dei nuovi concetti nell' intendimento, delle nuove affezioni nella volontà. Ci basta di averne avvertito il lettore: avvertenza che deve valere anco per gli ordini successivi; conciossiacchè in tutta la vita dell' uomo avviene che in qualsivoglia età continua ad operare tutta l' efficienza degli ordini d' intellezioni precedenti. Passando adunque noi senza più al quart' ordine, quali sono esse le intellezioni di quest' ordine? Troppo lungo sarebbe il farne una classificazione distintamente ragguagliata: noi però abbiamo indicata la via da tenersi, quando far si volesse, là dove abbiamo classificate distintamente le intellezioni del terz' ordine. All' uopo nostro basterà dunque che facciamo osservare, che tutte le intellezioni di quest' ordine si possono ridurre a due ampie classi. I Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine tra loro. II Classe. Quelle che hanno per oggetto i rapporti delle intellezioni di terz' ordine colle intellezioni degli ordini precedenti. Ognuno intende da ciò che è detto, quale immensa classificazione simile a un labirinto ne uscirebbe dove si volessero suddividere queste due gran classi (1). E pure il quart' ordine delle riflessioni non è ancora nulla verso a quegli ordini tanto più elevati, a' quali perviene la mente degli uomini adulti e assai più ancora de' sapienti. Come l' operazione propria della mente, quand' è già in possesso delle intellezioni di second' ordine, si è la sintesi ; così l' operazione propria della mente stessa giunta a possedere le intellezioni di terz' ordine si è l' analisi giusta la legge da noi stabilita che « di tutti gli ordini dispari delle intellezioni è propria operazione il giudizio sintetico , e di tutti gli ordini pari è propria operazione il giudizio analitico ». Non sarà inutile che noi cominciamo dal vedere la differenza che passa tra i giudizi analitici al secondo ordine e i giudizi analitici al quart' ordine. I giudizi analitici al second' ordine sono delle pure astrazioni ; ma i giudizi analitici al quart' ordine sono delle scomposizioni elementari . La differenza tra queste due maniere di giudizi analitici è immensa: ecco dove consista. Nell' astrazione la mente non fa se non fermare la sua attenzione sopra una parte della sua concezione e trascurare tutto il rimanente. Così avendo io ricevute delle percezioni di corpi, io posso fermare la mia astrazione al colore, e così far di questo un essere astratto. Nella scomposizione elementare all' incontro la mente prende colla sua attenzione tutto intiero l' oggetto da lei concepito, e lo divide in parti. Così dopo d' aver giudicato che il tale oggetto è « un corpo colorato »io posso dividere in quest' oggetto la sostanza dall' accidente, e dire « quest' oggetto si compone di due parti, cioè della sostanza e dell' accidente, del colore ». Nell' astrazione recata ad esempio io ho pensato al colore e nulla più; quando ho giudicato che un dato oggetto sia un corpo colorito (sintesi al terzo grado), ho dovuto pensare ad un tempo il colore astratto e l' oggetto sussistente nel quale io lo ponevo. Se io ora dico che quest' oggetto ha due parti, io pongo medesimamente la mia attenzione tanto sulla sostanza quanto sull' accidente e di più ne riconosco la loro relazione . Lo studio poi di questa relazione diviene nel mio intendimento fonte inesausta di cognizioni, che mi si accrescono in appresso per tutta la vita. Fino a tanto che io percepisco degli enti individualmente sussistenti (primo ordine) non potevo fare alcun confronto fra loro e nol potevo pure, quand' io astraevo da essi le loro qualità (second' ordine): perocchè io mi fermavo a queste, astratte e divise dagli enti, e gli enti stessi in una tale operazione mi sfuggivano: riunendo agli enti le qualità astratte (terz' ordine) io riponevo gli enti interi sotto la mia propria attenzione. Solo pervenuto a questo grado il lavoro della mia mente, io avendo presenti e le qualità astratte e gli enti stessi sono in caso di confrontare le une cogli altri e conoscere col PARAGONE la scambievole loro natura. La fecondissima operazione del PARAGONARE le cose (operazione che dà alla mente un lume sfolgorantissimo) non può cominciare che al quart' ordine d' intellezioni (1). Il paragone non si può eseguire se non a questo tempo, anche perchè solo al terz' ordine l' uomo conosce la dualità. Nè solo mediante il paragone , al quart' ordine si distingue la sostanza e l' accidente , l' ente ed il modo dell' essere nella cosa stessa; ma si comincia altresì ad analizzare anche il grado, onde l' ente partecipa del predicato che noi gli attribuiamo; onde possiamo distinguere la gradazione nella quale due corpi, a ragion d' esempio, partecipano del color rosso o di altra qualità ossia predicabile (1). Si comincia adunque in questa età ad analizzare non solo l' ente; ma i modi, i predicabili stessi dell' ente. Come nell' ordine antecedente delle intellezioni continuò l' operazione dell' analisi, così egli è evidente che nell' ordine presente vi ha luogo alla sintesi: giacchè questa trova la materia preparata da quella. Uno dei prodotti dell' analisi del terz' ordine si fu quello dei concetti astratti delle azioni: le azioni dopo essersi astratte si applicano, si predicano degli enti e così si formano dei giudizi sintetici. Una somigliante sintesi si forma tanto rispetto agli oggetti reali, come se io al solo vedere il fuoco gli attribuisco l' azione del riscaldare; come rispetto agli oggetti meramente ideali, come se io imaginassi un ente qualsiasi e gli applicassi la proprietà riscaldatrice. Questo prova che la specie di sintesi, che nasce in questa età, estende immensamente il potere dell' imaginazione intellettiva (ideazione) rendendo possibile allo spirito l' attribuire a degli enti creatisi con essa delle attività che o non sono comprese nel loro concetto o se sono, sono però anco distinte da essi nella loro mentale esistenza. Questa osservazione è importante; perocchè spiega lo slancio che suol prendere l' imaginazione del fanciullo quand' egli giunge ai tre anni. A questa età par che incominci la mente a concepire qualche raziocinio ipotetico o almeno la proposizione maggiore di esso. Già nell' età precedente il fanciullo conobbe il numero due. Sembra dunque che di due cose egli potrebbe a questa età ravvisare la relazione che viene espressa nella maggiore del sillogismo ipotetico; cioè l' esser una d' esse condizione dell' altra. Tanto più, che nel sentimento le due cose stanno già legate e condizionate attesa la forza unitiva del soggetto. Laonde la mente non ha che ad analizzare, per così dire, il proprio sentimento per conoscere il condizionante ed il condizionato (1), analisi però che prima del quart' ordine sicuramente non può eseguirsi. Imperocchè deve la mente: 1 percepire il sentimento; 2 disgiungere le due cose legate tra loro (terz' ordine); 3 osservare che data l' una vi è l' altra, tolta l' una l' altra pure è tolta; dopo di tutto ciò solamente ella può dire: « se la tal cosa è (od avviene o si fa) è pure l' altra ecc. »che è la maggiore del sillogismo ipotetico. Il sillogismo ipotetico dilata immensamente l' attività volontaria; perocchè solamente quando nella mente cominciano a formarsi le ipotesi, possono aver luogo le volizioni condizionate, distinte dalle assolute; come pure le velleità d' ogni genere; avanti questo tempo non ha il fanciullo velleità; egli vuole semplicemente e però fortemente. Che se la condizione posta alle volizioni diminuisce la forza di queste, il che è perdita di energia, vi ha però un compenso in questo che le rende più regolate, dirette da maggior lume di ragione; cominciano a legarsi insieme, a subordinarsi; indicibile profitto per lo sviluppo della moralità. Nell' età precedente si giunse a conoscere il numero due. Era necessario conoscere uno e due oggetti prima di poterli paragonare insieme e trovarne le differenze . Ora, come il paragone è operazione che comincia all' età del quart' ordine, così pure in questa età solamente si può avere il prodotto mentale delle differenze delle cose. Ciò che abbiamo detto addietro basterebbe solo a mostrare che ella è cosa assai più facile il conoscere le somiglianze di quello che sia conoscere le differenze delle cose. Ma chi ha seguito il progresso dello sviluppo intellettivo nel bambino, da noi descritto fin qui, e l' analisi delle operazioni della sua mente e de' prodotti di questa, si sarà convinto ancor più colle sue proprie riflessioni di questa verità importante e contraria al comun pregiudizio de' filosofi, che suppongono trovarsi le simiglianze e le differenze coll' operazione stessa. Questo pregiudizio nasce dal non considerare che ciò che è simile in più oggetti si può appercepire e notare dalla mente in due modi, o come una qualità semplice (più generalmente un predicabile ), o come una qualità che noi sappiamo trovarsi in più oggetti e renderli simili (1). Ora, a conoscere il simile in questo secondo modo, certo che egli è necessaria l' operazione stessa che si usa a conoscere il differente ; ma tutt' altro avviene se trattasi di conoscere il simile nel primo modo. Questo primo modo è semplicissimo, ed appartiene al secondo ordine d' intellezioni, perocchè non consiste in altro se non in collocare la nostra attenzione intellettiva in una qualità di una o più cose, trascurando di attendere a tutte le altre parti delle medesime, e lo stesso loro numero; perocchè in questa operazione non si fa se non ripetere la stessa attenzione alla qualità identica in ciascuno degli oggetti che passano sotto l' occhio, senza tener menomamente conto del loro numero e senza paragonarli. All' incontro la differenza non si può scuoprire in nessun modo, se non si mettono a paragone e non si noti in che cosa entrambi divariano. Il numero tre è il proprio di quest' ordine, giacchè la mente del fanciullo nell' ordine precedente è pervenuta a conoscere distintamente il due. Come poi ella è giunta a conoscere il due coll' aggiungere l' uno all' uno; operazione che ella può poi ripetere, e la conduce alla numerazione, senza tuttavia farle conoscere i numeri maggiori distintamente, ma solo in confuso; così or può giungere alla cognizione del tre, sia coll' aggiungere l' uno al due, o coll' aggiungere il due all' uno, operazione anco questa seconda, che imparatala a far dal fanciullo, gli diventa presto una formola generale salendo nella scala de' numeri col ripetere l' aggiunta del due: onde conosce i numeri mediante una relazione di più. Cresce la cognizione delle collezioni delle cose di pari colla scienza de' numeri. Il nostro bambino potrà avere oggimai un' idea distinta delle collezioni composte di due e di quelle composte di tre oggetti; ma di quelle composte di un maggior numero non avrà che un' idea confusa. Discernerà bensì i molti ed i pochi , giacchè avendo l' idea confusa di collezioni numerose, e l' idea chiara del paio e del ternario, potrà conoscere facilmente che vi hanno delle collezioni superiori alle collezioni da lui chiaramente conosciute. Prima di questo tempo non poteva il fanciullo aver il concetto del mezzo , ma ora può averlo appunto perchè oggimai può conoscere due cose, l' una delle quali condizionata all' altra. Egli diviene anco questo incremento grandissimo alla sua attività, la quale non solo istintivamente come faceva prima, ma anco per calcolo intellettivo, potrà di qui in avanti subordinare un mezzo all' ottenimento di un fine. Egli non saprebbe tuttavia sottordinare l' uno all' altro una serie di mezzi: a far ciò egli dee fare delle riflessioni appartenenti ad un ordine superiore. I filosofi non hanno mai esaminata accuratamente la questione, per quanto io sappia, dell' età in cui l' uomo percepisca se stesso. Essi hanno comunemente ritenuto per cosa chiara e non bisognevole di dimostrazione, che l' uomo percepisca se stesso fino da' primi istanti di sua esistenza, e che non potrebbe percepir le cose senza aver prima percepito se stesso. Ma queste supposizioni gratuite non reggono all' osservazione esatta del fatto importante di cui si tratta. Il fatto anzi dimostra che l' uomo percepisce e intende molte altre cose prima di percepire ed intendere se stesso, e che egli non conosce il vero valore del monosillabo IO prima di essere giunto al quarto o al quint' ordine d' intellezioni. Di più l' osservazione dà un altro risultato, e questo si è che la conoscenza che l' uomo si forma dell' IO varia nelle diverse età di grado e di forma; e che questa parola IO perciò (come tante altre) pronunciata dall' uomo ad una età ha un significato diverso da quello che riceve pronunciata dall' uomo in un' altra età (1). Egli è necessario che qui noi ne diciamo alcuna cosa. A tal fine non possiamo a meno di ripigliare brevemente l' analisi dell' IO, sebbene da noi data altrove (2). L' IO esprime l' ente umano che parla (3) e che nomina se stesso come esistente, come operante. Ora, l' ente umano è primieramente composto di due principŒ: 1 il principio animale; 2 il principio spirituale. Questi due principŒ sono però connessi in modo che il primo è legato al secondo, e il secondo esercita la sua forza e il suo imperio sopra il primo, di maniera che tutti e due si riducono ad un principio solo supremo, che è il principio intelligente; ma tale che ha virtù anco sopra il principio animale a lui congiunto. Questo principio supremo colle parti inferiori a lui congiunte è l' uomo , ma non è ancora l' IO. I due principŒ indicati sono due sentimenti, e perciò l' uomo non manca mai di sentimento: egli stesso è un sentimento intellettivo7volitivo che dispone di un altro sentimento sensitivo7istintivo. Ma questo sentimento7uomo non è l' IO, perocchè l' IO non è un sentimento, è una coscienza. Or, come dunque e quando si forma l' uomo quella coscienza di sè stesso che egli poi esprime col monosillabo IO? Esporrò prima una ragione assai plausibile, la quale potrebbe far credere l' uomo si dovesse far tosto quella coscienza, anzi non potesse andarne senza. Da prima egli è certo, come ho provato nella « Ideologia », che in lui si manifesta l' essere ideale. Quando dico che si manifesta in lui l' essere ideale, allora dico che l' essere ideale si manifesta in un sentimento sostanziale, il quale sentimento è egli. Sono dunque uniti il sentimento sostanziale e l' essere che risplende in quello. Ciò posto, egli parrebbe che questa unione bastasse a fare sì che il soggetto percepisca se stesso; se pure è vero ciò che altrove affermai, che « « il sentimento è come la scena sulla quale gli oggetti ci compariscono e ci si rendono visibili » » (1). Non cancello quest' ultima sentenza. Egli è certo che niente può essere da noi intellettivamente percepito, se non ciò che opera nel nostro sentimento sostanziale. Laonde accordo che il sentimento stesso essendo ciò in cui si veggono le cose che si veggono dall' intendimento, egli stesso può essere veduto senza bisogno che un altro sentimento ce lo presenti. Ma primieramente si deve distinguere nel sentimento sostanziale l' atto con cui questo sentimento vede l' essere dagli altri atti di lui. Ora l' atto con cui vede l' essere, non può mai essere quello con cui vede se stesso; ed anzi egli è un atto che esclude la visione di se stesso. In quanto adunque il sentimento direttamente si porta nell' essere, egli è incognito a se stesso. Ora qui si noti bene: l' uomo, e soprattutto l' IO, è essenzialmente quel principio che vede l' essere; è il sentimento sostanziale intelligente. Escluso da sè questo sentimento, l' uomo più non esiste; l' uomo non ha la coscienza di se stesso fino che non ha la coscienza di essere intelligente. Acciocchè dunque arrivi a formarsi una tale coscienza, conviene che il sentimento sostanziale non vegga semplicemente l' essere, ma vegga se stesso veggente l' essere (1). Ora, a tal fatto non basta che egli sia presente sulla scena dove si veggon le cose; ma conviene di più, che con un atto nuovo che cava da sè, egli applichi l' essere che vede a se stesso veggente l' essere, e che mediante questa applicazione dell' essere, illumini e vegga se stesso nell' essere. Convien dunque che cavi da sè un atto nuovo, non datogli dalla natura, ma mosso dalla sua spontaneità suscitata da qualche bisogno o stimolo: ecco la grand' opera che a far gli rimane se vuol percepire se stesso. Se dunque tutto ciò che cade nel suo sentimento è in luogo da poter essere da lui veduto, e il sentimento stesso veggente l' essere (se stesso) gode di questo vantaggio; si dee però aggiungere, che questa visione o percezione non può essere effettuata, se non a condizione d' un atto nuovo uscente dall' intimo del soggetto, che è un atto della forza dell' attenzione, la quale si concentra e ripiega sopra l' oggetto che vuol vedere, pel quale ripiegamento lo spirito (il sentimento sostanziale) guarda se stesso veggente l' essere, unitamente all' essere veduto e in questo contenuto quasi come in suo genere. Ora, quest' atto del conoscimento di sè, così implicato, sarà egli più facile degli atti co' quali lo spirito conosce le altre cose? Il sentimento7uomo opera conoscendo; e conosce prima le cose di cui abbisogna; ora egli non abbisogna punto di conoscere se stesso per operare, abbisogna di conoscere altre cose le quali egli non ha, e vuole avere ed operare per averle, e per operare conoscerle; se stesso non cerca, perchè si ha, ma cerca quelle cose le quali completino se stesso, sovvengano a ciò che gli manca, alle sue deficienze e limitazioni; l' uomo è un essere incompleto; se bastasse a se stesso, nulla cercherebbe, non ci sarebbe in lui attività di moto, ma solo attività di stato. Le sue stesse sensazioni piacevoli e dolorose non le concepisce se non annesse agli oggetti esterni, e in questi le suppone esistenti. L' uomo adunque non può essere richiamato a ritorcere la sua attenzione a se stesso che dal linguaggio. Ma il linguaggio stesso non viene appreso dal bambino tutto ad un tratto; egli deve passare per più ordini d' intellezioni prima di capire tutte le parti del discorso. Vedemmo già che al second' ordine d' intellezioni egli non apprende che i nomi sostantivi, e per meglio dire sostantivati; e che solo nel terz' ordine egli giunge a formarsi l' idea astratta delle azioni delle cose. Solo adunque al terz' ordine egli può nominare le proprie azioni; ma queste nulla più che oggettivamente, come le azioni di tutte le altre cose. Egli ha bensì il sentimento delle proprie azioni che è una cotale estensione del suo sentimento sostanziale, ma nulla più. Le azioni sue sono esterne, cadono sotto i suoi sensi, come le azioni degli altri; se stesso all' incontro è interiore, è un principio invisibile che produce quelle. Egli conosce adunque le proprie azioni prima di sapere che sono sue proprie, prima di riferirle a se stesso col suo intendimento; perocchè se stesso nel suo intendimento ancora non esiste. Giunge bensì nella terza età ad attribuire le azioni ad un ente, ma non ad osservare fra gli enti quello che è egli stesso. Nel quart' ordine d' intellezioni, e non prima certamente, ma forse di poi, egli può percepire se stesso come principio operante, mediante il linguaggio; egli cioè può ritrarre la propria attenzione dal di fuori sul proprio sentimento operante, accorgendosi per tal modo che certe azioni hanno per causa quel sentimento che lo costituisce, a differenza di certe altre che non sono da quel sentimento prodotte. La prima adunque ed elementare cognizione di se stesso che abbia l' uomo, consiste nella percezione di « SE operante »(1), intendendo la parola SE pel sentimento sostanziale, che forma l' uomo dallo stesso uomo percepito. Questo sentimento operante può essere benissimo espresso colla voce IO; ma questa voce non avrebbe ancora tutto il significato che le compete, e che le viene poscia dagli uomini sviluppati attribuito. L' IO non si pronuncia mai solo, ma con qualche verbo espresso o sott' inteso (2), il che è manifesta prova della legittimità del modo onde ne abbiamo spiegato l' origine. E` dunque questo primo IO « il sentimento sostanziale operante che percepisce se stesso e che si esprime ». Ma con una riflessione maggiore, che l' uomo poi faccia sopra se stesso, egli viene a conoscere l' identità di sè parlante e di sè parlato; ed allora l' IO riceve una significazione più completa, venendo a significare « il soggetto umano operante (il sentimento sostanziale operante) che percepisce se stesso come operante, che come tale si esprime, e che sa che egli, che parla, è identico a lui parlato ». Questo significato del monosillabo IO non può essere attribuito se non dall' uomo giunto almeno al quint' ordine d' intellezioni. Tanti e così difficili elementi racchiusi in questo monosillabo spiegano il perchè tardi e con difficoltà egli s' intenda. [...OMISSIS...] Ho già detto che ne' popoli antichi si trova una gradazione d' intelligenza simile a quella che si osserva ne' bambini e che le lingue antiche ne conservano le vestigia. Anche qui non manca la traccia dell' infanzia delle nazioni, se si osserva che quanto le lingue sono più antiche, tanto meno gli uomini introdotti a parlare usano del pronome personale IO, come pure del TU. Questa è la ragione per la quale le lingue orientali amano di far parlare i personaggi in terza persona anzichè nella prima (1). Che se noi rivolgiamo l' attenzione a' bambini, potremo facilmente notare la difficoltà che essi provano a rettamente usare i pronomi personali io e tu . In vece delle mie proprie osservazioni, io assai volentieri accolgo le altrui quando sono dalle mie confermate, perocchè adducendo io l' altrui testimonio, niun potrà dire che io piego l' osservazione al servigio del mio sistema. Una donna adunque, la quale non aveva certamente in mira di venirmi in aiuto, quando osservava e quando scriveva, una donna di cui riferisco sempre volentieri le osservazioni, perchè solitamente vere e sagaci, scrive tutt' al mio uopo così: [...OMISSIS...] . A questa sola età può cominciare a formarsi nella mente del fanciullo il concetto del tempo. Questo concetto incomincia a formarsi non già col raffrontare le tre parti del tempo, il presente, il passato e il futuro; ma solo col raffrontarne due, il presente col passato, ovvero il presente col futuro. A tanto può arrivare il fanciullo al quart' ordine delle sue intellezioni. Al terz' ordine egli ha un' idea accurata del numero due, al quarto può paragonare le due cose distinte e vederne le differenze. Distinguere il tempo presente dal tempo passato, ovvero distinguere il tempo presente dal tempo futuro, questa può essere operazione appartenente al quart' ordine: distinguere tutti e tre i tempi raffrontandoli tra loro prima del quint' ordine è assolutamente impossibile. Di più si noti, che non parliamo già del tempo interamente astratto dagli avvenimenti, ma del tempo considerato come una qualità, un predicabile di questi. Che un avvenimento cessi d' esistere quando un altro incomincia, o che un avvenimento ad un altro succeda, questo rimane nella ritentiva del bambino come un fatto anche solo per la forza unitiva dell' animalità. Di poi gli avvenimenti s' incatenano mediante associazione d' idee. Questo non è ancora il concetto del tempo negli avvenimenti. Egli è uopo che il bambino noti un avvenimento che fu ieri, e lo distingua con quello che accade oggi, mettendolo con questo in paragone; ovvero distingua quel d' oggi da quello che sarà domani; acciocchè si possa dire che egli s' è formato il concetto del tempo presente e del passato, o del presente e del futuro. Ora primieramente questo tempo è un predicabile degli avvenimenti che non cade sotto i sensi, è una limitazione dell' esistenza sopra sensibile delle cose. Egli è dunque necessario alla mente il linguaggio, acciocchè ella possa fermarvisi e ritenerla. Oltrecciò la forza dell' attenzione nel bambino è ancor poco sviluppata, e quel poco d' effettività che ha messo fuori vien tutta assorbita dagli oggetti presenti, nuovi per essa e però interessanti; sicchè non ne rimane guari per ciò che è passato e per ciò che ha da venire. Indi è che l' osservazione mostra che assai tardi i fanciulli distinguono bene i tempi. [...OMISSIS...] Un' altra prova della difficoltà che trova il fanciullo in notar bene i tempi vedesi manifestamente nella gradazione con cui apprende il linguaggio, specchio del suo concepire. Egli per molto tempo adopera il verbo all' infinito , e ben tardi esprime con esso i diversi tempi. Lo stesso si trova in alcune lingue di popoli assai addietro nella coltura intellettiva. Anche nelle lingue antichissime il verbo ha pochi tempi (2), e questi non ben determinati, ma di un uso incerto. Tutte le idee già moltiplicatesi nel fanciullo diventano ben presto principŒ secondo i quali egli giudica ed opera come abbiamo veduto. Solamente che un' idea, acciocchè acquisti forma e valor di principio, dee rimanersi qualche tempo nella mente umana, e il ridurla all' applicazione è affatto appartenente a un ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel dell' idea. Laonde nel quart' ordine d' intellezioni si cangiano in principŒ le idee avute al terz' ordine. Ora vedemmo che fra le idee del terz' ordine vi hanno quelle che appartengono alle azioni. I principŒ di più rilevanza adunque, che il bambino acquista al quart' ordine delle sue intellezioni, consistono in quelli che egli si trae dalle idee delle azioni. Quando egli ha conosciuto le azioni delle cose, e veduto replicarsi molte volte sempre le stesse, allora comincia già a concepire qual sia il modo costante del loro operare, ed è in istato di prevedere che cosa un dato oggetto a lui presente opererà, quali forze egli spiegherà, quali effetti si produrranno da quella cagione. Per tal modo egli vien ponendo un confine alla potenza de' diversi oggetti che conosce, e non aspetta più da essi se non certe determinate operazioni, e dove quegli oggetti gliene producano d' insolite, egli se ne maraviglia come di cosa straniera alla sua credenza ed alla sua aspettazione. Prima che il fanciullo unisca a certe cose certe azioni, la sua credulità è senza limiti: niente a lui sembra impossibile. Quando il fanciullo vede che sua madre parla, come fosse informata di ciò che egli ha fatto lontano dagli occhi suoi, o quando la sua bona gli dice che il dito mignolo la ebbe informata di qualche sua scappatella, perchè non se ne maraviglia egli? Perchè non ha ancora fissato bene la limitazione de' corpi di essere in un luogo solo, nè la limitazione de' sensi di non poter sentire a certa distanza, nè la limitazione dell' operare del dito mignolo di non poter nè sapere ne comunicare altrui le cose. A me stesso sono rimaste più memorie della mia infanzia che provano quanto lentamente i fanciulli mettano de' limiti all' operare delle cose. Mio zio Ambrogio, che ha preso tanta cura della mia infanzia, era di persona assai grande, ed io ancor bambino riputava che niente potesse resistere alle sue forze. [...OMISSIS...] E` dunque l' esperienza quella, che nella mente del fanciullo va ponendo i limiti all' operare delle cose, e prima che il fanciullo trovi questi limiti nella sperienza, egli non li pone loro da sè, ma crede tutto possibile, la sua credulità è illimitata. Nell' aderire alle parole altrui, molto fa la benevolenza verso di chi gli parla, come abbiamo veduto, ma non potrebbe mai la benevolenza muovere il suo intendimento a dar fede a ciò che egli credesse assurdo. Egli non crede dunque assurdo che gli oggetti abbiano certe virtù e facoltà che noi adulti sappiamo che non hanno, fino a tanto che anch' egli non abbia trovato nel fatto medesimo la non esistenza di quelle attribuzioni. Tutto ciò è degno di essere meditato, potendosene trarre di grandi conseguenze a conferma delle dottrine ideologiche e antropologiche. E veramente due cose rimangono a spiegare nella credulità che nel bambino precede l' esperienza: 1 perchè creda egli tutto possibile; 2 come o perchè l' esperienza venga limitandogli questa possibilità. Niuna teoria ideologica può rispondere adequatamente alla prima di queste due domande, eccetto quella che pone l' essere ideale indeterminato innato nell' uomo; il quale essere contiene e mostra in sè la possibilità universale. Sino a tanto dunque che il bambino non ha altra regola de' suoi giudizŒ, se non quella che porta innata della mera e nuda possibilità, egli giudicherà tutto possibile, crederà tutto, eccetto solo quello che egli credesse intrinsecamente ossia metafisicamente impossibile, a cui nè pure il fanciullo dà mai l' assenso. Senza di ciò niente egli potrebbe giudicar possibile, nè giudicherebbe. Anche questo fatto adunque, cogl' innumerevoli altri che ho qua e là riferito, viene a confermare la teoria filosofica da me proposta, e sarebbe tempo che, per onor d' Italia, non si vedesse più quindi innanzi stampato e ristampato presso di noi, che quella teoria non è sorretta da prove d' esperienza, e si sostien solo mediante un argomento per esclusione, dove riman dubbioso se non sieno forse bene enumerate tutte le parti (1). Per rispondere alla seconda questione, converrebbe rammentare ciò che ho detto altrove sull' origine e sulla forza del principio d' analogia (2). Quando l' uomo vede seguire costantemente per lungo tempo un dato effetto, egli si forma la persuasione che sarà sempre così, e però se l' avvenimento è periodico, come il levarsi del sole, predice al venir dell' epoca, che quell' avvenimento avrà luogo. La ragione di ciò si è che la mente concepisce la causa dell' avvenimento, concepisce che l' avvenimento non può star solo, che egli deve essere l' effetto in ultimo di qualche sostanza o di più sostanze, e ha l' intima nozione della stabilità delle sostanze. Vedendo il costante ordine della natura, non dubita di giudicarlo perenne, facendo interamente senza accorgersi quest' argomento: « ciò che avviene in quest' universo è l' effetto di qualche cosa di costante; dunque continuerà ad avvenire ». Qualche cosa di simile vien facendo l' uomo, cominciando nell' età infantile e seguitando lungamente durante tutto il suo sviluppo, nel comporsi « i principŒ, le opinioni e credenze sull' operare delle cose ». Veggendo avvenir gli effetti allo stesso modo sempre, certi eventi manifestarsi sempre dati certi oggetti, certi altri non manifestarsi; egli lega le azioni agli oggetti, agli enti, e finisce col formarsi certe persuasioni le quali, formolate, direbbero: « questo ente ha la virtù di portare questi effetti e non altri »; « la potenza di quest' ente si stende solo fin qui, ha questi limiti, quest' indole, questa forma, queste leggi, ecc. ». Ogni qual volta l' uomo si è formato uno o l' altro di questi principŒ, egli ha ristretto con ciò la sfera della sua credulità; perocchè ove altri gli raccontasse cosa che contradice a que' principŒ formatisi intorno all' operare degli esseri, egli la prenderà per impossibile e non la crederà. Così se io dirò che un ragno camminava nell' aria senza attenersi ad alcun filo, non me lo crederà colui che si fosse fabbricato in mente il principio « che un animale privo dell' ale non ha la potenza di spaziare libero nell' aria » (1). E qui chi non vede il filo per condurre una storia, che riuscirebbe importantissima, della credulità ed incredulità umana? Questa storia ha gli stessi periodi negl' individui e nell' umanità intera. Il bambino comincia dal creder tutto ciò che non è agli occhi suoi contradicente (perocchè nè pure il bambino unisce mai il sì col no , ma ne sente la ripugnanza): e poi si forma delle opinioni che limitano il potere delle cose che percepisce. Queste opinioni per certe cagioni segrete, che non abbiam qui tempo di rilevare, restano incompiute; è lavoro ancora sul telaio, per così dire: nella mente non vi ha ancora niente di ben conchiuso, di ben fermato. Ma si conchiudono, si fermano poi gradatamente, e la fermezza e saldatura di tali opinioni nasce allor quando non solo si conosce che un dato ente « ha una determinata potenza e un determinato modo di operare », ma di più si conchiude che « esso non ha niun altro modo di operare, niun altro grado di potenza, eccetto quello che si è a noi costantemente manifestato ». Questa parte negativa delle opinioni sull' operare degli enti è quella che chiude e ferma l' opinione. Perocchè, fino a tanto che io credo bensì di aver rilevato, che un dato ente va fornito di una data potenza e di un dato modo d' operare, ma non vi aggiungo il giudizio, che esso non ha alcun' altra potenza, alcun altro modo, resta sempre la mia mente disposta ad accettare qualche nuova scoperta intorno quell' ente, e rallargare la potenza che l' opinione formatami intorno a lui gli attribuisce, e perciò a modificare e ad amplificare la mia opinione stessa. Ma quando la mia opinione è già chiusa, quando sono venuto in una persuasione assoluta e non provvisoria (1) che « un dato ente, cioè una data specie di enti non abbia altra maniera e grado di potenza », allora non presterò più fede a chi mi raccontasse un avvenimento, il quale supponesse in quell' ente una maniera diversa di operare, un grado di potenza maggiore. Ma se io stesso, co' miei proprŒ sensi, verificassi il fatto, e non avessi alcun effugio col quale il potessi o negare o spiegare altramente, in tal caso infrangerei la mia opinione, e me ne creerei un' altra tutta nuova circa l' efficienza di quest' oggetto. Ora tre cose si rappresentan qui curiose ed utilissime ad investigarsi: 1 che cosa determini l' epoca nella quale avviene che l' uomo chiuda le sue opinioni sull' efficienza delle cose; 2 quale sia il grado di fermezza onde quelle opinioni si suggellano e chiudono; 3 come e quando questo lavoro proceda con ragione, quando poi irragionevolmente. In quanto al primo quesito, egli è certo che nè i singoli individui, nè i singoli popoli vanno innanzi collo stesso passo; e però le operazioni proprie della natura umana, come son quelle di cui parliamo, sebbene si facciano in tutti gl' individui umani egualmente, tuttavia non si fanno tutte agli stessi tempi; e il medesimo si dica dello sviluppamento de' popoli. Il determinare poi tutte le circostanze e cagioni per le quali in un individuo (lo stesso dicasi di un popolo) cada in un certo tempo e proprio in quest' anno, in questo giorno, in questo istante, ella è cosa impossibile; giacchè infinite sono le circostanze minutissime che influiscono nell' umana mente. Tuttavia difficile ma bella ricerca sarebbe sottomettere tali avvenimenti a certe leggi determinate, alle quali per fermo ubbidiscono; cosa però che trascenderebbe i confini di quest' opera. Quanto alla seconda questione, cioè al grado di forza onde l' opinione intorno all' impotenza delle cose si suggella e si chiude, questa è più o meno forte alle diverse età ed ai diversi individui. Diremo in generale che quanto un uomo cresce in età, tanto più quella sua opinione si rinforza, e dura più fatica a risolversi di romperla per formarsene una nuova. Onde è difficile che i vecchi prendano opinioni nuove non che in filosofia razionale, ma nè pure in fisica; massime se sono chiusi in piccola società, e variino poco le cose che li circondano, e il tenore di lor vita sia uniforme. Questo fatto come pure tanti altri dipendono dalla legge generale, « che quanto più lungamente e frequentemente l' uomo osserva le medesime operazioni de' medesimi enti e non mai altre, tanto più si persuade che il potere di quegli enti sia limitato a quelle, e non possano di più, nè in altro modo ». Di che si può spiegare quello che l' esperienza dimostra che « l' uomo comincia la sua vita con una universale credulità, la quale va grado grado diminuendosi sempre più cogli anni, e dando luogo negli animi anzi ad un principio d' incredulità, che tante volte diviene nelle età più mature dominante » (1). Toccando ora della terza questione, cioè della ragionevolezza ed irragionevolezza della credulità e dell' incredulità dell' uomo, si può dire in generale: 1 Che la credulità del bambino è sempre ragionevole, perocchè il bambino non ha veruna ragione di discredere, ed ella in lui non è altro se non l' affermazione della possibilità assoluta, unica possibilità ancor da lui conosciuta. Ora anche quello che è fisicamente impossibile, non è impossibile metafisicamente, ed affermando questa maniera di possibilità assoluta, il bambino dice la verità. Se dunque altri gli afferma di poter volare, egli crede di non essere ingannato; perchè vede la cosa possibile, e non è ancora in caso di misurare le facoltà reali di chi a lui parla; onde non gli rimane che di crederle sulla sua parola. 2 Che l' incredulità, che spontaneamente nasce nell' adulto il quale non sia bistorto dalle passioni, è pure ragionevole, perocchè ella non afferma l' impossibilità assoluta, ma unicamente l' impossibilità fisica, ed anche questa con consenso provvisorio . Così, quando l' uomo non crede che un bue spazŒ per l' aria come un' aquila, egli non intende negare la possibilità assoluta della cosa, ma afferma che la facoltà del bue conosciuta da lui con replicate esperienze non è tale e tanta che possa vincere il suo peso. 3 Comincia l' irragionevolezza e l' errore ogni qual volta l' uomo viene seco stesso ad affermare che ciò che è fisicamente impossibile, sia impossibile per assoluto, passaggio che succede per una esagerazione colpevole e interessata. E in quest' errore non al popolo, ma ai soli scienziati è riserbato di stramazzare; buon avviso che dà loro la natura, se ascoltar lo volessero, per non ingalluzzire di soverchio e poco stimar gli altri uomini, a cui resta in retaggio non la scienza sistematica, ma il buon senso. 4 Un altro errore avviene quando il giudizio dell' uomo sull' impossibilità fisica è definitivo e non provvisorio. Anche questa è esagerazione, è un arbitrio che fa l' uomo passionato o cocciuto. E veramente l' esperienza esteriore molte volte non è completa, e rimangono occulte nelle cose delle facoltà e delle forze che non si presentano se non per caso e rompono i nostri giudizŒ, i quali s' ingannano mettendo certi limiti assoluti alla natura. Noi abbiamo veduto che la benevolenza inchina il cuore del bambino alla credulità. Simigliantemente la malevolenza piega l' adulto all' incredulità. Ma come quella non sarebbe possibile, se la possibilità non avesse un fondamento nell' intelletto del bambino; così non potrebbe l' uomo dalla sua malevolenza e durezza di cuore esser reso a credere e ad assentire al vero più tardo del giusto; se questa sua tardezza a credere non trovasse un cotal fondamento vero o supposto nell' intelletto: e questo fondamento è « l' impossibilità fisica dedotta dall' esperienza », la quale si cangia dall' arbitrio umano ora in impossibilità assoluta, ora in impossibilità fisica bensì ma non meramente probabile e provvisoria, ma certa e definitiva; onde ricusa ogni ulteriore esperimento, e chiude la finestra alla luce che vorrebbe istruirlo meglio ed illuminargli la mente. Ora egli è certo che la limitazione dell' operare che noi apponiamo alle cose non è del tutto certa sin a tanto che ella si fonda in una esperienza ed osservazione imperfetta, e non sorretta da altri principŒ di ragione. Abbiamo già detto che la legge d' analogia non induce certezza, ma solo probabilità (1): onde le conclusioni che si cavano da questa legge debbono poter essere sempre riformate, mediante nuove scoperte o nuovi ragionamenti: e se noi volessimo quelle conclusioni irreformabili, sconciamente c' inganneremo. Intanto, se noi osserviamo quello che avviene nella massa degli uomini, noi troviamo che questi ben per tempo si formano di queste conclusioni e principŒ; ma che crescendo la loro esperienza e la loro scienza, li rompono per formarsene di nuovi più ampŒ e più giusti, i quali s' avvicinano sempre più alla verità e in parte anco alla ragione. Questa vicenda di formarsi de' principŒ od opinioni chiuse o fermate sull' operare delle cose, e poi d' infrangerle per formarsene delle altre, si ripete più volte in una vita che progredisca continuamente avanti nello studio e nella scienza della natura. L' uomo, all' incontro, la coltura del quale sia stazionaria, non fa che indurare sempre più quelle opinioni o principŒ che si è formato da prima. Le opinioni già formate, quanto più sono indurite e quanto più sono ristrette, portano un' incredulità maggiore. Vi ha dunque un' incredulità che nasce dall' ignoranza, cioè da opinioni sull' operare degli enti troppo anguste e troppo ferme. Se io voglio persuadere ad un boscaiolo che il sole sta e la terra si move, che la terra ha la forma di palla rotonda abitata da tutti i lati ed altre simili verità naturali, egli crede buona pezza che io lo corbelli, e se io pur mi mostro seriamente di ciò persuaso, egli tuttavia scuote il capo e non mi dà retta. Egli dunque pena oltremodo a credere certe cose del tutto vere, che sono credute dai dotti: l' incredulità dunque del rozzo è sotto un aspetto maggiore assai che non sia quella dello scienziato. Comincia dunque l' uomo con una credulità universale circa le azioni degli enti, e giunge ben presto ad una specie d' incredulità , cioè tostochè egli ha potuto chiudere e saldare bene le sue prime opinioni sull' operare della natura. Ma queste prime opinioni col procedere della scienza vengono rettificate e rallargate, onde prende lo spirito umano un nuovo corso che dalla rozza incredulità lo spinge soavemente di nuovo verso la credulità primitiva data dalla natura al bambino, restituita in parte ad esso da una cognizione più ampia delle forze della natura. Allargandosi questa credulità colla scienza, può essere ella stessa portata fuori de' giusti confini, e si son veduti degli uomini che la passavano per sapienti, creder tutto possibile alla natura, esagerare le forze di questa, e quando niuna osservazione, niuna esperienza veniva loro in sostegno, anzi tutte le osservazioni e tutte le sperienze lor contrariando, dire tuttavia: « Chi può conoscere tutti i segreti naturali? Chi può provare che delle occulte virtù non esistano nel seno della natura, le quali produr possano fenomeni i più straordinarŒ, i quali non si sono mai veduti avvenire »? Questi sono pienamente ritornati colla lor scienza alla credulità universale dell' infanzia. Basti qui una parola, magnetismo animale , per convincere il lettore, che tutto fu creduto possibile da certi uomini alle forze segrete riposte nella materia o comechesia in quest' universo. Come poi v' ebber molti che credettero fermamente esser condotti da una scienza accumulata con lunghe vigilie a dover credere tutto possibile, niente impossibile alla natura; così degli altri, colla stessa presunzione di dottrina, puntarono i piedi e le ginocchia a mantenere impossibile al tutto quello che trapassava le opinioni che essi si erano formate sulla potenza degli enti. L' incredulità religiosa si giovò ora di quel primo errore, ora di questo secondo a sostenersi, come ella credeva. V' ebbero degl' increduli i quali negarono i miracoli, perchè non si può sapere, dissero, quanto si estendano le forze della natura, e però quelli che noi crediamo fatti miracolosi possono esser fatti naturali. V' ebbero ancora degl' increduli i quali negarono i miracoli per la ragione contraria, cioè perchè i fatti che noi crediamo miracolosi superano, dicono, le forze della natura da essi troppo ben conosciute, nè trovano altre possibilità fuori di queste. Giunge fin alla lepidezza l' indicibilmente presuntuosa ignoranza da capo a piedi broccata e rabescata di pedanteria grammaticale e filologica erudizione dei così detti biblici razionali della Germania, i quali escludono francamente dalla Bibbia ciò che essi dichiarano impossibile, misurandolo da quelle regole di possibilità che si sono formati a loro arbitrio (1). Fino a tanto che il bambino si dirige secondo gli impulsi della natura, egli è determinato dalla sua spontaneità; nè può nascere alcun combattimento morale nel suo spirito. Proverà talora il dolor fisico, combatterà, per così dire, colla natura delle cose, dovrà esercitare la scelta tra quelle cose piacevoli e dolorose o tra quelle che sono più o meno piacevoli, ma in tutto questo combattimento non entrano motivi morali: egli non crede di dover niente alla natura se non in ragione della sua bontà o bellezza: e la bontà o bellezza della natura è infatti la misura della sua benevolenza ed ammirazione: come la sua benevolenza e la sua ammirazione sono la misura e la regola delle sue azioni. Ma tostochè egli giunge a conoscere mediante il linguaggio la volontà di un altr' essere intelligente, della madre o d' altra femina che ha cura di lui, da prima egli s' inchina ed uniforma ad essa e sente di doverlo fare conoscendo che quell' essere intelligente è degno della sua benevolenza e lo merita più, quanto più gli presta egli il primo di amore e di servigi (1). Questo è ciò che nasce al terz' ordine d' intellezioni. Di poi avviene, che egli talora ritrovi la volontà conosciuta della persona amata (volontà che è divenuta per lui come una legge positiva) collidersi colle altre sue inclinazioni o colla soddisfazione de' suoi bisogni. Qui comincia la prima lotta morale in lui: questo è uno stato nuovo dell' anima. Si noti bene la natura morale di questa lotta. Alloraquando egli giudicava le cose che il circondavano secondo la loro piacevolezza e bellezza, o asprezza e deformità, egli non avea da far altro che da metterle in ordine nelle affezioni del suo cuore: quali in alto e quali in basso, quali ne' posti intermedŒ. Egli esercitava con se la sua moralità: distribuiva la sua benevolenza e la sua ammirazione secondo il merito delle cose. Questa distribuzione poteva benissimo falsificarsi, come abbiam veduto, per degli inganni tesi al suo giudizio dalla falsità delle persone che lo attorniavano: ma finalmente le false opinioni da lui concepite che dirigevano la sua stima, non gli potevano cagionar un rimorso; perocchè egli se le formava dietro quelle apparenze a cui egli riputava dover aderire, dietro quelle parole alle quali egli riputava dover prestar fede. Ma quando egli venne a conoscere la volontà di una persona, allora nel suo spirito è entrato un elemento nuovo che dee necessariamente in breve sconcertarlo. La volontà di una persona è qualche cosa di opposto alla natura delle cose: nella natura vi è la necessità , nella volontà tutto è libero e contingente: la natura è costante, immutabile, la volontà variabile di continuo: le diverse parti della natura, i diversi esseri che la compongono tengono un ordine fisso tra loro, ma non si saprebbe come allogarvi in mezzo la volontà libera, qual posto darle, questa è una cosa nuova, che non ha con essi alcuna omogeneità, alcuna somiglianza: l' esigenza degli esseri è sempre la stessa, ma l' altrui volontà esige ora più ora meno, ora vuole una cosa, ora la sua contraria, ora si volge a cosa facile e piacevole, ora a cosa ardua e dolorosa. Sebben dunque il bambino sia inclinato parte ad uniformarsi all' altrui volontà e parte (come vedremo) a piegare l' altrui volontà alla propria; tuttavia in breve egli si trova posto ad un duro cimento, sente che o dee posporre l' ordine soggettivo7oggettivo degli enti della natura (1), o discordare dalla volontà della persona che lo governa. Che cosa nasce adunque nel bambino in sì grave frangente? Come si risolve in tanta lotta morale? lotta cioè di due doveri che si disputano la sua volontà. Primieramente se la sua attività animale lo determina ad operare irresistibilmente ed istantaneamente, può avvenir benissimo ch' egli in questo atto dimentichi la volontà della persona ch' egli sa di dover amare e stimare, e poi dimentichi pure tranquillamente quant' è passato. Ma se quella volontà gli sta presente ed egli sceglie di mancarle, non può farlo senza pena; e questo dimostra ch' egli la colloca in cima a' suoi doveri, e che la considera come la principale sua legge. Questa pena o incipiente rimorso è la culla della sua coscienza morale; nasce la coscienza in quell' ora appunto, nella quale il bambino sa d' aver violata l' altrui cara volontà, d' aver fallato contro di essa; di averla posposta ad altre cose, alle quali l' avrebbe dovuta anteporre e dalle quali egli fu sedotto. L' osservò già una madre. [...OMISSIS...] La moralità dunque del quarto ordine si manifesta colla coscienza; ma sarebbe un errore il credere, che questa moralità si potesse esprimere acconciamente colla formola « segui la tua coscienza ». La coscienza non è ancora una regola di operare, ma semplicemente una consapevolezza di operar male o di avere operato male e non più. Le formole adunque del quart' ordine d' intellezioni (non che quest' ordine abbia ancor formole ma ha il contenuto delle formole, che si forman più tardi), le formole dico, o sieno i principŒ morali del quart' ordine, sono i seguenti: Primo. Si dee preferire l' accordo della propria volontà con quella degli altri esseri intelligenti a tutte l' altre soddisfazioni. Secondo. Se v' ha collisione, si dee sacrificare ogni altra soddisfazione per mantenere l' accordo della propria colle altrui volontà (2). Tutti e due questi principŒ racchiudono un gran passo, che fa il bambino nel campo della moralità. Il primo è notevole pel nobile sentimento onde s' accorge, che in un accordo della sua coll' altrui volontà deve stare il sommo bene, a cui gli altri debbono cedere. Il secondo è pure oltremodo notabile per l' elemento del sacrifizio , che s' introduce nell' ordine morale; e della virtù della fortezza necessaria a compirlo. Noi ritorneremo necessariamente altre volte sopra le immense conseguenze, che apportar debbono nel mondo morale del fanciullo due sì gravi e dignitosi principŒ. Un essere assoluto vien conosciuto necessario già al second' ordine d' intellezioni. Al battezzato secondo le dottrine profonde del cristianesimo è stato dato anco il sentimento di quest' essere assoluto, la percezione o sia cognizione positiva di esso. Consideriamo prima i progressi della cognizione naturale di Dio, a cui poscia aggiungeremo quanto spetta alla comunicazione soprannaturale. La cognizione naturale di Dio è sempre ideale negativa (1), perchè l' uomo non percepisce con essa Iddio ma solo induce per argomentazione, che oltre a tutti i limiti deve avervi qualche cosa d' illimitato , sebbene questo illimitato non sappia che cosa sia (2). Ora una tale cognizione, semplice come ella è, è tuttavia suscettiva di un successivo incremento. Questo è quello che dobbiamo ora mostrare cercando in quale stato una tale cognizione si possa trovare nella quinta età del fanciullo, o sia al quart' ordine della sua intelligenza a cui siamo pervenuti. Appena il bambino percepì un ente reale, la madre, non deesi già credere, che a quest' ente egli ponga dei limiti: per lui quello da prima è l' unico ente, tutto l' ente. Non sente, è vero, l' entità tutta, ma egli ve la suppone o certo non gliela nega (3). Tuttavia il suo senso è pur limitato: tutto ciò che vede e sente è circondato da limitazioni. Lo spezzamento, la moltiplicità degli esseri è là per contraddire al suo pensiero e per dirgli: tu erri, se ci credi tutto l' ente. Le parole della madre finiscono per disingannarlo: non solo esse spezzano via più e quasi tritano dinanzi al suo pensiero l' entità delle cose; ma col solenne vocabolo Dio , ch' egli sente a pronunciare, viene finalmente a persuadersi che tutto l' ente c' è, ma non è nulla di ciò che gli è finora apparito. Ecco la prima concezione di un Dio distinto dalla natura che si forma nella mente infantile. In questa concezione il bambino non si arresta certamente alla idealità: egli afferma una realità; ma questa realità non l' ha percepita, non sa che sia; sa solo che risponde appieno alla idealità universale che risplende nel suo spirito. Una concezione di tal fatta è così semplice, che non ammette analisi di sorta alcuna fino che restasi in tale stato; ma ben presto ella si muove e si sviluppa, ed eccone il modo. Niente della divina realità percepisce il bambino, onde la percezione non può completare la sua cognizione di Dio, nè dare a lui materia di farvi sopra delle analisi e delle sintesi, che è il modo onde si sviluppa la cognizione umana riguardante le cose naturali. Tuttavia questi progressi della cognizione naturale aiutano indirettamente anche la concezione della divinità. La ragione di ciò si è, che quanto più si conosce dell' essere naturale e limitato, tanto più si conosce altresì dell' essere universale; e quindi si ascende in qualche modo alla cognizione dell' assoluto per la remozione dei limiti. L' assoluto in fatti ha necessariamente relazione col relativo, e però quanto più si conosce dell' ente relativo, tanto più si conosce della relazione che ha con esso l' assoluto, e si può formarsi di questo una cognizione consistente appunto in queste relazioni. Egli è vero che se io tolgo i limiti alle perfezioni a me note delle creature, poniamo alla potenza di operare, alla sapienza, alla bontà, io non so più che cosa ne avrò per risultamento, non so in che cosa queste perfezioni mi si convertiranno, non ne ho la minima idea; ma sia qualsivoglia la trasformazione che esse prendono, e che io ignoro, so però che io non avrò perduto nulla d' esse, che avrò ancora tutto il bene loro indicibilmente e inconcepibilmente migliorato, e questo è già per me un grande aumento di cognizione, benchè consistente tutta in relazioni di una cosa incognita con cose cognite, senza che di quella cosa incognita io abbia percepito o sentito di più di prima. Al secondo ordine d' intellezioni il bambino apprende a parlare: al terzo ordine il nome di Dio che gli suona all' orecchio lo rende già accorto non solo dell' esistenza sua distinta da quella della natura, ma in Dio stesso pone l' intelligenza e la bontà che ha cominciato a conoscere nella madre, intelligenza e bontà assoluta a cui egli può già dare ammirazione e benevolenza infinita, che si cangia ben tosto in adorazione s' egli viene aiutato da una religiosa istituzione. Al terz' ordine egli apprende del pari che la madre ha una volontà; e al quarto egli trasporta la volontà della madre in Dio, e come la sua benevolenza lo inclina ad accordare e piegare la volontà propria a quella della madre, così lo inclina pure ad accordare e piegare la volontà propria a quella di Dio. [...OMISSIS...] Al quarto ordine d' intellezioni adunque l' idea di Dio può essere divenuta nella mente del bambino quella di una volontà suprema, ottima, a cui egli dee pienamente sottomettersi. Già abbiamo veduto come la natura intelligente che dirige il bambino gli abbia fatto intimamente sentire quanto rispetto meriti l' altrui volontà, come la volontà intelligente sia migliore di tutte l' altre cose, ed egli debba rinunziare a tutte per non mettersi con essa in discordia. Certo, che questo sentimento che nel bambino si manifesta verso la volontà della madre o d' altre persone a lui care, viene molto aiutato e rinforzato dal non conoscere egli ancora distintamente i limiti di quelle volontà e dall' attribuir loro una dignità maggiore ancora di quella che esse realmente abbiano, a cui egli è spinto dall' universalità dell' essere che contempla, all' ampiezza della quale crede a prima giunta che rispondano le realità che percepisce. Ma ad ogni modo la volontà divina pienamente soddisfa al bisogno che egli ha di trovare anche una volontà assoluta, piena, universale, e però egli è inclinatissimo a conformarsi alla volontà divina, e tostochè egli intenda, troverà la cosa così naturale, così giusta, così necessaria che non ne domanderà mai un perchè al mondo; piuttosto mostrerà gran desiderio di sapere qual sia la volontà di Dio, in tutte le cose anche le più minute, se pure la religione che ha naturalmente in cuore è stata in esso fomentata e coltivata. Così a questa età la mente del bambino anche naturalmente si dispone a riconoscere Iddio qual supremo legislatore. Il Cristianesimo ci apre un arcano: egli ci assicura, che l' anima dell' infante, che viene battezzato subisce una segreta ma potentissima operazione, per la quale egli viene sollevato all' ordine soprannaturale, vien posto in comunicazione con Dio. L' effetto di ciò è quello che abbiamo accennato, un intimo sentimento della realità di Dio. Questo colorisce, per così dire, ed incarna la cognizione naturale di Dio rendendola positiva, ne accelera i progressi, le dà vita, onde si fa operativa nell' uomo e feconda del più sublime morale ammiglioramento. I genitori cristiani debbono esultare di questo tesoro divino che sta nascosto nell' anima del loro bambino ed adorarlo: debbono custodirlo e svilupparlo; debbono finalmente non solo cavar profitto dalla grazia de' sacramenti, ma da quella che possono ottenere al figliuolo offerendolo all' Altissimo, pregando per lui, usando de' sacramentali, a cui è aggiunta una virtù benefica per la potestà della Chiesa di GESU` Cristo. Lo sviluppo della grazia si fa colla virtù e colla cognizione. Quanto alla virtù, è la dilezione e i suoi frutti che si debbono fin da principio seminare e coltivare nell' animo infantile. Quanto alla cognizione, è la cognizione di Cristo, che risponde all' infusione della grazia battesimale e s' acquista coll' udire la parola di Dio stesso. Il bambino a questà età dee imparare a conoscere Cristo non solo come Dio umanato, ma come maestro degli uomini, avente una volontà, a cui tutti debbono conformare la propria: ecco venuto il tempo, in cui si può aprire il Vangelo d' innanzi alla giovane intelligenza. Dallo sviluppo intellettivo del quart' ordine passiamo a quello dell' attività umana, che gli risponde. Converrebbe, a trattare la materia compiutamente, parlare a parte dell' attività razionale e dell' attività animale del bambino; ma questo ci condurrebbe troppo a lungo senza immediato vantaggio al nostro scopo. Scorciando adunque, come abbiam fatto nelle Sezioni precedenti, considereremo solo i punti risalienti per così dire dell' attività del nostro bambino, le note caratteristiche, i tratti che debbono essere più diligentemente osservati dall' istitutore. Cominciamo dunque dall' osservare che: Le volizioni appreziative sono quelle, che nascono dal paragone di due oggetti buoni o cattivi, dei quali apprezziamo l' uno più o meno dell' altro. Ora vedemmo, che solo al quart' ordine comincia il paragone; dunque al quart' ordine solamente può farsi quell' atto della volontà che SCEGLIE tra due cose paragonate. Ad un ordine precedente cioè al terzo si può bensì apprezzare , il che non importa paragone, ma non appreziare , il che esige preferenza, e antecedentemente paragone. Se si considera, che al second' ordine si formano gli astratti e però nasce l' amore ad essi, e nel primo si percepiscono i soli sussistenti e questi solo si possono amare, sarà facile lo stabilire e marcare il progresso corrispondente della volontà in questi quattro ordini: progresso che presenta il seguente schema: [...OMISSIS...] La sola volizione appreziativa non basterebbe ancora a poter dichiarare un bambino pervenuto all' uso della sua libertà . Io ho già mostrato, che se l' appreziazione e la scelta conseguente cade sopra cose, che appartengono all' ordine materiale o anco a cose semplicemente intellettuali, vi può essere scelta nell' uomo e tuttavia non ancora libertà. Questa incomincia a manifestarsi la prima volta che l' uomo dee paragonare l' ordine morale agli altri ordini inferiori; la prima volta che dee scegliere tra l' adempimento del proprio dovere e il proprio piacere, o sia la soddisfazione dell' istinto suo accidentale (1). Ma questa prima volta viene appunto al quart' ordine delle intellezioni. La collisione tra le cose attraenti per lui e il suo dovere ha luogo, tostochè egli conosce una volontà positiva, che sia in opposizione colle sue inclinazioni naturali. Ora questa volontà gli è conosciuta al quart' ordine. Noi abbiamo veduto che egli l' apprezza, l' apprezza grandemente; sente che ella è qualche cosa di più sublime di tutte l' altre cose; ed il rispetto, ch' egli è inclinato a dare alla volontà d' un essere conoscente da lui conosciuto, è sì grande, che se per qualsivoglia motivo, sedotto dalla tentazione, egli lo pospone ad un altro bene qualsivoglia, egli ne prova amaro rimorso, e non può vivere senza tornare in pace e in concordia con quella volontà. La mancanza di questa osservazione della natura del bambino ha condotto Rousseau ad una sentenza trista ed ingiuriosa all' umanità, colla quale egli vuole stabilire, che da principio non si debbono adoperare de' mezzi morali, ma la forza ; perchè a lui sembra l' idea del dovere troppo superiore alla infantile capacità. Quanto non è smentito il sistema dal fatto! Quanto la presunzione de' sofisti non ha disumanata l' umanità! Convien bene che il secol presente le riconquisti la dignità perduta palmo a palmo, e questo egli fa ogni dì coll' invitto potere che dà al vero una osservazione accurata de' fatti umani. E` l' osservazione più imparziale, che ci mostra nel fanciullo questo vero mirabile e consolante, che egli « ubbidisce al dovere morale prima di ubbidire alla forza »ubbidisce a quello prima di conoscer questa. Consideriamo anche qui la cosa coll' occhio semplice e sagace di una madre, che sa spiare sì bene nell' anima de' suoi nati, sì bene osservarli ed intenderli. [...OMISSIS...] Giunto adunque a questa età intellettiva il bambino sceglie tra il bene e il male morale, entra in possesso della sua libertà. Vedesi poi da questa prima apparizione del suo libero operare, ch' esso suppone qualche grado di fortezza, colla quale l' uomo che si mette dalla banda della bontà morale, combatte e vince l' allettamento contrario. Questa morale fortezza, che altrove abbiamo chiamata forza pratica , da principio si mostra alla sfuggita e si dilegua sovente innanzi ad una difficoltà un po' maggiore; ma anch' ella s' accresce, o sia trova dei rinforzi e degli amminicoli, che la sostengono: ella dunque soggiace ad un progresso e ad un cotale sviluppamento nell' animo del bambino. Se la credulità e la docilità del bambino fossero sempre cimentate col prescrivergli cose false, irragionevoli o di cui egli non potesse mai intendere una ragione, la sua virtù nascente rimarrebbesi facilmente soffocata nella culla. Nascerebbe dentro di lui il più angoscioso e desolante contrasto. Quella volontà esterna che gli apparì come cosa divina, d' infinita reverenza degna, gli si cangerebbe dinanzi in cosa misteriosa, inesplicabile, inconcepibilmente maligna. Tutto confuso da prima, ignorando se gli convenga dare ascolto all' invitamento della natura, che gli fa vedere tostamente nella prima volontà, che gli appare, una dignità somma, ovvero alla propria esperienza, che non gliela mostra, se non come cieca e disordinata; egli finirebbe con una morale disperazione e depravazione dello stesso suo cuore. Ma non permette la provvidenza, che gli uomini, che educano figliuoli, sieno nè pienamente cattivi, nè pienamente irragionevoli. Quello per tanto, che le loro volontà hanno in sè di bono, di ordinato, di ragionevole, di amoroso, è l' elemento benefico, che rinforza nel bambino quei due primi semi di virtù messi in lui da natura, la credulità voglio dire e la docilità. Il bambino si rende più rispettoso, a chi tratta con lui, più facile a credergli, più pieghevole ad obbedirgli; più che egli può vedere di utilità e di verità in quanto gli vien detto od imposto. Quell' educatore adunque sarà il più atto a rinforzare nel fanciullo le abitudini di credulità e docilità, il quale porrà più nelle sue parole, narrazioni e comandi di quella verità, che possa essere conosciuta per tale dal fanciullo, e donde possa trarre delle conseguenze; e più di quella utilità, ch' egli possa in se stesso osservare e sperimentare. Nel vero, quando il fanciullo si è formato una credenza vera e ne ha tirato delle conseguenze, egli si rende più docile e desideroso di udire altre cose da' suoi maestri; perocchè egli vede che tutto quello, che sa, lo deve all' aver creduto le prime volte. Questo fatto venne già notato: [...OMISSIS...] . Credenza dunque produce credenza; ubbidienza produce ubbidienza nel fanciullo, quando la madre o l' istitutrice insegna e comanda convenevolmente. Tuttavia nè la convenevolezza sapiente degli ammaestramenti e de' comandi, nè la tendenza a credere e ad ubbidire rinforzata dall' amore del sapere dedottone e dai vantaggi ritratti dalla docilità, bastano a far sì che le volontà degl' istitutori non vengono ben sovente in collisione pericolosa colle altre propensioni inferiori del fanciullo. Da prima, quando il fanciullo sì trova in sì aspro cimento, e pur egli non vorrebbe mancare a quello che sente essere il suo dovere: l' aderir cioè alla volontà altrui col sacrifizio di ogni cosa: e fino a tanto che questa volontà gli si mantiene presente all' animo; egli non potrebbe farlo senza provarne i più amari rimorsi. Ma egli vien facilmente sedotto quando la gravità della tentazione e la lusinga dell' oggetto vietato distacca interamente la sua attenzione dalla volontà, che gli è legge, e quasi gliela cuopre per un istante, sicchè egli più non la vede, vede solo l' oggetto lusinghevole: allora è caduto il misero irreparabilmente. Quel momento passa come il lampo e torna ben sovente e la vista della legge e il rimorso che egli cerca di occultare e di sopprimere, sebbene in vano. Ma il bambino tutto mette in opera per giungere a ciò che brama ed evitare tuttavia la miseranda sventura che gli minaccia di operare contro l' altrui volontà. E quindi è, che se da principio egli inclina a conformare la volontà propria all' altrui, quando poi insorge la passione e s' apre l' interno combattimento, egli cerca di tirare la volontà altrui a conformarsi alla propria, cercando nell' uno o nell' altro modo di conservare l' accordo delle due volontà, che pur non vorrebbe rompere, sebbene tentatone. Laonde egli è in questa età e non prima che comincia a manifestarsi nei bambini quella mirabile voglia, che hanno d' influire sulle volontà altrui, al che fare spiegano per tempo una destrezza tanto maravigliosa, una finezza, una penetrazione istintiva sì sorprendente (1). Venendo ora a descrivere qual sia l' istruzione conveniente al quart' ordine d' intellezioni, non ripeterò quelle cose, che ho dette in occasione di parlare degli ordini precedenti, molte delle quali anche a questo ed a' susseguenti si appartengono. Che anzi seguendo il metodo tenuto fin qui, toccherò anco in occasione di quest' ordine, certi principŒ pedagogici, che debbono essere ricordati in ciascun ordine de' vegnenti. I quali, in questo di cui trattiamo, cominciano a rendersi manifestamente necessarŒ, sebbene la loro necessità si faccia anche più stretta ne' susseguenti. Uno di questi principŒ universali, che debbono reggere non solo le prime ma anche le ultime scuole della gioventù, è quello di « considerare il linguaggio come lo strumento universale dato dalla natura allo sviluppo intellettivo dell' uomo », e però di porre la più accurata diligenza a far sì che questo grande istrumento serva al suo fine; che le parole e le idee si leghino accuratamente insieme; che l' uomo infine sia istituito sempre più nella lingua, ma in modo che i suoi progressi nella lingua sieno veri progressi nelle idee, nelle cognizioni. Questo gran principio fu conosciuto nell' antichità: fu proclamato nei tempi moderni ed anco in Italia nostra; e tuttavia non fu ancora ridotto alla pratica con quella diligenza e costanza ch' egli si merita. Uno di quelli che meglio tra di noi ne intesero l' importanza si fu il Taverna, il quale raccomandandolo in un discorso, che disse in Piacenza, giustamente affermò che [...OMISSIS...] Noi abbiamo pur veduto, che il bambino prima del linguaggio è legato ai sussistenti; non può staccarsi col pensiero da essi e prendere il volo per le immense vie delle astrazioni. Chi più sottilmente considera trova pure che tutti gli errori della mente, tutte le teorie perniciose, tutti gl' inganni tesi da' sofisti agl' individui e ai popoli hanno la loro origine dal significato improprio e vago delle parole. Dunque al fanciullo una cognizione profonda della lingua insegnagli la proprietà del dire non ad ornamento, ma a rettitudine, a verità e a utilità; è il mezzo migliore di munire il suo intendimento contro gli abbagli e le illusioni; di renderlo uomo di un senso squisito, d' una fina logica, d' un erudizione accurata e certa. Prendasi la cosa in tutta la sua estensione, e sarà facile vedere che noi punto non esageriamo. Ma pur troppo non esistono ancora libri acconci: non esiste ancora un vocabolario, che contenga la grande proprietà delle parole e che sia per conseguenza necessaria una cotale enciclopedia di cognizioni. Dico la grande proprietà , perocchè vi ha una piccola proprietà, quella dei dialetti o quella di un breve tempo piuttosto che di un lungo. La proprietà di cui io parlo è più costante: ella non è formata nè da una piccola popolazione, nè da un uso momentaneo: ma sì da un uso nazionale e talora umanitario, durevole a' secoli e talora a molti secoli sopravvivente nelle vitali radici delle parole alle lingue stesse perite (1). Dee continuarsi nel quart' ordine e ne' susseguenti l' esercizio dell' attività esterna, secondo le regole che n' abbiam dato; come pure l' ammaestramento per via d' immagini e medesimamente dicasi di rappresentazioni. Una raccolta d' immagini e di rappresentazioni drammatiche, adattate allo sviluppo graduato dell' infante, sarebbe un opera grande, degna del sapiente, di chi ama il genere umano. Quello pure che abbiam chiamato esercizio orale deve proseguirsi aggiungendovi anco quello della memoria. Si comincerà da sentenze morali esprimenti non più che la moralità proporzionata al bambino nostro, cioè quella che non esprima mai formole morali superiori all' ordine d' intellezioni, a cui egli è arrivato; o tutt' al più ad un ordine immediamente maggiore. Un libro che raccogliesse queste sentenze distribuite sagacemente secondo gli ordini d' intellezioni, che costituir debbono altrettanti gradi d' insegnamento, sarebbe pur desiderabile e necessario che si componesse. Ugualmente utile sarebbe un libro di poesie distribuite secondo i gradi stessi, per l' esercizio di memoria a' fanciulli. La musica poi non dovrebbe venire in soccorso come semplice diletto sensuale, no. Troppo altro è la tendenza del fanciullo che ha pur l' apparenza d' essere così leggero, così ubbidiente alle sue sensazioni: lo si creda, egli è intelligente e cerca da per tutto nelle sue sensazioni stesse intelligenza, e poi l' affetto e il diletto che gli nascono da essa purissimi. Laonde fermamente io credo che la musica sarebbe utilissima all' educazione; ma solo allora che l' istitutore si servisse di essa a vestire di affetto o quelle sentenze morali, o quelle rappresentazioni pure morali, che il fanciullo già conosce ed intende, sicchè non si rimanesse una musica cieca, o dominante, soffocante il pensiero; ma una musica serva della parola già comunicata al fanciullo; una musica, a cui il fanciullo presta gli orecchi come ad amica ed affettuosa interprete delle più nobili concezioni, che già sono entrate nell' animo suo, ma che ancor vi sono intirizzite e per così dire senza calore. Ma qual mai sapiente troverà questa musica? Quale l' adoprerà con tanta sobrietà, con sì coraggioso sacrificio, che nè cerchi in essa una bellezza meramente sensuale, nè bellezza superiore alla capacità del bambino? Chi sarà che intenda o che pregi una musica che non esprima che un pensier fanciullesco e che non la vesta che di fanciullesche parole? Chi m' assicura che questo stesso mio avviso non si fraintenda? e che volendolo seguire non se ne abusi? Si dee oltracciò continuare l' esercizio orale anche in questa età come un cotal preludio alla scuola di lettura e di scrittura, accrescendosene la parte intellettiva. Se nelle età precedenti l' esercizio orale riguardava i nomi ed i verbi, in questo può riguardare le particelle o i nessi de' nomi tra loro, de' verbi tra loro e de' nomi co' verbi. Questo è veramente un insegnare a parlare, se si fa bene. Vi sono delle idee, de' pensieri che sebbene alla portata della mente fanciullesca, tuttavia riescono sommamente difficili ad esprimersi al fanciullo. Conviene prima indicargli qual sia il pensiero che si vuole esprimere, e poi fargli trovare la forma più propria e più efficace di parlare. Ma non potrebbe questo esercizio riuscir bene, se prima qualche sapiente non abbia raccolti in un libro molti pensieri proprŒ di ciascun ordine d' intellezioni; e in pari tempo la maniera di vestirli acconciamente di parole. Dove questo libro fosse fatto, non sarebbe difficile condurre il fanciullo nostro graduatamente da' pensieri e dalla lingua propria d' un ordine inferiore a' pensieri ed alla lingua propria d' un ordine d' intellezione superiore. Dico non solo da' pensieri, ma anco dalla lingua; perocchè uno stesso pensiero può essere espresso variamente e in un modo sempre acconcio; ma proprio d' un ordine d' intellezione e non d' un altro. Vi sono delle costruzioni difficili a' fanciulli; e perchè mai sono difficili? Perchè appartengono ad un ordine d' idee superiore al loro. Si dovrebbero adunque dall' uom grande, che componesse il libro da noi desiderato, classificare secondo le età anche le costruzioni e i modi di dire diversi; e di questi pure ammaestrare il fanciullo graduatamente (1). Qual perizia di esprimersi acconciamente non acquisterebbe in tal modo il fanciullo! Quanta facilità di pensare pari alla sua perizia nell' uso del linguaggio, mezzo universale dello sviluppamento intellettivo! Quanto tempo guadagnato nelle scuole! Con che facilità non iscriverà poi i suoi concetti quegli che li sa così propriamente ed acconciamente parlare! Oltracciò, in questa età si dee già cominciare la scuola di lettura e di scritto. Le parole pronunciate, le lingue sono segni delle idee; le parole scritte, le scritture sono segni delle parole (1). La scrittura adunque appartiene all' ordine d' intellezioni prossimamente superiore a quel del linguaggio, e però al terzo. Ma noi abbiamo osservato che il linguaggio stesso abbraccia più ordini nelle varie sue parti, e che i verbi, che ne sono parte sì principale, non s' intendono che col terz' ordine. Convien adunque lasciare un po' di tempo al fanciullo, acciocchè intenda sufficientemente la lingua parlata; onde io consiglierei a differire la scuola della lettura fino ch' egli sarà bene avanzato nel quart' ordine intellettivo, che solitamente risponde alla seconda metà del terz' anno. Questo respiro poi che si lascia prima di cominciare a mostrare al bambino le lettere, viene da lui utilissimamente occupato nell' esercizio orale, che lo rende perfetto nel meccanismo della pronunciazione, lo arrichisce di una maggior estensione di lingua, e sopratutto gli dà occasione d' esercitare l' intendimento: ed entra poi nella scuola di lettura e di scritto ottimamente disposto e capace di gran progresso. Questo studio poi di lettura e di scritto (che non vanno disgiunti, come vedemmo) non dee punto essere affrettato; ma anzi lento, conciossiachè dee aversi in veduta di continuo, che non è la sola lettura e la sola scrittura che si voglia insegnare al fanciullo; ma, insieme con queste, cose molto maggiori, assai più elevate. Oltrecchè si dee vedere che niuna scuola sia puramente materiale; ma un continuo esercizio di tutte le sue facoltà, principalissimamente della sua intelligenza; e che sia di più una scuola morale. Furono altamente proclamati in Italia questi principŒ da degli uomini che la onorano per bel cuore e per una mente elevata (1). Ora, io credo che l' insegnamento della lettura e dello scritto vadano assai bene accoppiati insieme, o alternati, quasi due parti d' uno studio solo più tosto che due studi. L' uno e l' altro infatti appartiene allo stesso ordine d' intellezioni, perocchè chi scrive non fa che aggiungere l' azione delle mani a disegnare quel carattere che già conosce, onde non ha debito d' aggiungere conoscenza, ma solo azione esterna, che va tanto bene unita all' azione intellettuale, colla quale l' unì quasi individualmente la natura stessa. Laonde se dopo che io avrò mostrata al fanciullo la lettera a e insegnatogliene il suono, lo farò disegnare questa figura colle sue stesse mani, egli dopo disegnatala non la dimenticherà mai più senz' altro, perocchè, come osservò Rousseau, [...OMISSIS...] . L' azione, il far loro fare le cose è dunque il migliore mezzo per farle loro apprendere e per saldarle nella loro memoria. Tuttavia tutto lo studio di lettura come quello di scritto importa sopratutto che sia graduato; e che si abbia continuamente in vista l' una e l' altra parte, cioè la meccanica e la intellettuale; rivolgendosi poi entrambi acconciamente al progresso morale. Egli è evidente che come la lingua giova mirabilmente ad analizzare il discorso del pensiero , così la lettura giova ad analizzare le parole scomponendole ne' suoni elementari di cui constano; e lo scritto finalmente giova ad analizzare le lettere stesse, elementi delle parole, notandosi ciascuna parte di cui le lettere si compongono. Vi ha dunque un progresso d' analisi, di cui deve fare uso il savio institutore. Vi ha parimente una direzione diversa dell' attenzione. Fino a tanto che si parla e nulla più, l' attenzione nostra va a finire nel pensiero che si vuole esprimere, e i segni del pensiero, la lingua non riceve che una attenzione sfuggevole e relativa; ma quando si legge, allora l' attenzione si ferma al suono delle parole, e la figura impressa che abbiam sott' occhio non trattiene la nostra attenzione che un istante quanto basta, perchè appuntandosi, per così dire, in quella possa slanciarsi al suo termine, che è il suono della parola. Finalmente, quando si scrive , l' attenzione si ferma alle lettere che si debbono figurare e disegnare colla mano, e che divengono il termine della nostra azione. Il termine adunque delle nostre azioni intellettive è dove si ferma e posa l' attenzione, dove questa porta la sua luce lasciando nelle tenebre il resto, a quella guisa che un fanale non illumina i luoghi, ne' quali egli passa velocissimamente, se non per brevissimo istante. Anche questa legge dell' attenzione umana è da notarsi con diligenza dall' istitutore; perocchè ella, se ben considera, gli dà in mano il modo da governare e temperare l' attenzione del fanciullo a suo grado. Vi ha dunque bisogno di un metodo di lettura e di scritto uniti in un libro solo, e diviso per gradi; altro lavoro da farsi da' cultori della grand' arte dell' educare, di cui abbiam però ben avviati dei tentativi nobilissimi. Un somigliante libro si dovrebbe comporre per insegnare graduatamente l' aritmetica a' fanciulli. Noi abbiamo veduto, a ragione d' esempio, che al quart' ordine d' intellezioni, a cui siam pervenuti, il fanciullo può formarsi una distinta idea del numero tre. Come dunque l' aritmetica dell' età precedente dovea fermarsi a mostrare le proprietà dell' uno e del due, così l' aritmetica di questa dee trattenersi nelle proprietà relative dell' uno, del due e del tre, e loro varie unioni, esprimendo queste in modo che non faccia bisogno d' altro che di quello di questi tre numeri in prima, e poi gradatamente de' loro varŒ composti. Oltre tutte le cognizioni descritte, che si possono dare al fanciullo di questa età, si dee oggimai pensare ad introdurre anche un bell' ordine nelle sue cognizioni. Questo studio di ordinare le cognizioni del fanciullo deve cominciare tostochè la sua mente sia capace di ricevere l' ordinamento delle proprie idee, cioè di ridurre le proprie idee a certi principŒ o idee principali. Ora noi già vedemmo che nell' età precedente a questa cominciarono nella mente umana ad operare dei principŒ definiti, i quali di età in età vanno continuamente ricevendo incremento e perfezione. Questi principŒ si debbono far servire da noi quasi come altrettanti cappŒ in cui le idee s' annodano. E però, se al terz' ordine d' intellezioni questi principŒ incominciano, al quarto si possono già adoperare dal savio istitutore a vantaggio del suo discepolo, purchè egli badi anche qui a mantenere fedelmente quella gran regola dell' educare che noi continuamente raccomandiamo, « di non adoperare a collegare le idee del fanciullo, se non que' soli principŒ che il fanciullo ha già ricevuti nella sua mente, perocchè l' usarne degli altri sarebbe un volere da lui l' impossibile ». E tuttavia grand' arte si dee porre oltracciò ad ottenere quello che noi vogliamo, cioè il progresso intellettuale e morale; e le idee, che comunemente si hanno sulla maniera di dar ordine alle cognizioni infantili, sogliono essere troppo incomplete ed insufficienti; onde crediamo pregio dell' opera il dichiarare qual sia l' ordine che si dee cercar d' introdur nella mente dei fanciulli e dei giovani, acciocchè egli riesca il più possibile vantaggioso. Il savio istitutore cercherà di procurare tre vantaggi al discepolo, cioè: 1 Di aiutare la sua memoria, il che si ottiene promovendo l' associazione delle sue idee; 2 Di unificare, quant' è possibile, i suoi pensieri; 3 Di procacciare che quest' unità data a' suoi pensieri non sia arbitraria, ma fondata nella verità, nell' ordine universale delle cose, perocchè egli è questo che dà all' unità de' pensieri un' importanza morale. Queste tre cose sono ben diverse tra loro, ed è necessario notarne accuratamente le differenze. Esse sogliono confondersi insieme, e talun crede che il dar ordine all' umana mente tutto consista unicamente in far nascere il maggior numero possibile d' ideali associazioni; altri va più avanti, ma crede poi d' aver fatto ogni cosa quando sia pervenuto a fare che il fanciullo raggomitoli, per così dire, le sue idee intorno ad un' idea principale, o le annodi ad un dato principio, senza darsi pensiero della scelta dell' idea o del principio a cui si devono legare, creando così nelle menti un cotale ordine più fattizio che vero, più rappresentante le opinioni fallaci degli uomini, che la reale natura, l' immutabile verità. Si consideri adunque attentamente, che la memoria e la reminiscenza si aiuta con qualsivoglia associazione d' idee, ma non da qualsivoglia associazione d' idee viene l' ordine delle idee stesse; che anzi l' associazione che si forma per analogia affatto accidentale e minuta tra idee disparate è quella appunto, che forma il carattere leggero, mutabile, capriccioso, del tutto anti7logico delle menti: il delirio stesso si alimenta di una rapida e strana associazione d' idee: la frivolità de' fanciulli ha la stessa origine. Si dee dunque anzi cercare una associazione assennata che una associazione frivola, e già questo solo non è un affare leggiero. Gioverà dunque per ispianare la strada, che qui passiamo in revista le principali specie d' associazioni d' idee, ossia le ragioni diverse, per le quali si formano naturalmente di esse altrettanti gruppi. La prima ragione si è la forza unitiva dell' animale , la quale ha un gran numero di funzioni e produce dei fenomeni innumerabili (1). Ora lo spirito intelligente si lascia a principio volgere dall' animalità, e però quando la forza unitiva animale unisce due sentimenti, esso vede pure unite le idee o intellezioni, che a quei sentimenti rispondono. A questa forza unitiva appartiene, come funzione principale nella materia che trattiamo, la fantasia o immaginazione animale, la quale suole accozzare insieme quelle immagini, che in essa comparvero una volta unite per continuità nello spazio, o per successione nel tempo, o per similitudini nell' impressione, o per qualche analogia talor lontanissima. Una porzione che si risvegli dell' immagine in questi modi complessa, tosto si suscitano e fanno presenti tutte le altre parti; quello che io dico delle immagini complesse cioè risultanti di più immagini come che sia insieme congiunte si deve dire parimenti di tutte le altre funzioni della forza unitiva. Questa fa sì che l' animale muova con un atto solo istintivo non una ma un gruppo intero di facoltà. Questo gruppo di facoltà si muove talmente accordato, che basta un atto di una, che l' animale sia spinto a fare, e tosto egli fa insieme gli atti di tutte le altre. L' intelligenza poi nell' uomo riceve da tali atti la sua materia, ond' avviene che l' atto d' una facoltà sola basta a far nascere la reminiscenza di una intera condizione o stato di corpo e di tutte quelle cose che a essa condizione e stato si riferiscono. La ragione di questa congiunzione di più immagini, sensazioni, istinti, atti di varie facoltà animali è tutta nell' unità del soggetto, in cui tutte le potenze e i loro atti si radicano. La seconda ragione è la forza unitiva dell' ente animale7intellettivo (uomo). Mediante questa forza unitiva umana l' ordine dell' intelligenza va di consenso coll' ordine dell' animalità: un movimento in questo difficilmente si fa isolato e solo, senza che nascano de' movimenti anche nell' ordine intellettuale, e così viceversa; difficilmente l' uomo agisce come intelligenza, senza che col medesimo atto egli non sollevi de' tasti, per così dire, anche nell' ordine animale (2). La terza ragione è l' incatenamento, che hanno veramente le idee e i pensieri tra di loro: la inesistenza di un' idea elementare in un' altra più sintetica o quella di una conseguenza nel suo principio. Questa congiunzione e associazione è assai diversa dalle due prime come si vedrà dai seguenti esempŒ. Io riveggo una persona e tosto mi si rappresenta all' anima il campanile della chiesa della sua parrocchia: qui vi ha un' associazione d' immagini, che potranno unirsi e richiamarsi nella fantasia anco d' un essere meramente sensitivo: qui ebbe luogo adunque la prima ragione d' associazione. All' incontro, al rivedere di quella persona ciò che subitamente mi si affaccia alla mente si è la dimostrazione di un bel teorema di matematica, che da essa ho già udito esporre. Qui viene in campo la seconda ragione dell' unità del soggetto animale7intellettivo: perocchè l' associazione consiste fra delle sensazioni animali, quali sono le imagini della persona, dei suoi discorsi ecc. e delle intellezioni, quali sono le idee che formano quella dimostrazione: l' unione dei due ordini animale e intellettuale ha qui il suo fondamento nella unità del soggetto uomo. Lo stesso sarebbe se dal rammentarmi quella verità matematica mi si affacciasse all' anima il volto o anche solo il nome del maestro che me la insegnò; solo che qui vi sarebbe il passaggio contrario dall' ordine dell' intelletto a quello del senso, mentre nel primo caso il passaggio era da questo a quello. Ora si osservi bene, che in tutti questi casi non vi ha nessun intrinseco rapporto tra le due cose che si associano nella mente nostra. E veramente una persona ed un campanile non hanno insieme la più piccola somiglianza: così pure una persona e un teorema matematico son cose sì disparate, di sì diversa natura, che per se stesse non pur non s' inchiudono, e non si assomigliano; ma anzi l' una sta nell' ordine delle cose reali, l' altra in quello delle ideali: sono cioè separate da una distinzione categorica. Non così sarebbe se al venirmi in mente di un principio tosto mi si affacciasse al pensiero altresì quelle conseguenze che prese insieme formano la dimostrazione del teorema. In questo caso le idee chiamano le idee, i pensieri chiamano i pensieri. E` un lavoro che accade tutto nell' ordine dell' intelligenza. E il lavoro potrebbe pure avvenire nell' ordine dell' intelligenza, quand' anco la materia del lavoro fosse sensibile. Così se alla vista di un uomo, io tosto rammento che egli è un essere composto di corpo e d' anima, v' ha un' associazione di pensieri, perocchè tra il pensiero dell' uomo e quella delle sue parti passa una relazione intrinseca e intellettuale, quantunque il pensiero dell' uomo ivi fosse somministrato da' sensi o dall' imaginazione in occasione di vedere un uomo o d' imaginarlo veduto. Ora egli è chiaro tuttavia, che quando non si volesse ottenere che un fine solo, quello di facilitare la reminiscenza del fanciullo senza scelta nelle idee, qualunque di queste tre specie d' associazioni sarebbe acconcia: è chiaro che l' arte della memoria artificiale si potrebbe ugualmente fondare sulla prima, sulla seconda o sulla terza specie di associazioni, o su tutte e tre. Ma questo non basta, come abbiamo detto, pel progresso morale del fanciullo. Questo progresso esige più cose: esige 1 che il fanciullo impari la connessione che hanno le idee tra loro; 2 che acquisti facilità di passare, mediante queste connessioni che diventano nella sua mente altrettanti principŒ generali di pensare e di ragionare, di passare dall' una all' altra non per opera semplicemente della reminiscenza, ma per l' uso del proprio ragionamento; 3 che questo passaggio sia esercitato da lui liberamente, e non in virtù di qualche istinto necessario e casuale, sicchè il fanciullo acquisti talmente la signoria delle proprie cognizioni e de' proprŒ pensieri, ch' egli le abbia alla mano quando le vuole. Ora questi vantaggi non si ottengono, se non promovendo nel fanciullo la terza specie di associazioni fondata nella relazione intrinseca delle idee e delle cose conosciute. Che se noi consideriamo che ogni rapporto d' idee o di cose conosciute noi l' apprendiamo mediante un' unica intellezione, facilmente potremmo ridurre tali rapporti ad una sola formola, dicendo che « ogni associazione intellettiva consiste in vedere in una intellezione complessa le intellezioni elementari, e in passare dalle intellezioni elementari alla complessa ». Le intellezioni complesse sono: 1 le classificazioni maggiori delle cose nelle quali si comprendono le classificazioni minori come elementari; 2 le idee di cose composte, nelle quali si comprendono le idee delle parti delle cose come idee elementari; 3 e più generalmente ancora i principŒ ne' quali si contengono, come intellezioni elementari, le conseguenze (1). Convien dunque che il savio istitutore sappia accortamente osservare, e con delle opportune interrogazioni e sperienze scoprire quali sieno in ogni età del fanciullo le classificazioni ch' egli si forma, le idee d' oggetti moltiplici ed i principŒ; e partendo da questi dati, che già nella mente del fanciullo si trovano, dee farlo discendere gradatamente dalla massima classificazione che egli ha in mente alle minori, e da queste ascendere a quella; gli oggetti complessi a lui cogniti dee farglieli analizzare, e dalle parti lor già trovate rivenir al tutto; finalmente da principŒ (ma s' intenda bene, da suoi principŒ e non da altri) menarlo alle conseguenze, e dalle conseguenze restituirlo ai principŒ. Egli è chiaro che con tali esercizŒ si vanno mirabilmente ordinando i pensieri del fanciullo, perocchè si riassumono le cose continuamente alla loro classe suprema, s' imparano a veder le parti bensì delle cose, ma nel loro tutto unificate, e ai sommi principŒ si appendono per così dire le innumerevoli conseguenze. E chi non vede che per tal modo il fanciullo viene acquistando la cognizione dei nessi che naturalmente adunano le idee, e per quelli prende agevolezza di trascorrere in esse colla mente? e che di più egli acquista balìa de' proprŒ pensieri? Perocchè l' uomo che abbia presente alla mente una classe molto estesa di cose è già padrone, s' egli pur vuole, di passare alla considerazione delle classi minori, il che non potrebbe fare, se non l' avesse. E così chi conosce il tutto ha potestà di conoscere le parti, come chi possiede un dato principio è fatto libero, a cagione dell' estensione virtuale d' esso, di spaziare a sua voglia pel campo delle conseguenze. Sicchè può dirsi a tutta verità che « la riflessione libera in ciascun uomo si estende solo a quel tanto a cui s' estendono le sue attuali complesse intellezioni ». Il darsi poi maggior cura di questa associazione intellettiva non è già un lasciar del tutto da parte le altre due maniere d' intellezioni venienti dalla forza unitiva dell' animale e dalla forza unitiva dell' uomo, ma è un dar ordine a queste stesse, un sommetterle alla ragione, il far sì che l' uomo ne divenga padrone e ne possa a suo vantaggio liberamente disporre. E nel vero l' ordine delle idee e dei pensieri aiutano moltissimo anche la reminiscenza fantastica, nello stesso tempo che la regola e la fa utile a se stesso. E perchè mai è più facile imparare a mente un discorso che abbia senso, che non un ammasso di parole sconnesse al tutto e gittate a caso? Il rammentare la successione di que' suoni è operazione fantastica; ma se quelli rendono un sentimento, l' ordine delle idee rende tosto assai più facile quella operazione stessa sebben fantastica. Viceversa poi l' associazione animale aiuta la reminiscenza delle idee, e per ciò anche quella del loro ordine, perocchè l' ordine delle idee è formato da altre idee di connessione, le quali possono pure esser legate a de' segni sensibili, e così i segni sensibili possono risvegliar nella mente l' ordine che si desidera. Ma questo stesso effetto non si ottiene meramente dalla natura abbandonata a se stessa, ma dall' arte. Conviene che preceda una mente la quale, avendo le idee in se stessa ordinate, ordini altresì i suoni a quelle corrispondenti. Allora questi suoni o segni sensibili così ordinati giovan benissimo o a comunicare altrui lo stesso ordine d' idee, o a richiamare in mente a se medesimo le idee ordinate. E questo è il fatto dell' invenzione dei linguaggi e delle scritture, e la ragione del vantaggio immenso che recano ai progressi dell' umano intendimento. Per altro, l' associazione che si fonda nell' ordine delle idee è la sola che possa servire alla moralità. Abbiam veduto che le due prime maniere d' associazioni hanno il loro fondamento nella forza unitiva del soggetto: è l' unità del soggetto che le produce. La terza, all' incontro, ha la sua ragione nell' oggetto stesso, il che è quanto dire nella verità. Questa sola osservazione basta per intendere che solamente quest' ultima specie di associazione ha uno stretto rapporto colla moralità: ella prepara la via a questa, perocchè la virtù non consiste in altro se non nella ricognizione volontaria dell' ordine oggettivo (1). Ma l' ordine oggettivo dee essere riconosciuto compiutamente dalla volontà, e quant' è più compiutamente, più egli divien morale, più vi ha di virtù nell' uomo. Questo vuol dire che l' educazione dee tendere a far sì: 1 che le idee e i pensieri si congiungano nel bambino secondo i loro nessi naturali e veri, e non secondo nessi arbitrarŒ e falsi; 2 che questo annodamento delle idee sia il più compiuto possibile. Si vedrà facilmente quanto questa dottrina consuoni al principio supremo dell' educazione da me altrove proposto ed enunciato così: « « Si conduca l' uomo ad assimilare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non si voglia conformare le cose fuori di lui alle causali affezioni dello spirito suo »(2) ». Ho mostrato ancora come l' educazione dee abbracciare la mente, il cuore e la vita dell' uomo (3). Ora il cuore, cioè la volontà cogli affetti dee rispondere alla mente, la vita rispondere al cuore. Se la mente dunque si conforma all' ordine oggettivo delle cose, se si ha in esso il tranquillo lume del vero, non il falso e confuso delle opinioni e pregiudizŒ, il cuore avrà il tipo su cui, per così dire, stamparsi, e la vita non sarà che una continua imagine del cuore. Se la vita dee essere un' incessante produzione del bene universale , nel cuore prima dee esservi la universale carità; e questa non può esservi nel cuore, se nella mente non v' ha la disposizione a non escludere niuna cognizione, ad abbracciarle tutte. L' universalità della mente imparziale produce l' universalità del cuore benevolo , e l' universalità del cuore benevolo produce l' universalità della vita buona . Si dee dunque educare la mente del fanciullo a riconoscere tutti i nessi delle cose ch' egli può riconoscere in ciascuna età, voglio dire a riconoscere tutto l' ordine oggettivo di cui è capace; al che fare è necessario che i nessi delle cose si dispongano nella sua mente non già a caso, ma essi stessi ordinati; cioè prima i più rilevanti e poscia i meno. Come uno è l' essere e tre sono le categorie , così vi ha pure un' unità suprema nelle cose; e vi hanno tre maniere di unioni. L' unità suprema è formata dall' idea di Dio essere essenziale. L' unità di Dio dee dunque rendersi dominante nella mente del fanciullo: a Dio come a creatore, a conservatore, a fonte di ogni bontà dee rivocarsi dalla mente del fanciullo tutte le cose: ma dee farsi sempre coll' idea propria di quell' età in cui il fanciullo si trova. Nel primo e second' ordine d' intellezioni egli concepisce Iddio come complemento dell' essere: lo concepisce tutt' insieme reale7intellettivo7buono. Il riferire e rifondere le cose in Dio colla maggior generalità possibile di parole è dunque la maniera più facile e il primo grado del far sentire e intendere ai fanciulli la dominazione dell' idea di Dio quasi assorbente tutte le altre. Al terz' ordine rimane la stessa idea di Dio, ma non assorbe più le altre; queste si distinguono da essa, e distinguendosi ingrandiscono quella: un segreto sentimento di adorazione può già qui aver luogo: un annullamento, un sacrificio di tutte le altre cose a Dio è il secondo grado, il secondo modo di subordinare ciò che è contingente all' Essere supremo. Al quart' ordine si manifesta Iddio come volontà. Cioè dopo essersi distinto Dio dalle creature, si distingue in Dio stesso l' ottima volontà dalla sua natura7intellettiva. La conformazione de' proprŒ voleri, senza esclusione d' alcuno, alla volontà divina; la subordinazione dovuta di tutte le volontà a quella sola; è un principio che di nuovo unifica nell' idea di Dio le altre idee: è il terzo grado, il terzo modo di fare intendere e appercepire il nesso fra tutte le altre cose e l' Essere supremo. Al quint' ordine si cominciano a conoscere alcuni dei divini precetti, e l' accettarli con assoluta devozione è un quarto modo di riferir tutto a Dio. Finalmente al sesto si comincia a conoscer Iddio come intelligenza o superna ragione, allora solamente in Dio sono distinte le tre forme del suo essere: la morale, l' ideale e la reale; che prima indistintamente si raccoglievano nell' idea dell' assoluto. Qui s' apre un quinto modo di legar tutte le cose con Dio, rifondendo in esso le ragioni delle cose tutte, e in tutte adorando l' eterna sapienza. Queste cinque maniere di ordinare le cose create sotto l' unità suprema del Creatore, e di porre così l' ordine principalissimo e naturalissimo nella mente, nel cuore e nella vita debbono esser studiate grandemente dal savio e cristiano educatore. Lo sviluppare poi questi cinque gradi successivi e specie diverse di religioso insegnamento; il rinvenire gli spedienti necessarŒ e le industrie per le quali si possono applicare ai fanciulli, e farli pervenire successivamente al loro spirito, sarebbe pure argomento d' un libro importantissimo e necessario alla solida educazione. Venendo ora a quella ordinazione che derivar si dee alle cognizioni del fanciullo in ciascuna sua età dalle categorie dell' essere, come queste sono tre, così tre sono i principŒ d' ordine e di unificazione. Cominciamo dall' idealità . L' essere ideale universale è quello che unifica questa categoria di cose. Sarà dunque assai bene che si faccia considerare al fanciullo in tutte le cose l' entità; e che gli si mostrino i modi dell' entità che rendono le cose diverse come semplici limitazioni, o anco, se si vuole, atti di quella: e che si faccia così il fanciullo discendere dalla classe massima alle minime delle cose. Ma e quali saranno i gradini di questa scala? - Diversi nelle diverse età. Per rilevarli dovrà il savio istitutore rilevare, con riflettere sulle parole del fanciullo facendol parlare, quali sieno le classi delle cose ch' egli in ciascuna età è pervenuto a formarsi: certamente queste classi avranno per base delle idee semi7astratte, come abbiamo veduto; ma queste stesse idee semi7astratte variano secondo lo sviluppo del fanciullo, ed ora costituiscono classi più larghe, ora meno. Ad ogni modo (rilevati quali sieno i semi7astratti su quali il fanciullo classifica le cose) converrà ordinarglieli, fargli vedere qual sia più larga, quale più stretta, quale si contenga nell' altra, quale sia contenuta: in una parola, i gradini per discendere dall' entità ideale alle altre più determinate devono essere quelli che già esistono nella mente del fanciullo, o i prossimi ad essi, a' quali il fanciullo faccia agevolmente, con tale occasione, il passaggio. Come si possono ora ordinare i pensieri del fanciullo rispetto alla realità? Gli enti reali si appercepiscono dall' uomo come sussistenti e come agenti. Quanto alla sussistenza, sono gli elementi materiali che si debbono far trovare al fanciullo, anche qui menandolo dalla cosa più composta alla meno, per esempio, dal mondo alle sue parti maggiori, dalle sue parti maggiori alle minori, e così di mano in mano. Ma anche in questo esercizio si dee seguire una regola somigliante: cioè non parlare se non di quelle parti che il fanciullo già conosce: per esempio, dalla casa si potrà farlo discendere all' idea delle stanze, dall' idea delle stanze all' idea de' siti diversi che si possono in una stanza stessa assegnare, o simile. Assai per tempo si può il fanciullo condurre fino alla cognizione de' principŒ chimici, al che molto gioverebbe l' orto botanico, il gabinetto di storia naturale, distribuiti a suo uso, ed altri simili aiuti. Tutti gli enti poi si possono rattaccare all' idea dell' universo, e ultimamente a quella di Dio come essenzial sussistenza. Quanto poi all' operare delle cose, si dee rilevare parimente quali sieno i principŒ definiti che il fanciullo è giunto a formarsi sulle forze e le attività delle cose; e moderare l' insegnamento in modo di far sempre uso di quelli. I principŒ d' azione, le forze, le cause vengono gradatamente a concepirsi, a disegnarsi via meglio nella mente del fanciullo. Or l' istitutore tostochè s' accorge che un dato principio è già composto nello spirito del suo allievo, egli dee impossessarsene per aggruppare intorno a lui molte idee; facendone fare al fanciullo una frequente applicazione a quante più cose gli sia possibile. In tal modo que' principŒ diventano modi preziosi che collegano le idee divise, e danno alla mente ordine, luce, potenza. Molte di queste unioni diventano assai utili allo stesso sviluppo morale, come, a ragione d' esempio, quella per la quale il fanciullo giunge a conoscere che tutti gli uomini vengono da una causa sola, da un solo padre, e non costituiscono per ciò che una sola famiglia. Veniamo alla terza categoria, quella della moralità . Noi siamo venuti sponendo i principŒ morali che si forma il fanciullo in ciascuno de' quattro primi ordini d' intellezioni. E` conforme alla sapienza dell' istitutore il fondare su quelli le sue lezioni morali, unica maniera di farsi intendere dal tenero suo alunno; a quei principŒ egli dee richiamare del continuo le azioni, deve far fare al fanciullo un' applicazione continua di essi: in tal modo le idee delle azioni si unificano, perocchè si sollevano alle loro cause. Veniamo ora all' educazione. Nell' esporre l' educazione che risponde al quart' ordine d' intellezione, seguiremo il metodo tenuto fin qui, di dar cioè alcuni di que' documenti i quali servir debbono non pure per questa età di cui parliamo, ma ben anco per tutte le altre avvenire. Cominciamo dalla necessità che le parole degli istitutori sieno appieno veraci. Già osservammo che la credulità del fanciullo è un effetto della sua benevolenza. L' abusarne adunque dalla parte degli adulti è un atto di turpe ingratitudine. Veramente all' irriflessione e all' egoismo degli adulti questa proposizione è del tutto incomprensibile: l' ignoranza e la debolezza del fanciullo, l' averlo nelle loro mani senza ch' egli possa difendersi, nè tampoco perorar la sua causa, sembrano loro de' titoli sufficienti a poter disconoscere il tenero loro fratello, e a credersi in possesso del diritto per fare di esso e ad esso bene e male, come loro attalenta. Vedemmo ancora che la benevolenza spontanea del fanciullo è cosa morale, che è un dovere che la natura stessa insegna ad esercitare. Chi abusa dunque della credulità fanciullesca, che è conseguenza della benevolenza, egli profana una cosa sacra, dispregia l' elemento morale e divino che dona la maggior sua dignità all' anima intelligente. Vedemmo che la benevolenza del fanciullo, oltre doversi rispettare altamente come cosa morale, deesi ancora coltivarla con bello studio, e questa coltura, volta a dirigere la benevolenza infantile in modo ch' ella conservi e cresca il suo pregio morale, dee, perchè ottenga il suo fine, mantenere ad essa benevolenza l' universalità, sicchè il fanciullo ami tutte le persone, e tutto nel debito ordine. All' universalità poi della benevolenza serve di fondamento e quasi di traccia l' ordine de' pensieri che abbiamo raccomandato introdursi nella mente del fanciulletto, di mano in mano ch' egli se ne rende capace. Ora quest' ordine bellissimo de' pensieri non è che la VERITA` nella sua pienezza e luce maggiore, perocchè la verità è da se stessa ordinata, e nella mente ove è il disordine è anche la falsità. Di qui vedesi adunque che attenzione, che diligenza, che probità si richiegga ne' genitori e istitutori del fanciullo! Quanto debbano questi, se sono savŒ, misurar tutte le loro parole, per non introdurre nella mente del fanciullo niente di falso, niun errore volgare, niun pregiudizio, non un' opinione esagerata, non una stima parziale. Ma chi d' altra parte si persuaderà, se non sarà virtuosissimo e al tutto sapiente, che sommamente importa tener l' animo del fanciullo vergine e puro da ogni pregiudizio nazionale, gentilizio, della condizione e dello stato? Pure ella è questa la maniera di allevare i fanciulli colle maggiori disposizioni alla virtù, alla sapienza e alla felicità. Felici quelli che venendo in questo mondo, riceveranno sortiti loro dalla Provvidenza tali educatori! Oltre il danno che i fanciulli ricevono gravissimo da ogni seme di falsità che s' introduca nelle lor menti, la mancanza di sincerità e di verità nei loro educatori rallenta altresì lo sviluppo del fanciullo. Abbiamo pur veduto che il fanciullo accresce il grado della sua credulità e docilità, quando l' esperienza gli dimostra che quello che ha creduto serve alla sua mente di punto d' appoggio ad altri ragionamenti. Ove possa vedere che questo punto d' appoggio gli manchi, sia fallace; in luogo di aver cagione di accrescere la sua credulità, dee anzi diminuirla. Niente ancora di più pernicioso di questa diffidenza che in tal modo si semina nell' animo del fanciullo! [...OMISSIS...] Il pericolo che v' ha d' abusare della credulità del fanciullo, v' ha del pari d' abusare della sua ubbidienza e docilità. L' educazione dee avere per somma legge il far sì che tutto sia retto nel fanciullo, la mente, il cuore, la vita. La mente del fanciullo si mantiene retta procacciando l' ordine universale delle idee (1): il cuore si mantiene del pari retto all' universalità ordinata della benevolenza, e la vita riceve e conserva la sua rettitudine con delle azioni sempre ordinate e ragionevoli, rispondenti a quel perfettissimo ordine de' pensieri e delle affezioni. Il fare che il fanciullo operi irragionevolmente od a caso, per non dir male, il fargli contrarre delle abitudini non fondate nè nella natura, nè nella ragione; è uno storcere i suoi affetti ed i suoi pensieri: perocchè il disordine della vita si comunica al cuore e alla mente: queste tre cose tra di loro intimamente e pienamente comunicano. Grand' errore adunque è il far servire il fanciullo al proprio trastullo, anzi che al suo vero vantaggio: l' adoperarlo come un mezzo e non rispettare in lui la dignità di fine: e pure quanti pochi genitori vanno puri da questo peccato! Pur troppo l' idea d' avere nel figliolo una proprietà è la prima che entri nel loro spirito: le leggi gentilesche contribuirono a rinforzare questo pregiudizio nelle menti, nè l' autorità del cristianesimo valse ancora a convellerlo interamente dalle menti, nè dai costumi. E dal non saper comandare rettamente, dal non saper dirigere le azioni del fanciullo secondo la ragione del suo stesso profitto, nasce facilmente il guasto della coscienza del fanciullo. I doveri dei genitori e degl' istitutori relativamente alla formazione della coscienza del bambino sono gravissimi e difficilissimi ad adempirsi: di questo dobbiamo dunque noi ora parlare: riprendiam da principio il ragionamento. Al riso del volto umano il bambino risponde col primo atto d' intelligenza, che è un atto ad un tempo di sua benevolenza. Questa benevolenza, abbiam noi osservato esser cosa morale. Di che si vede l' altissimo senno della Provvidenza, la quale nelle viscere materne pose un amore ineffabile che servir deve di acconcissimo stimolo alla razionalità ed alla moralità dell' uomo tosto che entra in questo mondo. Si vede ancora che gli atti della materna tenerezza, lungi dal nuocere al fanciullo, sono quelli che gli parlano, lo educano da principio, invitandolo e traendolo al conoscimento d' un' altra intelligenza buona a cui non può a meno di dare tanta stima e affetto maggiore, quanto maggiormente amorosa e bona a lui si mostra. Ma ben presto nasce il pericolo che il fanciullo esaurisca tosto la sua benevolenza in pochi oggetti; e però dee provvedersi, come dicemmo, che il suo cuore a niuna intelligenza dotata di bontà si chiuda, e più ancora che a niuna opponga alcun sentimento di malevolenza. Viene il tempo, ed è quello del terz' ordine d' intellezioni, che il fanciullo pel linguaggio apprende che gli enti intellettivi che come buoni ed amabili a lui splendettero ne' primi istanti, hanno una propria volontà, e il primo suo movimento si è quello che lo porta a conformarsi ad essa, a vivere in essa, senza nulla pensare di sè. Anche questo è un atto eminentemente morale. Ma qui pure si osservi che l' inclinazione di ubbidire, di conformarsi alla volontà altrui, nasce dalla credenza che s' è formata in lui che questa volontà sia buona, perchè è buono l' ente di cui ella è. Perciò la sua spontanea obbedienza è maggiore, quant' è maggiore la sua benevolenza e la stima verso l' ente intellettivo a cui ubbidisce, e la sua benevolenza e stima è maggiore, quanto maggiore è la bontà da lui appercepita nell' ente medesimo. Ora si considerino i mezzi che ha il bambino di misurare la bontà degli enti intelligenti che trattano con lui. Egli non può fondare il suo giudizio se non sui dati che la sua età gli somministra; e se quello corrisponde a questi dati, è giusto e retto; perocchè la giustezza e la rettitudine morale è sempre relativa al soggetto, cioè è relativa al modo onde l' oggetto viene dal soggetto appercepito. Ora, gli unici dati che quella tenera età somministra, non risultano che da quella immediata comunicazione delle anime, di cui abbiamo parlato, che si fa tra il bambino e le persone che il trattano per mezzo delle dimostrazioni sensibili, risi, baci, carezze, sensibili piaceri a lui procurati, servigi a lui prestati. Quanto adunque più amorosamente egli viene trattato, anche più di bontà appercepisce nell' ente che il tratta, e giustamente egli risponde colla sua benevolenza ed ubbidienza. Questo spiega primieramente il perchè l' ubbidienza del fanciullo non sia la medesima verso tutte le persone, ma anzi, somma per certe, e per altre quasi nulla: spiega perchè egli mostri di sentire un gran rimorso quando disubbidisce, poniamo, alla madre, e piccolissimo o nullo quando ad altri; e perchè la volontà della madre diventi la sua regola costante, e non così quella di altri. Questo fatto viene rilevato appunto da una madre molto stimabile colla solita sua finezza. [...OMISSIS...] Di qui si giustificano, per dirlo di passaggio, le fluttuazioni apparenti della moralità infantile: essendo questa fondata nelle affezioni, ella dee parer mobile siccome queste nelle sue apparizioni, non cessando tuttavia d' avere il suo pregio morale, e un principio stabile qual è quello di stimare ed amare la bontà degli enti. Ma vediamo oggimai i doveri degl' istitutori verso la coscienza incipiente del fanciullo. In prima abbiamo detto che se essi ottengono di mantenere nell' animo del fanciullo una benevolenza universale (2) ed ordinata, questa universale e ordinata benevolenza è ottima regola di moralità data e mantenuta al fanciullo: perocchè egli secondo quella pacificamente dirige e contiene i suoi affetti e le sue operazioni. Non vi ha però ancora in esso alcun principio di coscienza morale. E` venuto al quart' ordine delle sue intellezioni, che avendo già conosciuta una volontà positiva l' apprezzò e conobbe ch' ella dovea essere oggimai la sua regola, anteponendola a' suoi stessi piaceri fisici. Ma questa volontà stessa egli non può giudicare se sia bona per l' intrinseca sua ragionevolezza, ma la giudica buona per l' opinione formatasi che l' ente a cui ella appartiene sia buono. Or quando nasce collisione tra la volontà altrui e le sue tendenze fisiche, allora nel giudizio di preferenza dell' una all' altra, nella tentazione e nella caduta, spunta il primo albore della coscienza nell' animo suo, mediante il rimorso sentito o almen presentito. I doveri adunque degli educatori relativamente alla coscienza incipiente del fanciullo, consistono nel manifestare al fanciullo sempre una volontà buona relativamente a lui; perocchè dovendo la lor volontà esser sua regola, egli avrà in essa una regola bona se sarà bona, e sarà da lui apprezzata e amata se sarà tale ch' egli sia in caso, coi piccoli mezzi di conoscere ch' egli ha, di conoscerla per bona e stimabile. Si dee dunque da noi esaminare questi due punti importanti, si dee rispondere a questi due quesiti: 1 In qual maniera la volontà degli educatori, regola della moralità del fanciullo nel quart' ordine d' intellezioni, può esser bona; 2 in qual maniera può esser bona relativamente a lui, cioè può esser bona d' una bontà riconoscibile al fanciullo stesso, ond' egli possa proporsela da se stesso a regola di sua condotta. Abbiam già detto che il fanciullo, quando da principio conosce, mediante il linguaggio, che i suoi genitori o educatori hanno una volontà positiva degna di tutto il suo rispetto e di tutta la sua affezione, egli non è in caso di giudicare della sua bontà da ragioni intrinseche, cioè dalla natura ragionevole o no, giusta o no, delle cose volute e comandategli. Questo però non dispensa gli educatori dal comandare al fanciullo cose ragionevoli sempre, oneste e giuste. Perocchè sebbene non hanno da temere in lui un censore od un giudice, tuttavia hanno da rispettare una creatura intelligente; e debbono tener l' occhio alla coscienza che già sta per nascere in quel piccolo essere umano, e la quale non riuscirebbe sincera e al tutto conforme alla verità, se si fossero fatte credere al bambino buone le cose cattive, e così falsati anticipatamente i suoi giudizi morali e fattegli contrarre funeste abitudini. Posto adunque che in tutto ciò che viene comandato al fanciullo nulla vi sia d' inonesto, d' ingiusto, d' eccessivo, di appassionato, rimane ancora a vedere come la volontà espressa de' genitori dee farsi conoscere per bona al fanciullo stesso. Anche qui conviene por l' occhio unicamente ai pochi mezzi di conoscerla e giudicarla per bona che ha il fanciullo; e non pretendere ch' egli a riconoscerla tale adoperi que' mezzi che il suo intendimento ancora non ha. In prima adunque non si può sperare ch' egli intenda l' intrinseca ragionevolezza delle cose che a lui vengono comandate: questo è del tutto superiore al suo sviluppo. Converrà dunque ricorrere ai dati estrinseci, su' quali giudica il fanciullo; e questi sono i due seguenti: 1 Il fanciullo giudicherà bone le cose che gli vengono comandate e che sono l' espressione della volontà della madre in generale o degli educatori, se le cose comandate vanno d' accordo colla sua spontaneità naturale; 2 Se le cose comandate sono indifferenti alla sua spontaneità naturale, cioè nè seconde, nè contrarie, egli le reputerà ancor bone in virtù dell' idea di ente bono, stimabile ed amabile, che s' è fatta naturalmente dell' ente che gliele manifesta; 3 Stante poi quest' opinione di bontà dell' ente che da lui vuole quelle cose, se queste a lui sono moleste, da prima egli tuttavia ha la persuasione di dover anteporle alle sue stesse soddisfazioni sensibili, preferendo a tutto il non disgustare la stimata ed amata persona. Che se quelle cose fossero a lui gravemente moleste e continue e la sua stima e benevolenza verso l' ente che gliele comanda non venisse alimentata da niuna amorevolezza, potrebbe la cosa venire a tal termine da distruggere nell' animo suo la conceputa opinione di bontà dell' ente: sebbene alla piena distruzione di questa sua cara opinione non verrebbe mai che difficilmente. Se poi il comando duro e contrario al suo sentire e volere vien fatto di rado, e come un accidente, nella pienezza della stima e della benevolenza del fanciullo nasce il terribile combattimento che dicevamo, nel quale o la sua virtù rovina, ovvero uscendone vincitrice vie più si fortifica. Prima però di cadere, egli usa tutte le industrie per declinare dalla prova, per conciliare, se gli vien fatto, i due suoi bisogni, il fisico ed il morale, per piegare, voglio dire, la volontà del suo superiore alla propria, riducendola a ritirare o modificare il comando; e questa voglia d' influire è propria di questa età, si manifesta cioè al quart' ordine d' intellezioni. Ora egli è chiaro, che circa il comandare cose o piacevoli o indifferenti per sè al fanciullo non vi ha difficoltà, nè altro dovere che questo che tali cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo. Ma la difficoltà comincia dove si tratti di comandare cose di lor natura contrarie alla propensione e alla volontà spontanea del fanciullo. Intorno a queste cose il dovere della madre, della bona e di qualsiasi altro governatore del fanciullo non si limita a ben considerare che le cose sieno ragionevoli ed utili al fanciullo; ma oltracciò, fra le utili ed acconciate, debbono le necessarie essere scelte con sommo avvedimento e con somma prudenza. E cominciando dalla voglia d' influire che ha il fanciullo nella volontà de' suoi maestri, non conviene inutilmente oppugnarla, anzi, ogni qual volta ragionevolmente si può, convien piegarsi e compiacerle, acciocchè il fanciullo esperimenti anche in questo la bontà di chi lo tratta, opponendosi tuttavia qualche volta opportunamente, acciocchè egli esperimenti ancora che il cedere non è mai debolezza, ma solo amore (1). Non è certo necessario di dire che la è cosa inumana il pretendere dal fanciullo cose eccessivamente dure, e il trattarlo costantemente in modo sì aspro da annientare nel suo cuore il concetto di boni che si fece naturalmente di noi: i mali trattamenti continuati in tal modo possono dare all' animo suo una tempra di durezza e inclinarlo fino dalla culla alla tristezza e alla crudeltà, chiudendolo all' amore. Ma sarà mai permesso di cimentare la sua tenera virtù? Sì certamente, come abbiamo detto anco prima, ma qui appunto dee consistere tutto l' avvedimento e la sagacità dell' educatore nel misurare il grado della tentazione. Sempre lo si dee fare quando l' utilità o la necessità lo esiga; ma anche allora conviene che la tentazione non superi le sue forze; quanto sarà più grande la sua stima e la sua benevolenza effettiva, tanto avrà egli più di forze da resistere al cimento. La lotta si forma tra la stima ed affezione della persona amata e il desiderio di qualche soddisfazione sensibile: quel tanto, del quale quella vince questa, è la misura della sua forza morale di cui si può disporre. Qual sagacità non si richiede nel rilevarne acconciamente la misura! Ben può essere sovvenuto nel conflitto sia con carezze, sia con regali, sia con presentargli il più che si possa inzuccherata la pillola che gli si dee far trangugiare: e tutto ciò non conviensi omettere a questa età, dove abbisogni. E dico dove abbisogni, perocchè dove no, convien lasciarlo combattere alquanto e trionfar da se stesso. Egli è divenuto con ciò migliore: la sua virtù così si consolida, la sua forza pratica salutarmente si spiega. Ma il mezzo più importante di non falsare la coscienza, che già comincia a sbocciare nel fanciullo, quello senza il quale non si arriverà giammai a mantenere la sua coscienza del tutto pura, verace, perfetta, consiste nel fargli conoscere che anche in Dio esiste una volontà, e che questa volontà è altissima, suprema sopra tutte le altre volontà, a cui bisogna dare ubbidienza pienissima, conformandovisi in tutto, foss' anco con patire ogni cosa e con posporre a quella ogni altra volontà. Non si dee già pretendere ch' egli concepisca la volontà divina come sapiente, no, di questo non è capace: ma egli la concepisce assai facilmente come volontà di un ente supremo, assoluto ed ottimo, di cui la volontà è pure altissima, assolutamente rispettabile, e sopra ogni pensare ottima. Questa bontà della volontà divina, il bambino non è da prima nè pur capace ancora d' intenderla dagli effetti: ma la intende pel concetto che s' è formato di Dio, concetto all' uom naturale, perocchè è naturale all' uomo il concepire l' illimitato e l' assoluto prima d' intendere queste parole e sapere esprimere con esse il suo intendimento: e però falsamente si procederebbe volendo persuadergli ciò con ragioni; conviene solo presentargli alla mente l' esistenza di un essere oltremodo grande e bono, avente una volontà oltremodo pure grande e bona; perocchè basta che gli si presentino questi concetti alla mente senza prove, ed ella, la mente, immediatamente gli accoglie ed assente loro senza la menoma dubitazione, trovandoli essenzialmente veri, atteso un brevissimo argomento ch' ella spontaneamente fa, e mossa dalle intime leggi della sua natura produce a sè, tuttochè non ci rifletta poi sopra, nè lo si sappia dire, nè esprimere altrui con parole (1). E la via di comunicare al fanciullo così grandi pensieri è quella prima di tutto del linguaggio naturale ed efficacissimo che viene inteso da quella mirabile facoltà di partecipare dell' altrui sentire e intendere, che simpatia fu chiamata. [...OMISSIS...] Non si dee tuttavia omettere di vestire poi anco di parole acconce questi sentimenti, che colla loro comunicazione intima l' anime si trasmettono. Nè meno si dee poscia trapassare di far conoscere la bontà e la grandezza divina dagli effetti; ma senza ragionamento, solo affermando che tutte le cose vengono da Dio, che da Dio vengono tutti i beni, ch' egli è il fonte d' ogni bontà delle persone (2). Laonde il ringraziamento è l' atto di culto che più conviene a quest' età: conviene farlo fare al fanciullo il più frequente che si possa; ed è bella la piccola orazione che Mad. Hamilton propone da suggerirsi a un fanciullo quando egli riceve qualche favore dalle persone: [...OMISSIS...] . Con tali esercizi si conduce lo spirito del fanciullo a conoscere sempre più la prima causa del tutto, il fonte universale de' beni, a distinguerla dalle cause seconde e preferirla a tutte le persone umane per buone che queste gli si presentino: e quel che è più a mettersi in diretta comunicazione con essa. Quando l' essere perfettissimo si è reso così vicino al fanciullo, fu conosciuto qual principio di tutti i beni; non v' ha allora più pericolo che la volontà degli uomini prenda nel suo cuore un posto più elevato della volontà di Dio . Questa diventa la regola suprema , e quella la regola subordinata : ecco ciò che massimamente importa, acciocchè la coscienza non sia falsata nella sua formazione: ecco il desiderio, il grande studio de' genitori veramente cristiani, e che vogliono educare a Dio i cari pegni consegnati loro da Dio. Chi volesse fare una classificazione delle intellezioni di quint' ordine potrà farla agevolmente, partendo dal principio che « le intellezioni di un dato ordine sono i rapporti, che trova la mente fra le intellezioni degli ordini inferiori sui quali ella si riflette »; e attenendosi alla maniera di procedere, colla quale noi abbiamo data la classificazione degli ordini precedenti. Oltre a questo, prima d' istituire il ragionamento sopra un dato ordine d' intellezioni conviene aver presente che le intellezioni di un dato ordine non sono egualmente facili a formarsi, nè si formano tutte ad una data età; ma quelle sole alle quali viene diretta l' attenzione della mente: e l' attenzione della mente non si muove e dirige, se non punta da certi stimoli di bisogni, che si manifestano, alcuni costantemente a certe età ed altri a caso ora più presto ora meno, dipendendo dalle accidentali circostanze. E` finalmente necessario anche aver presente ciò che già dicevamo, che nel tempo stesso che la mente lavora intorno ad un dato ordine d' intellezioni, non istà ella oziosa rispetto alle intellezioni degli ordini inferiori; ma continua a rifornirsi meglio di queste, sempre in modo corrispondente e proporzionato ai nuovi stimoli de' bisogni, che a ciò far la sollecitano. Veniamo dunque ora ad esporre alcuni cenni anche sullo sviluppo, che fa la mente di sè col quint' ordine d' intellezioni, ordine che suole apparire già assai marcato nel quart' anno del fanciullo. L' operazione propria del quint' ordine è la terza specie di sintesi. La prima specie si fu la percezione (prim' ordine): la seconda specie si fu la predicazione delle qualità delle cose (terz' ordine): quale è ora la terza specie? Questa viene preparata dall' analisi precedente. L' analisi del quart' ordine noi l' abbiamo fatta consistere nella scomposizione elementare , per la quale la mente trova un soggetto risultare da due elementi, una cosa di cui viene predicata qualche cosa, e una cosa che si predica. Coll' abbracciare la mente questi due elementi come parti costituenti una stessa cosa, ella ha già cominciato a paragonarli insieme; e perciò abbiamo detto che l' operazione del paragone comincia nello spirito umano coll' analisi propria del quart' ordine. Ma chi ben riflette, questo cotal paragone è piuttosto virtualmente compreso in quell' analisi, che attualmente. Mi spiego. L' operazione, colla quale lo spirito in un soggetto, che gli sta presente, nota due cose, poniamo la sostanza e l' accidente, non consiste attualmente in un espresso paragone di quella con questo; ma bensì implicitamente s' accorge, che la sostanza non è l' accidente, nè l' accidente la sostanza; benchè sappia, che tutte e due quelle parti appartengono ad un solo oggetto. Or l' accorgersi che la sostanza non è l' accidente contiene, dicevamo noi, implicitamente il paragone, che scopre la relazione di differenza e di opposizione tra quelle due parti: ma questo paragone non è l' operazione, con cui si scompone e distingue sostanza ed accidente, ma da quella operazione è supposto ed implicito in essa. E qui deesi notare con somma attenzione appunto un fatto importante dello spirito umano, la doppia maniera cioè, colla quale egli fa le sue operazioni. Queste operazioni talora egli le fa espressamente e spiegatamente ed allora sono facili ad osservarsi: costituiscono la forma specifica della sua attività, e in questa forma l' attività termina e quasi direi si configura. Altre volte egli fa le stesse operazioni, ma in un modo sfuggevolissimo e non per terminare e riposare in esse, ma unicamente, acciocchè gli servano di via o scala ad altre operazioni, a cui intende come a fine: e mentre queste scolpisce con diligenza, perchè le vuole per se stesse, quell' altre solo le abbozza rapidissimamente per quel tanto, che gli bisognano a farsi il passaggio alle ultime, a cui vuol pervenire. Ora, se nella scomposizione elementare vi ha un cotal paragone, questo non è fatto dallo spirito, che alla sfuggita e imperfettamente, quanto solo gli si rende necessario mezzo a conoscere, che due sono le parti, gli elementi onde risulta il soggetto e non uno: il che si conosce sapendo solo in generale, che l' un non è l' altro, senza bisogno che si sappiano anco determinare le differenze che li dispaiano. E quantunque il sapere, che l' uno elemento non è l' altro, involga la vista d' una relazione, cioè della relazione di diversità, tuttavia la relazione stessa non si vede astratta in sè: veggonsi le due parti, ma il pensiero non s' affissa nella stessa dualità. Ciò premesso, si potrà intendere che cosa sia la sintesi di terza specie, che è l' operazione propria dello spirito al quint' ordine d' intellezioni. Verificato coll' analisi del quart' ordine, che esistono due cose diverse, che ne formano una sola; viene nel quint' ordine la sintesi a discoprire i rapporti, che hanno tra di loro quei due elementi. La terza specie di sintesi adunque consiste, « nella determinazione della relazione che hanno fra di loro due cose che ne formano una sola ». Da questa definizione si vede che in una tale sintesi il paragone comparisce in forma espressa e spiccata, e non ischiacciato e per accidente come sta dentro l' analisi precedente: vedesi pure che il frutto prodotto dal paragone, la relazione (1), si manifesta anch' essa determinata e non in un modo come prima al tutto generale ed imperfetto. Le relazioni poi non solo legano i predicati co' subbietti, ma ben anco due cose quali si vogliano, le quali si riscontrino insieme e fra di lor si trovi passar qualche nesso da formarne lo spirito una unità, un pensiero complesso. Quanto a' predicati ed a' subbietti la mente qui può discoprire con qual legge tra loro si leghino in un oggetto: se per accidente, o per necessità, o per l' essenza medesima: di guisa che la loro distinzione sia concettuale e non veridica. Se gli oggetti son due può vederli in un pensiero complesso sia pel nesso delle somiglianze e delle differenze (2), sia per quello delle cause e dell' effetto, sia per altra relazione qual si voglia. I giudizi analitici, che fa lo spirito umano al quint' ordine, sono di seconda specie od anco di prima. La materia di questa analisi vien preparata dalle sintesi precedenti cioè dalle sintesi, che si fanno al quart' ordine o prima. Questo s' intenderà facilmente, quando si ritiene, che in ogni ordine oltre l' operazione propria di esso, si continuano a eseguire altre operazioni, che per la loro natura spetterebbero agli ordini precedenti, ma per circostanze speciali vengono differite a quell' ordine, al quale giunto lo spirito le eseguisce. A ragione d' esempio, il predicare una cosa d' un' altra è quella operazione sintetica, che appartiene al terz' ordine, perchè ivi una tal sintesi comincia ad apparire. Ma egli è evidente, che lo spirito giunto al terz' ordine non può predicare una cosa di un' altra se non a condizione che: 1 egli abbia il concetto della cosa che predica; 2 e il concetto di quella di cui la predica. Laonde questa operazione non può aver luogo al terz' ordine ogni qualvolta a quello stadio il predicato non è ancor formato nella mente umana, o non è formato il soggetto. Tale sarebbe trattandosi di predicare un' azione d' un agente. Noi abbiamo veduto che gli astratti di azioni non sono ancora formati prima del terz' ordine; anzi non si possono formare se non nel terz' ordine. Indi avviene che i giudizi e tutte le operazioni intellettive intorno le azioni e gli agenti sieno ritardate d' un ordine: di maniera che al terz' ordine si hanno le azioni astrattamente prese; solo al quarto si può eseguire la sintesi per la quale esse si predicano di un soggetto agente e che solo al quinto finalmente si possa analizzare l' agente cioè dividere l' agente dall' atto suo, considerar l' agente e l' azione come parti o elementi d' un solo soggetto, il che è l' analisi elementare propria del quart' ordine, ma che per accidente vien protratta e differita dallo spirito fino al quinto. Ora quest' analisi di seconda specie, ma appartenente al quint' ordine, è una operazione d' infinita importanza al progresso sì intellettivo che morale del fanciullo. L' attribuire un' azione a un soggetto non è ancor che riconoscere un fatto per se solo sterile: in una tale sintesi io non ho in veduta altro che di porre in un ente l' azione. Ma se dopo avere io unito l' azione e il soggetto e così formatone un tutto solo, l' agente, di nuovo considero l' agente e distinguo in lui l' azione e il soggetto come due elementi d' un solo tutto; io con ciò m' apro il campo a trovare la relazione tra quell' azione e quel soggetto, ogni relazione. Non mi mancherà che un passo per venire a conchiudere una verità importantissima nell' orbe della moralità, cioè che all' agente appartiene il prezzo dell' azione, e però che « io dovrò stimare tanto più il soggetto quant' è più stimabile l' azione ». Questo passo lo farò all' ordine seguente: nel sesto comincerà dunque nella mente del fanciullo l' idea distinta dell' imputabilità delle azioni, e nel quinto già si prepara alla formazione d' una sì grande idea il cammino. Al quint' ordine sembra pure potersi attribuire l' operazione del sillogismo disgiuntivo, o almeno la formazione della maggiore di questo sillogismo. La maggiore del sillogismo disgiuntivo può ridursi a questa formola « delle due sole maniere, in cui può essere (o farsi o avvenire) una cosa, essa cosa dee essere (farsi od avvenire) nell' una o nell' altra ». Ora per concepirsi questa proposizione si esige aver prima l' idea complessa delle due maniere, nelle quali una data cosa può essere, o farsi o avvenire, aver di più osservata la relazione di opposizione, che hanno quelle due maniere, sicchè l' una esclude l' altra (1). Ma noi abbiamo veduto che solo al quint' ordine lo spirito umano giunge a distinguere due cose in un solo concetto, e a notarne la relazione fra di esse, mediante la terza specie di sintesi. Laonde egli pare, che prima del quint' ordine l' intendimento umano non possa in modo alcuno concepire la proposizione maggiore del sillogismo, che dicesi disgiuntivo. La necessità poi, ond' avviene che la cosa non possa essere se non nell' uno de' due modi, ora è metafisica, ora fisica, ora meramente positiva o sia libero7fisica. Che ogni cosa sia o non sia, è un' alternativa di necessità metafisica, e lo stesso dicasi delle proposizioni, nelle quali le due parti sono formate dal sì e dal no (principio di contraddizione). Che traendo una palla da un sacchetto debba uscire una di quelle due, che vi si posero, è necessità fisica. Che il fanciullo per una data sua azione debba trarre o premio o castigo è necessità libero7fisica; cioè fisica, ma condizionata alla volontà del suo istitutore, che gli promise il premio e gli minacciò la pena. Il fanciullo porta nella sua mente la cognizione della necessità metafisica, sicchè egli non opererebbe mai contro il principio di contraddizione; ma nè il sa enunciare così presto, nè analizzare, nè intendere, se gli vien detto in una distinta proposizione. La necessità dell' alternativa libero7fisica è quella che più facilmente egli intende in un modo esplicito, e poi la fisica: ultimamente la metafisica. Egli è da condursi di proposito per questa gradazione di proposizioni disgiuntive. Le proposizioni disgiuntive di più di due membri appartengono agli ordini susseguenti. In quest' ordine può il fanciullo acquistare distinta idea del numero quattro. Quando dico che il fanciullo può acquistare di questo numero una distinta idea, intendo ch' egli può acquistare la cognizione di tutte le relazioni del numero quattro co' numeri precedenti: nello studio di queste relazioni si contiene l' aritmetica propria di questa età. Egli può altresì aggiungere qualche maggior grado di luce al concetto alquanto confuso che ha già de' numeri maggiori; perocchè, in possesso del numero quattro, ha dei nuovi modi co' quali pervenire ad essi coll' aggiungere al quattro successivamente un predicato. Ciò che ho detto parlando del numero tre all' ordine precedente, parmi sufficiente a fare intendere tutto ciò che dal fanciullo si può esigere in opera di aritmetica, pervenuto che sia a questo stadio; ed eziandio ciò che si possa da lui pretendere in ciascuno degli ordini successivi. Il nostro fanciullo cominciò già a formarsi delle collezioni di cose; e nel quint' ordine procede innanzi nella formazione di tali collezioni: quelle che risultano da tre oggetti gli sono già facili, e le concepisce distintamente. Ma in quanto al progresso del suo spirito in quest' opera del formarsi delle collezioni di cose, noi rimettiamo al lettore la cura di accompagnare i passi del fanciullo in questo e negli ordini successivi, contenti come siamo d' aver segnato l' età in cui l' opera delle collezioni incomincia e la legge secondo la quale procede. In quella vece vogliam qui notare un' operazione nuova e importante, che a questa età incomincia a fare il fanciullo, e questa si è di distribuire le cose in cert' ordine secondo un loro valore vero o supposto, assoluto o relativo. Al quart' ordine egli cominciò a notare colla sua mente le differenze delle cose. Veramente da principio non bada « che alle differenze numeriche o totali, e delle altre non cura »: queste appena si possono dire differenze. Ma tosto dopo ne nota delle altre, e quest' altre differenze sono la base di collezioni diverse ch' egli va facendo: una collezione sola non ha bisogno di conoscimento di differenze, ma due collezioni sì. Dopo l' età delle collezioni adunque, e dopo l' età delle differenze, segue l' età dell' ordine nel quale pone più collezioni fra loro, ovvero gl' individui che entrano in ciascuna collezione. Per anteporre una cosa ad un' altra, od una collezione ad un' altra, non basta conoscere semplicemente la differenza loro in generale, ma convien riflettere di più, che quella differenza fa sì che l' una debba essere preferita all' altra, che l' una abbia più valore dell' altra; la differenza come un mero fatto comincia ad essere distintamente conosciuta al quart' ordine d' intellezioni; la conseguenza che se ne trae a vantaggio d' una delle due cose differenti e a scapito dell' altra, non si ha se non al quint' ordine. Col quint' ordine d' intellezioni il fanciullo può giugnere a distinguere i tre tempi delle cose; cioè può osservare gli avvenimenti passati e distinguerli da' presenti, e i presenti dai futuri. Questo risulta da ciò che abbiam detto innanzi sul progresso della mente infantile nel notare il tempo nelle cose. Dopo che il fanciullo paragonò e distinse l' avvenimento presente coll' avvenimento passato, dopo che paragonò del pari l' avvenimento presente con un avvenimento ch' egli prevede o s' imagina in futuro; egli è in caso altresì di paragonare l' avvenimento passato coll' avvenimento che dee avvenire; e così concepire lo stesso avvenimento vestito delle tre forme del tempo. A questa età egli comincia altresì a formarsi (sempre mediante le parole) un' idea del tempo astratta dagli avvenimenti. L' astrazione del passato, del presente e dell' avvenire trova il suo fondamento negli avvenimenti concepiti sotto due tempi, il che egli fa nell' età precedente. Per altro non concepisce il fanciullo da prima il passato in genere, ma prima un passato determinato da un grande avvenimento: il dopo la pappa, o il passato di ieri diviso dall' oggi pel tramonto del sole o pel sonno, sono i primi passati determinati ch' egli conosca. Laonde non solo si dee parlare al fanciullo del tempo con queste gradazioni; ma ben anco servirsi sempre di avvenimenti che facciano nell' animo suo grandi impressioni e vi lascino delle tracce durevoli quasi di altrettante epoche, aiutato dalle quali egli fissi il pensiero all' avanti e al dopo di essi, e così egli osservi il tempo nelle varie sue forme. Ho già mostrato che il pieno significato del monosillabo IO non può intendersi dal fanciullo, se egli non sia giunto al quint' ordine almeno del suo sviluppo intellettivo. Al prim' ordine egli non percepisce che degli oggetti esterni. Supponiamo che al secondo egli percepisca le azioni. In tal caso solamente al terzo, e non certamente prima, le applicherà ad un agente; ma egli non saprà ancora di essere egli stesso questo agente, perocchè tra gli agenti egli non ha ancora trovato se stesso. Venuto a questo punto, egli non può parlare di sè che in terza persona; ed è quello che abbiamo veduto avvenire di fatto ne' fanciulli prima che giungano ad intendere il monosillabo IO, ed anco negli adulti, se per ispeciali circostanze non giungono oltre ad un certo grado d' intellettuale sviluppo. Nel quart' ordine solamente, ordine in cui comincia l' intendimento a notare distintamente le differenze delle cose, potrà venire a distinguere (sempre eccitato dal linguaggio che è spronato ad intendere da' proprŒ bisogni e da una naturale tendenza a conoscere) tra gli agenti se stesso dagli altri: il che è quanto dire sarà condotto a percepire intellettivamente il proprio sentimento fondamentale, sentimento7uomo come autore di quelle date azioni. Questa non è che una percezione, egli è vero, e come tale apparterrebbe al prim' ordine d' intellezioni; ma non si fa a quel tempo, come dicemmo, per mancanza del bisogno che stimoli a farla. Questo bisogno or si manifesta nella necessità di attribuire le azioni al suo autore, e però di attribuire al sentimento fondamentale, che l' uomo prova, certe azioni le quali perciò appunto si dicono sue proprie. Ora l' uomo non può attribuire quelle azioni al sentimento fondamentale che egli prova, se non a condizione di percepire prima intellettivamente quel sentimento. Quindi si muove l' uomo a riflettere sopra se stesso, cioè sopra quel sentimento fondamentale che appunto lo costituisce. Non prima adunque del quart' ordine, se non anco di poi, l' uomo comincia ad intendere il monosillabo IO come significante quel sentimento sostanziale che prova e percepisce come autore d' azione. Ma questo, già lo dicemmo, non è il pieno significato del monosillabo IO. Questo monosillabo esprime di più l' identità fra il conoscente e pronunciante l' IO, e il sentimento sostanziale operante che esprime chi pronuncia l' IO. Ora egli è chiaro che questa identità non si può intendere se non dopo d' aver percepito intellettivamente quel sentimento sostanziale7operante: e però non prima del quint' ordine. Non basta: al quint' ordine d' un altro grado s' accresce nell' uomo la cognizione di se stesso. Essendo pervenuto già prima, cioè nel quart' ordine, a percepire il sentimento fondamentale attribuendogli delle azioni, ed avendo altresì col quart' ordine stesso concepite le azioni in due tempi, nel passato e nel presente, o anco nel presente e nel futuro; egli giunge al quint' ordine ad osservare che il principio agente sentito e percepito è il medesimo ne' due tempi, là dove le azioni di questo principio nel passato e nel presente sono diverse. L' IDENTITA` dell' IO nel mezzo della varietà delle azioni e de' tempi, è una cognizione che qui nasce e che si rinforza a poco a poco, mediante continue esperienze, e accresce infinitamente la cognizione di se medesimo. Egli è vero che questa identità non viene espressamente e distintamente concepita e pronunciata; ma ella viene implicitamente sentita e percepita in modo che « l' uomo da questo punto non fa più nulla che la smentisca, non opera più in contraddizione di essa ». Il principio morale che risplendette fin qui nel nostro bambino come stella che mostrava il cammino alla sua attività individuale, si fu « il rispetto dovuto alla natura e alla volontà intelligente che gli si fece conoscere ». Questo principio, resosi in lui operativo, prese in lui quattro forme, le quali furono: 1 benevolenza; 2 consentimento; 3 credulità; 4 obbedienza. In fatti il fanciullo naturalmente ama, prende i medesimi sentimenti di quelli coi quali egli conversa, crede alle loro parole e ubbidisce alle loro volontà. Egli è indubitatamente aiutato a far ciò da degli istinti; perocchè l' inclinazione ad amare, la simpatia, la tendenza a ricevere senza sforzo di contraddizione, e la spontaneità che si lascia movere senza resistere, sono possenti aiuti all' adempimento del suo dovere morale, e per essi Iddio provvide che questo dovere sia reso facilissimo e dolce ad un essere che non avrebbe ancor le forze di sostenere un combattimento. Ma quest' istinti ed altri, sì animali che umani, non costituiscono però la moralità: la qual tutta pende, come dicevamo, da quella luce intellettiva che gli dimostra qual cosa dignitosa e alta ella sia un' intelligenza che a lui si scopre benevola, e il volere di essa. Già al quart' ordine d' intellezioni egli pone tanta stima ed affetto, e intende di dovergliene porre, alla volontà intellettiva che a lui si manifesta, che è persuasissimo di dover sottomettere ad essa tutti gl' istinti della sua propria sensualità; e se egli rimane vinto da questi, già arrossisce, si nasconde, e il rimorso non gli dà più pace. Questo sentimento del rimorso è importantissimo ad osservarsi, ed egli segna l' apparizione del quint' ordine d' intellezioni nel fanciullo. Perocchè il quarto è quello in cui, conosciuta una volontà intelligente, intende che tutto dee uniformarsi a quella, gli costi ciò che si vuole. Quando poi, operando, infrange questa norma morale da lui ben conosciuta e n' ha sentito il rimprovero della sinderesi, egli ha fatto un passo innanzi: è venuto al quint' ordine. Tuttavia il rimorso al quint' ordine non ha del tutto la stessa natura del rimorso quale si manifesta nel sesto e negli altri maggiori. Egli è uopo che noi facciamo qui ben notare questa differenza, perocchè ella ci conduce meglio a stabilire le norme o principŒ morali, che si formano nell' anima all' ordine quinto d' intellezioni. Il rimorso, prima di concepire una volontà positiva d' un altro essere intelligente, non si può dare (1), perocchè nel fanciullo prima di questo tempo non vi ha combattimento morale: il suo operare del tutto spontaneo non trova ostacoli morali. Egli è per questo che, secondo noi, il rimorso del fanciullo dimostra ch' egli è già pervenuto al quint' ordine. Per altro, il rimorso che si manifesta al quint' ordine è così diverso dal rimorso che si manifesta negli ordini successivi, che quella prima apparizione di rimorso non esige nè pure una chiara notizia dell' imputabilità, quando negli ordini che vengono appresso il rimorso stesso è un effetto dell' imputazione che il fanciullo già fa espressamente a sè, nel suo interno giudicato, dell' opera mala da lui commessa. E nel vero, al quint' ordine il fanciullo non ha ancora finito di concepire chiaramente se stesso, come vedemmo, perocchè quantunque sia pervenuto a conoscere che alcune azioni appartengono al sentimento sostanziale da lui provato, tuttavia egli non sa trovare questo sentimento sostanziale, non sa dove metterlo; il che è quanto dire non sa conoscere che il giudicante, il parlante, l' imputante è appunto quel sentimento che imputa a se stesso quelle azioni male. Di più, la relazione fra le azioni fatte a sè, che le ha fatte, nel quint' ordine la sente in generale, ma ancora non ne conosce la qualità, il che dee fare all' ordine seguente; al quale perciò si spetta la imputazione propriamente detta. Mancando adunque questi elementi che entrano come cause e parti integranti del rimorso razionale che si ravvisa negli adulti che peccano; quale rimane il sentimento di rimorso che dicemmo apparir nel fanciullo pervenuto al quint' ordine? Che cosa è questo rimorso? Merita egli questo nome? E lo si merita nello stesso senso nel quale si dà al rimorso già pienamente formato? L' uomo, prima ancora di avere una coscienza formata di se stesso, ha una sufficiente notizia degli altri per sentirne una qualche esigenza morale. L' esigenza degli esseri è l' obbligazione morale che si manifesta colla sua virtù immediatamente all' anima intelligente prima ancora d' aver preso la forma di legge (1). Or se il bambino sente la detta esigenza ancor prima di riflettere a se stesso, ne dee venire per conseguenza, ch' egli provi un corrispondente orrore e dolore, ogni qualvolta pone l' azione contraria all' esigenza delle cose. Questo è un principio di sentimento morale, che in lui si suscita allo stesso modo, come in lui nasce il sentimento dell' esigenza degli enti; e che è indipendente da un espresso giudizio d' imputazione col quale giudichi e condanni se stesso qual reo. Fra l' azione ch' egli pone e concepisce, e le cose di cui egli sente l' esigenza (poniamo la rispettabilità delle intelligenze e lor volontà) sorge una disarmonia di fatto: nell' anima sua, in questo sentimento sostanziale, accade una lotta, ed essendo ella tutta sentimento, impaurisce al trovarsi nell' arena di un siffatto combattimento. Questo è un cotale rimorso, che ha luogo nell' anima come un fatto necessario e non volontario, e come un sentimento che nasce a quel modo, onde il dolore d' una ferita: perocchè anche l' anima, anche la parte morale dell' anima, ha le sue leggi fisiche e inalterabili come quelle de' corpi; ed egli è un errore il credere che tutto ciò che avviene nel regno della moralità dipenda solamente dall' arbitrio, o sia così tenue come un' idea; o così vago e sfuggevole come accidentali affezioni. L' anima nel suo essere morale può ricevere adunque delle ferite e dolorarne prima ancora di conoscere se stessa, di riflettere sulla propria personalità; e questo è il rimorso che sorge al quint' ordine d' intellezioni. Questo rimorso appartiene al senso morale , e non propriamente alla coscienza morale ; ma quando l' uomo giunge nel suo sviluppo intellettivo un ordine più su, incontanente egli, errando, soggiace a un rimorso, che appartiene ed è l' effetto della consapevolezza del suo mal operare. Non è già, che quel primitivo rimorso si formi in noi senza l' opera dell' intelligenza, no certo. Ma l' intelligenza nol produce direttamente; ella non fa un espresso giudizio di condanna, dal timore del quale nasca l' interno dolore, che rimorso si chiama: l' intelligenza non fa che conoscere il male che viene operato: onde il sentimento di quell' essere, che conosce il male, si raccapriccia, allorchè si muove a farlo cedendo alla tentazione. All' incontro il rimorso al sest' ordine acquista un nuovo elemento, quello dell' imputazione. Al sest' ordine l' uomo conosce l' IO, come un sentimento sostanziale operante, conoscente, giudicante e proferente se stesso. Non solo a quest' IO egli attribuisce le azioni già prima conosciute cattive come ad autore, ma ben anco gliele imputa; cioè intende che quell' IO autore di quelle azioni ree ne riceve deterioramento; onde viene il demerito e il biasimo. L' uomo che in questo stato giudica e condanna se stesso, soggiace sotto il peso di questa sentenza, come sotto un nuovo male; ed indi una nuova amarezza si aggiunge al suo rimorso; il quale diventa con ciò anco figlio della sua coscienza morale. Il rimorso dunque coll' atto dell' imputazione si amplifica, s' integra, acquista un elemento nuovo, non è più sensione morale , ma ben anco vero rimprovero o biasimo morale. Vero è, che quando al rimorso immediato e di fatto, per così dire, si sopraggiunge quest' altro come rimproccio e sgridata di interno giudice o superiore, il primo non si muta, ma con questo s' unisce a pungere il cuore del peccatore con doppio aculeo. Anzi quel primo fa la via a questo secondo. Perocchè ben sovente la ragione s' avvede del fallo e 'l riconosce, e il rinfaccia al suo soggetto mossa e desta dal pungolo naturale: sicchè l' uom s' accorge e si riprende d' avere errato, perchè lo scorge a ciò il sentire il mal essere e la doglia della sua natura morale: del che cercando la ragione trovala nel fallo commesso. Laonde non a torto chiamasi e l' un e l' altro di questi due dolori, che insieme si mescolano, rimorso ; e il secondo può considerarsi come il compimento e quasi una nuova forma dell' altro. Che, se dividere si dovessero, potrebbero dirsi il primo rimorso della sinderesi , perchè nasce da' principŒ morali, che sono in noi, da noi violati; il secondo rimorso della coscienza , perchè nasce dal giudizio con cui imputiamo a noi stessi il fallo commesso: il primo è un rapporto reale (una disarmonia) tra l' IO sentimento operante e l' esigenza degli esseri da lui appresa: il secondo è un rapporto reale tra l' IO sentimento operante e la sentenza di condanna di sè da lui proferita: quantunque nel primo non vi sia ancora coscienzia morale, tuttavia vi ha qualche cosa che stimola la coscienza e la provoca, e puossi chiamare l' albòre della coscienza. Da questo si conchiuda, che il gran principio morale: « segui la coscienza »al quint' ordine d' intellezioni non è ancor formato nell' uomo: egli segue ancora de' principŒ morali anteriori a questo della coscienza. Quali sono adunque i principŒ morali al quint' ordine? Qual è a questo tempo la nuova forma, che prende la moralità nell' animo umano? Ecco quello che dobbiamo ora investigare. Il rimorso, che a questa età si manifesta, sebbene imperfetto, produce l' istinto morale di fuggire il male e di fare il bene. Ciò nasce, tostochè quel rimorso si può prevedere o presentire prima di operare. Ma questo istinto non è ancora una vera formola morale: egli solamente dà luogo ben presto ad una massima esprimente piuttosto un dettame di prudenza, che una morale obbligazione. Ora ciò che noi cerchiamo sono le formole, i principŒ morali proprŒ di questa età. A fine di discoprirli rimettiamoci sulla via dello sviluppo morale, rammentandoci quale sia stata l' apparizione della moralità al quart' ordine. Noi vedemmo che al quart' ordine la moralità si manifestò all' uomo come un dovere « di uniformarsi alla volontà degli esseri intelligenti conosciuti, costasse qualsiasi sacrificio ». In questo principio compariva una specie di collisione tra il bene eudemonologico e il ben morale, tra il bene soggettivo e l' oggettivo e sentivasi la necessità morale di sacrificar questo a quello. Ma, notisi attentamente, il bene soggettivo in tale stato non si percepiva oggettivamente, perchè l' uomo non avea per ancora la coscienza di sè stesso. Era dunque il soggetto uomo, qual soggetto morale, che da una parte sentendo il dolore e il piacere, dall' altra veggendo il dovere, non dava retta a quello, ma decideva semplicemente, che questo era dovere, era tutto. L' identità del soggetto sensitivo ed intellettivo è solamente quella, che può spiegare come esso soggetto potesse dedicarsi e consacrarsi a quanto prescriveva l' intelletto, trapassato il senso, non consideratolo , come se non esistesse, non giudicatolo, non messolo a confronto. La necessità di seguire il dettame del retto è assoluta; e però l' uomo decideva a favore di questo senza tampoco sentire voce in contrario: pativa il senso, strideva dilacerato, ma l' IO intellettivo tenea gli orecchi turati: unicamente inteso a ciò che il dovere da lui volea. Per questo modo, non per confronto alcuno « la volontà dell' essere intellettivo », nella quale vedeasi il dovere, era posta in cima a tutte le cose nella morale propria del quart' ordine d' intellezioni. Nel quinto cominciano le collisioni de' doveri che mutano forma alla precedente teoria morale. Dico le collisioni dei doveri, e non già la collisione tra quello che è dovere, e quello che non è dovere ma piacere. Questa specie di collisione non muta propriamente la teoria morale; sebbene influisca nella morale pratica, perocchè l' uomo tostochè ha posto attenzione alle voci del senso, che rifugge d' esser sacrificato al dovere, è già entrato in una nuova condizione morale; una nuova tentazione lo assale: egli ha bisogno di nuova fortezza. Questa osservazione e attenzione che l' uom pone col suo intelletto alla pena, che costa il dovere ad adempirsi, accresce la morale d' un precetto, quasi direi, di fianco, il quale vien poi formulato così « sii forte contro la tentazione »; non risguarda questo la forma del dovere finale, anzi la suppone, perocchè dicendo « sii forte contro la tentazione », non si esprime, ma si ammette per istabilito quel dovere, nel mantenimento del quale dobbiamo esser forti. Tuttavia giova assegnare a questo quint' ordine anco questo precetto, che comanda « la morale fortezza ». Toccato ciò di passaggio, dicevamo, che in questa quinta età si manifesta da prima una qualche collision di doveri; ed è questa collisione, che muta le formole morali dell' obbligazione. « La volontà dell' essere intellettivo dee rispettarsi », questa è la formola del quart' ordine. Ma più volontà intellettive ugualmente si manifestino, e non tutte d' accordo: ecco la collisione di doveri. A quale di queste volontà intellettive si dovrà dare la preferenza? Ecco il nuovo problema morale che si presenta a sciogliere all' animo del fanciullo giunto al quint' ordine. Egli è costretto dalla necessità morale di operare a farsene qualche soluzione: e questa soluzione diventa per lui un nuovo principio morale, una nuova formola contenente la sua obbligazione. Prima di vedere come egli debba risolversi un tanto dubbio, veggiamo come questo dubbio debba apparirgli appunto a questa età e non prima. In prima a questa età, egli dee aver già trattato con più persone, ed è impossibile che tutte in tutto sieno andate perfettamente d' accordo e d' un pari passo nel beneficarlo, nell' istruirlo, nel comandargli. Oltracchè già conobbe, che avvi un Essere supremo, ed una suprema volontà ottima e perfettissima, e giunse a distinguere, in qualche modo, da questa volontà ottima le altre volontà limitate nella bontà. In secondo luogo, al quint' ordine non solo egli cominciò a distinguere le differenze delle cose, ma a collocare in un certo ordine di dignità più cose tra loro, almeno due. Quest' ordine fra gli oggetti da lui contemplati non esisteva in lui prima del quint' ordine; e perciò prima egli nè pur poteva collocare nel debito ordine le volontà intellettive che gli si rappresentavano come rispettabili; ma doveva dirigersi a favore dell' una o dell' altra più tosto per azione istintiva e spontanea, che per una preferenza razionale. Ma nel quint' ordine oggimai può farlo. Come dunque lo farà egli? Egli è indubitato, che egli intenderà di dover preferire a tutte le altre la più bona, la più benefica, come quella che è più degna. La bontà e dignità intrinseca dell' intelligenza fu quella, che rivelò da principio al fanciullo, quanto l' intelligenza e la volontà intelligente sia essenzialmente amabile e rispettabile. Egli è chiaro, che i diversi gradi, ne' quali la bontà intellettiva gli si manifesta, debbono essere quelli medesimamente che gli determinano e prescrivono i gradi del suo amore e del suo rispetto. Questa regola dei gradi della bontà, i quali rendono più degne le volontà degli esseri intelligenti, è piena, assoluta, immutabile. Nella bontà si comprende l' intelligenza, giacchè l' intelligenza è condizione e principio della bontà, è bona d' una sua specie di bontà nobile sommamente, vi si comprende la sapienza, ma sopra tutto vi si comprende la beneficenza volontaria. Ma ciò che varia si è l' applicazione di questa regola. Ciò che varia sono i mezzi a disposizione del fanciullo, coi quali egli misura quella bontà e i suoi gradi. Il fanciullo è soggetto ad ingannarsi nel giudicare il grado di bontà e di dignità delle volontà contrarie, che a sè il vogliono uniformare; ma il suo giudizio erroneo in se stesso, può essere diritto rispettivamente a lui. Questo giudizio è sempre diritto ogni qual volta egli fa entrare nel calcolo tutti i gradi di bontà a lui conoscibili: in una parola egli dee misurare non tutta la bontà delle volontà intelligenti, ma tutta quella porzione di questa bontà, che a lui si comunica e manifesta. Tuttavia può accadere benissimo, che questo giudizio, che egli porta all' età presente, sia parziale ed ingiusto; ed ecco in che modo. Quando da principio il bambino saluta una intelligenza, che percepisce diversa da sè, egli fa un atto di giustizia: l' animo suo per anco senza colore si moverebbe agevolmente benevolo verso qualsiasi altra intelligenza, che in luogo di quella gli fosse apparita. Ma ben tosto si affeziona a quelle persone, che con lui più dimesticamente trattano e più dolcemente soccorrono ai suoi bisogni; e questa affezione può diventare parziale ed esclusiva, come abbiamo veduto. Una semplice affezione fisica non è certamente per sè rea; ma da quella può esser mosso l' intendimento ad un falso giudizio; ed in tal caso avvi reità morale; perocchè l' intelletto ubbidisce e consente in tal caso non al vero, a cui solo dee arrendersi, ma alle suggestioni della volontà, che il corrompe. Se dunque la benevolenza del bambino s' è lasciata divenire esclusiva e ristrettiva fin da principio, se i ristringimenti di quella naturale benevolenza sono degenerati in gelosia, invidia, malevolenza ed altre ree affezioni; se tutte queste non sono mere sensioni, ma vere volizioni, egli è entrato già nell' animo del fanciullo furtivamente il fatal veleno della nequizia; e l' intendimento non è più che un giudice corrotto, l' animo non è più che la sede della menzogna. Con queste segrete operazioni si prepara nell' infanzia la pravità sconfortante dell' adolescente, la corruttela sfrenata del giovane, i delitti dell' adulto a se stesso e alla società spietato e nemico. L' altrui bontà adunque si manifesta in due modi al fanciullo: si manifesta al sentire ed all' intendere di lui. Al sentire consegue un amore sensibile e tenero, il quale è naturale e non dannevole, se riguarda quelle persone, che usano più con lui e più lo beneficano; all' intendere consegue un amore appreziativo , il quale dee essere tenuto immune dall' influenza dell' amore sensibile . Se questo è la misura di quello, evvi falsità di giudizio, errore, immoralità. Se questo si sta bensì a canto dell' amore appreziativo, ma senza alterare l' appreziazione, non nuoce. L' appreziazione, dove sta tutto il morale come il suo germe, è sana e senza difetto. La possibilità di questa deviazione dal retto tramite nel fanciullo nostro a questa età s' intenderà considerando, che le sue volizioni appreziative già cominciarono prima d' ora; che egli si è formato gli astratti di azione e della bontà ed eccellenza delle azioni; ch' egli di più può attribuirle al soggetto; onde per le azioni loro può de' soggetti portar giudizio. Questo giudizio è retto, se non giudica arbitrariamente a danno di quelli, di cui non conosce la reità, e giudica a favore di tutti gli elementi del bene, che egli può conoscere, e conosce; benchè quegli elementi non tutti gli senta e gli esperimenti. Già son divenute in lui due cose distinte, l' esperimento del bene, e la cognizione del bene: su questa dee formare il suo giudizio, non già su quello. E qui notiamo una cosa. Tostochè il bambino conosce un' intelligenza, egli se ne forma una cotale idea illimitata, ed infinita della sua stimabilità ed amabilità. Ma poi quest' amabilità gli si va limitando sia per provare degli effetti dolorosi da quell' intelligenza, sia per un amore parzialmente collocato in una intelligenza finita e però tolto alle altre, sia per pregiudizi ed errori imbevuti, sia per altre cagioni. Queste limitazioni son tanto oneste quanto son vere, e se son vere non tolgono mai all' intelligenza la sua amabilità essenziale. Gli effetti benefici di quell' intelligenza non sono gli amati e gli apprezzati; ma sono solamente parte dei dati, sui quali apprezza ed ama l' intelligenza, da cui provengono, e della quale le attestano il prezzo. Sicchè l' appreziazione è sempre oggettiva, finisce nelle nature intelligenti; non è soggettiva, non riguarda gli effetti buoni, che sperimenta il soggetto. Ciò posto, egli avviene, che, qualora si conoscesse una intelligenza maggiore e migliore, come è la suprema, più apprezzar si dovrebbe, eziandiochè non se ne esperimentassero gli effetti. Onde diciamo, che è la potenza della bontà, più tosto che gli effetti della bontà che amar si debbono; è la dignità dell' essere intelligente, più tosto che i suoi accidentali beneficŒ, l' oggetto in cui termina l' atto morale dell' appreziazione. E tuttavia riman fermo, che quella quantità di bontà, che si esperimenta, è anch' ella un mezzo a dover conoscere la dignità ed eccellenza dell' ente intellettivo beneficante. Vedesi dunque qual sia il principio morale del fanciullo a questa età: quale la parte immutabile della sua morale, quale la parte mutabile. Il principio, e la parte immutabile della morale del fanciullo della quinta età si è questo: « Stima gli esseri intelligenti secondo il grado della loro dignità ». Dico « della loro dignità »e non « della loro bontà »unicamente per significare, che ciò, che si fa oggetto della stima morale, non sono gli effetti della bontà, ma la causa di questi effetti; la quale ha una cotale intrinseca bontà, che dignità ed eccellenza si può acconciamente nominare. Il principio, a cui il nostro fanciullo è pervenuto (benchè nol sappia enunciare), è così perfetto e compiuto, che non gli sfuggirà più dalle mani, vivesse egli quanto si vuole, e soggiacesse a qualsivoglia sviluppo maggiore. Egli non muta, chi ben osservi; ma completa e finisce i principŒ morali precedenti. Ma, salvato questo principio, rimane ancora una parte mutabile nella morale del nostro fanciullo, e questa si trova tutta nell' applicazione, ch' egli dee fare di quel principio. Egli è chiaro, che per applicare quel principio dee prima determinare i gradi « di dignità »di cui sono forniti gli esseri intellettivi da lui conosciuti. Ora, come ho detto prima, variano nelle mani del fanciullo « i dati », sui quali egli dee portar quel giudizio. Indi è che procedendo coll' età sarà sempre più al caso di giudicare con verità maggiore, quali siano i gradi di dignità, che godono gli esseri intellettivi, che egli deve onorare, e l' uno all' altro preferire, e nascerà di qui una modificazione successiva nelle forme della sua morale. Quell' epoca, nella quale il fanciullo comincia ad accorgersi, che egli deve paragonare insieme le diverse intelligenze a lui note e le diverse loro volontà, acciocchè nella collisione de' suoi doveri verso di esse preferir possa la più degna; è ragguardevolissima nella sua vita morale, e ben merita che noi vi ci fermiamo a farvi sopra alcune riflessioni. Primieramente si deve osservare, che questa è l' epoca, nella quale il suo spirito passa da de' principŒ morali concreti a de' principŒ morali astratti ossia ideali. Questo è un passaggio d' infinita importanza: rendiamo chiaro il nostro concetto. Che un essere intelligente al primo percepire e conoscere un altro essere intelligente si rallegri e si attui alla stima ed alla benevolenza verso di quello; questa è certamente cosa morale. Che un essere intelligente del pari, in cui questa stima e questa affezione è nata, inchini e si pieghi a uniformar se stesso ai sentimenti, ai pensieri, ed alle volontà di un altro essere intelligente, tosto che venga a conoscere questi sentimenti, pensieri e volontà; anche questa è cosa tutta morale: perocchè morale è ogni atto, che faccia una volontà intellettiva verso un essere del pari intellettivo. Ma la moralità in questo primo suo stadio, sebben cosa buona per sè, ella è tuttavia spontanea e non libera: la volontà si muove soavemente per quell' umano istinto, che è fondato nell' essenza dell' anima, senza bisogno di alcuna deliberazione antecedente. Di più, allorquando il fanciullo esercita gl' indicati offici morali verso gli esseri intelligenti, egli sente certamente la necessità morale di operar così, sente l' esigenza di quegli esseri da lui percepiti; ma questa esigenza non la separa da essi, non la astrae formandosene un concetto distinto e molto meno la formula in parole: no, quella esigenza è qualche cosa di reale7ideale, che fa sentire in lui la sua forza: la natura delle intelligenze che si comunicano è un effetto reale, la concezione che vi pone del suo il fanciullo è un qualche cosa d' ideale: dall' effetto reale e dall' idea unitavi ne sorte quello che io dico « principio morale concreto »; il quale è un sentimento morale7intellettivo, secondo il quale l' uomo opera per lo istinto morale, che da quello procede. Ma si muta interamente la cosa, quando il fanciullo non potendo uniformarsi contemporaneamente a due volontà intelligenti contrarie fra loro, deve scegliere la più degna fra di esse e a quella tenersi. Questa scelta può certamente esser fatta dalla natura, mediante la spontaneità, quando non si trattasse che di beni meramente soggettivi (1), o di sensioni. Ancora ella si può fare per qualche tempo in virtù del senso morale, perocchè l' esigenza morale che opera nell' anima intellettivo7morale come una cotal forza spirituale previene da una parte e fa sentire al fanciullo il bisogno di tenersi da questa sotto pena di contrariare la sua natura morale. Io non saprei determinare certamente, quanto possa durare questo tempo; ma per quantunque duri, deve finalmente spuntare quel momento, nel quale non si tratterà più di un' affezione ricevuta, ma di un' appreziazione di enti intellettivi, massime dopo che in virtù del linguaggio si poterono astrarre dagli enti le nozioni espresse colle parole buono, bello ecc., bontà e bellezza ecc.. Questi astratti sono necessarii a poter giungere a formare tra due o più enti un vero paragone, e rilevare quale di essi abbia più di dignità morale (2). Formate adunque queste concezioni astratte, si può col loro mezzo conoscere, quale di più enti tenga in se più di bontà, più di bellezza ecc., in una parola più di entità o dignità. Quando da prima il fanciullo è pervenuto a giudicare gli enti in questo modo, egli è chiaro, che gli enti stessi, e le loro azioni su di lui, hanno cessato di essere la sua suprema norma morale: perocchè egli si è formato già una norma più elevata, colla quale egli giudica gli enti stessi e le loro azioni. Questa norma è appunto la nozione astratta della bontà della bellezza ecc., in una parola, della dignità dell' ente. Si paragonino ora le due norme. - La prima crea l' ente stesso intellettivo, che comunicava sè stesso e la sua esigenza morale al fanciullo; la seconda è un' idea astratta di bontà, o sia di dignità, che misura i gradi di quella esigenza morale. La prima dunque era una norma, che potea dirsi concreta , perocchè era qualche cosa di reale, che si faceva sentire, e a cui l' ente, che la sentiva, aggiungeva quell' elemento ideale, che è necessario a compiere la percezione intellettiva: la seconda è una mera idea senza concrezione alcuna di reale, una nozione astratta, che si comunica alla sola mente, e non al sentimento. Nel primo stadio morale del fanciullo la norma ossia la legge non aveva ancora un' esistenza a sè; ma era immedesimata cogli enti, verso i quali la morale si esercita. Nel secondo stadio, una cotal legge esiste indipendentemente dagli enti, oggetti della moralità: esiste nel mondo ideale, nel mondo delle possibilità: quando anco nessun ente sussistesse, la norma di cui parliamo si concepirebbe egualmente come necessaria, eterna, riferentesi a degli enti possibili pure eterni, senza alcun bisogno di enti reali. Nel primo stadio gli elementi dell' atto morale sono due soli: 1 quegli, che opera il bene e il male; 2 e l' oggetto, verso cui il bene e il male viene operato. - Nel secondo stadio tutti e tre gli elementi della morale sono a pieno sviluppati e distinti: 1 vi è, chi opera il bene o il male; 2 vi è l' oggetto, verso cui si opera; 3 vi è finalmente la norma o regola, secondo la quale si opera. - Solamente in quest' ultimo caso la moralità s' è resa completa, ha spiegate interamente le sue forme, che prima teneva raccolte come una rosa, che tiene ancor piegata alcuna sua foglia entro il calice. Il passaggio delle norme concrete alle norme astratte della morale è un grande sviluppamento della natura morale nell' uomo, quand' egli si considera semplicemente come sviluppo. Ma giova egli, o pure nuoce alla bontà morale dell' uomo? Che egli apra all' uomo una porta, per la quale entrando possa ascendere ad un grado maggiore di perfezione morale, e che questa sia l' intenzione della natura, non avvi dubbio di sorta. La vocazione dunque dell' uomo, dell' umanità, diviene da quell' ora più augusta: tutto sta che egli vi risponda degnamente. Ma gli è egli agevole l' entrare nel nuovo arringo, e il percorrerlo con felicità? La bontà morale, a cui è chiamato dall' istante, ch' egli è venuto in possesso delle norme astratte , è ella egualmente facile, come quella che gli era destinata in quell' età, in cui le sue norme di operare sono ancora concrete? Sarebbe un adulare vanamente l' umana natura il sostenere, che questa nuova specie di moralità più eccellente, che nasce dal seguitare le norme astratte, sia più facile di quella, le cui norme sono concrete. Di tanto è più difficile all' uomo l' esser buono in questo secondo stadio della sua vita morale, di quanto è maggiore quella bontà, che a lui si richiede, acciocchè egli sia buono e non cattivo. Assegniamo qualche ragione di questa cresciuta difficoltà. Primieramente nel primo stadio della moralità egli era diretto dalla natura, maestra sicura e soave: la sua spontaneità lo conduceva, e questa sapeva sempre dove piegare, non altrimente che sanno i due bacini della bilancia, dove un solo scrupolo più nell' un che nell' altro li dilibri. All' incontro nel secondo stadio l' uomo non può venir tosto all' azione cedendo all' impulso morale della natura, ma per operar bene deve fare un atto di più; deve prima di operare applicare la nozione astratta e giudicare sul valor relativo degli enti. Già il dover fare un atto di più per porre un' azione, è una difficoltà maggiore. S' aggiunge, che quest' atto deve essere imparziale; giudicando un essere migliore di un altro, convien dar peso solamente a ciò che si conosce di lui, e a tutto ciò, che si conosce: le affezioni già prese, le sensioni si debbono contare per nulla, cioè per solo quello che indicano di bontà all' intendimento. Quanto è difficile, che questo giudice si rimanga incorrotto e del tutto imparziale, quando l' uomo, che usa dell' intelletto, non è solo intelletto, ma è pieno di bisogni sensitivi ed animali, per soddisfare ai quali amerebbe sempre chiamare a' suoi servigi lo stesso intendimento, voglio dire il giudizio dell' intendimento? Se l' uomo avesse una natura perfetta, una natura senza mescolamento di alcun elemento di male, le sensioni e gl' istinti da esse nascenti si conterrebbero nella loro sfera, produrrebbero forse delle azioni senza intervento dell' intelletto (almeno se l' attività propria di questo, la volontà, non si opponesse loro): ma non darebbero la leva all' intelletto stesso, non attenterebbero di muoverlo ad un giudizio precipitoso, temerario e falso. Le due potenze dell' affezione e della volontà opererebbero da sè a fianco l' una dell' altra. In tal modo non verrebbe mai sedotto il giudizio dell' intendimento umano, e però non vi avrebbe immoralità. Ma il fatto avviene pure spesso in contrario: l' uomo sente, e, schiavo delle sue sensioni, non s' accontenta di esse; vuol fare servir loro l' intendimento, e così piega la sua ragione a pronunciare, prima d' aver esaminato, prima d' avere veduto il vero, a favore di quelle. Venendo il giudizio così pressato a pronunciare, quando la causa non è resa ancor chiara, egli per non errare conviene che sia fornito d' una grande forza pratica tutta a favore della verità e della virtù (1). Questa può nascere ed esser coltivata dalla prima infanzia, prima ancora del tempo della lotta; ma dove ciò non sia stato fatto, viene pel fanciullo l' età, in cui da una parte ha una norma astratta, un' idea, secondo la quale deve giudicare; dall' altra ha già le passioni invigorite, che vogliono farlo giudicare per esse; quella gli mostra la via, ma nol move; queste il movono, ma gli nascondono la vera via; nè egli ha virtù naturale di resistere a' costoro inviti. E ciò spiega la somma difficoltà, che si osserva ne' fanciulli a mantenere una costante veracità nelle loro parole. Osserva M. Necker de Saussure che « « ogni azione, dalla quale non risulta immediatamente patimento a nessuno, pare innocente al fanciullo »(1) ». La ragione di questo fatto si è, che per conoscere colpevole un' azione che non fa dolore a nessuno, il fanciullo dee usare di una norma ideale, là dove per conoscere colpevole un' azione che reca dolore, egli non ha bisogno di far uso, che di una norma concreta. Ora una norma ideale è sfuggevole all' attenzione, e fa su di lui poca impressione; là dove una norma concreta il muove efficacemente. Applichiamo questo principio generale al caso particolare della veracità. Ecco il fatto. [...OMISSIS...] Questo fatto dimostra la poca efficacia, che ha la norma astratta della veracità sull' animo de' fanciulli. Quando la veracità va d' accordo colla simpatia, cioè col bene che si fa altrui per istinto, allora è conservata: è il caso nel quale il fanciullo si dimostra sì schietto, sì ingenuo. Se la veracità non è combattuta dalle tendenze simpatiche, benchè non la sia favorita da esse, ancora conserva qualche forza sul fanciullo: egli ben intende, che le parole debbono significare altrui quello che si pensa, che questa è cosa convenuta tra gli uomini, che chi apre la bocca a parlare con questo solo si obbliga a stare a quella convenzione, ed usare le parole per esprimere il vero. Ma tutto ciò si oscura nella mente infantile o almeno perde di forza nella sua volontà, quando un' affezione simpatica, una sensione qualsiasi viene in collisione colla norma della veracità. Molte volte allor nasce, che vi siano due norme morali in collisione tra loro, l' una concreta, quella della benevolenza; l' altra astratta, quella della veracità. La prima prevale alla seconda, benchè la seconda sia in se stessa assai più autorevole della prima. La veracità ha due ragioni, che la raccomandano. L' una l' utilità generale del genere umano; l' altra l' intrinseco prezzo, la necessità intrinseca della veracità: e questa seconda è la ragione diretta ed intrinseca. L' utilità del genere umano è compresa nel principio della benevolenza già noto al fanciullo; ma quella utilità egli non sa calcolarla: e dove anco la sapesse in qualche modo, trovandola in collisione con una utilità presente e sensibile, quella forse, generale e ideale come sarebbe nella sua mente, cederebbe a questa minore, ma concreta ed istante. Appena il fanciullo alla nostra età imparò a subordinare uno o due mezzi ad un fine; e il calcolo dell' utilità universale, veniente da una costante veracità, suppone la subordinazione e coordinazione d' un gran numero, e d' una grande serie di mezzi al fine di quella generale utilità. Il concepire immediatamente la necessità intrinseca di essere veraci non è guari difficile; e come dicemmo, ogni fanciullo, quando è tranquillo e non sedotto dalle passioni, la vede e la conosce. Ma questa conoscenza non ha virtù di muovere la volontà, quando questa è preoccupata dall' affezione agli esseri reali: l' attenzione del fanciullo si occupa tutta della cosa che ama, e volontariamente dimentica, per dir meglio non considera quella necessità della veracità, che pure gli sta immobilmente presente, benchè egli volga di continuo l' occhio altrove per non vederla. Se noi vogliamo dedurre il dovere della veracità nelle parole potremo dedurlo nel modo seguente: « Chi prende a parlare altrui, promette tacitamente a quelli, co' quali parla, di dir loro la verità usando le parole per quel che corrono. Quegli ai quali parla acquistano con ciò il diritto di non essere ingannati. Il diritto di non essere ingannati è di gran prezzo per l' essere intelligente, che abborrisce che gli si faccia inganno, eziandio allora che egli non si fa scrupolo d' ingannare altrui. Laonde il fanciullo stesso si adonta contro colui che l' inganna mentendogli, con che dimostra di sentire assai bene, che l' inganno è un' ingiuria per un essere ragionevole; è una violazione della dignità dell' essere intelligente, il cui altissimo bene si è il vero, e il cui proprio male si è il falso. Dunque il mentire è peccato e la veracità è dovere ». Da questa deduzione del dovere della veracità s' intende che egli esige per essere inteso, che prima sia ben inteso come « il possesso della verità sia un gran bene, e carissimo all' essere intelligente »; e come per quest' essere sia un male il falso e un' ingiuria l' inganno. Che tutto ciò s' intenda dal fanciullo è innegabile; ma del pari è innegabile, che ciò ha poca efficacia sulla sua volontà. Di che la ragione si è che la verità è un essere ideale, di cui sebbene intenda il prezzo, tuttavia non lo intende per modo che grandemente il muova; nè il può a lungo contemplare colla sua mente sempre naturalmente occupata di cose reali. Alla verità , a quest' idea sublime, il fanciullo dà degli sguardi momentanei; ma non vi si ferma: la usa di mezzo, ma non la contempla mai fissamente e direttamente come fine, come oggetto: è troppo comune, troppo chiara, troppo evidente, troppo antica per lui a poterlo interessare, occupare di sè: questa è l' opera dell' età avvenire, della mente esercitata, del cuore sublimato da un lungo esercizio di virtù. E qui soffermiamoci a levare la nostra riflessione su tutte le cose dette, che n' avremo un risultamento importantissimo al fine di conoscere la qualità e l' indole dello sviluppo delle facoltà morali nel fanciullo. La morale soggiacque nel suo spirito a tre modificazioni sostanziali, prese successivamente tre forme; ma la forma, che successe, non distrusse l' antecedente, la completò; la seconda completò la prima, la terza le altre due. La prima forma, di cui parliamo, avea per oggetto e per norma insieme l' essere intelligente reale e produceva l' immediata benevolenza. Volendo vestirla di un' espressione, ella suonerebbe così: « riconosci praticamente gli esseri morali per quello che sono »(rispetto a te). La seconda forma avea per oggetto la volontà degli esseri intelligenti reali, la volontà buona, e la sua espressione sarebbe questa: « uniformati alla buona volontà degli esseri intelligenti ». La terza forma in fine ebbe per termine la nozione ideale, l' idea come norma delle azioni. Quando l' uomo dice seco medesimo: io debbo preferire tra più esseri intelligenti e tra più volontà la migliore; egli allora non s' attacca nè a questo, nè a quell' essere reale; ma all' ordine mostratogli nell' idea: sicchè quest' idea viene ascoltata a preferenza di qualsiasi invito e attraimento, che potessero esercitare sopra di lui gli esseri reali. Questa forma di moralità potrebbe dunque venire espressa così: « fa ciò, che ti mostra dover tu fare la nozione o idea delle cose, colla quale si misura e pesa il valore delle cose stesse ». Le tre forme della morale da noi qui accennate sono quelle che sogliam dire le tre categorie della morale: tutti i precetti ad una di esse tre si riducono. La prima ha per fondamento l' essere reale, la seconda l' essere morale, la terza l' essere ideale: questi sono i tre modi, ne' quali l' essere sussiste. Il fanciullo dunque al quint' ordine d' intellezioni tocca si può dire tutta la morale; perocchè tutte le forme di questa si sono a lui disvelate. Chi poi bramasse intendere qualche cosa di più intorno a questa parte ontologica dell' Etica, può vedere il nostro « Trattato della coscienza (1) ». Iddio si è già cominciato a conoscere dal fanciullo come natura ottima e come volontà ottima. Questa cognizione si sviluppa e perfeziona via più nel fanciullo, quando questi si conduca a conoscere le opere di Dio ed i suoi precetti . Ma, oltre questo perfezionamento della notizia di Dio nella mente fanciullesca, in quest' ordine d' intellezioni può manifestarsi Iddio al fanciullo come giudice e rimuneratore del bene e del male. Già di molto s' estende il pensiero del fanciullo se egli giunge a sapere, che, chi è contrario a Dio, è perduto, chi è amico suo, è salvato, destinato alla beatitudine: chi disubbidisce alla sua volontà, è punito in un modo terribile, chi l' ubbidisce, è premiato in un modo ineffabile. Questa idea di rimunerazione ben impressa e tenuta viva nella mente fanciullesca è un faro di salute nelle tempeste delle tentazioni: tutti gli attributi di Dio vi sono compresi, la potenza, la sapienza, la giustizia, la bontà, l' esser egli unico bene, il bene essenziale, il compimento di tutto ciò che è finito, la sussistenza stessa del finito. All' anima umana è convenientissima una tale notizia: annunziatagliela l' accetta avidamente, l' ammette come propria, come già conosciuta e a lei famigliare: la luce della sua verità è tale, che esclude qualsiasi possibile opposizione od esitazione. Alcune altre cose spettanti allo sviluppo intellettivo del fanciullo al quint' ordine saranno inserite in questo capitolo per la stretta connessione, che esse hanno collo sviluppo delle sue facoltà attive e morali, che ora prendiamo a sporre. Vi ha un tempo della vita del fanciullo, nel quale l' imaginazione prende uno sviluppo rapido ed immenso: questo suol essere il terzo o il quarto anno (1), al quale tempo suol appartenere il quint' ordine d' intellezioni. Questo fatto del subito slancio che prende l' imaginazione, la quale dopo qualche tempo perde nuovamente di sua attività, dee essere da noi spiegato: e le ragioni di esso ritrovansi appunto nelle speciali condizioni dello spirito pervenuto al quint' ordine d' intellezioni. Fino dai primi istanti della vita del fanciullo la facoltà di ristaurare nell' interno le sensazioni ricevute cogli organi esteriori è certo sommamente pronta e vivace. Ma la sua prontezza e vivacità non si stende che a lui, nè mostra perciò al di fuori i suoi effetti per le seguenti ragioni. Le sensazioni che riceve il bambino alla giornata sono ancor poche ed uniformi. Queste si risuscitano bensì nella sua imaginativa, in questo senso interiore, date alcune circostanze, indicazioni o stimoli, che sieno atti a rinfrescare nel cervello le sensazioni avute. Ma il fanciullo non gode ancora di alcun uso della sua libertà, nè ha imparato a maneggiare quella potenza che ha d' imaginare; nè conosce alcun bisogno, alcun fine che a ciò lo tragga. Egli si rimane adunque al tutto passivo; e quelle sensazioni, che nella sua fantasia si suscitano e rinnovellano, si suscitano e rinnovellano tutte a caso, e secondo impreveduti accidenti. Indi è, che non si dà nel rivenire delle sue imagini alcuna composizione nuova; si ripetono fedelmente le sensioni avute e non più. Di che manca tutta quella immensa ricchezza, che l' imaginativa acquista dalla composizione d' imagini, varia all' infinito. Questi limiti, che restringono da prima l' imaginazione infantile, si tolgono via ben presto. Le sensazioni si moltiplicano, si connnettono, si ripetono e tutte vivissime. Col sentire si suscita nel fanciullo il desiderio di sentir maggiormente, la voglia di procacciarsi sensazioni esterne ed interne. Egli viene apprendendo l' arte di muovere egli stesso internamente i nervicciuoli destinati al sentire interno della fantasia, e così a suscitarsi le imagini. Quest' attività prima spontanea s' accresce ben presto coll' apparizione della libertà nel fanciullo. Ma tutto ciò non sarebbe ancor bastevole a spiegare quel periodo, d' altra parte breve e sfuggevole, nel quale l' imaginazione è per così dire la fata del paese, arbitra di tutto ciò che vi nasce e che vi apparisce. A rilevar la cagione di tal fenomeno si consideri: 1 Che l' uomo non potrebbe colla sua imaginazione crearsi degli avvenimenti, comporsi delle favole, de' miti, se non a condizione di aver già appreso dall' esperienza come gli esseri della natura sogliono operare, il che è quanto dire dopo essersi formato de' principŒ definiti circa l' operare delle cose. 2 Che non potrebbe tampoco fare tutto ciò liberamente, se i principŒ da lui formatisi circa l' operare delle cose fossero così definiti e legati alla realità, ch' egli non potesse più nulla aggiungere alla natura, non pensare più nulla di nuovo, se non ciò che fosse al tutto verisimile. Si esige adunque, affinchè l' imaginazione abbia il suo maggiore sfogo, una qualche cognizione dell' operare delle cose che compongono l' universo; ma non una cognizione perfetta, anzi manchevole, vaga, da molte parti indeterminata. Trovandosi in tale stato d' imperfezione la cognizione intorno all' operar delle cose; la mente del fanciullo ne sa abbastanza per fingere delle cose sull' esempio di quelle che avvengono realmente in natura; ma ne sa ancora bastevolmente poco per trovare verosimile tutto ciò che non è metafisicamente impossibile: la verisimiglianza ha per lui ancora ampiissimi confini, l' inverisimiglianza gli ha angustissimi. Già abbiamo veduto che, da principio, il fanciullo non ha altra regola nella sua mente per misurare l' impossibile in natura, se non l' assurdo metafisico; perciò egli è disposto a credere possibile, a credere vero e reale tutto ciò che non contiene in sè intrinseca contradizione e questa stessa a lui visibile; perocchè non sempre la coglie. La possibilità fisica adunque, per lui altrettanto estesa quanto la possibilità metafisica, è immensa, non ha confini; e questo è il teatro della sua fantasia. Ma questa potenza intrinseca non può giocolare sur un tanto teatro, se non ne apparò prima l' arte; cioè se non ha qualche cognizione delle cose esteriori e del loro operare, ch' egli dee pur fingere e in qualche modo simulare. Ora quest' arte l' appara tostochè, percepite le cose esterne, comincia ad osservarne le loro azioni, a formarsene degli astratti, a notarne alcuni grossolani lineamenti e confini; i quali limitassero bensì un poco per lui la sfera della possibilità fisica, ma non tanto ch' ella non restasse ancora infinitamente più estesa della reale. Ora questo stato dello spirito del fanciullo è appunto quello, che risponde al quinto e al sest' ordine d' intellezioni. Da principio l' operar della natura per lui non ha limiti, ma nè pur quasi esiste: perocchè non avendo percepito che alcuni esseri, egli non vede che quegli soli, che a lui richiama e ripete la fantasia, che da se stessa si muove. Quando poi egli è già in possesso di alcune idee astratte delle azioni e si è formati alcuni tipi grossolani dell' operar delle cose, il che comincia egli a fare al quart' ordine, egli è in possesso di tutte e due le condizioni necessarie alla massima attività della sua imaginazione, perocchè d' una parte: 1 egli sa fingere delle cose e de' fatti; perchè ha già delle idee astratte che a ciò lo dirigono e de' tipi ricevuti dall' esperienza; 2 e in questo lavoro non è angustiato e ristretto dalle misere leggi della verisimiglianza, leggi che ancor non conosce; e però spazia larghissimamente colla sua imaginazione, senza trovare ostacolo, per i campi di un mondo fantastico e dilettevolissimi senza confini. Ma questo stato felice, in cui la sua fantasia e sa muoversi e nel muoversi non trova alcun ostacolo che la trattenga, alcuna legge che la restringa, non dura a vero dire gran tempo. Perocchè l' avvolgersi continuo colle cose reali della natura e le nuove osservazioni, ch' egli fa di continuo sul loro operare, lo rende accorto de' confini più precisi, entro a cui son racchiuse le nature nelle loro azioni: i tipi dell' operare delle cose, che egli s' era formato in mente e che erano incerti abbozzi, e più cotali scarabocchi ovvero geroglifici che accurati disegni, vanno ricevendo più distinti contorni, si disegnano con più esattezza, si colorano con più chiaroscuri, ricevono fin anco gli ultimi tocchi, che li rende similissimi alla realità. Ogni passo, che egli fa in questa scienza, ogni linea ch' egli aggiunga al disegno, che s' è formato in mente, e colla quale via meglio il determina, fa perdere immensamente alla sua imaginativa, svela per chimeriche innumerevoli sue creazioni, condanna per grossolane, puerili, assurde infinite invenzioni, che prima nella sua semplice ingenuità a lui parevano le cose più vere, le più care, fino le più importanti. Così l' età sopravvegnente porta via continuamente molti idoli fantastici, che più non piacciono, quando se ne vede troppo patentemente la falsità. [...OMISSIS...] Ma non passano molti anni, che le novelle vostre non gli piacciono più: voi dovete acconciarle con più industria, acciocchè gli riescano interessanti: viene ben presto il tempo che egli vuol delle vere storie (2). Il periodo d' una straordinaria quantità d' azioni della fantasia, che si vede nell' infanzia al terzo e quart' anno, cioè al quinto e sesto ordine d' intellezioni, vedesi del pari nella vita dell' umanità. I tempi favolosi si trovano nelle storie di tutti i popoli: l' Oriente, la Grecia, il Settentrione hanno le loro favole: a tutte le storie sono preceduti i poeti. Questo periodo mitico è più o meno lungo, secondo che l' infanzia delle nazioni è più o meno prolungata. Le favole non si possono più sostenere presso que' popoli, nei quali la cognizione precisa delle cose reali ha reso impossibile la loro illusione. Allor quando alla mitologia greca si pretese di sostituire nella letteratura le streghe e gli spettri del Nord, si dava indizio di conoscere, che il mondo non poteva più comportare in alcun modo le bambolaggini greche; ma poi per errore credevasi di soddisfare alle sue nuove esigenze col presentargli delle nuove bambolaggini, le boreali. Non poteva riuscire il tentativo, nè riuscì: il mondo cristiano ha oggimai bisogno di schiettissima verità . Sarebbe tuttavia erroneo il credere, che con questo nome di verità s' intendesse solamente la realità; questa non è che una parte di quella: la verità abbraccia di più: ha la sua storia e la sua poesia; e son vere ugualmente. Ben avviene che i popoli, che occupano interamente la loro attività in interessi reali e in cose positive, divengono alienissimi da tutte le generali teorie, e da quanto v' ha di grande nel mondo ideale. Questi vanno all' eccesso contrario: legano del tutto la loro fantasia, perocchè a questa non rimane più a innovar cosa alcuna, condannata, per somma grazia, a solo ristampare le realità. Non è già che alla imaginativa di tali popoli manchin le forze; ma queste forze sono legate del tutto. Perocchè la potenza d' imaginare non può produr nulla, che abbia qualche interesse per l' uomo, se non sia tale, che rechi qualche illusione; che possa almen essere conosciuto per tutto simile al vero. Ma non dà alcun valore che al reale, poichè al reale tanto s' affissa, che lo ha sempre presente, nè crede che altro vi sia che il reale; questi trova puerile tutto ciò che reale non è, e ride, o almeno non cura nè anche quello, di chi dubita se sia reale. Ognuno vede quanto al ritratto, che noi facciamo di tali popoli, rassomigliano gli Americani degli Stati7Uniti. Ma tutto ciò, che abbiamo detto, non ispiega ancora certi fenomeni dell' animo del fanciullo al tempo, in cui la sua imaginazione prende quel rigoglio di cui abbiamo parlato. Uno di questi fenomeni si è, che entro quel periodo il fanciullo trae ben sovente più piacere dall' imaginario che dal reale. [...OMISSIS...] Le quali parole nel tempo stesso che descrivono con evidenza il giuoco dell' imaginazione puerile, toccano anco delle cagioni che entrano a produrlo. E certo il piacere di operare da sè, di vagheggiare le proprie creature, dell' averne sempre di nuove e fresche, e tutte atte ad illudere in quell' età per la ragione detta di sopra; valgono in parte a spiegare come il fanciullo così avidamente si dia a chimerizzare e fantasticare. Ma perchè non si vede un somigliante giuoco nelle bestie? Hanno pur anche esse l' imaginativa e provano piacere delle rinnovellate imagini: ma come ottimamente venne osservato, tratte una volta in inganno dall' imaginazione, per esempio delle uve di Zeusi, non ne vogliono sapere di vantaggio di simiglianti illusioni tutte proprie dell' uomo. Vero è, che l' attività, che dispiega l' uomo imaginando, non è solo sensuale, ma intellettuale altresì; giacchè l' imaginazione vien diretta e guidata dalle idee astratte, ciascuna delle quali è un cotal tipo non finito, sul quale innumerevoli cose possono esser create e foggiate, ed è ciò che rende sì vasto l' imaginar dell' uomo sopra quel delle bestie. Tuttavia quest' attività intellettuale che s' accompagna all' attività dell' imaginazione, e cresce tanto e l' ampiezza e il diletto dell' operare di questa; in che modo potrebbe ella esser fonte di tai piaceri, se non fosser piacevoli gli stessi oggetti, ch' ella presenta? Dunque non è solo l' attività come attività la cagione perchè il fanciullo si diletta degli imaginati oggetti, ma è qualche cosa ancora di dilettoso, che in questi egli ritrova e gusta: e che può esser la cosa che così lo attrae? Se non è la realtà dell' oggetto, che, come vedemmo, egli ritrova soverchiamente angusta e povera, che il diletti, non può esser altro che la stessa entità metafisica della cosa: cioè a dire egli si diletta dell' oggetto come oggetto, poco poi calendogli che esso sia reale o non sia; egli contempla e gusta la natura, la essenza delle cose; di questa è incantato e preso. Questa è una contemplazione dilettevole sì, ma disinteressata; una contemplazione tanto più nobile quanto è più segregata dalla fredda realità. Egli è l' istinto d' imparare a conoscere l' entità delle cose, che lo muove, che lo trattiene a contemplare internamente nel proprio spirito, senza darsi gran pena della cosa al di fuori: egli è rapito dal bisogno che prova il suo intendimento di suggere per così dire l' essere, più essere che egli possa, i gradi, l' ordine intimo, le forme di quest' essere, che sono appunto l' essenza delle cose limitate, di cibarsene come del suo nobilissimo cibo, celeste, vitale. L' oggettivo, l' ente in sè (non reale, non ideale, ma astratto da questi primordiali suoi modi) è quello ch' io chiamo il mondo metafisico. A quest' età il fanciullo apre le sue ali e vola ad esso senza schermi. La mente si compiace nell' aderirvi come la bocca del bambino al seno materno. Egli è per questa stessa ragione, che fino al tempo nostro, benchè sì ricco oggimai di esperienza, avidamente son letti i romanzi. Ma v' ha forse alcun, che li legga, perchè egli creda, che le cose siano avvenute, come essi le narrano? Sarebbe troppa semplicità. Chi li legge vuol vedere in essi come sia la natura umana, come ella operi. Vuol imparare a conoscere il cuore umano, vuol contemplare l' indole delle passioni, le pieghe di questo cuore, che palpitando in tanti individui diversi è finalmente in tutti il medesimo. Allo stesso modo gli uomini guardano il figurino, affine di conoscere l' usanza corrente; a nessuno poi importa che la pinta imagine sia per avventura Madame tale o Monsieur tale, le quali realtà riuscirebbero così frivole, così importune, così lontane da quel che cercasi, che farebbero noia anzichè piacere. Il desiderio di conoscere le cose in sè stesse nella loro oggettiva essenza, anzichè nell' accidentale loro realità, è lo stesso che il desiderio del sapere; perocchè il sapere tutto a questo si riduce nella formale sua parte; nè il sapere più o meno delle cose reali e positive rende per sè l' uomo più savio e più dotto. E questo è uno degli istinti più forti dell' umana natura: l' anima si precipita nell' entità oggettiva come nel suo bene, tostochè ella possa, tostochè si veda aperta una via per pigliarsene qualche parte, foss' anco un briciolo. Da questa tendenza poi efficacissima, che porta l' anima intelligente a contemplar le cose, come sono in se stesse, non come sono nel mondo reale, moltissimi fenomeni dell' umana vita ricevono facile spiegazione, e bastimi fare qui cenno soltanto di quello, che più da vicino s' attiene al nostro discorso. Quest' è la facilità, la prontezza, la necessità, che ha lo spirito di passare da una cosa simile ad un' altra, cioè a far si che una cosa gli serva di segno o d' indizio d' un' altra. Non importa che la somiglianza sia poca, che il segno sia imperfetto, che meriti piuttosto nome d' indizio che di ritratto: la mente non fermasi a quell' oggetto rozzo e reale, come negli esempi di sopra accennati all' uomo di cera o di carta: pensa immediatamente all' uomo vero, ma notisi bene, dico l' uomo vero, non dico il reale; perocchè al fanciullo niente gl' importa di sapere che esso sussista; gl' importa solo di pensare, di contemplarsi quell' uomo, di cui nel suo spirito ha già ricevuto l' idea, e nella idea appunto l' essenza. Tanto egli è vero che questo passaggio spontaneo da cose così distinte tra loro, com' è un po' di cera e di carta, da un uomo, accade per la forza dell' istinto, che sprona del continuo la mente a ricorrere alle cose in se stesse; che un tal passaggio, chi ben lo considera, riguarda sempre una cosa esterna e materiale, dalla quale si passa ad una cosa interna ed oggettiva. E quand' anco avvenisse che da una cosa esterna si passi in un' altra pure esterna, sempre però ciò si effettua per questo modo; che egli dalla cosa esterna passi prima a contemplare quella, che egli ha nella mente, e poscia da questa cosa interna viene all' altra esterna. Questa osservazione medesima dimostra la possibilità delle lingue. Si noti, che la maggior parte de' suoni, che formano una lingua, segnano le cose come sono nella loro natura e non nella loro sussistenza. Or come sarebbe possibile, che all' udire i suoni delle parole il fanciullo fosse tratto a pensare alle cose, colle quali essi hanno una cotale analogia, se non fosse già inclinato da natura a correre colla mente alle cose in se stesse, prendendone occasione da checchessia gli si presenti? - Chi vide la scuola de' sordomuti, e la incredibile facilità, onde intendono le cose mediante de' segni, si convincerà della cosa stessa. Non fa già bisogno, che i maestri gli dicano innanzi, che i gesti, che adoperano con esso loro, sono de' segni: questo sempre viene presupposto, questo lo sanno da sè, glielo dice la natura: la natura è quella che li avvia a considerare tutte le esterne cose, e non soltanto i gesti dei maestri, come de' segni di altre cose, cioè della natura, dell' essenza delle cose. Se la natura non lo dicesse loro, niun potrebbe farglielo intendere: perocchè il concetto che una cosa sia segno, e sopratutto segno convenzionale d' un' altra, è in sè stesso così difficile a snodarsi, così gratuito a stabilirsi, dirò anche così strano e mirabile; quando si considera la cosa colla mente e non coll' istinto, che non potrebbe essere mai ricevuto, ammesso, ritenuto costantemente; come pure senza alcuno sforzo, fanno, e ogni giorno i bambini, gli idioti, i muti. E` che l' uomo non può fermarsi al reale; è che egli tosto che può farlo, fugge da esso come la freccia dall' arco, per cogliere e infiggersi nella natura delle cose, oggetto della sua intellettuale contemplazione: è per questo ch' egli, lungi dal trovar difficile il pensiero, che una cosa sia segno dell' altra, trova anzi impossibile il non considerare tutte le cose reali per segni. Questo spiega le lingue, i geroglifici, le scritture, le mimiche, i simboli, i miti, le arti tutte d' imitazione, l' antichissimo linguaggio enigmatico, la sapienza parabolica de' primi uomini, l' aver Iddio ammaestrati gli uomini sempre per segni, per figure: l' interpretarsi per segni ogni cosa che avviene, sia falsamente ed arbitrariamente siccome fanno gli auspici, gli aruspici, i fatidici, gl' indovini presso tutti i popoli, in tutti i tempi; sia veramente come fanno gli ispirati incominciando da' primi profeti, a cui Dio parlava per visioni e per segni, fino ai Padri della Chiesa e agli interpreti delle Sante Scritture, che negli stessi fatti più semplici del Vangelo leggono quasi direi significati de' morali documenti e de' profondi misteri (1). La tendenza, che porta l' uomo alla contemplazione delle cose in se stesse è essenzialmente morale; appunto perchè ella è essenzialmente oggettiva (2), e del soggetto interamente obliviosa. Se dunque l' imaginazione, che si spiega nel fanciullo, non producesse altro effetto che questo, fosse solo un aumento di contemplazione intellettiva delle cose nel loro essere metafisico; indubitatamente, che ella gioverebbe alla bontà morale, senzachè da essa venisse a questa alcun danno. E così sarebbe, se l' umano istinto , che segretamente dirige le potenze alle loro operazioni, avesse per suo mobile solo l' accennato, voglio dire la tendenza dell' intelletto ad affissarsi nell' entità delle cose, senza più. Ma egli ha un altro mobile tuttavia, e questo è il piacere che ritrae dalla realità. Convien riflettere, che l' uomo è un essere reale, e che perciò ci tende ancora a dei godimenti reali. Benchè adunque il suo intelletto si compiaccia nella luce della verità, nella visione delle essenze; tuttavia vi ha in lui un' altra tendenza a lato di quella, la tendenza cioè che lo porta verso a tutti quei beni reali, che gli posson dare diletto. Due adunque sono i mobili dell' istinto umano: l' uno ci porta verso l' entità in se considerata, l' altro verso l' entità reale . Questi due mobili dirigono segretamente lo spirito nostro nelle sue operazioni per una strada opposta. La tendenza del tutto intellettiva a fissarsi nella cosa in se considerata ci stacca dalla realità, che le riesce del tutto inutile; la tendenza a godere della realità a questa ci rimena. Indi avviene, che quando il fanciullo immagina viene bene spesso da lui contemplato come una natura di cose in se, non curando la ricerca, se sia reale o no. Quando prevale in lui questa prima tendenza, egli parte dal reale come da un simbolo, e finisce nell' essenza della cosa come nel simboleggiato. L' essenza qui è il fine del movimento dello spirito, la cosa contingente e reale non ne è che il principio e l' occasione. Ma se nel reale egli concepisca qualche cosa di dilettevole, e indi venga a giocare la seconda tendenza, allora avviene nello spirito del fanciullo il contrario: cioè che quanto egli imagina facilmente lo crede cosa reale. In questo caso lo spirito di lui fa un contrario viaggio; egli parte dall' imaginario e viene al reale: la imaginazione è il principio del movimento, la credenza alla realità ne è il termine. Ognuno s' avvede, che con queste parole noi abbiamo discoperto la sorgente di molti errori infantili. Perocchè come la mente, che dal reale partendo, si dava all' entità in se, trova ed aderisce al vero; così la mente, che parte dall' immaginato e dall' entità in sè contemplata, e viene a vedervi dentro il reale, trova il falso ed a questo s' abbraccia. Vero è, che nella stessa imaginazione si ha un principio di reale, perchè è il sentimento che soffre, ed il sentimento è un reale, nè può essere modificato che da qualche reale azione. Ora quando noi soffriamo qualche azione nel sentimento nostro concludiamo, che un reale esiste; nè a torto fin qui: perocchè l' error nostro comincia solo allora, che noi vogliamo determinare, che cosa sia questo agente reale, e giudichiamo dover essere quello appunto che ci apparisce. Questa illusione è perfetta ne' sogni, nei quali non dubitiamo punto della realità delle cose, che ci si rappresentano, perchè la loro rappresentazione, cioè la loro azione nel sentimento nostro è perfetta. Nella veglia stessa se l' imagine è viva e presente, ci illude e a mal grado del ragionamento, che vorrebbe trarci d' inganno, noi sofferiamo una commozione tutta simile a quella della realità. [...OMISSIS...] In questi fatti non ha luogo la volontà libera del fanciullo: le imagini e i sentimenti di paura sono delle realità, e le realità muovono la persuasione, inducono il nostro spirito a credere ad esse. Quand' anco il fanciullo sapesse speculativamente, a non dubitarne, che i suoi timori non hanno alcun fondamento, che quegli spettri non sussistono; tuttavia sussiste l' impressione e la reale commozione del sentimento in lui: egli soffre ad ogni modo l' impressione d' una realità. Avvi ancora una tendenza a credere, che gli oggetti sieno in se stessi, come sì vivamente gli appaiono: questa tendenza che suppone in ciò che apparisce un ente, è figlia dell' intendimento, che dovunque non può vedere cosa alcuna se non a condizione, che vi vegga degli enti. Onde lo spirito li suppone anche dove non sono, perocchè gli è il modo più facile di concepirne qualche cosa, di cui ha voglia: altramente dovrebbe sospendere l' atto suo per un tempo assai lungo, fino allora che abbia scoperto il vero ente a cui rattaccar que' fenomeni. Per quantunque in questo modo nascano degli errori nella mente infantile, tuttavia essi non sono ancora quella classe di errori che noi vogliamo qui designare come funesti alla moralità. Nè pure appartengono alla classe degli errori funesti, quelli che nascono da altre leggi pure dell' intendimento, le quali noi abbiamo disegnate di sopra. Abbiamo detto cioè che l' intendimento in ciò che percepisce « non solo percepisce necessariamente un ente, ma ancora suppone sempre che l' ente percepito sia il più perfetto ed assoluto, che egli possa concepire stante la qualità e quantità delle sue cognizioni ». Questa gran legge dell' intendimento riceve una modificazione nella sua applicazione secondo lo stato dello spirito fornito più o meno di sperienze e di cognizioni, come vedemmo; sicchè lo spirito al tutto vuoto del neonato suppone nel primo ente, che gli sorride e che percepisce, l' illimitato, perocchè il supporre ciò non gli è conteso dalle altre sue cognizioni, che ancora non ha. Ma dal momento che altre cognizioni acquista, non può più supporre illimitazione dell' ente percepito, perchè una tale illimitazione cadrebbe in contraddizione colle cognizioni avute. Tuttavia la sua supposizione è sempre al maggior vantaggio possibile degli enti che percepisce; non mettendo egli confini a questi, se non è costretto dalla necessità dell' esperienza e delle cognizioni in lui crescenti. Egli dunque prende degli errori anche per questa via, per la quale si lascia condurre « dal principio d' integrazione » e li prende di nuovo per la voglia di conchiudere qualche cosa, pel bisogno d' intendere. Conciossiachè se egli potesse non supporre niente, tutto percepire ; sostenere gli atti del suo intendimento che aspirano all' assoluto, fino che non è ben chiaro di questo, cioè del dove sia da collocarsi: eviterebbe egli questi errori. Ma tuttavia anche questi errori, che vannosi poi da se stessi correggendo di mano in mano che cresce l' età, non sono degli errori funesti alla morale bontà. Gli errori funesti tra quelli, a cui dà occasione l' attività fantastica, son quelli che si prendono da fanciullo, quand' egli aggiunge fede alla realità delle sue imaginazioni, non violentato a ciò dalla forza reale di esse, nè condotto da un principio intellettivo d' integrazione, ma unicamente spinto dal desiderio, che egli stesso ha, che quegli oggetti fantastici sieno reali, quatunque nol siano. Non è, che il fanciullo tessa tutto da se stesso a se questo inganno, egli propriamente non imagina nulla nè bene nè male: nè vuole ingannarsi: nè sa che fare di creazioni sue proprie. Ma se poi queste in lui si eccitano da oggetti esterni, che agiscono sopra di lui, allora può andarne ingannato primieramente ne' due modi detti, e poscia nel terzo. « I fanciulli abbandonati a se stessi (ecco il fatto assai bene osservato) possono aver paura d' un oggetto reale, d' un negro, d' uno spazzacammino, delle maschere, e rinfrescarsene la memoria con ispavento; ma ben poche chimere si foggiano da se stessi. Di rado una idea li preoccupa senza che sia stata lor suggerita ». Questo fatto dimostra che essi son fatti per la verità e non per le illusioni. Alle illusioni adunque sono cacciati dall' azione d' incitamenti esterni. Ma alle illusioni libere, a quegli errori, che noi dichiariamo moralmente funesti, non si danno se non ispinti dai loro desiderii e dai loro affetti. Questi riguardano o il tempo passato, o il futuro; e dirigono l' imaginazione loro per modo « che le cose passate e le future non le imaginino, se non quanto possono dar loro piacere ». A questo fine egli è necessario che sia loro formato il concetto del tempo, concetto che aiuta appunto per questo l' attività d' imaginare, la quale spazia nelle cose già avvenute, ed in quelle che si aspettano, ed egli è al quart' ordine, come vedemmo, che il fanciullo si forma la concezione de' due tempi, e al quinto quello de' tre tempi, il presente, il passato, il futuro: onde vedesi ragione, perchè all' età in cui è pervenuto il nostro fanciullo, comincino le sue illusioni volontarie. Queste derivano dal prendere per segreto conduttore della sua memoria e della sua imaginazione il piacere ed il dolore. Mosso da questo principio egli è tutto memoria, tutto imaginativa per le cose che gli piacciono, smemorato e senza fantasia per quelle che gli dispiacciono. Ecco delle osservazioni: [...OMISSIS...] Le speranze imaginarie della giovane età cominciano nel fanciullo col formarsi in lui il concetto del tempo avvenire, e aiutano meglio la formazione di questo concetto: perchè quelle speranze segnano dei punti nel futuro, come i diletti da lui goduti, assai più che i dolori stessi obbliati, li segnano nel passato. Or che lo spirito del fanciullo contempli a preferenza le imagini liete del passato, e le imagini liete dell' avvenire, non istà ancora qui il male: questo è natura. Ma che egli dia corpo a queste imagini, che egli spinto dall' amor de' piaceri voglia credere reale quello che non è tale, questo è l' errore che nasce da un mal principio, da un animo che ha cominciato già a torcere dalla morale rettitudine. Se si considera attentamente, come si sogliono guastare i fanciulli delle grandi famiglie, si troverà per lo più divenire il guasto da questo che si promuove nella loro mente la formazione di un mondo fantastico, a cui essi dan fede, e in cui credono d' occupare un posto del pari imaginario; dal qual posto movendo i lor pensieri e le loro azioni commettono dei continui torti alle persone reali del mondo reale, e fanno continui abusi delle cose pure reali. Poveri fanciulli! Tutti sono falsati i loro pensieri, i loro giudizi, i loro affetti, le loro abitudini: l' imaginazione li tradì, ma l' imaginazione non fu che la maga, di cui i genitori, gli amici, gl' istitutori, la turba di quanti hanno da far con essi si servono a gara per illuderli e perderli (1). La specie di errori immorali, di cui parliamo, mostrasi in un' ampiezza molto maggiore nella storia dell' infanzia de' popoli. Questi non si accontentano di crearsi una moltitudine di fantasmi; ma li fecero altrettanti esseri reali: l' idolatria n' è la prova. E l' idolatria non fu solo presso i popoli antichi o fra selvaggi; ma non fu detto a torto che nel mezzo stesso dei popoli cristiani e civili avvi una cotale idolatria; perocchè dovunque sono delle eccedenti passioni, queste non finiscono di reclamare dall' imaginazione degli idoli, a cui dian fede, a cui si prostrino adoratori: di reclamare che essa dilati i confini del mondo reale e lo metamorfosi, o ne crei un altro dentro di quelli, qual loro più piace che sia. Convien ben poco aver osservata la sformata vaghezza d' illudersi, che fanno gli uomini, per non riconoscere la verità lampante di ciò che diciamo. Ella si scorge per tutto. Nella società; e voi trovate che gli uomini vogliono essere ingannati di dolci parole, e si inimicano a quelli, che sinceri e schietti d' ingannarli ricusano. Nella letteratura e nelle arti; e v' ha pure chi ancor piange la mitologia, o tratta d' inventarne una nuova. Nella storia; e non la si vuol mai pura, nè la si crede, se per esser creduta non si fa raccomandare da qualche favola che ella accoglie (1). Ne' fatti e nelle parole è il medesimo; vi ha sempre una forza, che spinge occultamente a dar sussistenza a quell' amato imaginario, che non ne ha veruna. Per questo Platone si era messo in apprensione de' poeti; e non volea che nell' educazione de' giovinetti s' adoperassero se non i lirici, che inneggiavano alla divinità o cantavano la virtù e la lode de' virtuosi (2). Ma qui deve farsi una importantissima riflessione. Quegli errori occasionati dallo sviluppo della fantasia, che io ho indicato come funesti alla moralità del fanciullo nell' articolo precedente, cangiano di natura, se essi si considerano nell' età, in cui l' uomo non ha ancora la coscienza di se stesso, il concetto dell' Io, e poi nell' età susseguente alla formazione di questa coscienza, di questo concetto. Fino a tanto che l' uomo non intende il monosillabo Io, l' uomo è un sentimento sostanziale, che opera colle leggi della sua spontaneità: queste leggi sono inerenti alla sua natura, si consideri essa nello stato d' integrità o pure in quello di naturale corruzione. Ma da quel punto che l' uomo ha percepito sè stesso, incontanente in lui avviene un cangiamento immenso relativamente al suo operare libero e morale. E nel vero un soggetto che non percepisse intellettualmente se stesso, non può fare se stesso oggetto e fine del suo operare volontario. Perocchè la volontà è quella, che opera tendendo ad un oggetto conosciuto dall' intelletto; ora se l' uomo non si è ancora reso oggetto del proprio intendimento, egli non può nè pure essere oggetto della propria volontà. Innanzi adunque a quel tempo, nel quale l' uomo si forma la coscienza di se stesso, l' intelligenza dell' Io; egli opera bensì soggettivamente ma non rende mai se stesso soggetto termine fisso delle sue operazioni. Ma tosto, che egli si è formata la coscienza di sè, egli può mettere questo sè a segno e scopo fisso del suo volere e del suo operare. Qual immenso rivolgimento di cose non vi ha qui nel mondo morale del fanciullo! L' egoismo non può cominciare prima che l' uomo abbia inteso se stesso. Dalla notizia adunque dell' Io comincia la possibilità del vero egoismo (1). Egli è vero che anche prima della coscienza di sè possono cadere nell' uomo de' falli morali, ma questi, come dicevo, d' altra natura. Perocchè que' falli non potevano consistere se non in questo, che la spontaneità dell' operar soggettivo ci conducesse colla sua violenza ad operare contro l' esigenza degli oggetti. Ora questo sarebbe certamente un fallo, ma questo fallo sarebbe indiretto e negativo piuttosto che una trasgressione diretta e positiva. Mi spiego: Se io ho due oggetti innanzi e pospongo il più degno al meno degno, io posso far ciò per due modi; il primo perchè un istinto cieco mi sproni ad operare con tal veemenza e prontezza, che io fo torto a quell' oggetto più degno non perchè l' odii, od ami di più il men degno; ma unicamente perchè mi strascina il torrente dell' operare spontaneo e cieco, che opera senza por mente agli oggetti; anzi distraendomi dal raffrontarne e giudicarne il prezzo; il secondo perchè io liberamente antepongo e sceglio il piacere o bene che trovo nel men degno al valore intrinseco del più degno. Nel primo caso io pecco, ma indirettamente e negativamente, più per debolezza e corruzione di mia natura che per malizia. Nel secondo pecco direttamente, positivamente, maliziosamente. Ora, dico io, questo secondo modo di peccare suppone quasi sempre la coscienza di me; egli è un modo di peccare che almeno per lo più nasce dall' egoismo. Perocchè se io scelgo volontariamente fra un piacere o un bene del soggetto e il mio dovere, egli è mestieri che io abbia reso quel piacere soggettivo, o quel bene, che io preferisco, oggetto del mio proprio intendimento, che n' abbia però non già il mero sentimento generatore dell' istinto, ma propriamente la cognizione, onde spunta la volontà; e se il piacere o bene, che scelgo, mi è intimo; se egli consiste in qualche ingrandimento di me stesso, se in una parola appartiene al mio sentimento sostanziale (ciò che sono io stesso), debbo anco avere la coscienza mia propria per concepirlo; la quale in ogni caso mi nasce, o mi si forma nell' atto stesso dell' elezione. Così avviene, che per la coscienza di se stesso l' uomo possa introdurre nella sua perversione l' elemento il più funesto di tutti, l' egoismo, pel quale l' uomo mette per fine dell' operare se stesso, e a se stesso sacrifica tutto il resto. L' egoismo , che consiste a porre per fine se stesso, e che comincia a questa età, riceve anch' esso due gradi. L' uno è quel, che nasce dal dimenticare gli altri e non pensare che a se; l' altro è quel che pensa benissimo agli interessi altrui, ma per sacrificarli ai proprŒ. Ognuno vede che questo secondo grado è assai più malvagio del primo. Il primo di questi gradi nasce e cresce per lo più nel seno dell' ignoranza, è proprio delle persone volgari. [...OMISSIS...] Questa specie d' egoismo è quello, che traversa e impedisce nel mondo i più nobili progetti e quando questi debbono essere discussi in un' assemblea, molte volte sorge l' uno o l' altro individuo, il quale fa opposizione ad un bene sommo, mosso il più da minuto interesse: la ragione più frivola, un inconveniente, che si annienta se si confronta col bene della cosa proposta, basta per farla andare a monte. Direbbesi che ne' piccoli paesi, dove le passioni dovrebbero essere eccitate, e si ha da fare con un minor numero di votanti, i progetti di pubblico vantaggio dovrebbero meglio riuscire: non è vero; quello che non fa la violenza della passione, il fa in quella vece l' egoismo dell' ignoranza. Nei fanciulli si manifesta questa specie di egoismo ogni qual volta hanno da fare con persona che niente loro ricusa: questo trovare d' essere soddisfatti ad ogni loro richiesta fa sì che essi non siano mai condotti a riflettere sulla molestia, che altrui cagionano e pensino solo al proprio piacere. Sofia nelle lettere di M. Guizot ne è un esempio ammirabilmente dipinto. Il secondo grado di egoismo non comincia a quest' età: essa è una reità più matura. Moltiplice è poi la rea prole dell' egoismo. L' egoismo fa sì che l' uomo giudichi con misura diversa sè stesso e le cose proprie, e gli altri e le cose altrui. Questa è si funesta cosa, che è la forma di tutti i mali morali; di guisa che non sarà perduta mai qualsiasi vigilanza, qualsivoglia industria per guardarne il fanciullo: poichè, se l' educatore pervenisse a conservare nel fanciullo sempre, in ogni cosa, anche nelle minime, la rettitudine dell' anima, e l' imparzialità del giudizio, egli n' avrebbe fatto in breve tempo un uomo perfetto. Del pari gli artifizi fanciulleschi, le piccole ma frequenti menzogne dell' età infantile, prendono un carattere più grave, quando dall' egoismo già formato procedono. Quanto grande non è l' errore di quelli, che giudicano i fanciulli dai soli fatti esterni materialmente presi! Un fatto medesimo, una stessa finzione, una stessa menzogna in due fanciulli diversi può avere una gravità morale infinitamente diversa! La perspicacia, il discernimento degli spiriti, ecco la prima dote del savio educatore. Al quint' ordine ancora si manifesta l' apatia o noia morale, malattia pericolosissima ne' fanciulli. Vedemmo, che all' ordine antecedente, cioè al quarto, si sveglia nel fanciullo la voglia d' influire sulle volontà altrui; voglia nascente dal combattimento tra la volontà propria che il fanciullo non vorrebbe sacrificare, e l' altrui, che sente di dover pure rispettare e preferire alla propria (1). Ma il dovere influire sulla volontà altrui per tirarla e conciliarla alla propria è già una molestia pel fanciullo, un legame; e non può sostenerlo, se non a forza della sua benevolenza e del suo morale sentimento. Ora, intervengono dei momenti nei quali la benevolenza nel cuore del fanciullo rimane inoperosa, attesochè il fanciullo è distratto in altro, e il morale sentimento è in lui lasso ed inerte. In questi momenti è deplorabile lo stato del fanciullo. L' altrui volontà gli è di noia, ogni regola gli è un restringimento angustioso. Egli allora è colto da un mostruoso capriccio: s' intesta, e trova un diletto proprio ad usare tutta la sua attività fisica: gli sembra di sentirsi più grande ribellandosi alla legge, usando senza freno della sua naturale libertà. A tutti quelli che hanno trattato a lungo coi fanciulli, non sarà sfuggita questa pericolosa malattia morale. Un' autrice spiega l' ostinazione d' un fanciullo che imparando a leggere diceva sempre b7a7u, bu, nè voleva ripetere b7a7u bau, in questa maniera: [...OMISSIS...] . Ora, sebben questo gusto della libertà sfrenata, assoluta, questa vaghezza di bravar tutto, fin la legge, non si manifesti di subito, se non dopo l' età in cui è comparsa la voglia d' influire su gli altri; tuttavia potrebbe anco prima apparire. Ma ella suppone l' apatia o noia morale, per la quale la benevolenza verso gli altri è raffreddatasi, e non brilla più all' intendimento la bellezza e venerabilità della volontà d' un essere intelligente. Qual parte possa avere in tali fenomeni, talora improvisi e momentanei, l' azione dell' angelo delle tenebre è cosa segreta e nascosta all' umana investigazione; ben pare difficile lo spiegarli colle sole leggi ordinarie, secondo le quali opera l' umana natura. Che se l' egoismo è già nato nel cuore umano, la malattia, di cui parliamo, prende anch' essa tosto da questo un carattere più grave e maligno. Ma se l' aver trovato se stesso col proprio intendimento, il che è quanto dire l' essersi formato la coscienza di sè, è da una parte come l' aver trovato uno scoglio, contro cui può rompersi la morale bontà; così d' altra parte egli è ancora come l' aver trovato un passaggio, pel quale può distendersi un' immensa e fortunata navigazione. E veramente la consapevolezza della propria dignità morale non è possibile, fino a tanto che l' uomo non siasi formata la coscienza di se medesimo. Ella è questa coscienza che fa sì, che l' uomo possa giudicare se medesimo, possa imputare a se stesso le azioni, intendere l' imputazione, che gli vien fatta dagli altri, la lode, il biasimo, il premio ed il gastigo. Chi non vede che passo incalcolabile è questo! Quanti mezzi nuovi alla moralità! Qual forma novella di moralità, dacchè incomincia qui l' uomo a poter riflettere sul proprio operare, attribuirlo a se, e sentire, che, se è buono, gli aggiunge dignità, se è malo, lo degrada ed invilisce! Fra i vantaggi morali poi, che viene traendo l' uomo dalla coscienza di se stesso, si è quello della memoria delle cose passate e del calcolo delle future. La coscienza di se stesso importa la coscienza della propria identità ne' vari tempi; la cognizione della varietà de' tempi e dell' identità di se stesso sono relative, e vanno perciò innanzi di pari passo. [...OMISSIS...] Egli è ben degno di osservarsi nel fanciullo, per quali gradi perviene a conoscere, come diciamo, se stesso, la propria unità, la propria identità. Vi ha un tempo, nel quale egli conosce già quella degli altri, senza conoscere ancora l' identità di sè stesso; per la ragione che abbiamo detto, che l' attenzione sua prima se ne va al di fuori, e poi si ripiega sopra se stessa. In questo tempo egli deve portare un diverso giudizio degli altri e di sè: giudizio che parrebbe ingiusto; di quelli che dicevano fatti a due misure, e che pure non è tale. Egli giudica in questo caso diversamente degli altri e di sè, non per riprovevole parzialità, ma unicamente perchè diversamente conosce gli altri e sè stesso; negli altri ha già conosciuto la medesimezza in più tempi, quando di sè non l' ha ancor percepita: non ha percepito sè stesso in un tempo solo alla volta; e però in un tempo giudicò di sè come se fosse un personaggio diverso da quello che si giudicò in altro tempo. Udiamo ancora le altrui osservazioni: [...OMISSIS...] . Basta dunque un solo fatto, ed il fanciullo giudica degli altri, che sono boni o che sono cattivi: di sè non giudica nulla di stabile, ma soltanto al momento, che opera, giudica della sua azione. Questo dimostra manifestamente quel periodo di tempo, durevole alquanto nella vita infantile, nel quale il fanciullo è pervenuto a conoscere la medesimezza o identità degli altri in più tempi; onde di essi, come di soggetti unici, porta un solo definito giudizio; e tuttavia non ha ancora posto mente sulla medesimezza o identità di se stesso in più tempi, ma giudica solo le proprie azioni presenti, e fa però de' giudizi vari come varia la qualità delle azioni, senza indurre niuna sentenza universale e definitiva a dannazione, o a favore di sè medesimo. E dissi, che questo periodo di tempo è alquanto durevole nella vita infantile. - Tanto è vero che si manifesta anche nell' infanzia delle nazioni, e nel popolo minuto, che in gran parte non esce di fanciullezza. Onde avviene, che una nazione giudica così severamente dei difetti dell' altra, se non perchè la considera come un individuo, e da alcune azioni particolari trae la condanna di tutto il corpo? Onde l' entusiasmo popolare, sia contro le persone, oggetto del suo odio, nelle quali non vi è bene alcuno, sia a favore delle persone, oggetto del suo amore, nelle quali non vi è alcun difetto?