Queste condanne abbatterono nella pubblica opinione il nominalismo di Roscellino, non meno che il concettualismo d' Abelardo, non solo per l' autorità da cui procedevano, ma perchè richiamavano l' attenzione alle conseguenze di tali sistemi. Il realismo puro non era men fecondo d' equivoci e di conseguenze erronee ed assurde, e Gilberto della Porretta fu condannato dal concilio di Reims del 114. per aver dedotta dal suo realismo l' erronea dottrina, che [...OMISSIS...] . Questa era conseguenza d' un sistema di realismo, che dell' essenza generica faceva una cosa reale distinta dall' individuo , e real causa del medesimo come appunto Aristotele fa della forma una causa reale della materia (2); nè questo solo però sarebbe bastato a poter dedurre quella conseguenza, se di più non fosse intervenuto nella mente di Gilberto un altro principio erroneo, quello che ci possa essere in Dio vera composizione, come accadrebbe se Dio fosse Dio per la sua forma, e non dipendesse dall' imperfezione del nostro concepire e del nostro favellare, il coniare dei vocaboli astratti: « divinità, deità », che rappresentano non Dio, ma la sua supposta forma universale (3). Ma sebbene il realismo puro sembri nel primo aspetto l' estremo opposto del nominalismo , tuttavia riesce in ultimo al medesimo: poichè l' uno e l' altro sistema annulla in sostanza l' ordine ideale (4): i nominalisti più schiettamente, dichiarando che le idee universali sono puri nomi; i concettualisti un po' meno, dichiarandole atti subiettivi del pensiero; i realisti puri finalmente coll' aria di difensori delle medesime idee, dicendo che sono reali; di che consegue, che anche per costoro rimangono in fatto i soli reali, le idee non più. Onde non senza acutezza e verità Abelardo nel concilio di Sens, dove fu condannato, rivolse, se è vero quel che narrano, a Gilberto Porretano, che l' impugnava, questo verso oraziano: [...OMISSIS...] . Tutte queste dottrine diverse erano sempre anche per innanzi venute in sul labbro dei maestri e sulla penna degli scrittori. Abbiamo veduto che il nominalismo stesso si trova nel germe in Boezio (1), e se ne trovano altre tracce nei dottori precedenti a Roscellino (2). Ma erano dottrine passeggere su cui non si fermava l' attenzione, di cui non si osservavano troppo le differenze, non si prevedevano le conseguenze, e si pronunciavano di corsa e involte in quell' indeterminato e in quel confuso, che ritiene le dottrine piuttosto in istato di feto, che di parto. Anzi anche quando i sistemi pel movimento dato al pensiero da Roscellino si separarono, essi non erano certo subito disegnati a precisione di contorni, ma tracciati alla grossa: e lo stesso realismo si divise in più scuole, nessuna delle quali andava priva delle sue nubi ed incertezze (3). Che anzi quando il realismo di Guglielmo de Champeaux, incalzato dalla inesorabile dialettica d' Abelardo, giunse fino agl' individui reali per la prima volta, allora nè pure s' accorse d' essere uscito dalla sfera delle idee, nella quale era racchiusa la questione, e confessando che gl' individui reali differivano d' essenza , non seppe distinguere tra l' essenza e la realizzazione dell' essenza , e però fu sospinto alla mostruosa sentenza, che l' essenza nella sua realizzazione , cioè l' individuo reale , fosse egli stesso, sotto un certo punto di vista, l' universale. Tutto questo per non essersi giammai distinto chiaramente e costantemente nè da Aristotele, nè da Boezio, nè dagli studiosi di tali autori fino al secolo XIII, le due forme primitive dell' essere , l' IDEALE e il REALE. Il realismo dunque prima dell' età di Roscellino esisteva solo e pacificamente, non come un sistema filosofico contrapposto al nominalismo , ma come un' opinione vagante, di cui non s' era trovata la formula. Tuttavia il realismo si conteneva nella sfera delle idee ; poichè non era venuto ancora a nessuno in mente lo strano pensiero che gli universali fossero le stesse realità individue . Ma l' equivoco, che giacea nella parola reale , lo conteneva in seme. La parola res non si prendeva come opposta a idea , ma come opposta a voce e a qualunque altra negazione d' esistenza. Quindi non c' era assurdo a dire che « gli universali fossero reali », intendendosi con ciò che non erano non esistenze, non erano nulla, non erano voci senza significato. Si dava dunque tanto agli enti sensibili e materiali, quanto alle idee, la realità , senza accorgersi che questa parola applicata ai primi e alle seconde mutava di significato: prendendosi, quando s' applicava alle idee, come un opposto di nulla , e quando s' applicava ai sensibili come un opposto d' idealità : la parola reale dunque, data egualmente ai sensibili e alle idee, impedì alla riflessione d' occuparsi seriamente nel rilevare la natura diversa ed opposta di quelli e di queste: gli uni e gli altri raccogliendosi in confuso sotto la denominazione comune di reali . In questa disposizione delle menti, trattandosi nelle scuole degli universali , si rimaneva bensì nella sfera delle idee , ma si poteva anche uscirne e trascorrere in quella delle sussistenze , senza pure avvedersene, senza avvedersi dello sdrucciolo che dava il pensiero. Il nominalismo ebbe appunto di qui l' origine. Videro alcuni ingegni dei più acuti che già incominciavano a pensare da sè, che l' universale era l' opposto dell' individuo singolare : essi non trovarono che ci potesse essere di reale altro che questo: conchiusero dunque che l' universale non esistesse, fosse un puro nome. Questa maniera di pensare e di parlare restringeva il significato della parola reale e in pari tempo lo determinava a un significato solo; il che fu un indubitabile vantaggio recato alla filosofia. Il realismo non si trovava preparato a questa battaglia, chè egli non conosceva la natura delle idee meglio che la conoscessero i nominali. Questi domandavano: « In che riponete voi la natura comune se non c' è nulla fuori degli individui? ». I realisti che si sollevavano ad una specie di platonismo, come Bernardo di Chartres, erano pochi, o piuttosto non ce n' era una scuola. Gli altri tutti, studiosi dell' aristotelismo, quali il poteano conoscere, accordavano che fuori dell' individuo non c' era nulla. Che rimanea dunque allora a rispondere? Non trovarono altro se non dire che « le essenze degli individui erano comuni, ma questi poi si dividevano per mezzo degli accidenti ». Venuti qui, non era più difficile a un dialettico potente come Abelardo cacciarli alle più stravaganti conseguenze che da quel principio veramente si derivavano. Dovettero dunque retrocedere, e confessarono che gli individui si distinguevano per le loro essenze. Ma così furono presi nell' equivoco della parola essenza ; poichè questa potea significare tanto l' essenza ideale , quanto l' essenza realizzata , equivoco che c' è in Aristotele di frequente. Confessando che gli individui si distinguevano per l' essenza , essi, con questo stesso prendevano la parola essenza in significato di essenza realizzata , e già con ciò si trovavano spinti, senz' accorgersi, fuori del territorio dell' idea . entro la quale si conteneva la questione. Dovettero allora giocare di sottigliezze per dimostrare che l' individuo reale era egli stesso universale , sia per la moltitudine , sia per la similitudine . Il realismo dunque delle idee, di cui si disputava, si cangiò in un realismo di sussistenze : appunto per l' equivoco della parola; e così si può dire che i realisti rimanessero a pieno sconfitti nel campo del ragionamento. Ma quella confusione che noi accennammo dei due significati del vocabolo reale , aveva cagionato pessime conseguenze, molto tempo prima che apparisse al mondo il nominalismo . Ella era nata, come abbiamo accennato, dalla mancanza d' una distinzione filosofica tra il sussistente , e l' ideale : ed ella stessa impediva col suo senso equivoco questa distinzione. Il realismo esisteva dunque prima di Roscellino e dominava pacificamente nei pensieri degli uomini dotti senza nome di sistema. Ma l' ammettersi che i generi e le specie sono dei reali , senza determinar di quale realità si parlasse, era al sommo pericoloso: non s' aveva altro esempio di realità che attirasse l' attenzione fuor di quella dei sussistenti e particolarmente dei corpi: anche ai generi ed alle specie davasi dunque con somma facilità questa realità che è in fatti il senso a cui fu poi ristretta questa parola. In una tale condizione delle menti era inevitabile che ogni qualvolta un pensiero potente s' occupasse della questione: dove dunque sono e che fanno nel mondo questi generi reali ? rovinasse in un baratro d' errori: vi era precipitato Aristotele ammettendo le specie eternamente congiunte colla materia. Aristotele di più diceva che niente esiste separato se non il singolare: l' universale dunque non poteva essere un reale , nel senso d' esistente, se non fosse nei singolari. Secondo questo concetto, il vocabolo reale aveva solo il significato di sussistente, poichè non c' era altra esistenza che quella dei sussistenti, che per vero sono i singolari. C' erano dunque tre sole vie per mantenere agli universali una realità di questa sorte, o che sussistessero in Dio, o che sussistessero da sè come altrettanti Dei, o che sussistessero negli individui creati. La sentenza di mezzo era un politeismo che non poteva essere facilmente abbracciato in secoli di fede cristiana. Rimanevano le altre due. Chi avesse collocati in Dio gli universali sarebbe venuto al platonismo: chi li avesse riposti negli individui creati avrebbe seguìto Aristotele. I realisti del secolo XII s' attennero a questo secondo partito, e ho accennato in una nota com' essi poi si divisero. Ma essi non ponevano mente che se questo poteva sembrar coerente in un sistema come quello d' Aristotele che ammetteva il mondo eterno, era inammissibile in un sistema, come il cristiano, che riconosce l' origine del mondo dalla creazione: poichè gli universali mostrano d' avere in se stessi una natura eterna. Questo ben videro i realisti anteriori di maggior polso, onde riposero gli universali in Dio ed anco nelle cose create. Evitando essi uno scoglio ruppero inavvedutamente in un altro, quello del panteismo . Poichè se gli universali sono in Dio come reali e sussistenti, non si possono più ricacciare l' uno dentro l' altro, (non essendo la realità suscettiva di questo involgimento), e così unificarli, nella quale unificazione solo si possono pensare esistenti in altro modo da quello in cui noi li pensiamo. Di poi , se questi reali e sussistenti sono quegli universali di cui partecipano le cose create, dunque anche queste sono composte della sostanza di Dio. Se avessero conosciuto che le idee hanno un altro modo di essere, opposto alla realtà dei sussistenti, avrebbero altresì conosciuto che il mondo è di un' altra natura diversa da quella delle idee ; perchè composto di sussistenti che sono realizzazioni delle idee , non idee. E in questo sistema soltanto è possibile una vera creazione che trae dal nulla il mondo reale. Ma se le idee s' unificano in Dio, e di esse in quanto sono reali partecipa il mondo, non ci può esser più che una cotal specie d' emanazione della divina sostanza. Io credo, coi più recenti critici (1), che Giovanni Scoto, il più grande pensatore del suo secolo, si possa benissimo purgare dalla taccia di panteismo; anzi le dichiarazioni ch' egli fa nella sua mirabile opera ch' è a noi pervenuta, sono una continua protesta contro il panteismo. E nondimeno un' opinione antica l' addita come il gran panteista del medio evo, precursore d' Amaury di Chartres e di David di Dinant, e quest' opinione è fondata in proposizioni che suonano un aperto panteismo, come queste: [...OMISSIS...] ; e somiglianti. Ora tali proposizioni conseguono necessariamente dal realismo delle idee. Se le idee, la specie e il genere sono realità, come si dicono reali le cose sussistenti, e, per esempio, le sensibili, in tal caso la realità del genere e della specie deve essere la stessa realità delle cose; perchè la realità non ha alcun altro mezzo di comunicarsi se non mettendo se stessa nelle cose: diventa così la materia di cui constano le cose. Ma tutte le idee si riducono all' essere che si chiama spesso anche da Aristotele il genere generalissimo: l' essere ancora secondo Aristotele è tutte le categorie e le categorie abbracciano tutte le specie e non hanno altra esistenza che negli individui: la loro esistenza dunque è la realità di questi. Dove si vede il realismo in Aristotele. Ma quando s' aggiunsero dottrine più elevate che non avesse Aristotele intorno a Dio, le idee reali ridotte all' essere reale erano con questa riduzione Dio stesso: perchè l' essere reale è certamente Dio. Se dunque le idee reali si riducono da una parte in Dio che è l' essere reale , e dall' altra sono nelle cose colla loro realità (non potendo esserci altramente, essendo reali), e però sono la materia delle cose (4): segue che Iddio sia la materia stessa di tutte le cose, che appunto è la proposizione di David di Dinant, chiamata insania da San Tommaso (1), e in fondo non punto lontana dalla proposizione dell' Eriugena che [...OMISSIS...] . Le idee reali dunque, l' universalissima massimamente, in cui tutte rientrano, l' essere reale essendo Dio (se rimane in questo sistema creazione , come pur vogliono i suoi fautori) (2), debbono esser creatrici del mondo . Ma poichè queste stesse idee sono nelle cose colla loro realità, di maniera che sono il fondo e la materia delle cose, quindi debbono essere anche create. Questo insegnava appunto il maestro di David di Dinant, Amaury di Chartres, cioè che [...OMISSIS...] . E questo richiama manifestamente la divisione della natura fatta più secoli prima dall' Eriugena per quattro differenze in quattro specie, la seconda delle quali specie di cose [...OMISSIS...] . Infatti, convien dire che le stesse ragioni delle cose che sono in Dio, siano create nelle cose, se (non distinguendosi il reale e subiettivo dall' ideale e obiettivo) si prendono le idee per cose reali , a quel modo che tali si dicono le cose sussistenti (5), onde ripete l' Eriugena assai di frequente: [...OMISSIS...] : il che potrebbe ricevere un senso immune da errore, qualora ciò che è nel Verbo s' intendesse d' un modo d' essere obiettivo , e ciò che è fuori di lui nel tempo s' intendesse d' un modo d' essere subiettivo , o estrasubiettivo ; e così non s' attribuisse alla natura stessa del Verbo la subiettività o l' estrasubiettività che costituisce la natura creata. Ma fatte le idee e le ragioni eterne reali, non si considerano veramente più come esemplare , da cui è totalmente distinta la copia: onde questa si confonde con quello; e non c' è più verso di distinguere quant' è mestieri la creatura dal Creatore, cioè di distinguerla per modo che la natura di questo rimanga di tutta sè ( ex toto ) diversa, e infinitamente separata dalla natura di quella. L' esperienza tuttavia e la storia della filosofia dimostrano, che c' è una somma difficoltà a distinguere e mantenere costantemente distinta nella mente la forma ideale ed obiettiva dell' essere, dalla forma reale , e ne somministrò recentemente prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce d' aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col titolo dei miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista : incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, eccetto alcuni pochi (1). Ma pace a quell' anima ardente: e torniamo alla storia. Il realismo, quale si stava nelle menti ancora indeterminato e senz' abito sistematico, aveva prodotto quelle sentenze panteistiche, che s' incontrano nell' Eriugena, a malgrado del suo indubitato proposito di non uscire dalle dottrine della fede, e che non ci sono sole, ma mescolate con altre del tutto opposte al panteismo stesso. Tali sentenze non di meno non si potevano abolire fino a che non si fosse abbattuto il principio da cui derivavano; onde a quando a quando ricompariscono nelle scuole, come si vide più espressamente in Amaury, e in David, e in altri suoi discepoli. Che anzi, prima assai dell' Eriugena, ed oso dire sempre, risonò il panteismo in bocca di quelli che meno il volevano, inevitabile conseguenza del realismo puro, cioè del concepirsi le idee siccome cose reali . Onde all' Eriugena parve d' assicurarsi sull' ortodossia della dottrina, appoggiandosi a quelle espressioni che ricorrono negli stessi Padri più rispettabili della Chiesa, come in un S. Basilio, che scrive: [...OMISSIS...] , nelle opere attribuite a S. Dionigi Areopagita e dall' Eriugena per la prima volta latinizzate, in cui si legge: [...OMISSIS...] ; in S. Massimo monaco, che non dubita pronunciare: [...OMISSIS...] , ed altre consimili. Ma qui è d' uopo distinguere un doppio ciclo dell' umana intelligenza, cioè quello del lume naturale , e quello del lume soprannaturale . I filosofi razionalisti non possono riconoscerne la differenza: ai loro occhi il lume soprannaturale è un lume falso, altro non è che l' effetto d' una esaltazione naturale dell' immaginazione. Nella dottrina all' incontro del cristianesimo quei due lumi e quei due cicli d' intelligenza sono profondamente distinti, e in pari tempo armonicamente uniti, e questa distinzione medesima ha per suo fondamento quella delle due forme, l' ideale e la reale , dell' essere. Il solo cristianesimo scoprì e produsse questo quasi doppio orbe scientifico, se pure scientifico si può chiamare il soprannaturale. Ma si dà almeno una scienza di lui. Mediante questa rivelazione, noi possiamo definire qual sia la cognizione naturale di Dio, e quale la cognizione soprannaturale; la prima « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha mediante le idee », la seconda « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha per una percezione intellettiva di Dio stesso »: in questa s' apprende la realità divina, non già colla immaginazione ma colla pura ed essenziale intelligenza. Questo l' uomo non può fare da sè: conviene al tutto che Iddio comunichi se stesso: e lo fece prima e ineffabilmente in Cristo, Verbo di Dio incarnato, poi, e certo in un altro modo, in molti altri uomini per Cristo ed in Cristo. Nondimeno l' uomo, impotente a percepire da se stesso la realità di Dio, capace soltanto di conoscerlo idealmente e negativamente , può sentire il vuoto e la negazione intrinseca di questa sua cognizione naturale, e può anche cadere nell' inganno, dandosi a credere di poter coi suoi propri sforzi giungere a riempire quest' ammanco della sua cognizione, raggiungendo Dio stesso nella sua reale sostanza. E a tal fine, non soccorrendolo l' intendimento naturale, che non eccede la sfera delle idee, egli mette in movimento la sua immaginazione e il suo sentimento: e così pel vano sforzo, nasce l' agitazione e l' esaltazione contro natura e compariscono i falsi mistici, gli Yoga e i Buddha, i filosofi teurgici; Maometto, i sufi, Gazali e i suoi seguaci, e via via fino a Giacomo B”hme, che tanto prolificò in Germania, terreno troppo adatto a tali stravaganze e ben preparatovi dal protestantesimo. Qui il falso misticismo s' infiltrò più che altrove nella filosofia, e non poco contribuì alla produzione degli ultimi sistemi di quella per altro dottissima nazione (1). A tutti costoro mancando la materia intorno a cui pretendono lavorare col loro pensiero, cioè la realità di Dio , devono necessariamente tessere con fili immaginari, e quindi cadere nei più strani errori: talora sono obbligati di conchiudere che Iddio è il nulla, e ciò quando s' avvedono di nulla stringere per quanto si sforzino; talora poi compongono Iddio di tutti gli enti naturali, o fattili rientrare in una oscura potenzialità, alla grossa sincretizzati. Per tutti costoro il panteismo non suol essere tanto la causa, quanto l' effetto del loro misticismo. Ad ogni modo anche questi sono sempre perfetti realisti , nel senso che conferiscono alle idee una realità di sussistenza . Non si trovano certamente costoro nell' ordine soprannaturale , ma vogliono prendere il soprannaturale d' assalto colle forze del pensiero naturale, il che è impresa non solo temeraria, ma assurda. Ma se ci trasportiamo veramente in quell' ordine divino e soprannaturale che ci ha rivelato e apportato il cristianesimo, nel quale troviamo i veri mistici, in tal caso, ci si fanno incontro di quegli uomini che ci parlano della realità di Dio, per averne un' interiore esperienza. Il loro linguaggio tuttavia non si può intendere nè si può interpretare se non da altri che abbiano fatto in sè l' esperienza medesima. Onde questa è scienza chiusa e segreta. Conviene che noi lo diciamo, sebbene ci sia noto che una simile sentenza turbi non leggermente i savi del mondo. Volevo dunque osservare che molte di quelle espressioni che in bocca dei filosofi naturali suonano panteismo, nel ciclo della dottrina soprannaturale, che riguarda la realità di Dio e l' unione intima di questa colla realità umana, ricevono un significato vero e non punto panteistico, perchè si riferiscono a un oggetto diverso da quello a cui le riferisce, e a cui solo può riferirle, il filosofo naturale. Laonde tali sentenze s' incontrano nei sacri libri, e nei Padri, e in ogni pio scrittore, e soprattutto nei più celebri mistici della scuola cristiana cattolica tedesca del secolo XIV, voglio dire d' Enrico Susone, di Giovanni Taulero, di Giovanni Ruysbrock (1), i quali assai volte imitano i concetti e le espressioni stesse dell' Eriugena. Non intendo certamente dire, che tutte le espressioni di cotesti scrittori siano rigorosamente teologiche: soltanto voglio osservare, ch' essi non parlano di pure idee , ma di sentimenti reali che nelle anime intellettive si eccitano da una causa soprannaturale, che è Dio stesso, essere realissimo, che immediatamente e graziosamente presenta se stesso alla sua creatura senza confondersi con essa. Laonde quand' anco costoro diano una certa realità alle idee, non si può inferire da questo, che professino il realismo filosofico, ma il realismo mistico e soprannaturale, che è tutt' altro (2). E che sia tutt' altro si vede ancora da questo, che la realità mistica non si predica delle cose create, se non, quasi per una comunicazione d' idiomi, dell' anima umana in istato soprannaturale, come quando si dice che i giusti sono luce, aggiungendosi: « nel Signore », laddove il realismo filosofico si predica, da quelli che lo professano, di tutti gli enti finiti. Il falso misticismo si trasforma facilmente in un realismo filosofico: il realismo filosofico degenera in un falso misticismo. La differenza sta nella forma, affettando il misticismo sconnessione e disordine di esposizione; la filosofia all' incontro vestendo le stesse immaginazioni d' una scrupolosa regolarità e d' una deduzione metodica. Giacomo B”hme e Giorgio Hegel (3) presentano queste due forme; come presso gli Arabi le presentarono Gazali (Algazel) (n. 105., m. 1111) e Ibn7Roschd (Averroè) (n. 1126, m. 119.): tutti realisti nel significato di cui parliamo. Ma per vedere come il realismo arabico s' infiltrasse nelle scuole cristiane e vi si rendesse fonte di gravissimi errori, conviene che risaliamo più alto. Teniamo distinto il realismo impropriamente detto, dal realismo di cui parliamo. Il primo sta nella sentenza di quelli, che quando dicono: « le idee sono reali », altro non intendono se non che le idee « non sono un nulla ». A questo modo siamo realisti anche noi, con Alberto Magno, con S. Tommaso e coi migliori dottori che mai fossero, e che il Gioberti chiama semirealisti . Noi crediamo che tanto la denominazione di realisti , quanto quella di semirealisti , applicata al sistema di questi valentuomini, sia impropria ed equivoca. Il secondo è il sistema di quelli che dicendo reali le idee, intendono d' una realità attiva , come quella delle cose sussistenti nell' universo: questo è quel realismo, dal quale trassero origine errori innumerevoli e mostruosissimi. La parola realità non definita, non distinta coll' opposizione dell' idealità fa sì che l' umana mente sdruccioli da quella in questa, quasi per un suo proprio peso, confondendo due entità infinitamente distinte. E nel vero, ciò a cui dapprima si volge naturalmente l' attenzione umana, sono gl' individui reali e sensibili componenti il mondo. Quando la mente s' innalza a Dio, spintavi o dal magistero tradizionale, o da una sua propria argomentazione o contemplazione, trova ancora un ente reale, il cui termine esterno è il mondo. Fin qui tutto è realità nel pensiero: non già ch' esso non abbia o non faccia uso d' idee: ne ha per certo, e ne usa: ma elle sono in esso come un mezzo di pensare, non ancora come oggetto dell' attenzione e della riflessione, perciò inosservate: ci sono come non ci fossero pel ragionamento riflesso: le idee in questo stato non entrano nel calcolo, non fanno parte della scienza (1). Viene più tardi il tempo in cui la riflessione speculativa s' affissa sulle stesse idee: e in questo momento nasce la filosofia: mille problemi si presentano allo spirito: la loro diversa soluzione fa comparire una molteplicità di sistemi. Ma quello a cui lo spirito umano può difficilmente e dopo più lungo tempo pervenire, si è a risolversi che le idee abbiano una maniera di essere tutta loro propria, interamente diversa da quella delle cose reali. Non arrivandosi a questo colla mente che già specula e non sa contenersi, o si negano a dirittura le idee, e nasce il sensismo , il nominalismo , lo scetticismo ; o si cade in quel realismo , di cui noi stiamo dimostrando le assurde conseguenze. Il qual realismo nelle menti acute vacilla incoerente con se medesimo: nelle meno perspicaci procede più franco e quasi sicuro di se stesso. La sapienza orientale, che ricevette la prima una forma filosofica, non potè mai uscire da un realismo di questa natura e giungere alle idee pure , che appartengono certamente agl' ingegni italici e greci. Perciò l' oriente apparve sempre la terra nativa del panteismo; e di qui l' ebbero i greci per mezzo degli orfici e d' altri poeti mitici prima del nascimento della filosofia; c' era Iddio in tutta quanta la natura, anima e vita di questa. Dalla vita della natura Anassagora separò la parte intellettiva e pronunciò quella memoranda sentenza, che « la mente non poteva avere mistura di sorta alcuna »ma con questo non si separava ancora l' oggettivo , che per l' uomo sono le idee, dal soggettivo , che è la potenza e l' atto d' intendere. Platone fu il primo, per quanto pare, che, avuto l' indirizzo da Socrate, pose nella serena quiete della sua mente, ferma attenzione all' oggetto per sè, cioè al mondo ideale: e senz' uscirne, dall' idea, mirò e vide in essa i caratteri divini dell' eternità, della necessità ed altri tali. Ma seppe Platone evitare totalmente il realismo? Il realismo, dico, nel senso che noi riproviamo, nel senso di quel sistema che attribuisce alle idee un' esistenza subiettiva ed attiva , come quella delle cose mondiali? Circa la quale questione, per quanto pare a noi, si suol prendere errore anche dai più dotti commentatori ed espositori. Il Tennemann sostiene che le idee di Platone sono pure nozioni della mente, fuori della quale non esistano (1). Questo ancora non basta ad assicurarci che Platone non dia alle idee una propria realità , non potendosi decidere una tale questione, senza sapere in che modo esse siano nella mente. Può intendersi che ci siano come atti della mente, e in tal caso non esistono più le idee che di nome, poichè gli atti della mente, la cui esistenza nemmeno il nominalismo ha mai negata, sono tutto altro che le idee; pure sono reali. Può intendersi che esistano nella mente come oggetti in opposizione al principio d' intendere subiettivo: e qui solo trova luogo la questione: « se questi oggetti siano reali o ideali ». Se si risponde che sono reali , è ancora a domandarsi di qual mente si parli, della divina o dell' umana. Poichè se si parla della divina, l' oggetto del suo conoscere non può essere che realissimo, altro esso non essendo che la stessa divina essenza, o ciò che nella divina essenza Iddio liberamente distingue senza porre in essa alcuna distinzione: e questo realismo è verissimo, ma non è punto quello della questione agitata tra i nominali e i realisti : perchè questa controversia riguardò le specie e i generi, ossia le idee che sono oggetti della mente umana secondo il modo proprio della sua intuizione, e non secondo quel modo tutto diverso con cui conosce Iddio. Rimane certamente qualche oscurità nella dottrina di Platone, quale risulta dalle opere che di lui ci rimangono e dalle indicazioni che ce ne dà Aristotele; ma pare tuttavia indubitato che le idee proprie dell' uomo per Platone siano produzioni di Dio e non qualche cosa d' essenziale a Dio stesso (2): siano cioè la prima produzione, il disegno, l' esemplare del mondo, come la mente nostra lo può concepire. Ora la natura d' esemplare , «paradeigma» (1), che Aristotele schernisce come una vana metafora poetica (2) è pure la parola solenne che esclude il realismo , perchè per essa s' intendono chiaramente contrapposte le cose reali alle idee , onde queste, secondo la teoria dell' esemplare, sono categoricamente diverse e anteriori logicamente alla realità di quelle. Goffredo Stallbaum si oppone al Tennemann, scrivendo: [...OMISSIS...] ; e dà alle idee di Platone una forza produttrice. Questa maniera di concepire le idee di Platone viene ad attribuire a questo filosofo due sistemi di realismo ad un tempo: 1 quello che cangia le idee in principŒ subiettivi ed attivi ; 2 quello che colloca le idee nelle cose reali come loro forme o atti. E questo secondo sistema è in parte quello d' Aristotele, come vedremo. Qualora dunque collo Stallbaum si dovesse assegnare alle idee , quali sono vedute dall' uomo, quest' attività di produzione, e non la semplice natura di luce, d' intelligibile, d' esemplare, converrebbe certo classificare Platone tra i realisti : ma questo ripugna, come osservavamo, al concetto di paradigma costantemente da Platone mantenuto nelle sue idee. E` sempre Iddio, il «demiurgos», che opera in Platone: le idee sono la sua produzione, e riguardando in queste, come in esemplare, Egli crea la realità del mondo . Questa maniera di concepire, indubitatamente platonica, è aliena affatto dal realismo , le idee non vi compariscono che come norme del divino operare, oggetti conoscibili e possibili, non reali. Gli altri luoghi, dove sembra che Platone dia alle idee una loro propria attività, si devono intendere con cautela e conciliare colla sua dottrina fondamentale e indubitata: le idee operano solo in quanto Iddio opera per esse: l' attività si rifonde tutta in Dio. Ma se le idee si considerano in Dio, non quali sono nell' uomo e all' uomo appariscono, ma quali sono veramente in Dio, certo che hanno l' attività di causa, perchè si riducono necessariamente nel Verbo divino, e con questo riducimento cessano d' essere pure idee. A tal concetto pare che in alcuni luoghi s' elevi Platone, o almeno così fu inteso dai platonici nei tempi cristiani e da alcuni padri della chiesa. Del pari non crediamo potersi attribuire a Platone il secondo sistema di realismo , quello che fa esistere le idee nelle cose reali: le idee esistono fuori del tempo, molte delle cose reali soggiacciono al tempo. Tant' è lungi che secondo Platone le cose reali abbiano le idee in sè, ch' esse non ne sono altro se non imitazioni, e però servono alle menti di segni delle idee, perchè ne sono il realizzamento. Quanto poi alla partecipazione che le cose hanno delle idee, questa ha luogo solo nella mente umana , a cui è data la contemplazione delle idee stesse: e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo e il solo abbia scosso dalla filosofia il pernicioso realismo dei suoi predecessori ed abbia conosciuta la singolar natura delle idee (1). Era impossibile che Aristotele, avendo udito per vent' anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, abbandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie . Le realizzò primieramente confondendo l' oggetto , che solo appartiene alle idee, col subietto intelligente , ponendo che tutto quello che fosse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d' Aristotele, tale anche la mente umana. L' oggetto non è per lui qualche cosa che involga un' assoluta esistenza contrapposta al subietto umano. Ora l' intelligente appartiene all' esistenza subiettiva e reale: quest' è dunque un sistema di realismo. Tuttavia egli descrive Iddio come una pura causa finale non attiva, ma solo intelligibile ed appetibile: il che dimostra che il concetto dell' intelligibile platonico aveva lasciato una profonda impressione nell' animo suo. A questo primo sistema di realismo in Aristotele se ne congiunge un altro. Poichè le specie mondiali sussistono ab aeterno reali negli enti reali del mondo, possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura. In realtà nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa efficiente che Aristotele chiama appunto natura , e nel pensiero costituiscono quella causa efficiente che Aristotele chiama arte . Le idee dunque per Aristotele sono principŒ attivi e non già puri oggetti intelligibili; perciò veramente reali. Che anzi egli fa della sua forma un sinonimo di atto . Tali sono le viste diverse e i principŒ (dai quali svolgendosi, o separati o confusi insieme, come per lo più è avvenuto, uscirono le diverse dottrine che apparvero intorno alle idee e dominarono nelle scuole da Aristotele fino a noi) quali ora riassumeremo ed enumereremo così: 1 il realismo orientale e orfico , che non distingue, dal mondo ideale, Iddio, ma fa la divina mente vita dell' universo; 2 l' esemplarismo di Platone, che evita ad un tempo il realismo, il nominalismo e il concettualismo; 3 il realismo aristotelico , che si parte in due proposizioni, ciascuna delle quali, prese a parte, costituisce da sè un sistema di vero realismo, e sono: a ) l' intelligibile in atto è identico all' intelligente, qualunque sia, in atto, e però l' intelligibile è un reale ; b ) le forme o specie esistono nella natura come atti nella materia , e nella mente umana come atti puri da materia , ma, nell' una e nell' altra esistenza, sono principŒ e cause attive (natura ed arte), e perciò reali. Il nominalismo e il concettualismo delle scuole ebbero il loro germe nello stesso realismo aristotelico . La prima proposizione del realismo aristotelico contiene il germe del nominalismo : la seconda quello del concettualismo , che è anch' egli una specie di nominalismo. Coloro che posero mente alla proposizione che « i generi e le specie non esistono che nella natura, cioè negli individui reali », conchiusero a ragione che dunque gli universali non esistono: sono puri nomi. Coloro la cui attenzione fu più colpita dalla prima proposizione che « le specie sono nelle menti come puri atti », conchiusero a ragione che gli universali non esistono in sè: sono puri concetti subiettivi e individuali anch' essi. Era sommamente difficile ad intendersi e a mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell' esemplarismo : Aristotele stesso, io credo, non l' aveva bene inteso: dopo di lui, nel decadimento della filosofia, molto meno un così sottile concetto potè cogliersi dalle menti. I neoplatonici e gli alessandrini (1) bevevano grosso: tutta la fatica ch' aveva durata Platone per separare i prodotti dell' immaginazione dagli oggetti della pura intelligenza, e per distinguere ciò che andava confuso nelle dottrine filosofiche precedenti, si perdette per essi interamente: essi con pieno sincretismo rimpastarono in uno il panteismo ed il misticismo orientale e orfico, e il pitagoreismo, e il platonismo: tornò dunque a galla il realismo puro, confuso, cieco, senza contrasto, senza che nè pure si movesse nelle menti il sospetto che l' esemplarismo , di cui si riteneva il linguaggio, fosse qualche cosa di contraddittorio appunto a quel realismo che si professava. E veramente, sconosciuta la forza e il valore di questo concetto dell' esemplarità , che contiene anche quello dell' intelligibilità delle idee, il carattere che distingue la filosofia platonica da ogni altra non si vede più, e però non rimane più difficoltà a confonderlo da una parte colle contemplazioni orientali, dall' altra colle speculazioni aristoteliche. Di qui ancora venne quella sentenza così frequente in Cicerone, che gli antichi accademici e gli antichi peripatetici, d' accordo nelle cose, differissero solo nelle parole (3). Il vero carattere dunque, che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fu ereditato dai suoi successori, e ben presto non si seppe più vedere. Il realismo dunque, distinto nei vari modi di concepirlo, ebbe libero il campo: esso regnava ugualmente nel preteso platonismo di Filone, che fu uno dei primi tra gli alessandrini, nella Cabala di Akibha e di Simeone Ben7Jochai, nei nuovi pitagorici, negli gnostici: tutti più o meno entusiasti o panteisti. Nessun filosofo di queste scuole si dava cura di rendere a se stesso o agli altri un conto accurato delle proprie idee: anzi nell' oscurità misteriosa delle loro locuzioni si piacevano d' involgere una pretesa sapienza indefinibile (4). Quelli dunque, che rifuggivano dalle cognizioni confuse e bramavano di pervenire a cognizioni chiare e distinte, inclinavano a buttarsi nello scetticismo: e questo nella bocca d' Enesidemo e di Sesto aveva un gran vantaggio dialettico a fronte di tali avversari. Onde non è maraviglia se gli scettici di questi tempi sembrano più acuti dei loro avversari, più dialettici, e abbiano conseguito una momentanea prevalenza. Ammonio Sacca, da cui prese la scuola profana d' Alessandria un nuovo vigore dopo la fine del secondo secolo, pretendeva di fondere Platone ed Aristotele insieme, come i suoi predecessori: la serie dei filosofi che ne uscì, specialmente Porfirio, Jamblico, Proclo, non dubitarono più che i due maggiori filosofi professassero una stessa filosofia: il solo Plotino si può considerare come un ingegno a parte, che pur sentì l' influenza del secolo, come vedesi dall' imperfezione del suo stile. Veramente questo era un darla vinta ad Aristotele, poichè quello che si sacrificava, senz' accorgersi, alla pretesa conciliazione dei due filosofi, era tutto ciò che Platone aveva di proprio e di eccellente, cioè la dottrina non più intesa delle idee, delle idee dico, quali si presentano alla mente nostra come eterne conoscibilità delle cose : e con ragione fu osservato che questa prevalenza d' Aristotele spiega l' origine della dottrina, tutta aristotelica, degli Arabi. [...OMISSIS...] Perdutasi quindi interamente la chiave dell' esemplarismo di Platone, il solo realismo era restato padrone del campo: e se si nominavano a quando a quando le idee, era un nome vano; chè non se ne intendeva punto la natura. Il realismo poi, lo vedemmo, ora cercava la sua base nella divinità, realità prima emanatrice di tutte le altre di cui si compone il mondo, e se n' aveva il panteismo , il misticismo , il quietismo , il teurgismo ; ora la cercava e credeva di trovarla nelle realità sensibili dello stesso universo, e se n' aveva il naturalismo , il razionalismo , il sensismo , il soggettivismo , il materialismo , e quando più tardi si osservò che di tutte queste realità niuna poteva essere universale , si trasse la naturale conseguenza della negazione degli universali, sentenza che prese le due forme e i due nomi di nominalismo e di concettualismo . Schernitore acuto di tante aberrazioni e di tante stravaganze era nato da sè, e s' era messo di contro a tutti, lo scetticismo . Una filosofia maestra di tanti errori non poteva condurre avanti il suo corso senza che venisse ad urtare, e in fine a rompersi, da una parte contro il cristianesimo, dall' altra contro l' islamismo che riteneva una parte di verità dal primo ond' era uscito. Giustiniano dunque nel 529 fece chiudere le scuole pagane di Atene; nè valse che i filosofi, dopo quattr' anni, dalla Persia dove s' erano rifugiati, potessero ritornare; chè nella luce già diffusa del cristianesimo non poteva più essere ben accolto un magistero così imperfetto: la filosofia pagana dunque, confusa da se stessa, ammutì. Pure al mondo cristiano la pagana filosofia lasciava una eredità, ma sporca. A nettarla dai pesi degli errori, ponevano già da molto tempo ogni lor cura gli scrittori ecclesiastici. Ma questo gran lavoro fu storpiato dalla violenza dei barbari, che coll' impero romano sconvolsero dai fondamenti la società e vi distrussero la civiltà, senza nondimeno poterne sterpare le radici custodite dal cristianesimo, vincitore e maestro paziente dei barbari stessi. Il lavoro cristiano dunque nei primi tempi si limitò, quasi direi, a combattere le erronee conseguenze, che propagginavano dalle antiche filosofie e dalla loro degenerazione: ma non ci fu campo, nè tranquillità sufficiente a richiamare in esame i primi principŒ e a ricostruire dal suolo una filosofia degna del Vangelo. Quindi l' esemplarità delle idee si tenne, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la creazione senza renderla fondamento d' un sistema filosofico (1). Il realismo dunque, che formava il vizio radicale delle ultime scuole filosofiche, rimase fitto e appiattato nel comune insegnamento, senza però che osasse metter fuori le unghie: nè ci fu alcuno degli ultimi filosofi cattolici, nè Boezio, nè Cassiodoro, nè Beda che lo scoprisse e che gettasse pure un sospetto sopra le sue conseguenze. Di che non deve cagionar maraviglia se in progresso di tempo e a quando a quando, uscissero da quel realismo medesimo che s' ammetteva a fidanza, illazioni inaspettate ed eterodosse. Queste certamente si guerreggiavano tosto dal sentimento cattolico, e si recidevano dall' autorità, come accadde a quelle che ne dedusse nel IX secolo l' Eriugena (1), ma più ancora i pretesi suoi discepoli del secolo XII e XIII Amaury e David. L' islamismo non trovava in sè quella forza logica e morale che ha il cristianesimo, e però non poteva difendersi con egual polso contro le conseguenze del realismo aristotelico . Anzi non poteva difendersi punto con armi dialettiche dalla corruzione e dal veleno di quel realismo. Non gli restava altro scampo che di combatterlo con la forza bruta, di cui trovavasi ben armato. Non ragionò dunque, ma distrusse a ferro e a fuoco la stessa filosofia; e Averroé che tirò dal realismo d' Aristotele le ultime conseguenze di razionalismo e di naturalismo puro, fu, si può dire, anche l' ultimo filosofo presso gli arabi (2). Il cristianesimo non ha paura di sorta della filosofia: egli dunque non la distrugge, e anzi ne promove e ne incoraggia lo studio; ma in pari tempo con una continua vigilanza combatte acremente e legittimamente gli errori, e li corregge, giovando con questo incredibilmente alla filosofia stessa. Tuttavia gli errori sono tenaci: lo spirito d' empietà, immortale quanto il genere umano sopra la terra, se ne impossessa e vive di essi, difendendoli a morte come la sua propria vita. Poichè la prima, la perpetua e più profonda divisione del genere umano sulla terra, è indubbiamente quella delle due società, di cui fa menzione il « Genesi » (3); e ogni qualvolta comparisce nel mondo una filosofia imperfetta, o avente qualche indeterminazione o qualche incoerenza, o, quello che è sempre inevitabile, circondata, agli occhi di molti, d' oscurità e di difficoltà, tosto ella si biparte in due, e si differenzia per la contraria interpretazione e per la piega diversa che le danno quelle due società che a gara se ne vogliono impadronire. Il che è quanto dire, che l' abuso si mette sempre al fianco dell' uso. La scissura del genere umano s' imprime dunque e si riflette nelle filosofie, e principalmente in quella che in un dato tempo è più autorevole e più acclamata, la quale così si fa segno di speciale discordia e oggetto e materia della lotta più di tutte ostinata. Il che viene confermato dalla storia del platonismo non meno che da quella dell' aristotelismo. Nelle considerazioni storiche fatte da noi fin qui, vediamo l' aristotelismo abbracciato e tirato a sè dalle due parti. Di qua la dottrina d' Aristotele insegnata e proclamata altamente come un aiuto naturale e un sostegno del cristianesimo: di costà essa medesima pure divenuta un' arma possente nelle mani dell' empietà, con cui questa tenta niente meno che l' intera distruzione del cristianesimo e d' ogni altra religione, e lo stabilimento del materialismo e dell' ateismo più consummato. Appresso gli arabi erano ricomparse le due fasi opposte del realismo che non mancano mai nella storia della filosofia: voglio dire il realismo panteista e mistico (1); e il realismo naturalista . Quando la filosofia araba comparve nella cristianità, l' uno e l' altro errore vi fu combattuto, e se rimase tuttavia il realismo delle idee, sotto questa parola equivoca s' intese dai più sani che le idee erano qualche cosa, non puri nomi. In questa lotta, il primo errore cioè il mistico e panteistico, fu del tutto vinto e dovette nascondersi per fare soltanto delle uscite momentanee: poichè, appena si affermava, veniva compresso. Quando l' errore si presenta sotto forma di religione, il cattolicismo colla stessa coscienza di sè lo ripudia. Nel cattolicismo cammina la ragione a lato della fede; due lumi che non vi possono essere nè confusi, nè disgiunti. Il razionalismo e il naturalismo all' incontro , non presentandosi con la forma d' una religione, e però non domandando, per esistere, d' occupare il luogo del cristianesimo, potevano mantenere per qualche tempo una propria esistenza, dissimulando la propria opposizione alla dottrina cristiana. Questa la ragione, per cui l' averroismo infiltrato nelle scuole lungamente vi si mantenne (1), talora coperto, talora pigliando sicurità e denudandosi; quando sterile tronco, e quando col seguito delle sue ultime conseguenze, ora senza schermi ed ora schermendosi con ridicole ed insolenti distinzioni, qual fu quella celeberrima della doppia verità, la filosofia e la teologia. L' aristotelismo fu dunque condannato da prima nel 1209, poi nel 1215 e 1231; vi fu condannato, come l' avevano esposto gli arabi, insieme col panteismo di David e d' altri nominati nella sentenza del concilio di Parigi pubblicata dal Marlene (2). Il realismo aristotelico consisteva nell' aver dato alle specie ed ai generi, cioè alle idee delle cose mondiali, una esistenza nelle stesse cose reali . Essendo le idee cosa divina e ponendosi esse come forme reali delle cose, si faceva manifestamente Iddio forma reale degli enti mondiali. Ora gli enti tutt' intieri si riducono alla forma, perchè la forma, causa della materia, è quella che li fa essere, e dalla forma si denominano. Se questo sistema, riguardato da una delle sue facce, è una specie di panteismo, riguardato dall' altra, è naturalismo e ateismo. Quanto tenacemente si abbarbichi negli animi e nelle menti cotesto realismo che, portando il suo frutto, si converte in un sistema d' empietà bifronte, lo dimostra, oltre le ripetute condanne frequenti, la dura lotta che gli scrittori più eminenti, cominciando da Guglielmo d' Auvergne e discendendo fino a quelli del secolo XVI, sostennero per abbatterlo; e le rovine che tuttavia egli andò menando, combattuto, non mai pienamente estinto. Che più? Se noi stessi, nel tempo nostro, altro non facciamo che combattere lo stesso nemico sullo stesso campo? L' averroismo , figliuolo, per generazione logica, dell' aristotelismo, diede al mondo la formula della più mostruosa empietà: ognuno intende che alludiamo alla bestemmia dei tre impostori . L' empietà sbocciata da questo fonte aristotelico ed arabico comparisce sotto forme volgari e religiose nel gioachinismo, nell' evangelio eterno, nei catari, beguardi, lollardi, bizzocchi, fraticelli, poveri di Lione, ecc., che cotanto commossero la società nel secolo XIII; e si dovettero frenare e comprimere colla forza scientifica specialmente nell' università di Parigi; e si dovette con autorevoli decisioni ecclesiastiche degli anni 1240, 1269, 1277 condannare, quand' esso si proponeva nelle tesi le più strane e le più empie, e che pure si riprodussero per molto tempo ancora (1). Sventuratamente la casa degli Hohenstaufen divenne il centro di tutta questa empietà e dell' immoralità che ne era e ne doveva essere causa ed effetto (2); la filosofia araba nella sua forma più bassa, materiale e dissoluta, annidatasi in quella corte, e ivi protetta da Federico e da Manfredi, corruppe tutto il secolo XIII, che fu pure maestro all' empietà del XIV, nè la tradizione d' empietà e d' incredulità s' interruppe più mai, e la esplosione terribile ch' ella fece nel secolo XVIII, indica troppo bene lo stesso fuoco vulcanico che coperto in parte da ceneri e da rovine, ci fa ancora sotto le piante traballare ed ardere il suolo (3). L' averroismo purtroppo corruppe specialmente la filosofia in Italia: entrato nell' università di Padova per opera di Pietro d' Abano (n. 1250, m. 1317) e cresciutovi d' autorità per opera di Gaetano Tiene (n. 13.3, m. 1465) vi durò fino al Cremonini (m. 1641), cioè più di trecento anni. E questa non fu la minore delle deplorabili calamità a cui questa nazione soggiacque. Lo stesso studio incessante d' interpretare benignamente Aristotele ed Averroè, e di confutarne gli errori, contribuì non poco a mantenere più a lungo nelle cattedre autori, i cui principŒ erano prolifici delle più perniciose dottrine: si credeva renderli innocui con interpretazioni stiracchiate o false, o con confutazioni che non distruggevano ciò che quegli errori contenevano di seducente. Coloro a cui basti la perspicacia per rannodare le conseguenze più remote ai principŒ e gli effetti alle cause, dopo aver profondamente meditato sulle sciagure italiane, non crederanno esagerazione il conchiudere che l' erronea filosofia introdottavi e pertinacemente mantenutavi, c' entra molto da per tutto. Le sciagure morali, checchè ne dicano i vani e belli spiriti, cagionano tutte le altre. E tutte le altre dell' ordine morale furono indubbiamente scosse e guaste dal realismo aristotelico e averroistico, che trovò tant' altre cause a lui affini con cui associarsi. Queste parti integranti dell' ordine e dello stato morale della società sono: 1 la religione ; e l' averroismo introdusse in varie parti d' Italia una scientifica incredulità, incominciando da quei medici atei che tentarono d' attirare al loro materialismo il Petrarca (1), e più sù ancora (2) e più giù fino al Vanini (3); 2 il costume ; e l' averroismo ci dà gli epicurei di Firenze del secolo XIV coi loro successori (1); 3 la politica ; e dalla stessa filosofia aristotelica, sorse il macchiavellismo (2), che fa perdere affatto agl' Italiani la traccia della vera politica; 4 il diritto politico ecclesiastico ; e sotto il regno dello stesso sistema filosofico, esso degenera in una guerra appassionata che si fa alla Chiesa da Arnaldo da Brescia (m. 1155) fino a Fra Paolo (m. 1623), tanta parte del decadimento di Venezia, cioè dello stato meglio ordinato che avesse l' Italia; 5 la letteratura ; e si rimane sudicia e snervata dalla scostumatezza nei suoi stessi esordi, come specchio che doveva essere della società italica e fiorentina del secolo XIV, cioè d' una società travagliata dalle quattro piaghe indicate. Tale è l' eredità ricca di guai che l' Italia raccolse dal realismo aristotelico e arabico, tenuto da essa, per sua sciagura, più tenacemente di tutte le altre nazioni (3). Certo nelle bocche del Cesalpini (m. 1603) e del Cremonini (m. 1641), che vanno contati tra gli ultimi rappresentanti dell' aristotelismo in Italia, il principio del realismo aristotelico suona così fresco e così spiccato come se fosse un trovato pur d' allora: le forme delle cose si riducono in Dio che n' è principio, causa formale egli stesso del mondo (4). Le conseguenze si possono negare, dissimulare, impugnare, ma brulicheranno tuttavia nelle menti che avranno ricevuto in sè quel principio fecondissimo. E un sistema di questa natura si continuava a insegnare, perchè non ce n' era allora un altro. Pure tostochè gli occhi cominciarono a levarsi dai libri e a riguardar la natura, esso perì, ucciso, da quegli stessi germi di corruzione che portava in se stesso (1): si tentò dunque per un poco di far senza della filosofia, ristorandosi di questo mancamento colle fisiche scoperte (2). E per vero l' avverroismo doveva necessariamente rendere la filosofia trista, barbara, pedantesca, sofistica, difetti tutti, che cresciuti col tempo, venivano infine a renderla insopportabile agli ingegni che secretamente da essi stessi progredendo si andavano svezzando (3). In questo modo invecchiò e si corruppe la filosofia scolastica; e dall' ali del nuovo genio che invase l' Europa ne furono spazzate le rovine. L' ultimo sforzo fatto da essa per prolungare la vita, se fosse stato possibile, ebbe ancora il doppio carattere di razionalismo e di misticismo. Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.
Allora vennero i Dorici a dire che conveniva cercare quest' ente al di là delle cose sensibili, e s' abbatterono nell' essenza intelligibile «noeten», che è quanto dire portarono la riflessione sull' essere ideale. Questi furono gli Eleatici, a cui aveano già spianata la strada i Pitagorici (2). Giunti colla riflessione all' essere ideale, trovavansi già nel campo dell' essere manifestante, manifestato e manifesto; e indi prese un nuovo corso la filosofia: potremmo anzi dire che indi incominciò. Ma poiché la riflessione, anche pervenuta all' essere per sé manifesto, è obbligata a fare questo progresso, che prima il consideri come manifestato (essenza), poi come manifestante (idea), finalmente come manifesto (essere oggetto); perciò noi vediamo esser comparso prima Parmenide, che l' essere manifesto considerò, piú che altro, come essere manifestato, trattando dell' essere come essenza: di poi esser venuto Platone, che insegnò la teoria delle idee. Ma dell' essere manifesto, come manifesto, e dell' essere in tutta la sua pienezza, rimane a considerare. Essere manifestato, vuol dire essere conosciuto. Convien dunque cercare la nota caratteristica ed evidente della cognizione. Ora, la cognizione prima di tutto dee avere un oggetto. Conoscere qualche cosa, è proposizione identica a quest' altra: « sapere in qualche modo, che sia quella cosa ». Sapere che sia quella cosa è proposizione identica a quest' altra: « sapere l' essenza di quella cosa ». Ora, il conoscere l' essenza di un ente, importa egli necessariamente che quell' ente sussista realmente? No, ché noi possiamo conoscere l' essenza di molte cose possibili, e non sussistenti. Ne viene spontanea la conseguenza, che la cognizione di certe cose, di certi enti, si può avere senza che essi sussistano. Dunque la sussistenza di tali cose non è quella, che le manifesti a noi. Dunque rispetto alle cose contingenti l' essere loro reale e sussistente è bensí manifestato, ma non è manifestante, e però non è l' essere manifesto. All' incontro, se noi abbiamo quella prima cognizione dell' essenza, noi potremo aggiungere ad essa altre cognizioni, e prima di tutte, che quell' ente, a noi già noto, sussiste. E qui si consideri bene, che il sapere che un ente a noi noto sussiste o non sussiste, non cangia l' essenza a noi nota dell' ente. La nuova cognizione dunque della sussistenza di un ente a noi noto è cosa accidentale rispetto alla cognizione dell' ente. Ma l' esserci data la sussistenza, conoscendone noi l' essenza o in sé o in un' altra essenza che la contiene, fa sí che noi possiamo conoscere l' ente a noi noto per l' essenza, perché nell' essenza già si contiene la sussistenza possibile. L' essenza dunque è quella che fa a noi conoscere la sussistenza di un ente, quando questa sia a noi data; l' esserci data, non ce la fa conoscere, ma è una condizione, posta la quale, noi la riconosciamo. Perciò noi chiamiamo l' essenza, ossia l' idea, che è l' essenza in quant' è manifestante, forma della cognizione; e la sussistenza del contingente abbiam chiamato materia , come quella che non è manifestativa. L' essenza adunque della cosa intuíta dallo spirito manifesta la sussistenza delle cose, quando questa sia data. Ma poiché questa seconda manifestazione non altera l' essenza; dunque la mutazione, che v' ha nell' aggiunta di questa nuova notizia, rimane unicamente nello spirito reso intelligente dall' essenza. E` lo spirito che ha fatto un nuovo atto, che acquistò una nuova notizia intorno allo stesso oggetto che conosceva; ma non acquistò una nuova essenza. La notizia dunque della sussistenza della cosa è di tutt' altra natura dalla notizia dell' essenza della cosa: questa è l' oggetto che sta davanti allo spirito, quella è una notizia per la quale lo spirito conobbe un nuovo modo del noto oggetto: la prima è quella che Platone chiama mente «nus», la seconda è quella che egli chiama opinione vera «doxa alethes» (1). La realità dunque è un modo dell' oggetto, non è l' oggetto dello spirito intelligente. Se dunque la notizia della sussistenza nasce per un nuovo atto dello spirito intorno allo stesso oggetto; dunque ella si riduce ad un nuovo atteggiamento dello spirito intelligente relativamente all' oggetto del conoscere: e come la notizia dell' essenza è la parte oggettiva della cognizione, cosí la notizia della sussistenza è la parte soggettiva , che si sopraggiunge all' oggettiva, da cui riceve natura di cognizione. Ma se l' essenza della cosa contingente ha natura di essere manifestante , ha ella poi anco natura di essere manifesto ? Abbiam detto, che per aver notizia di un sussistente a noi dato nel sentimento, faccia mestieri, che noi ne conosciamo l' essenza. Ora, l' essenza che ha l' estensione massima è l' essenza dell' essere privo di qualunque limitazione. Onde basta che uno spirito abbia l' intuizione dell' essere , che sappia che cos' è essere senza piú, a ciò ch' egli possa acquistarsi la notizia di qualsivoglia sussistente che gli sia dato. Perocché, quantunque non preceda l' intuizione dell' essenza speciale di quel dato sussistente, tuttavia precede nello spirito un' essenza assai piú estesa, che riceve la sua limitazione dalla stessa sussistenza che fa conoscere. Quindi procede, che le limitazioni poste dal nostro spirito all' essenza dell' essere, secondo i sentiti a cui si applica, sieno quelle che convertono l' essenza universale dell' essere nelle essenze specifiche e poi, per astrazione, nelle generiche . E però quanto nelle essenze c' è di limitato, tutto è dovuto ai reali sussistenti da noi sentiti; onde queste limitazioni non appartengono all' essere manifestante , ch' è l' essere puramente oggettivo. Rimane dunque che il puro essere senza limitazione sia il solo manifestante, come è per se stesso manifestato: e però egli solo sia l' essere per sé manifesto . Dai quali ragionamenti discendono i seguenti corollarŒ: I Non tutti gli enti sono manifestati e manifestanti . II Tutte le essenze specifiche e generiche hanno in sé un elemento, che è ad un tempo manifestato e manifestante. III La sussistenza de' contingenti non essendo contenuta nella loro essenza ; questa può essere senza di quella. IV La parola essenza applicasi all' ente in quanto è manifestato e manifestante, considerandolo nella relazione di manifestato ; e la parola idea o concetto esprime lo stesso ente nella relazione di manifestante . E come alla parola essenza risponde la parola sussistenza , cosí alla parola idea corrisponde la parola realità . V La natura del reale o sussistente, che può esser manifestato, ma non è manifestante, consiste nel sentimento e in tutto ciò che cade nel sentimento. VI Come le essenze sono l' oggetto del conoscere; cosí le mere sussistenze, riducendosi al sentimento, riduconsi di conseguente a quello che si chiama soggetto . VII Tutte le essenze degli enti limitati si riducono in una essenza sola veramente oggetto puro, e tutte le altre sono quella medesima essenza, ma limitata. VIII L' essere puro è dunque il solo per sé manifesto : collo stesso atto, manifestante e manifestato. In quanto è manifestato, si prova essere semplicemente in sé (anoetico); in quanto è manifestante si prova essere in sé presente ad una mente (dianoetico). Ora che l' essere manifesto all' uomo sia uno, scorgesi da queste osservazioni: 1) L' atto della mente, ossia l' intuizione (1), colla quale noi ci affissiamo nel puro essere, prescindendo affatto dalle sue determinazioni, è uno e semplicissimo; e ciò, perché a lei risponde un unico e semplicissimo oggetto, l' essere puro (essere universale, ideale, possibile, sono voci che indicano lo stesso essere con qualche relazione annessa) (1). 2) Dall' idea dell' essere universale si distinguono gli altri concetti col limitare e determinare quella prima. Ella dunque rimane in se stessa la medesima; ma lo spirito la considera in diverse relazioni colle cose che manifesta; e per ciò ella è una ed identica in tutti i concetti, né si distingue da questi, se non per le dette limitazioni e relazioni che ella riceve. Quindi le maniere di dire della Scuola: che la sostanza, la quantità, la qualità, ecc. contengono l' ente (2), il che è quanto dire sono sue limitazioni; ovvero che l' ente si divide ne' dieci predicamenti (3), e il dividere qui non è che un limitarlo colla mente. I concetti inferiori al concetto dell' ente, 1) si riducono all' idea dell' ente per ciò che hanno di positivo nella loro idealità; 2) si distinguono per ciò che hanno di negativo; 3) si distinguono di nuovo per ciò che hanno di positivo reale; il quale ultimo elemento li rende anche re et non ratione tantum distinti dall' idea dell' ente, che è purissima da ogni elemento reale. Ma prima che la mente speculativa pervenga a discernere questo fondo comune di tutte le idee, ella si persuade che molte sieno tra loro assolutamente separate. Ora, sia in quello stadio di filosofia, in cui si credono le idee esser molteplici, e l' una all' altra incomunicabile, sia in quello piú avanzato in cui se ne considerano i legami che le congiungono, accade che l' uomo divinizzi le idee. Poiché, osservandosi nelle idee tutte qualche cosa d' immutabile, di necessario e d' universale, attributi che appartengono alla natura divina, è agevolissimo a conchiudersi, che dunque alle idee spetta questa natura. Quindi due diversi errori: il politeismo idealistico ; e il monoteismo idealistico . L' uno e l' altro è un ideoteismo . Quanto al primo, se ne trovano le traccie ne' poeti che hanno preceduto Platone, i quali diedero alle idee i nomi di Dei. Cosí Epicarmo uditore di Pitagora (1), scriveva: [...OMISSIS...] : dove sotto il nome di Dei sono indicate le essenze immutabili. Platone nel Parmenide dice doversi concedere a Dio la scienza piú squisita, cioè quella delle essenze ossia delle idee; e quello che dice di Dio, lo dice appresso degli Dei. Qui sembra che distingua tra le idee possedute, e la divina natura che le possiede. Ma ben si vede, che queste idee in Dio non sono per Platone puramente oggetti di conoscere, ma sono altrettante essenze reali che informano la divina natura. Cosí pure nel Timeo dice che gli Dei sono partecipi dell' intelligenza, che è quella che comprende le idee, perché queste sono i puri intelligibili ( «eide noumena monon») (3); colla quale sentenza sembra che distingua di novo le idee dagli Iddii che le possedono. Ma nondimeno quelle idee, come si vede in appresso, sono in Dio (poiché qui usa il singolare) altrettante virtú reali ed operative. Ma d' altra parte sembra che queste idee, in quanto sono in Dio in una unità ordinatissima, costituiscano Dio stesso, secondo Platone; poiché dopo aver egli detto che Iddio le comunicò alla materia per quanto questa n' era capace (4), e cosí diede ordine al mondo, considera quest' opera come una comunicazione che Dio fa di se stesso quasi producendosi e generandosi nel mondo. Ed è a notarsi che incontanente soggiunge: « « Poiché convien distinguere due specie di cause, l' una il necessario [...OMISSIS...] , l' altra il divino [...OMISSIS...] » ». Il necessario è la materia, ossia la pura realità senza forma: il divino dunque rimane la pura forma, la pura idea partecipata. Cosí Platone cade nel razionalismo (non però senza qualche felice incoerenza con se stesso), ossia nella deificazione delle pure idee, perché chiamando queste il divino , loro contrappone e però esclude da esse il necessario , cioè la realità pura ed informe. Dal divino poi e dal necessario, come da due cause elementari, fa nascere il congiunto, cioè il mondo e i singoli enti che lo compongono. E perciò chiama il mondo « « un unico animale, contenente in sé tutti gli animali mortali ed immortali » » [...OMISSIS...] . La natura divina dunque per Platone non è che la natura delle idee. Ma poiché è impossibile separarla al tutto dal reale, vi aggiunge questo senza accorgersi che alla loro essenza non appartiene. Ora a tutti que' filosofi, che non hanno ben colta la diversità tra questi due modi di essere , il reale e l' ideale, accade che li confondano rendendoli un solo: taluni facendo che il modo reale prevalga quasi non ci fosse altro che esso, e questi senza confessarlo, e senza accorgersi, all' ideale attribuiscono anche le proprietà del reale; taluni altri facendo che prevalga il modo reale, a cui pure danno le proprietà dell' ideale. Lasciando questi ultimi, che sono volgari e di minor conto, i primi vedono facilmente la diversità de' due modi quando considerano la realità finita , perché questa si pensa direttamente come immune dalle idee; e cosí Platone, introducendo il Demiurgo a fabbricare il mondo, pose da una parte la materia qual causa necessaria, dall' altra la forma qual causa divina: ma non vedono piú quella diversità, quando si tratta d' una realità infinita e invisibile, di quella cioè di cui abbisogna lo stesso essere ideale per esistere. E allora accade loro che, attribuendo una realità alle idee stesse, non s' accorgono d' attribuir loro una cosa che non è idea, né parte d' idea, ma tutt' altro. Nello stesso tempo però tali dotti filosofi dal linguaggio stesso rimangono traditi; ché non trovano maniere di dire, se non tali che attestano quanto quelle due forme di essere si dispaiono tra loro, e restano sempre due, inconfusibili. Cosí Platone nel Filebo, dopo aver posto come principŒ l' uno cioè le idee, e i molti cioè la materia indefinita, e in terzo luogo il misto che dall' unione di que' due risulta, trova necessario un quarto principio, cioè la causa di quell' unione, la quale causa è Dio (2). Qui dunque Iddio apparisce distinto dalle idee stesse; e però questo discorso non consuona col chiamarsi da Platone cosí sovente le idee assolutamente il divino ( «theion»). Essendo dunque Platone espresso con maniere cosí incerte e vacillanti, non è maraviglia che i suoi discepoli si sieno in appresso divisi. Perocché alcuni ponendo mente all' unificazione delle idee in Dio, e spingendo l' uno di Platone all' eccesso, hanno collocata la natura divina in una nudissima astrazione sulle stesse idee esercitata; altri hanno concepito un Dio organato, per cosí dire, d' idee molteplici; e i piú, di queste stesse idee, separate le une dalle altre, fecero altrettanti Dei. Ma in fine tutti, si può dire, nel fondo idolatrarono le idee. A questa confusione mostruosa, o almeno oscurità di parlare, si deve attribuire lo scredito del Platonismo. Rare volte i discepoli hanno il coraggio di analizzare le idee non analizzate dal maestro, nel che sta il vero progresso; e in quella vece, spogliando il maestro stesso delle sentenze piú nobili e del linguaggio da lui trovato e arricchito di forme opportune, in mille modi giuocano di questi materiali della scienza, quasi come colle noci i fanciulli, senza romperle e cavarne il gheriglio. Cosí certe frasi e parole della scuola, di altissimo significato, che tanto dilettano e innalzan la mente quando si sentono nella bocca o negli scritti del maestro, inviliscono appresso i discepoli e annoiano per l' abusata loro ripetizione. L' uomo dunque ha per oggetto del suo naturale intuito l' essere puro, ma indeterminato; e quest' essere E` per sé manifesto. Ora una speculazione ontologica piú avanzata trova pure che l' Essere divino od assoluto deve essere per sé manifesto (1). Nasce dunque il dubbio, se l' essere naturalmente intuíto dall' uomo sia Dio. Le ragioni che potrebbero persuadere a una risposta affermativa, sono principalmente le due seguenti: 1) La qualità di essere per sé manifesto è una qualità ultima, e perciò divina: perché se l' essere manifesto non riceve la luce altronde, ma egli la dà alle cose che non sono per sé manifeste; dunque, come tale, egli è indipendente da ogni altro essere, e primo nel suo ordine: il che non può appartenere che a Dio. 2) Se l' essere per sé manifesto all' uomo non è Dio, dovendo essere anche Dio per sé manifesto, procede che ci sarebbero due esseri per sé manifesti, e quindi due principŒ intelligibili, il che sembra assurdo: che è assurda la dualità di principŒ supremi dello stesso ordine. Le quali difficoltà cadono davanti alla dottrina dell' essere assoluto, e dell' essere relativo. Poiché l' essere che è un modo unicamente relativo di esistere non pregiudica alla pienezza dell' assoluto, e neppure alla sua unicità [...OMISSIS...] . Onde non v' è che un solo essere assoluto per sé manifesto. Ma ciò non toglie che ci sia un altro essere per sé manifesto relativamente, cioè relativamente all' umana intelligenza, o ad altre intelligenze finite che sono esse stesse enti relativi. E poiché gli enti relativi non sono necessari, ma contingenti, perciò potrebbero cessare, con che cesserebbe l' essere manifesto relativo ad essi: onde non c' è che un solo essere che sia necessariamente manifesto, e questo è Dio. Laonde l' essere per sé manifesto relativo alle intelligenze finite, non è già indipendente dall' essere per sé manifesto necessariamente e assolutamente, perché, quantunque sia per sé manifesto, e come tale non abbia nulla al di là di sé, tuttavia è dipendente come essere relativo: di maniera che, come ha cominciato col cominciare delle intelligenze finite, onde può dirsi ad esse concreato, cosí cessando esse coll' annullamento, anche egli verrebbe a cessare. Né involge alcuno inconveniente, che gli enti relativi e contingenti partecipino qualche cosa di divino, purché questo elemento divino non costituisca la loro base; che anzi ragion vuole che conservino qualche traccia del suo autore, e però qualche elemento o relazione divina. E quindi abbiamo veduto che tutti i contingenti, sebbene non sieno l' essere, tuttavia hanno l' essere, che è cosa divina, non come loro base , né come loro propria appendice , ma come un loro antisubietto e condizione necessaria ad esistere in sé. Né s' incontra in ciò alcun pericolo di panteismo, perché tali enti non sono tal elemento divino, ma solamente lo hanno . Il nulla non può manifestar nulla; quello che manifesta è necessario che sia l' essere stesso [...OMISSIS...] . Dunque l' essere manifesto all' uomo non è il nulla. E tuttavia non fa maraviglia che i pensatori abbiano trovato tanta difficoltà ad ammettere che il puro essere indeterminato stia davanti alla mente, non accorgendosi che neppure lo potrebbero negare se non ci stesse. L' origine della difficoltà nasce da quel carattere che ha l' essere d' apparire come un nulla relativo [...OMISSIS...] , che è quanto dire, di non avere comprensione alcuna. Questo stato d' indeterminazione, che ha l' essere davanti alla mente, presenta la difficoltà di riflettervi, tra gli altri, sotto tre aspetti. Da parte della sua indeterminazione , non si può concepire come possa stare davanti alla mente la pura esistenza separata da tutti gli esistenti. Da parte dell' unità deficiente , riesce difficile a concepire un oggetto, a cui manca il termine per essere un ente. Da parte della sua somma semplicità , pare all' uomo di non conoscere, quando egli non avendo due o piú cose da mettere a confronto, di conseguente non conosce differenza di sorte alcuna. I filosofi che si lasciarono scuotere da queste difficoltà, omettendo di esaminare accuratamente il valore, presero diversi sistemi per eluderle. I primi, superficiali, dissero che l' idea d' esistenza, come gli altri astratti, si traeva per opera della mente dagli enti reali percepiti; senza accorgersi di due inconvenienti, cioè: 1) che se l' idea di pura esistenza si tolga coll' astrazione dagli enti percepiti, questa già s' ammetteva per data nella percezione, in maniera che restava a spiegare la percezione stessa. Perocché l' astrazione non fa che separare, e separare a parte, gli elementi che già ci sono, e però non crea né l' idea d' esistenza, né alcun altro elemento che cada nel percepito; 2) che se l' idea d' esistenza si può pensare astratta da tutto il resto, dunque convien conchiudere ch' ella possa stare davanti alla mente anche separata da ogni esistente. Dunque la difficoltà rimane la stessa (1). Altri, piú superficiali ancora, negarono al tutto l' essere ideale, non solo perché non rappresentava un contenuto reale, ma per una ragione assai piú sciocca; cioè perché non lo vedevano e toccavano, ond' anche lo mettevano in derisione: ché i filosofi volgari e minuti ricorrono sempre a questo argomento del riso. Fra quelli che riducevano a un nulla l' essere ideale, meritano in terzo luogo d' essere accennati i Nominali di tutti i tempi. Altri credettero che l' essere che sta davanti alla mente come suo lume fosse Dio stesso. Finalmente v' ebbero de' filosofi che negarono al tutto i possibili eterni, e con ciò le idee. Tutti questi filosofi erravano per non aver distinti i due modi di concepire l' essere, cioè come avente un' esistenza subiettiva indipendente dalla mente, e come avente un' esistenza obiettiva, la quale è bensí un' esistenza in sé, ma essenzialmente condizionata alla mente. Videro che non poteva avere il primo modo di essere, e però gli negarono ogni modo. E veramente l' essere indeterminato non può sussistere in un modo indipendente dalla mente, e in sé solo. Ma che sia in sé davanti alla mente, non c' è ripugnanza. E che sia distinto dalla mente, è manifesto, avendovi contraddizione nel dire che la mente fosse l' essere indeterminato, o viceversa. E che l' essere indeterminato non sia il nulla, del pari è evidente, poiché il nulla e l' essere sono contraddittorŒ. E se non c' è il contenuto, c' è però il contenente, e il contenente non è nulla, ed anzi pare che il contenente abbia qualche cosa di piú ampio del contenuto. Nullismo si chiama quel sistema di filosofia, che suppone che l' ente si annulli quando si riduce ad una mera possibilità, e che tuttavia da questo annullamento in cui si sommerge di continuo, di continuo altresí egli emerga, facendo cosí che tutto l' essere proceda dal nulla come da suo principio, e nel nulla ritorni come in suo fine, per un circolo sempiterno. Questo sistema si fonda adunque sulla supposizione che l' ente possibile, che è l' ente manifestante, sia nulla. Ma noi abbiamo veduto che non è il nulla. Dunque un tale assurdo sistema rimane pienamente abbattuto. Medesimamente consegue dalle cose dette, e dall' immediata osservazione, che l' essere manifesto , o manifestante all' uomo le cose, non è l' uomo, perché anzi l' uomo è ricettivo di quell' ente. Oltre di che è manifestamente assurdo che l' uomo sia l' essere in universale, perocché l' uomo è un essere particolare e proprio. Né tampoco l' essere universale può credersi una modificazione dell' anima umana. Perocché tutte le modificazioni di un ente particolare sono particolari. L' essere manifestante adunque essendo presente all' uomo, ma non l' uomo, né alcuna sua modificazione: ed essendo tale che in se stesso e per se stesso si manifesta, egli è l' oggetto in cui l' atto conoscitivo del pensiero si porta e termina. Il Soggettivismo ossia Psicologismo è quel sistema che riduce l' oggetto della mente, l' idea, ad essere il soggetto stesso, od una sua modificazione. Quindi due sono i sistemi di soggettivismo. Il primo confonde l' idea colla mente intuente, che n' è il soggetto. Questa confusione è frequente in tutti gli scrittori Alessandrini. Essi confondono l' intelletto divino , che ha ragione di soggetto, coll' idea che è l' intelligibile , e che ha ragione di oggetto (1). Essi talora dicono che l' idea è la mente, e viceversa la mente la chiamano idea (1). Il secondo sistema de' soggettivisti dichiara che le idee non sono che modificazioni dell' anima; ed a questi appartengono i sensisti moderni di tutte le classi, da Locke fino a Galluppi. Tuttavia confondono essi le idee colle sensazioni; perché queste sono modificazioni dell' anima; cosí pongono che anche quelle sieno tali. Tostoché si ammette che le idee sieno modificazioni soggettive dell' anima, nasce incontanente l' impossibilità di spiegare l' esistenza del mondo, l' esistenza di un diverso da noi. Quindi pressoché tutti i soggettivisti dotati d' ingegno si danno vinti a questa questione e non sono mai contenti per qualunque dimostrazione voi lor proponiate del mondo esterno. Quelli adunque, che invece di osservare come la cosa è, invece di rilevare il fatto, sentenziano a priori che l' essere , finché è solo possibile a realizzarsi, altro non può essere che una modificazione del soggetto intelligente; questi che non s' accorgono di suppor sempre il contrario in tutti i loro ragionamenti, né s' accorgono che senza suppor ciò non potrebbero aprir bocca; questi, che vedono direttamente insieme con tutti gli uomini la verità che noi annunziamo, e non la trovano piú quando come filosofi la vanno cercando colla riflessione; questi, dico, né possono dimostrare l' esistenza del mondo, anzi neppure di se stessi, né di cosa alcuna, ma la debbono ammettere alla cieca supponendo, colla scuola scozzese, un cotale istinto irresistibile; né possono accontentarsi di nessuna dimostrazione, benché validissima, del mondo, perché, fin che dimorano nel loro pregiudizio, non possono intenderla. Noi veggiamo che i piú famosi traviamenti nel campo dell' ontologia provennero dal non aver i filosofi bastevolmente osservata la detta natura dell' essere manifesto all' uomo. Quindi essi peccarono per eccesso o per difetto, e cosí vennero a dividersi i sistemi in due grandi classi estreme, i filosofi in due fazioni inconciliabili. I primi, cioè quelli che diedero troppo all' essere manifesto all' uomo, cioè all' idea, videro una verità; cioè ben videro che un tal essere non era punto il nulla, ma non sapendo concepire altra forma dell' essere che la reale, tosto conchiusero che dunque l' essere ideale era Dio. I secondi, cioè quelli che diedero troppo poco all' essere ideale, videro pure una verità, cioè videro che un tal essere non era punto Dio, ma anch' essi, ammettendo, con pregiudizio, che l' essere non avesse altra forma che quella della realità, dissero che l' essere ideale era nulla, onde i nullisti ; o che era una voce, onde i nominali ; o finalmente che era una modificazione dello spirito, onde i soggettivisti . Fra questi due sistemi erronei sembra ce ne possa essere uno di mezzo: di quelli che all' essere ora attribuiscono le qualità dell' idea, ora quelle della realità, contraddicendosi, senz' accorgersi. Perocché l' essere talvolta apparisce loro nella sua nudità ideale, e allora cosí lo descrivono; tal altra volta poi non potendo stare entro questi confini, scadono al supporre in esso gli attributi della realità. Ma chi ben considera, questo avviene universalmente a tutti quelli che professano il primo sistema, i quali non possono mantenere la coerenza ne' loro detti. Mi valgano ad esempio gli Eleatici. Essi ridussero tutta la filosofia a stabilire, che cosa fosse ciò che meritasse il nome di essere (1). A tal fine Parmenide stabilí una natura, che i Greci chiamarono «usia», semplicissima, priva di qualità, anteriore ad ogni composizione, natura ossia essenza che costituiva il fondo d' ogni pensiero. In questo riguardando, si poteva conoscere tutto ciò che era, cioè che avesse l' essere (2). Questo era un avere descritto ottimamente l' essere senza i suoi termini, ossia l' essere ideale. A malgrado di questo, tosto appresso attribuisce all' essere i termini ( «peras») e cosí lo rende ente assoluto senza accorgersi che questo era in contraddizione con quello che aveva detto prima; poiché l' essere co' suoi termini non è piú semplicemente quell' «usia», colla quale la mente conosce ciò a cui può dare il nome di ente. E questo parlar dell' ente come indeterminato, e poi senz' accorgersi prenderlo per determinato, è lo sdrucciolo in cui cadono i filosofi di questa sorte, fino all' Hegel. Nel libro terzo noi abbiamo dovuto indicare i caratteri dell' essere che sta presente per natura all' intuito umano, e gli abbiamo ridotti a due principali, l' estensione infinita e la nulla comprensione . Da questi due caratteri generali abbiamo dedotti i caratteri specifici, dieci de' quali vedemmo procedere dalla stessa natura di quell' essere: 1 essenza pura dell' essere , 2 oggetto essenziale dell' intelligenza , 3 possibilità dell' ente finito , 4 universale , 5 necessario , 6 eterno , 7 semplice , . intelligibilità , 9 forma delle menti ; 10 forma della forma delle cose finite ; e tre altri dalla natura dell' umano intuito: 1 ideale , 2 un nulla relativo , 3 la possibilità dell' ente infinito . Se ora noi consideriamo questi caratteri in relazione all' analisi fatta dell' essere per sé manifesto all' uomo , ci bisogna classificarli diversamente. Poiché que' caratteri: 1) parte appartengono all' essere come essere, cioè anoeticamente considerato, quale sta davanti all' intuito; 2) parte appartengono a quell' essere considerato come per sé manifesto; 3) parte appartengono a quell' essere considerato come manifesto all' uomo , cioè come intuito dall' uomo imperfettamente. E cosí considerato, o lo si riguarda come essere in sé, anoeticamente, e il suo carattere è quello di essere un nulla relativo . O lo si riguarda come manifestante, e il suo carattere è di essere idea . O lo si riguarda come essere manifestato, e allora non presenta per carattere dialettico, che la possibilità dell' ente infinito . Per non rifare quello che abbiam fatto nelle opere ideologiche e ne' libri precedenti a questo, troviamo solo necessario di dichiarare il concetto del possibile, come quello che riassume quasi in sé tutta la dottrina intorno all' essere manifesto all' uomo, e che è piú difficile ad intendersi degli altri. A tal fine conviene che in primo luogo rendiamo accorto il lettore degli errori che si possono prendere, e che furon presi, intorno a questo concetto. In primo luogo convien distinguere il concetto dell' ente possibile da quello dell' ente ipotetico . L' ente possibile non è mai un reale, ma sempre un ideale, cioè è l' essenza che s' intuisce nell' idea e si scorge atta ad essere realizzata. L' ente ipotetico all' opposto è un reale, che si suppone esistere a fine d' instituire su tale supposizione qualche ragionamento. Dee badarsi altresí di non confondere il possibile coll' idea del possibile . Alcuni infatti confusero due concetti cosí distinti. L' essere manifesto può bensí chiamarsi ente possibile, ovvero anche idea; ma non idea del possibile; che altro verrebbe ciò a dire, se non l' idea dell' idea dell' ente? Rimossi questi equivoci, cerchiamo di ben intendere il concetto dell' ente possibile (1). E` una di quelle cose che Aristotele dice le piú manifeste secondo natura, e le piú oscure all' uomo: il che veramente vuol dire piú oscure alla riflessione dell' ontologo. Poiché già subito in questo concetto si manifesta una singolare antinomia. Da una parte l' ente possibile non è ancora, e ciò che non è, è nulla; dall' altra, v' ha ripugnanza manifesta a dire che l' ente possibile sia il nulla. Che cosa è dunque il possibile? Rispondere che « è ciò che non involge contraddizione »è sufficiente all' esigenze della logica e della ideologia; ma l' ontologia, non se ne contenta; poiché ella vuol sapere che cosa sia ciò che non involge contraddizione, e che non esiste, ma che pure è possibile. Poiché eziandio quello che esiste non involge contraddizione, e però anch' esso è possibile; e in questo senso è possibile anche Dio, che non solo esiste, ma è necessario, di modo che non può non essere. Si vuol dunque sapere, che cosa sia ciò che non involge contraddizione e che non esiste, il che viene a dire che cosa sia il puro possibile. Si dirà che ciò che è possibile è un oggetto che sta davanti alla mente, e che non esiste fuori della mente, ma sí nella mente. E questo è già qualche cosa: poiché distingue due modi d' esistere, l' uno nella mente e l' altro fuori della mente; onde, quando si asserisce che il possibile non esiste ancora, allora si parla dell' esistenza fuori della mente, e non d' ogni esistenza. Con che viene a comporsi la predetta antinomia, rimanendo fermato che il possibile non sia il nulla, perché esiste davanti alla mente. Ma poiché tutto ciò che sta davanti alla mente, le sta davanti come essente in sé [...OMISSIS...] , rimane ancora a cercare che cosa sia in sé l' ente possibile che sta davanti alla mente, che non è la mente e non è neppure il nulla; e conviene che anche considerato in se stesso, l' ente in sé non involga contraddizione. Poiché se l' ente possibile è qualche cosa in sé (astrazion fatta dalla mente in cui è), che cosa rimane di lui, se è solo possibile e però non ancora esiste? Convien dunque sciogliere questa antinomia. E` dunque da rammentarsi la distinzione da noi fatta tra l' essere e l' ente [...OMISSIS...] : è da osservare che l' essere non è mai possibile, ma l' essere assolutamente è, che è l' essenza stessa dell' essere. L' ente all' incontro è l' essere co' suoi termini. Ma questi si possono pensare sussistenti, e non sussistenti. L' essere con alcuno de' suoi termini sussistenti dà il concetto di ente sussistente , l' essere senza i suoi termini dà il concetto di ente possibile . Da questo si vede: 1) Che nel concetto di ente possibile si contiene l' essere , il quale non è già possibile, ma assolutamente è; e perciò che l' ente possibile ha per sua base ciò che non è meramente possibile, ma che assolutamente è; con che cade l' antinomia che si fondava sul nudo concetto di possibilità escludente l' esistenza. I) Che l' essere che forma la base dell' ente possibile, dicesi ente possibile in quanto contiene virtualmente i suoi termini. Rimane dunque solo a dichiarare la possibilità di questi termini. L' essere ha due relazioni essenziali, l' una d' essere in sé , l' altra d' essere in sé davanti alla mente , con che acquista il nome di essere manifesto , e come è davanti alla mente umana, d' essere ideale . In quanto è essere ideale contiene tutte le idee meno estese, che noi chiamiamo concetti , ma solo virtualmente , il che è quanto dire che non è necessario, acciocché egli sia manifesto, che in esso si distinguano questi concetti. Ma nello stesso tempo noi siamo consapevoli di poter intuire in lui anche i concetti , cioè vederlo determinato. Questo equivale a dire che nell' essere ideale c' è la possibilità de' concetti . Spiegata cosí questa prima possibilità , non ha piú quella difficoltà che presentava da prima; perché essa riducesi alla potenza di un ente, nel caso nostro la mente umana, l' uomo. Ora che un ente finito, non sia totalmente in atto, ma abbia del potenziale, e quindi abbia una virtú d' uscire all' atto, la quale tuttavia non sempre esca all' atto, questo è un fatto ontologico che, sia pur difficile a spiegare, non ha però quella difficoltà che presentava il nudo possibile , a cui non si sa qual esistenza dare; poiché infine la potenza reale , (benché senza qualche suo atto) non è un mero possibile, ma un esistente reale; e il possibile non è piú che una semplice relazione, che vede la mente, tra l' atto implicito virtuale, e l' atto attuale. A quali condizioni poi la mente umana ponga delle determinazioni all' essere, e cosí ella si formi esplicitamente i concetti , piú o meno determinati, investigheremo nella terza parte di questo libro. I concetti dunque possibili compresi nell' essere ideale, altro non significano, se non che l' essere ideale è suscettivo d' essere intuito dalla mente umana con certe sue determinazioni. L' essere dunque tali concetti attuali, o meramente possibili, dipende unicamente dall' atto del subietto intelligente , e non dall' essere. Ma se si considera l' essere in sé , non come idea, ma come essenza , allora s' offre il concetto d' una seconda possibilità , cioè non d' una possibilità di concetti , ma di enti reali . E questa seconda possibilità ne racchiude tre, poiché si pensa una possibilità logica , una fisica ed una metafisica . Quando si dice l' ente reale possibile perché nel suo concetto non si trova niuna contraddizione, si ha una possibilità logica . E questa si distingue dalla prima possibilità , cioè dalla possibilità del concetto. Poiché il concetto : ha una possibilità anteriore , di cui egli è il subietto dialettico, e una possibilità posteriore , che nasce da lui attualmente essente e che ha per subietto il reale (pensato); ché altro è dire: il concetto è possibile a pensarsi, ed altro il dire: l' ente reale corrispondente al concetto è possibile ad esistere. La possibilità logica viene a dire, che si può pensare l' ente reale sussistente, senza che il pensiero trovi in ciò niuna opposizione alle sue leggi. Alla possibilità fisica non basta questo, ma si richiede di piú, che esista una potenza atta a produrre quell' ente di cui si ha il concetto, cioè a farlo sussistere. Ora, questa possibilità fisica manca del tutto nel puro essere reale, o nei concetti. Ma c' è in terzo luogo quella possibilità che si dice metafisica , e questa è la possibilità assoluta , non relativa al pensiero, o ad una potenza produttrice dell' ente, e neppure riguardante l' assenza di contraddizione di un concetto, ma una possibilità assoluta ed incondizionata. Questa possibilità metafisica è annessa alla possibilità logica di maniera, che data quella, c' è questa, cioè la mente appena che intuisce un' idea o un concetto, il quale è naturalmente immune da contraddizione, dice: « il tal ente è possibile », e pronuncia questo della sua realizzazione. Questa possibilità assoluta è cosa d' osservazione : la coscienza lo dice; il discorso e il senso comune degli uomini attesta questa coscienza. Su questo fatto i geometri dimandano, e tutti accordano loro, que' postulati, su cui poi ragionano. E tutti gli uomini istituiscono una gran parte de' loro ragionamenti sulle possibilità. Anzi il ragionamento e la dimostrazione non suole acquistare una forza apodittica, se non quando muove dalla possibilità assoluta, e all' evidenza di questa ci conduce; poiché allora solo si conchiude a necessità, quando si dimostra impossibile l' opposto, e l' impossibile suppone il possibile, dal cui concetto procede. La possibilità assoluta dunque è una verità necessaria, e però una verità primitiva , che non si dimostra con un' altra antecedente, perché è una di quelle notizie elementari che l' essere ideale indeterminato (idea), o determinato (concetti), produce colla stessa sua luce allo spirito che lo intuisce, tosto che la riflessione giunga ad osservare queste elementari notizie, che ella poi formola in proposizioni componenti la scienza. Dunque la possibilità assoluta non può esser negata per nessuna ragione posteriore. E questa è appunto la differenza tra la possibilità fisica e la metafisica: che la possibilità fisica è quella che s' induce dal sapere che esiste la causa; la possibilità metafisica è quella che la mente asserisce assolutamente e incondizionatamente senza pensare alla causa. Che anzi, qualora venisse tratto in mezzo il pensiero d' una causa efficiente, la mente, senza curarsi di sapere se esiste, o senza poterlo sapere, direbbe anche di essa assolutamente: è possibile. Da questo procede che, partendo dal punto luminoso della possibilità assoluta, si può argomentare e conchiudere all' esistenza d' una causa efficiente, con quella argomentazione che va dal condizionato alla condizione . Poiché se il condizionato è certo e indubitabile, come nel caso nostro della possibilità assoluta, dacché è evidente; giustamente si conchiude, che del pari indubitatamente ci sieno tutte quelle condizioni, senza le quali egli non sarebbe. Rimarrà a cercare quali sieno queste condizioni. Ora si trova che l' una di esse è l' esistenza d' una causa efficiente che lo produca: dunque questa causa esiste. La quale è una nuova prova a priori dell' esistenza di Dio. Poiché la causa di cui si parla deve essere necessaria, ché la possibilità delle cose è necessaria; e se è necessario il condizionato, tale anche la condizione. Poiché se la condizione, che nel caso nostro è la causa efficiente, non fosse necessaria, potrebbe non essere. E se potesse non essere, potrebbe essere impossibile il possibile che è condizionato. Ma questo involge contraddizione: dunque sussiste una causa efficiente necessaria di tutti gli enti reali possibili. E questa causa necessaria deve essere anche causa ultima . Che se essa non fosse immediata, ma tra l' effetto ed essa intervenissero altre cause, queste non sarebbero necessarie, e però la mente non le può mettere a priori che come possibili, e però esigerebbero sopra di esse un' altra causa esistente come loro condizione, la quale sarebbe l' ultima. C' è dunque nella mente umana dotata dell' intuizione dell' essere un' implicita e profonda disposizione a dar fede all' esistenza di un Essere assoluto potente di effettuare tutto ciò che non involge contraddizione, e il fatto universale della religiosità dell' uman genere lo conferma. Se questa questione fosse di sole parole, non la tratteremmo. Ma quello che diremo intorno ad essa tende a dichiarare meglio la natura di quel lume che è forma della mente umana, ond' è la potenza del conoscere e quindi la mente stessa. Ora, l' atto dell' intelligenza è duplice, cioè l' atto primo , che ha per suo termine l' essere indeterminato, e gli atti secondi . Coll' atto primo, col quale è costituita l' intelligenza, il soggetto non fa che ricevere irresistibilmente, cioè aver presente l' essere: egli non opera ancora come intelligente, perché come tale non è costituito, ma si costituisce in quell' atto medesimo. In tutti gli atti secondi, opera il soggetto già costituito intelligente. Se dunque per cognizione s' intendono quelle notizie, che gli vengono dalle sue proprie operazioni mentali, non si può dare il nome di cognizione alla notizia dell' essere indeterminato presente all' intuito. Importa distinguere bene la prima intuizione dalle intellezioni che vengono appresso. Se ci riduciamo all' intuito e mettiamo da parte tutto il resto, il soggetto intuente rimane privo d' ogni modo intellettuale: egli non può né ripiegarsi sopra se stesso e avere la coscienza di sé, né riflettere sull' essere che gli sta davanti per analizzarlo ed esercitarvi sopra qualunque altra operazione, né pensare al nesso tra l' essere e sé, e cosí acquistare la consapevolezza della sua propria intuizione. Poiché l' essere oggetto dell' intuito quieta l' atto di questo; ché ogni facoltà si quieta, trovato che abbia il suo termine «( N. Sagg. , n. 54. 7 550) ». Ci vuole dunque un altro termine perché si mova all' atto un' altra delle facoltà intellettive, che sono quiescenti nell' anima, e non c' è altro termine, oltre l' ideale, che il reale ; poiché l' essere morale non viene che in ultimo, dopo questi due. Il reale eccita la percezione, che è la prima funzione della ragione «( Psicol. , 1012, sgg.) ». Ora in questa funzione l' uomo trova l' ente, cioè l' essere fornito di termine e però compiuto. Di che procede, che il primo degli atti secondi ha per suo termine non l' essere indeterminato, ma l' ente; e che l' ente posto davanti alla mente sia la condizione di tutti gli atti secondi. Quindi il principio di cognizione «( Psicol. , n. 1294 7 1325) » riceve due forme: I L' essere è l' oggetto dell' intuizione naturale. II L' ente è l' oggetto delle operazioni intellettive. Questa seconda formola adunque viene a dire, che niuna operazione (atto secondo) può fare l' intelligenza umana, avendo solo presente l' essere , e non ancora l' ente . Quando poi è presente l' ente il che avviene la prima volta nella percezione, allora è possibile all' uomo di riflettere non solo sull' ente, ma ancora sugli elementi di esso, e di considerare astrattamente ciascuno di questi. Questo può far la mente, perché allora tutti gli elementi dell' ente ella vede nell' ente stesso, che le sta davanti, e che è la condizione del pensare, ed altresí la forma ch' ella applica agli elementi acciocché le si rendano pensabili in separato, rendendoli cosí enti dialettici. E invero le operazioni del pensare, che sono gli atti secondi, non potrebbero fermarsi a ragion d' esempio, in un mezzo ente, ché il mezzo non si può pensare se non dopo il tutto a cui si riferisce, e per la stessa ragione ciò che veramente si conosce deve esser uno. E quindi è che l' essere al tutto indeterminato non raggiungendo l' uno compiuto [...OMISSIS...] , non può esser l' oggetto d' un compiuto atto di conoscere, ma piuttosto d' una potenza di conoscere (1). E la condizione della potenza intellettiva è simile appunto a quella del suo oggetto; poiché questo, che è l' essere indeterminato, ha l' uno in sé, ma in un modo virtuale, in quanto è suscettivo di termini. E cosí la prima intuizione, non fu computata dagli antichi tra le cognizioni, non senza ragione, a dir vero; chè essa merita, in sé considerata, la sola denominazione di cognizion virtuale , come l' essere è l' ente virtuale, e considerata in relazione colla sola esplicazione, le si deve il nome di potenza di conoscere. Conviene però guardarsi da una falsa conseguenza; la qual conseguenza apparente si è, che l' ente finito contenesse piú di cognizione formale, che non l' essere il quale è oggetto d' una cognizione non compiuta. Poiché altro è che la cognizione sia compiuta , ed altro che sia formale : la cognizione compiuta è quella che ha davanti un oggetto compiuto, la cognizione formale all' incontro è quella che ha davanti un oggetto per sé noto, ossia per sé manifesto, ancorché non sia compiuto. Non è dunque manchevole il pensare, perché sia formale, ché per questo è anzi eccellente; ma è manchevole il pensar formale nell' uomo, perché gli è dato in scarsa dose, avendo il pensar formale per oggetto l' essere per sé manifesto. Ma altro è l' essere per sé manifesto indeterminato, altro l' essere per sé manifesto assoluto: il primo è dato all' uomo per natura, e costituisce il pensar formale limitato e manchevole; quando gli fosse dato a vedere l' essere assoluto, la sua cognizione sarebbe pure assoluta e tutta formale: questa è l' ultima perfezione del pensare formale. Da tutto quello che abbiamo ragionato fin qui, risulta che la forma dell' uomo, ossia dell' ente razionale, è l' essere per sé manifesto, in quanto è indeterminato. L' essere, senza i suoi termini, è l' inizio di ogni ente: contiene dunque la possibilità degli enti. Ma di quali enti? L' essere indeterminato non ne specifica alcuno, ma neppure ne esclude alcuno. Dunque egli è la possibilità tanto dell' essere finito , quanto dell' essere infinito . Ma la seconda l' abbiamo risposta tra i caratteri venienti dalla limitazione del nostro intuito [...OMISSIS...] , e però essa non è un carattere che appartenga all' essere in se stesso, e ciò perché l' ente infinito non ha possibilità, ma necessaria sussistenza. Rimane pertanto che l' essere indeterminato in verità altro non sia che la possibilità, ossia l' inizio degli enti finiti. Si ritenga dunque ben fermo nella mente questo vero, che « l' ente razionale umano è costituito o formato dall' essere per sé manifesto, in quanto è inizio degli enti finiti ». Come questo è il fondamento della natura umana, cosí convien che sia anche il tema del suo sviluppo e del suo perfezionamento. E quindi lo sviluppo della natura umana deve poter farsi da due lati; dal lato degli enti finiti, e dal lato dell' essere, in quanto è inizio di questi. Ma l' inizio degli enti finiti essendo dato immobilmente dalla natura, rimane sempre lo stesso davanti al soggetto, e però non ammette naturale sviluppo o accrescimento. Se dunque l' essere come inizio degli enti finiti manifestasse se stesso piú copiosamente, già non sarebbe piú ordine naturale, ma avrebbe luogo un altro ordine, un ordine soprannaturale. Gli enti finiti all' incontro sono quelli che costituiscono la natura, de' quali l' uomo stesso è uno; e però lo sviluppo dell' umano pensiero e affetto intorno a questi, costituisce l' ordine naturale. Vero è che anche intorno all' essere, come inizio degli enti, molto può travagliarsi l' umano ragionamento; ma questo rimane sempre nella cognizione dell' essere iniziale, e in questa stessa incontra un' immensa lacuna, la qual consiste in non trovare alcun nesso necessario tra l' essere e i reali finiti. Perocché questi non sono termini propri e necessari dell' essere, onde la loro esistenza non si può argomentare a priori . Come dunque esistono? La gran voglia, che ha l' uomo di conoscere la ragion sufficiente dell' esistenza de' reali contingenti di cui si compone l' universo, trasse Platone a dire che le idee (l' essere ideale) sono causa delle cose. Ma qui ebbe buono appicco Aristotele a redarguirlo, perché osservò che le idee non sono principio del moto, né cause sufficienti dell' esistenza; tant' è vero che si possono avere idee di cose che non sussistono (1). L' idea dunque dell' essere o quella dell' ente non racchiude in sé la ragione dell' esistenza delle cose contingenti. E però non ha alcun valore ontologico, né alcuna verità a priori , la formola testé proposta qual principio di tutta la filosofia: « « L' ente crea le esistenze » ». Laonde a trovare la ragione sufficiente perché sussistano quelle cose, che possono tanto sussistere come non sussistere, non basta il nudo concetto di essere e di ente oggetto dell' umano intuito, ma convien ricorrere ad una volontà libera ed eterna, il cui atto non s' intuisce. Ed appunto quel denso velo che ricuopre agli occhi intellettuali dell' uomo quest' atto volontario dell' essere assoluto, è la cagione per cui tutto questo universo sta davanti al pensare umano come un grand' arcano, un mistero impenetrabile. Questo affrena l' umana intelligenza. Ed ella spera talora di spuntare la sua voglia giungendo per via del ragionar formale, e di determinazione logica, a conchiudere che quell' atto creativo de' contingenti ci deve essere . Ma poi non rimane soddisfatta appieno di questa conquista. Poiché quantunque conosca che ci deve essere , tuttavia no' l vede questo atto, e però non sa come sia; onde spiega a se stessa l' esistenza dell' universo, ma con una incognita. Gli imprudenti si buttano a sistemi erronei, pei quali col favore di molte idee confuse persuadano a se stessi di vedere indubitatamente la prima causa. I prudenti dicono quello che diceva Socrate in que' dialoghi di Platone: « « aspettiamo che la prima Causa si manifesti da sé medesima » ». Perocché avendo noi conosciuto, che questa Causa ci deve essere, e deve avere prodotti noi stessi; di conseguenza, come ottima, manifesterà a noi se stessa, e cosí compierà quel voto, quella necessità intellettuale di conoscerla, che ella stessa ha lasciato in noi. Sarà questo il compimento dell' opera sua, che ella non può lasciare imperfetta (1). La dottrina dell' idea, come ogni altra dottrina speculativa, ha due maniere di processo ragionativo. Il primo processo parte dall' osservazione del fatto, e la sagacità del filosofo si dimostra in questo, che coglie e stabilisce il fatto in tutte le sue parti, e si assicura bene della sua verità con ogni cautela. Ciò che dà l' osservazione è in ogni caso un punto fermo. Ma se il fatto osservato è di tal natura, che mostri in se stesso necessità; allora s' avrebbe non solo un punto certo, ma eziandio evidente. E si scopre la forza dialettica del filosofo, quando da questo principio procede per via di continue illazioni. Poiché quando il fatto sia tale, che l' illazione si derivi a rigor di logica, egli non ha piú cagione di dubitare del fatto suo. Ma questo processo, il piú eccellente, è di pochi. Il secondo processo ragionativo, buono anch' esso se accompagnato dal primo, ma secondario e amplissimo fonte di sofismi ove se ne vada senza il primo, come per lo piú avviene, è quello che muove dai dubbi e dagli apparenti paradossi, e domanda che questi sieno rimossi e spiegati prima di assentire alla loro dottrina. Qualora questo processo ragionativo sussegua al primo, egli produce una nuova copia di sapere, e quasi una nuova scienza; conduce alle piú profonde investigazioni per cogliere le piú intime verità. Ma se si comincia da questo processo deontologico, cioè che cerca quel che deve essere invece che dal primo ontologico, che cerca quello che è, se n' hanno molti inconvenienti, e principalmente questo, che si parla di cose di cui non sono ben chiarite le idee; poiché è col primo processo che si chiariscono. E questo è il difetto del metodo degli Scolastici che, educati dalla logica di Aristotele tutta argomentativa, incominciano sempre dai dubbi. Noi dunque abbiam tenuto sempre nelle nostre ricerche per massima l' incominciare dal primo processo ragionativo. Onde, nell' Ideologia, colla quale abbiamo incominciato il nostro discorso filosofico, dichiarammo di prendere a punto di partenza l' osservazione , e non il dubbio metodico . Ma or che crediamo aver alquanto dato opera al primo processo, prendiamo la seconda fatica. Intendiamo dunque, in questa parte, di risolvere le principali obbiezioni che si sono accampate contro l' essere ideale. Le difficoltà, che s' incontrano meditando sull' essere manifesto e sui concetti, derivano da quattro fonti: 1) Dalla natura dell' essere stesso, qual si rappresenta all' intuito naturale dell' uomo; e queste abbiamo procurato di risolverle nella prima parte di questo libro, e nel libro terzo. 2) Dalla relazione coll' essere divino. 3) Dalla comunicazione coll' essere e dell' essere per sé manifesto colle intelligenze finite. 4) Dalla comunicazione dell' essere per sé manifesto co' reali finiti. Queste due ultime classi di difficoltà somministrano l' argomento alla seconda e alla terza parte di questo libro. Dobbiamo dunque ora svolgere le difficoltà che traggono l' origine dalla comunicazione che l' essere manifesto ha colla mente umana. Dobbiamo dunque trattare due questioni: Questione I Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte delle idee, cioè dell' oggetto. Questione II Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte della mente, cioè del subietto. Prendiamo dunque a considerare la congiunzione dell' idea, ossia dell' essere, colla mente, in primo luogo per rispetto all' essere stesso ideale. Questa ricerca ci conduce a due risultati: 1) Che la natura dell' essere ideale è tale, che unendo in se stessa senza alcuna contraddizione due modi d' esistenza, uno in sé, e l' altro relativo alla mente, o per meglio dire avendo un modo d' esistenza che abbraccia questi due, rende possibile la comunicazione di sé ad una mente. 2) Che questa comunicazione non solo è possibile, ma è necessaria; di maniera che sarebbe ripugnante alla stessa natura dell' essere ideale, che una tale comunicazione non avesse luogo. Tutta la difficoltà a intender questo nasce dall' inclinazione di applicare all' esistenza dell' essere ideale le leggi dell' esistenza subiettiva. E infatti l' esistenza subiettiva è tutta relativa al subietto, cioè s' esaurisce e termina nel subietto stesso, onde ripugna che il subietto, se esiste solamente rispetto a sé, esista come subietto in altro modo. Vero è che il subietto intelligente può considerare se stesso come obietto. Ma in tal caso interviene il modo obiettivo di essere: onde riman fermo che il puro subietto come tale finisce in se stesso. Ma totalmente diverso e opposto si è il modo di essere obiettivo. Questo è un modo per la sua stessa essenza relativo ad altro. Vedesi dunque che dalla parte della idea, ossia dell' oggetto della mente, cessa ogni difficoltà al concepire ch' ella abbia un' esistenza che involge in sé la necessità d' esser ella presente a una mente, e che questa necessità non le toglie punto l' essere per sé distinta dalla mente. Poiché il modo d' esistere per sé, e il modo d' esistere relativo ad un altro non s' escludono, e possono entrare tutti e due ad un tempo in una sola essenza. Quello che impediva di conoscere questo vero alla mente, si era il non abbastanza conoscersi la natura della relazione e dei relativi. E la difficoltà, viene da questo, che gli uomini considerano esclusivamente le cose che loro cadono sotto i sensi nella loro esistenza subiettiva o estra7subiettiva, la quale è per sé, e non ha bisogno di relativi per essere concepita. Poiché l' esistenza subiettiva riguarda il subietto e non sorte da esso; e questa cognizione coll' aggiunta di quella di alcune relazioni accidentali tra le cose basta alla vita comune. Appartiene soltanto all' ozio della filosofia l' indagare la natura piú in là, e pervenire alla considerazione dei relativi essenziali ed assoluti, il che, direbbe Platone, è di tutti gli Dei, ma tra gli uomini d' assai pochi. Convien dunque che la mente speculatrice si persuada, lasciati a parte i relativi accidentali, che si dà un genere di relativi i quali sono per sé; di maniera che nel genere di quelle entità che per sé si dicono si contiene una specie di relativi. Onde il genere delle entità per sé e il genere dei relativi non al tutto s' oppongono e s' escludono fra di loro, ma una specie di questi secondi è in pari tempo una specie che appartiene al genere delle entità per sé, di maniera che nell' ordine logico dei predicati prima appartiene loro l' essere relativi a quel modo che la specie appartiene ad una data quantità prima del genere; con questo solo sono già divenuti una specie del genere de' relativi. Ma sopravvenendo loro per opera della mente l' attributo di essere questi relativi per sé, essi mediante questa giunta sono resi una specie del genere delle entità per sé. Onde non repugna che appartengano a due generi opposti perché vi appartengono a cagione di due predicati che si sovrappongono successivamente l' uno all' altro. L' essenza delle cose, come abbiam detto, è la loro quiddità (1). Ogni qualvolta si ha l' idea di una cosa, si sa che cosa è, a tal che si può in qualche modo definire; e tuttavia la cosa potrebbe egualmente sussistere e non sussistere (2). Dunque la mera essenza delle cose contingenti non involge la loro sussistenza, non è la sussistenza, che ce ne faccia conoscere la quiddità, ma la loro quiddità stessa presente alla nostra mente è l' essere che le manifesta. L' osservazione adunque, l' osservazione ontologica dimostra che le essenze delle cose contingenti appartengono all' essere manifestante, sotto la quale relazione acquista il nome d' idea. Questa è dottrina evidente insegnata dal maggiore e piú saldo filosofo che avesse mai l' Italia, l' Aquinate. Egli dice chiaramente che l' essenza è ciò che vien significato dalla definizione (1). L' Aquinate esprime ancora piú chiaramente il suo pensiero dove dice che « « l' essenza è ciò di cui l' essere è l' atto »(2) ». L' essere come atto è il reale; perciò l' essenza non ha in sé questo atto, ella dunque è in potenza, è la possibilità della cosa. Dove convien sempre ritenere, che tutte le essenze delle cose si riducono a una sola, cioè all' essere universale . Attesa la precedente sentenza di San Tommaso, Guglielmo Tennemann, nel suo « Compendio della storia della filosofia », ripone il Santo Dottore fra gli idealisti, scrivendo di lui cosí: « « Egli era idealista, e considerava l' oggetto dell' intelligenza, o la forma astratta delle cose, come la loro essenza originale »(3) ». Ma questo è abuso della parola (4) « idealista », la quale significa la setta di quei filosofi che negano la realità de' corpi od altre realità, riducendo la realità alle idee. Laonde, quantunque San Tommaso riconosca che l' essenza è ciò che s' intuisce nell' idea, ond' anco definisce l' essenza « « ciò che viene significato dalla definizione »(5), tuttavia egli è ben lontano dal negare la realità de' corpi od ogni altra realità. Ché anzi, paragonando il reale all' ideale, considera quello che nel suo linguaggio è chiamato essere come l' atto; e l' essenza rispettivamente come la potenza o per dir meglio, la possibilità; onde un' altra definizione che dà il Santo Dottore dell' essenza cosí: « Essentia est illud, cuius actus est esse (6) »; la quale consuona a capello con ciò che noi diciamo. Secondo la qual dottrina ancora San Tommaso insegna, che i particolari (contingenti) sono fuori dell' essenza (1). E veramente i particolari individui appartengono per primo all' ordine delle realità , e nascon da questa, né hanno la loro ragione sufficiente nella semplice idea della cosa. Ed egli è per questo, che noi abbiam già detto, ogni idea qualsiasi essere una specie, cioè la base d' una specie, ossia quel lume, pel quale non si conosce già l' individuo nella sua particolare sussistenza, ma tutti gli individui senza numero che venissero realizzati da un agente reale che n' avesse il potere. E qui potrebbe cadere la questione « se il proprio appartenga agli accidenti », della quale sentenza si dimostra l' Aquinate (2). A cui noi rispondiamo, che se s' applica la parola proprio all' essenza stessa delle cose, ogni essenza è propria, e questo proprio non è né accidentale né sostanziale, ma essenziale . Se poi s' applica il proprio ai reali, diciamo che nulla v' ha in essi di veramente proprio se non la stessa realità , e quindi che ove il reale è necessario (Iddio), in tal caso il proprio non può essere accidentale, ma ove il reale di cui si parla è contingente anche il proprio è accidentale, perché è accidentale la realità stessa che lo costituisce. Un' altra qualità dell' Essere manifestante è l' universalità. Egli dicesi universale non già perché in se stesso considerato come ente non sia uno, e in questo senso, particolare. L' unità è propria d' ogni ente concepibile. Dicesi adunque universale unicamente perché egli è il mezzo necessario a conoscere tutte le cose. Questa parola universale adunque esprime una relazione dell' essere manifestante, colle cose manifestate; e questa è scoperta dalla riflessione del filosofo che è pervenuto a raffrontare insieme l' Essere manifestante colle cose manifestate, e a rilevare che quello è il mezzo di conoscere queste. Laonde questa relazione non cade propriamente cosí distinta, da potersi enunciare nell' intuizione dell' essere stesso; perocché l' uomo ha tre passi di sviluppo avanti di pervenirci: 1) intuisce l' essere, senza sapere che sia mezzo di conoscere; 2) adopera l' essere qual mezzo di conoscere, senza riflettere alla relazione di quel mezzo al fine; 3) riflette a questa relazione, giacché altro è l' adoperar un mezzo ad un fine, e altro è il riflettere sulla sua qualità di mezzo e astrarre questa qualità, e cosí astratta enunciarla e ragionarne. Quest' ultimo passo il fa soltanto la filosofia. Stabilito adunque che la notizia che ha l' uomo per natura è quella dell' esistenza senza alcun' altra determinazione, consegue che l' esistenza cosí intuita dalla mente (Essere manifestante) sia pura forma di cognizione senza alcuna materia. Per forma della cognizione intendiamo quell' elemento, pel quale la cognizione è cognizione, pel quale ogni cosa cognita è cognita. Questo elemento dunque non può mancare in niuna cognizione. Di piú, questo elemento dee essere cognito per se stesso, poiché è egli stesso quello che fa sí che qualsivoglia cosa sia cognita. Dee dunque esser noto immediatamente, per sé noto. Ora in ogni nostra cognizione niente si conosce, se non si conosce l' esistenza; perocché ogni cosa nota non è altro, che cosa della quale si conosce l' esistenza (possibile) e le determinazioni. Ma ciascuna delle stesse determinazioni non si conosce, se non si conosce la sua esistenza possibile; e il conoscerle è lo stesso che il conoscerle esistenti nella loro possibilità. Dunque ogni conoscere è conoscere l' esistenza almeno possibile. Dunque l' esistenza ideale ossia possibile, ovvero l' idea di esistenza, è la forma di tutte le cognizioni. La materia delle cognizioni sono le determinazioni dell' esistenza, o ideali, o reali, o morali. E materia qui significa ciò che è conosciuto e che non fa conoscere, cioè che ha bisogno di altro cognito per essere conosciuto, ciò in cui finisce la cognizione come un suo termine. La mente trova questa distinzione che separa nella cognizione la pura forma del conoscere dalla materia. Ma come la stessa cosa può esser forma ad un tempo della cognizione e della potenza di conoscere? Questo è conseguenza della natura speciale di questa forma a differenza di tutte le altre, la qual natura consiste nell' esser forma oggettiva «( Psic. , n. 23.) ». Quindi accade che ella abbia le due relazioni, di cui abbiamo parlato, cioè che ella sia ad un tempo manifestante e manifestata . Sotto la relazione di manifestante dicesi forma della mente, perocché senz' essa la mente non sarebbe mente. Sotto la relazione di manifestata dicesi forma della cognizione, perché costituisce l' oggetto cognito, ciò che v' ha di oggettivo e però di formale in ogni cognizione. Quindi l' Essere ideale, se si considera come oggetto manifesto alla mente, e però distinto dalla mente, è causa immediata per la quale la mente acquista l' attitudine di conoscere. Ma se si considera quest' attitudine rispetto a quelli che si chiamano comunemente atti conoscitivi, se si considera che l' attitudine a far questi atti non è mai altro che l' attitudine a veder l' Essere stesso variamente determinato, egli è chiaro che l' Essere è la forma stessa del conoscere, perché ha la condizione di manifestante. Attesa poi questa doppia relazione dell' Essere ideale, accade che, nel ragionarsi di lui, egli prende quasi due faccie diverse: perocché talora ci appare come è in se stesso, indipendente da ogni mente, in questo senso, che si pensa a lui senza bisogno di pensare nello stesso tempo alla mente; talora poi ci appare come posseduto dalla mente stessa, legato alle menti particolari e cosí quasi direbbesi particolareggiato. In quest' ultimo rispetto egli è propriamente forma delle menti singole, e da questo legame colle menti singole divien singolare, e si moltiplica, non per sé, ma pel legame: come un' idea qualsivoglia, benché universale, dicesi particolare se si considera unita ad un particolare che fa conoscere, il che accade nella percezione, e nell' ente ipotetico. E già l' Angelico vide, che il lume del naturale intelletto doveva essere forma ad un tempo della mente e della cognizione. Onde gli attribuisce due funzioni, o due effetti, come li chiama: l' uno di rendere le cose attualmente intelligibili, « cuius est intelligibilia facere in actu », il che è quanto dichiararlo forma della cognizione; l' altro di perfezionare l' intelletto possibile, « perficere intellectum possibilem ad cognoscendum », il che è dichiararlo forma dell' intelligenza (1). L' Essere adunque in quanto è manifestante, o intelligibile per sé, informa la mente. In quanto poi è manifestato, è forma della cognizione. L' Essere in quanto è manifestato, per la sua propria virtú di manifestarsi, è ancora la forma degli enti sussistenti concepita dalla mente, a cui la sussistenza stessa fa l' ufficio di materia. La forma adunque delle cose è oggetto dell' intuizione, all' incontro la sussistenza è termine dell' atto di sentire: di maniera che la forma e la materia sono unite nell' universo di quel nesso appunto, del quale è unito il sentimento coll' intelligenza; nesso che non si scioglie mai, se non per via d' astrazione e d' ipotesi non conseguente a se stessa. Ora, fin a tanto che non si pensa ad altro, fuorché la forma ideale, questa forma pensata è meramente possibile, mancante dell' atto della realità; e però si dice in potenza ad essere realizzata. Ma ciò che è in potenza è anteriore a ciò che è in atto, l' atto compie ciò che è in potenza, e la potenza non è che il principio dell' atto. Quindi è che l' Essere ideale dicesi ancora non impropriamente Essere iniziale , perché da lui comincia la cognizione e la possibilità dell' Essere, da cui muove l' atto della sussistenza, che assolve e compie l' Essere stesso. Se poi si considera l' Essere tal quale cade nel primo intuito, egli non porge allo spirito la forma completa di nessun essere particolare, ma presenta l' Essere stesso non già completo, sibbene del tutto iniziale. Quest' è dunque anteriore sí nell' ordine del pensiero (ordine dell' Essere manifestante), e sí nell' ordine degli oggetti del pensiero (ordine dell' Essere manifestato), a tutte le forme particolari degli enti: e però se queste sono iniziamenti degli enti particolari, l' Essere qual cade nel primo intuito è iniziamento di questi iniziamenti, perché è la prima cosa che sia in essi, ed in essi si conosca. Dalla condizione poi d' iniziale solamente, che ha l' essere qual cade nell' umano intuito, conseguita che egli si predichi univocamente di tutte le maniere di enti, e sí bene di Dio, come delle creature. Perocché se non si potesse predicare l' esistenza delle creature, queste non sarebbero, e dicasi lo stesso di Dio (1). Predicare univocamente l' esistenza vuol dire: predicar l' esistenza, pigliata la parola nello stesso significato. Però non è a credersi che si predichi nello stesso modo, perocché predicare significa unire, attribuire qualche cosa ad un subietto. Ora la mente che considera le cose create siccome enti non attribuisce mica ad esse l' esistenza nello stesso modo, che a Dio; ma ella dà a Dio l' esistenza come cosa sua propria, alle creature come cosa partecipata, a Dio come essenziale e necessaria, alle creature come accidentale, la unisce a Dio identificandola con lui stesso, alle creature distinguendola da esse. I modi possibili della comunicazione degli enti fra loro sono due, perché due sono i costitutivi d' ogni ente contingente, l' essenza e la realità . Quei due modi di comunicazione possono stare separati, cioè effettuarsi l' uno e non l' altro. Cosí le bestie sono enti i quali non ricevono comunicazione cogli altri enti, se non nel secondo modo. All' incontro, allorquando un uomo intuisce l' essenza di un ente senza che gli si comunichi la realità di lui, la comunicazione dell' ente all' uomo è fatta nel primo modo, ed è comunicato il primo elemento degli enti contingenti, l' essenza . Allora, quando la comunicazione di un ente all' altro, si fa in entrambi i modi, e quindi si comunicano entrambi gli elementi dell' ente, l' essenza e la realità, allora vi è comunicazione perfetta, la comunicazione di tutto l' ente, la compiuta cognizione (1). L' essenza di un ente distinta dalla realità comunicata ad un altro dicesi idea ; e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, intuizione , conoscenza (per intuizione). La realità di un ente comunicato ad un altro dicesi percepita sensitivamente, e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, percezione sensitiva . Potendo trovarsi divisi que' due modi di comunicazione, niuna meraviglia è che allo stesso modo possano negli enti contingenti trovarsi divisi i due elementi della essenza e della realità; e che l' uno possa aver natura assai diversa dall' altro. Il primo elemento, l' essenza, è sempre immutabile ed eterna. Il secondo elemento, la realità, può essere eterna ed immutabile, nel qual caso s' adegua e continua all' essenza dell' essere in universale, e tutt' insieme è la natura divina; ovvero è contingente, ed in tal caso costituisce gli enti limitati e creati. Questi due elementi entrano nella composizione di ogni ente perfetto conosciuto. Lo scoglio della filosofia suol essere il non potersi intendere come si componga in un solo ente l' ideale e il reale. Ma perché questo è scoglio in cui s' infrange il naviglio? Perché la mente, avvezza a vedere ogni cosa nello spazio e nel tempo, va pure ripensando come anche quell' unione dell' ideale e del reale si faccia quasi nello spazio e nel tempo; il che è cosa impossibile ad avvenire e del tutto assurda. Quest' unione si fa in presenza della mente, non in alcuno spazio, ma nel mondo, per cosí dire, dell' essere stesso, nel mondo metafisico che è quello della verità. Quegli enti, ai quali si comunica l' essenza per via d' intuizione, sono fatti con ciò intellettivi; gli altri, a cui non è data questa comunicazione, sono privi d' intelligenza. Dal detto pertanto si trae in che differiscano l' essenza e l' idea ; quella è ciò che s' intuisce in questa (ente manifestato, oggetto): colui che l' intuisce la intuisce come cosa diversa da sé. Ma se questa cosa diversa dall' intuente si considera in rapporto coll' intuente, come atta ad intuirsi (ente manifestante), allora chiamasi idea . Come idea ella è nella mente; ma come essenza è la cosa in sé senza alcun rapporto colla mente stessa. Gli Scolastici distinsero l' idea , che dissero essere « quod cognoscitur (1) », dalla specie che dissero « quo cognoscitur », il mezzo formale con cui si conosce. Ma propriamente ciò che si conosce (nell' ordine ideale) è l' essere manifestato, cioè le essenze , e non le idee; ciò poi con cui si conosce sono le idee. La qual distinzione è importante perché se ne ha il conseguente, che le essenze possono essere molte, e l' idea cioè la loro intelligibilità una sola. Infatti noi abbiamo provato che colla sola idea dell' essere si conoscono tutte le essenze delle cose, solo che queste sieno date nel sentimento. Onde, a propriamente parlare, l' idea , il « quo cognoscitur », è una sola (2); ma aggiungendosi a lei diversi sentimenti, ella viene moltiplicandosi, e le molte idee che sembrano venirne, piú acconciamente si chiamano concetti , o ragioni delle cose (3), e specie se possono servire di fondamento alla specie, generi poi se possono servire di fondamento ai generi delle cose. Ora la specie , ossia il concetto specifico, ha questo di proprio, che è il primo che si trae dalla percezione, onde rappresenta alla mente tutta la cosa (possibile), laddove il genere non la fa conoscere tutta, ma solo qualche elemento che ha comune con altre cose. Quindi Platone distingue la specie dall' idea come l' essenza veduta nelle cose reali da ciò con cui si conosce. « Io stimo che tu reputi ogni specie ( «eidos») esser una per questo, che quando si mirano da te piú cose grandi, a te che le vedi tutte pare una sola idea ( «idea») ». Sicché le specie sono per Platone le essenze, e queste in quanto sono nella natura, son le forme delle cose, e in quanto sono intuite dalla mente, gli esemplari , perché, rappresentando tutt' intera la cosa, a differenza dei generi, possono essere condotti al loro atto esterno e reale dall' artefice che ha virtú di ciò fare, onde dice Platone, che « « le specie stanno nella natura siccome esemplari »(1) ». Platone talora invece di specie usa dire la nozione delle specie ( «eidon noema»), la qual parola nozione viene ad indicar l' atto della mente che intuisce le specie o forme nella natura, ovvero le stesse specie o forme o essenze in quanto sono intuite dalla mente, laonde mentre pone le specie nella natura, colloca la nozione delle specie negli animi (2). Le specie dunque per Platone sono le essenze compiute , l' ente ideale vestito co' suoi termini, ond' anco le chiama, distinguendole dall' ente, «ton onton eide» (3). Dal che si vede che la natura di esemplare non conviene propriamente all' idea , perché ella presenta un' essenza determinata, né ai concetti generici, per la stessa ragione, ma unicamente alla specie che presenta un' essenza al tutto determinata. Del resto è da distinguere l' essenza indeterminata dall' essenza determinata. L' indeterminazione dell' essenza non appartiene già all' essenza, ma altro non è che la limitazione del modo in cui si comunica, comunicandosi senza le sue determinazioni. Fra l' essenza dell' essere, poi, e quella delle altre cose v' ha questa somma differenza, che quella nelle sue determinazioni racchiude la realità, laddove l' essenze delle altre cose non la racchiudono. Indi è che l' essenza determinata dell' Essere, che è l' essenza di Dio, non si può comunicare se non comunica anche la sua realità, onde la comunicazione di lei non si fa per mera idea, ma per via di verbo, come altrove dichiarammo. La natura del conoscere giace nella sua oggettività, cioè il conoscere è la comunicazione di un ente (il cognito) ad un altro ente (il conoscente) fatta per modo, che colui che riceve la comunicazione dell' altro ente lo possiede non come se stesso, ma come un altro ente, e l' atto con cui riceve la comunicazione di quest' altro ente, e con cui lo possiede, finisce in quell' altro ente non in quanto sussiste in sé, ma in quanto è posseduto. All' incontro, la natura del sentire giace nella sua soggettività, poiché il principio senziente tende a costituire se stesso, non ad uscire di sé e trovarsi in un altro; e quantunque abbia un termine diverso, nol possiede come ente, ma quel termine coopera solo a costituire il principio che sente e variamente modificarlo. E` proprietà dell' ente oggettivo comunicarsi nel primo modo, la qual comunicazione è, come dicevamo, ciò che si chiama cognizione. Un ente in quanto riceve tale comunicazione dell' ente oggettivo, dicesi conoscente o intelligente. L' osservazione del fatto dimostra che gli enti contingenti in quanto sono tali, cioè in quanto sono meramente reali, non hanno questa qualità di essere enti, e però né pur di essere oggetti; quindi per se stessi non producono cognizione, ma solo appartengono al senso; e per essere cogniti conviene s' uniscano all' ente oggettivo, ed insieme con esso si comunichino. All' incontro dimostra il ragionamento, che l' ente per sé oggettivo (l' Essere) dee avere la sua propria realità, la quale però non si comunica all' uomo in questa vita, di modo che questa stessa realità appartenga all' oggetto, come essenza veduta nell' idea. Quindi una doppia difficoltà: 1) la difficoltà d' intender come la realità dell' Essere, oggettiva com' è, possa essere comunicabile come realità. 2) La difficoltà d' intendere come la realità contingente, che non è per se stessa oggettiva, possa essere comunicata oggettivamente. La prima difficoltà sorge nella mente di chi pensa, per due ragioni: 1) Perché non conoscendo noi per esperienza in questa vita altra realità che quella degli esseri contingenti, e trovando che questa realità è oscura per se stessa e non intelligibile, non7ente; non possiamo facilmente concepire che v' abbia una realità intelligibile per se stessa. Il che però non è ragionamento, ma forza di quell' abitudine che ci impicciolisce e limita alle cose dell' esperienza, dalla quale limitazione la mente del filosofo si scioglie solo che rifletta, come la ripugnanza ad ammettere cose diverse dalle sperimentate non è argomento a dimostrarne la impossibilità. D' altra parte, se egli è manifesto che noi comunichiamo colle essenze degli enti (la qual comunicazione si dice idea) apparirà manifesto, che per intelletto (che è la potenza dell' idea) noi potremo comunicare colla realità, se si trovi un' essenza reale per se stessa; ora tale si prova dover essere l' essenza divina. Onde non è punto assurdo che la divina essenza, realissima com' è, si possa comunicare a noi per via d' intelletto, pel quale ci è data la comunicazione delle essenze degli enti. 2) Perché l' essenza porgendosi all' intelletto nella sua condizione d' oggetto, e l' oggetto non cagionando che il conoscere senza operare nel soggetto; pare che non si possa manifestare giammai come reale, se prima non ha operato nel senso, modificandolo; perché il carattere della realità è appunto questo, di essere operativa nella realità dell' ente a cui viene comunicata, cioè nel sentimento. Il quale ragionamento non riceve per vero una soluzione di facile intelligenza, ma irrefragabile tuttavia. Perocché, si risponde che, quantunque la realità per se stessa oggettiva si comunichi come oggetto di maniera che l' ente che ne riceve la comunicazione possieda questa realità come un altro, un diverso da sé, e termini non in sé ma in quest' altro l' atto di tale ricevimento, e di tale possesso; tuttavia in quest' oggetto reale possederà la sua propria causa, e in essa troverà se stesso da cui emana (1): onde la comunicazione oggettiva sarà comunicazione oggettiva di un sommo bene: cioè di cosa che si comunica soggettivamente, cioè operando creando e perfezionando e dilettando, la qual dilettazione poi si compie col vederla nell' oggetto. Cosí avverrà che l' intelletto nell' oggettivo troverà il soggettivo, e quindi l' intelletto riceverà quella comunicazione non pure come principio di conoscere, ma ben anche come principio di sentire: onde in tal fatto la comunicazione oggettiva e la soggettiva unite insieme si alternano e insieme si unificano (1). Passiamo alla seconda difficoltà cercando se l' intelletto come senso nulla opera in questa vita, oltre attingere l' idea. « Se il senso intellettivo nella vita naturale dell' uomo si estenda alla percezione dei reali »: la risposta negativa, che altrove abbiam data a somigliante quesito, è ella vera? All' intelletto appartiene la sola intuizione ; la potenza dell' affermazione o della predicazione consegue ad esso, e però non produce un oggetto novo, ma solo pronuncia la reale ossia soggettiva sussistenza dell' oggetto intuíto. Il dubbio adunque può nascere solo rispetto alla intuizione delle essenze determinate dai sensibili, dei concetti specifici pieni, ed astratti conseguenti. Cioè si può dimandare: « se questi sensibili sieno intuiti dall' intelletto, ed intuendoli, se da ciò ne venga che l' intelletto puro percepisca de' reali ». A cui si risponde, 1) che i detti sensibili non sono sensibili all' intelletto in questo senso, che l' intelletto sia il principio sensitivo che li costituisce sensibili (giacché il sensibile o il sentito viene costituito dal principio sensitivo, come da sua causa); 2) che il soggetto umano intellettivo apprende il sensibile già formato in lui in quant' è anco soggetto sensitivo, lo apprende, non lo forma come fa il principio sensitivo, e lo apprende come entità determinata, il che è quant' a dire come essenza. Ora l' essenza, oggetto dell' intuizione, non è propriamente il reale a quel modo che sta nel senso, ché anzi ogni reale contingente considerato a questo modo è fuori dell' essenza, non è l' essenza stessa, come accade del reale necessario (di Dio), il quale dove si manifestasse all' uomo, si percepirebbe nella stessa essenza, oggetto dell' intuito, e come essenza egli stesso. A questa dottrina, certamente sottile ad intendere (la cui difficoltà consiste ad osservare ciò che si contiene nell' essenza determinata, senza aggiungervi nulla ad arbitrio), che stabilisce non poter mai l' intelletto, preso come senso, estendersi alla intuizione e percezione de' reali contingenti, si dee tuttavia qui aggiungere qualche cos' altro che la perfezioni e compia. E questo si è, che quantunque l' intelletto quando intuisce l' essenza determinata non abbia per suo oggetto il sensibile come reale, tuttavia ha per suo oggetto il sensibile nel suo modo di essere intelligibile. Perocché il sensibile stesso si può considerare: 1) o qual' è senza alcuna relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli è realità, ma non è ancor ente, né ideale né reale; è un ente imperfetto, incoato, a cui manca la forma dell' ente, è materia, quello che gli antichi dicevano non7ente; 2) o qual è in relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli diviene ente7essenza, iniziale, ossia ideale; e qui il sensibile, come tale, è bensí supposto qual materia, ma non la forma stessa, l' essenza stessa; 3) o finalmente qual è in relazione colla ragione affermante, e solo in quest' ultimo stato egli acquista il nome di ente7reale. Onde si può dire, che quantunque l' oggetto dell' intelletto puro in tal caso non sia l' ente reale, tuttavia è un oggetto che in altra relazione, cioè in relazione al senso, è sensibile (realità non7ente), e in altra relazione, cioè in relazione alla ragione affermante, è ente7reale. Il termine è identico, ma senza relazioni all' intelligenza, non è ente: intuíto poi dall' intelletto è intuíto solo in quella sua relazione, per la quale è ente7essenza; percepito dalla ragione, è percepito in quella sua relazione, per la quale è costituito ente7reale. Dove è da notarsi, che si parla di una relazione con una intelligenza in genere, non coll' intelligenza dell' uomo. Perocché l' intelligenza dell' uomo dà al sensibile quelle relazioni che lo costituiscono ente7essenza, ed ente7reale rispetto all' uomo; ma l' intelligenza assoluta e divina è quella che gli dà tali relazioni in modo assoluto e permanente, e cosí tale lo costituisce. Ma qui giova che noi ci tratteniamo un poco a svolgere i concetti di cognizione in potenza e di cognizione in atto ; i quali sono dei piú comuni in sulle labbra e in sulle penne dei filosofi, e perciò dei piú difficili e d' una difficoltà celata; perocché i concetti piú elementari e piú necessari al ragionare si ammettono tanto facilmente per veri, che si crede di conoscerli a pieno solo perché si adoperano. E poiché Aristotele stabilí tutta la sua teoria dell' umana cognizione sulla distinzione fra ciò che si conosce in potenza e ciò che si conosce in atto, la dichiarazione di tali concetti che manca totalmente in quel filosofo, farà meglio conoscere il difetto di quella teoria. Il concetto della virtualità e della potenza è infatti dei piú oscuri e misteriosi. Perocché fra essere e non essere non si dà mezzo; ora ciò che è in potenza, egli sembra che ancora non sia, e però che sia nulla. E se non è nulla, che cosa è? Questa domanda è generale, estendendosi ad ogni essere in potenza; restringiamola per ora alla sola cognizione. Che cosa è dunque la cognizione in potenza? Che cosa è la cognizione in atto? Come vi hanno due modi di essere, l' ideale o iniziale, e il reale o sussistente; cosí vi hanno due modi di cognizione: la cognizione dell' universale, e la cognizione del particolare o singolo reale. Di piú, la cognizione dell' universale è indeterminata o determinata; e la indeterminata è piú o meno tale, onde v' ha quella che è indeterminata del tutto (l' essere in universale), v' ha quella che è solo in parte determinata, come accade dei concetti generici e specifici astratti. Ora l' universale quant' è piú indeterminato tant' è piú universale, perocché l' indeterminazione è l' universalità dell' universalità. Comprendendo dunque nell' universalità l' indeterminatezza che di tanto l' aumenta, che l' aumenta cioè nella proporzione che tengono le serie delle potenze la cui prima radice sia l' universale, cioè l' infinito, diciamo in generale che « conoscere checchessia per via d' universali è conoscere in potenza, e conoscere per via di realità è conoscere in atto ». Di che consegue: 1) che la piú attuata cognizione è quella dei particolari reali; 2) che di poi ogni cognizione degli universali è tanto piú cognizione in potenza, quanto gli universali conosciuti hanno piú d' universalità; 3) che perciò la cognizione di ciò che è meno universale è cognizione in atto, rispetto alla cognizione di ciò che è piú universale; e ciò che è piú universale è cognizione in potenza, rispetto alla cognizione di ciò che è meno universale. Dove si parla di piú e meno universali rispondentisi: a ragion d' esempio, del genere rispetto alle sue specie, e della specie rispetto al suo genere. Chi conosce il genere e nulla piú, conosce le specie in potenza solamente, come quelle che sono nel genere virtualmente contenute, ma non ancora distinte; e chi conosce solamente la specie astratta, si dice che conosce in potenza, ma non in atto ancora, la specie7piena; e chi conosce la specie piena, conosce l' individuo reale in potenza. Sicché cognizione in potenza o virtuale altro non significa, se non una relazione della cognizione di ciò che è piú universale, in rispetto a ciò che è meno universale: e cognizione in atto significa la relazione della cognizione di ciò che è meno universale, in rispetto a ciò che è piú universale. E quantunque la cognizione in potenza, ancora non sia; tuttavia si dice che è, perché non lei, ma la sua parte formale è già. Conciossiaché il piú universale è la parte formale della cognizione che ha men d' universale. I vocaboli dunque di cognizione in potenza o virtuale divengono cosí assai chiari, quando si conosca che furono inventati per significare un fatto gnomico, il servigio che fa l' universale all' intelligenza quando le è dato il meno universale, di mostrare in sé questo secondo contenuto, il che è lo stesso che farlo conoscere in atto. Queste dottrine non isfuggirono a quel grande filosofo di cui l' Italia inorgoglirà santamente piú che mai, quando riacquisterà un po' di spirito nazionale, e smetterà il suo fanciullesco attenersi alle gonne delle altre nazioni, dico a San Tommaso, il quale piú volte disse che: « qui cognoscit in universali tantum, cognoscit rem solum in potentia (1) », detto che doveva essere prezioso, se non ad interpretare, certo a dare una grande spinta innanzi all' Aristotelismo. La distinzione di cognizione in potenza e di cognizione in atto , a cui risponde l' altra di intelletto in potenza (intelletto possibile) e d' intelletto in atto (intelletto agente) fu proposta da Aristotele in occasione della difficoltà mossa da Platone nel Menone, dove sostiene che nel fanciullo dee preesistere la scienza, perché, interrogandolo opportunamente, pronuncia di belle e nuove verità, quasi ricordandosi di esse prima obliate. Aristotele sciolse la questione dicendo, che il fanciullo in parte sa, ed in parte ignora (1): sa in un modo, e in un altro ignora, poiché (soggiunge): [...OMISSIS...] . Queste due maniere di sapere sono appunto il sapere in potenza e il sapere in atto . Ma che è sapere in potenza o in virtú? E` appunto sapere le conclusioni ne' principŒ, i particolari o i meno universali negli universali o nei piú universali (2). Ma sapere i meno universali ne' piú universali è veramente saperli? Risponde, che questo non si può dire semplicemente sapere , ma si dee aggiungere sotto un rispetto ( secundum quid ), non usando gli uomini di adoperare semplicemente le parole sapere, conoscere, ecc. per indicare una tale cognizione. Piú volte San Tommaso ripete che questo è un conoscere il meno universale nel piú universale. [...OMISSIS...] . Cognizione virtuale adunque è modo, che significa un concetto tutto fondato nella relazione fra il meno universale e l' universale; e però non è un concetto vano. Dicesi cognizione , perché conoscendo il piú universale già si conosce un elemento, l' elemento formale del meno universale . Ma non dicesi cognizione semplicemente , perché non si conosce ancora il meno universale fino a tanto che si conosce solo un suo elemento, il suo elemento formale. Ma perocché, dato questo, basta che sieno poi date le sue determinazioni, a fare che incontanente si conosca il meno universale, quindi si dice che nell' universale si conosce virtualmente il meno universale. E poiché questo meno universale non è fatto conoscere dalle sue determinazioni per se stesse non intelligibili, ma in virtú del piú universale che precede nella mente e la collustra, perciò si dice che nel piú universale vi ha contenuta virtualmente la cognizione del meno universale. Aristotele dunque e San Tommaso conobbero assai chiaramente, che la virtú del conoscere il particolare o il meno universale sta nel piú universale, e però che questo è la forma della cognizione di quello: [...OMISSIS...] . E questo è già un essere andati molto innanzi. Perocché chi è pervenuto a conoscere che il piú universale è la causa del conoscere il meno universale, e conseguentemente è la forma della cognizione, non è molto lungi dal doverne conchiudere, che dunque l' universalissimo dee essere la luce prima, quella che non ha innanzi di sé altra causa nell' intendimento. Quindi Aristotele riconosce, che ogni dottrina e disciplina intellettiva « ex praeexistente fit cognitione (2) », e nel primo libro de' Fisici dice che gli universali, quanto a noi, sono anteriori ai particolari. Ma egli sembra che si contraddica nel primo degli Analitici posteriori , dove pone innanzi la cognizione particolare, perché la nostra cognizione, egli dice, incomincia dal senso. I quali due luoghi San Tommaso concilia dicendo, che negli Analitici posteriori Aristotele paragona la cognizione intellettiva, e la cognizione sensibile, e mette questa prima di quella: nei Fisici poi paragona due cognizioni intellettive, una piú universale dell' altra, come del genere e della specie, e la piú universale pone anteriore nell' uomo di tempo alla meno universale. Secondo la qual interpretazione l' ordine cronologico delle nostre cognizioni sarebbe questo: 1) cognizione del senso, non ancora intellettiva; 2) cognizione dell' intelletto, universalissima; 3) cognizione dell' intelletto meno universale. Quando poi si determina quale sia la cognizione universalissima, non cade piú dubbio che sia quella dell' ente , di che conchiude San Tommaso, che « ens est prima conceptio intellectus (1) », e poiché la metafisica tratta dell' ente, perciò non dubita che tutte le scienze ricevono i loro principŒ dalla metafisica (2). Onde Aristotele dice che negli universali (noi diremo piú coerentemente nell' universalismo) non solo vi ha scienza, ma di piú il principio della scienza, « Principium scientiae (3) », e propriamente quello che chiamarono gli Scolastici « principium quo cognoscitur », che è principio formale. Posto dunque che Aristotele accorda che la prima concezione dell' intelletto è l' universalissimo, l' ente, e che quest' è il principio d' ogni altra concezione intellettiva, rimane di vedere come a questa anteponga di tempo la cognizione che chiama sensitiva. Si riduce questa forse ad una questione di parole, cioè a veder, se ai sentimenti si possa con proprietà applicare il vocabolo di cognizione? Se la fosse cosí, sarebbe da rimettersi ai filologi. Per saperlo, convien cercare che cosa Aristotele attribuisca alla cognizione sensitiva, cioè ai sentimenti. Egli dà veramente al senso il giudicare ; ma posciaché riserba ogni universale all' intelletto, non rimane al senso che un giudicare metaforico, un giudicare senza alcun predicato universale, che però Aristotele stesso non osa dire che sia un affermare o negare (4). Riman dunque fermo, che nel senso non ci ha universale di sorta; or bene, noi quando parliamo di cognizione e di giudizio, intendiamo sempre un conoscere, un giudicare, dove l' universale intervenga. E solamente di questo conoscere trattasi di investigare l' origine. Chiarita cosí la questione, rimane a vedere come l' uomo giunga all' universale, ed anzi prima all' universalissimo che lo precede. Aristotele in alcuni luoghi dice, che vi giugne immediatamente, che l' intuizione dell' universalissimo, e dei primi principŒ che da esso derivano, si fa senza mezzo di sorta, e che però a tutti son noti per una natural intuizione senza dimostrazione alcuna (1). Ma anche dopo ciò rimarrebbe la questione: dove, e per quale occasione la mente intuisca l' universale. Ora scioglie Aristotele questa questione là dove insegna, che la mente trova l' universale nelle percezioni e sensazioni corporee, e da queste lo astrae e segrega. L' astrazione dell' universale dalle percezioni corporee si può intendere adunque in due modi: 1) nel modo in cui fu inteso volgarmente Aristotele, quasiché l' ente universale fosse già nelle percezioni corporee, e da queste si separasse come si separa un elemento da un altro: il che contraddirebbe all' altra dottrina aristotelica, che l' ente universale non si apprende dal senso, e che il solo intelletto l' apprende, e immediatamente; 2) nel modo, come l' abbiamo or ora noi proposta, che Aristotele introduca la percezione corporea unicamente come un' occasione, data la quale l' intelletto fa il suo atto d' intuire immediatamente l' universale, il quale però non è nel senso (come espressamente Aristotele dichiara), e però né pure in quello che il senso presenta. A vedere come questa seconda interpretazione sembri piú conforme alla mente aristotelica, ripassiamo la dottrina di questo filosofo circa la potenza intellettiva. Perocché egli distingue questa potenza dal senso; ma in un luogo sembra che la consideri piuttosto come un grado piú elevato del sentire, e cosí la faccia proceder dal senso; il che fu cagione che gl' interpreti rendessero Aristotele sensista, che pure se il fu, nol fu con coerenza. Ei dunque dice nel primo degli « Analitici Posteriori », che tutti gli animali hanno una potenza di discernere le cose, che si chiama da tutti senso. Ma questa potenza generica consta di tre potenze specifiche. Perocché, dato per natura a tutti il senso, 1) in alcuni non ci ha la permanenza del sensibile ; nei quali non vi ha conoscere eccetto il puro sentire; 2) in altri dopo le avute sensazioni permane il sensibile , ed in questi la forma sensibile che rimane è un quid unum , e la chiama memoria (piú propriamente direbbesi ritentiva); 3) finalmente in alcuni di questi ultimi le diverse forme sensibili che rimangono impresse si uniscono sí fattamente, che riman distinta la loro differenza, e ciò che hanno di comune e questo comune è la ragione , il concetto. Onde conchiude che [...OMISSIS...] . Questo è il luogo principale, al quale fermandosi, egli pare che Aristotele parteggi interamente coi sensisti. Ma non è da pigliare l' interpretazione cosí alla leggiera. E primieramente è notabile che in tutta la descrizione del modo onde la mente intuisce l' universale, punto non memora l' astrazione ; ma dice solamente che l' universale, il comune, rimane nell' anima da sé. In secondo luogo, soggiugne, che questo non può avvenire se l' anima non sia cotale, che possa questo patire . La qual parola patire è degna di osservazione; perocché non indica un' astrazione attiva. Il che solo, quand' anche non sapessimo altro della aristotelica dottrina, ci darebbe già forse a dubitare, se la spiegazione aristotelica dell' umano conoscimento sia conforme a quella dei moderni sensisti. In terzo luogo, l' intento aristotelico nel precitato discorso si è il dimostrare, che non vi hanno nell' uomo abiti determinati , e nominatamente l' abito dei principŒ , che chiama anco intelletto de' principŒ , ed è quanto dire la cognizione abituale de' primi principŒ del ragionamento. Ora noi concediamo tutto questo ad Aristotele, perocché non sosteniamo già che i principŒ del ragionamento, siano innati in noi, ed anzi non perveniamo ad acquistarli e formolarli se non coll' applicazione dell' idea dell' essere. E la loro formazione dee conseguentemente essere preceduta dalla percezione e dalle idee generiche e specifiche . Ma rimettiamoci sulle sue orme, e su quelle dell' Angelico che l' ha illustrato, e vediamo dove ci conduce quand' egli toglie a spiegare come deve esser fatta quell' anima che possa patire l' esperimento, pel quale rimane in essa l' elemento comune di piú cose sensibili, ossia l' universale. Allora quando l' anima è atta a ricevere in sé il comune di piú forme sensibili in essa rimaste, allora ella ha fatto l' atto d' intendere; allora i sensibili sono intesi. Ma i sensibili sono intelligibili per loro propria virtú? I sensibili hanno come tali un elemento universale da mostrare all' anima? poiché se essi hanno questo oggetto dell' intelligenza, già essi sono intelligibili per sé. Aristotele dice di no; dice anzi, che i sensibili rimasti nell' anima, che chiama anche fantasmi , sono intelligibili in potenza, ma non in atto. Se essi dunque sono conoscibili in potenza, ciò non può essere che rispetto a quell' anima, la quale intuisca l' universale dove potenzialmente si conoscono. Quell' anima dunque che può patire ciò che Aristotele chiama esperimento , dee possedere precedentemente qualche universale; altramente né conoscerebbe in potenza i fantasmi, né questi sarebbero in potenza conoscibili (1). Ma sotto questo nome di universale forse da niuna parte il rammenta, ma bensí sotto nome di lume. L' anima dunque, che può patire l' esperimento d' Aristotele, è quella che ha prima di tutto un lume, e che però non è un puro principio soggettivo; perocché il lume si distingue sempre dall' occhio che lo rimira. Ora quali sono gli effetti di questo lume dell' anima? Secondo Aristotele e l' Aquinate, essi sono due: il 1 si è di informare l' anima e perfezionarla per modo, che possa fare l' atto proprio dell' intelligenza; il 2 si è quello di rendere i fantasmi o forme sensibili, rimaste nell' anima dopo passate le sensazioni, intelligibili in atto (1). Quando dunque i fantasmi son essi resi intelligibili in atto? Secondo Aristotele e San Tommaso, quando l' anima aggiunse loro il lume che in sé possiede, cosí illustrandoli. Ma cosa è essere conoscibili in atto? Secondo i filosofi di cui parliamo, altro non è che essere conosciuti nel loro concetto, appunto l' universale, come Aristotele afferma espressamente. Dunque il lume senza il quale, secondo Aristotele, nessun' anima può patire lo sperimento deve essere l' universalità stessa, la quale tostoché s' aggiunga ai sensibili, senza bisogno d' altro lume sono conosciuti. Ma che cos' è questa universalità? e che perciò è il proprio oggetto dell' intendimento? Aristotele e San Tommaso ci dicono chiaro: « Intellectus est cognoscitivus omnium entium , dice San Tommaso, quia ens et unum convertuntur, quod est objectum intellectus (2) ». Dunque, convien dire, che l' universalità che aggiunge l' intelletto ai fantasmi, e cosí gl' illustra, sia appunto l' ente, che è concetto universalissimo onde tutti gli altri concetti ripetono veramente la loro universalità. Ma come mai dice dunque Aristotele, che l' anima nell' esperimento patisce, quando se ella dovesse aggiungere il detto lume, piuttosto opererebbe, e anzi che ricevere, darebbe del suo? Primieramente Aristotele considera il lume proprio dell' anima intellettiva, come forma o qualità passibile della stessa (3). Di poi, dice che vi deve essere nell' anima una potenzialità, di cui sia proprio omnia fieri , e chiama questa potenzialità intelletto possibile o intelletto in potenza. Ora l' intendere in potenza egli insegna non esser altro, che intendere nell' universale. Quello adunque che si può convertire in tutte affatto le cose conoscibili, non può esser altro che l' universalissimo, e questo è l' ente. Perocché: « « illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens »(4) ». L' ente in universale adunque è quello che si cangia in tutte affatto le concezioni della mente, e a cui solo appartiene l' omnia fieri di Aristotele. Ed è da notarsi, che tutte generalmente le concezioni dell' intelletto, nel sistema aristotelico, sono considerate come qualità passive, o forme dell' anima (1). Quindi venendo l' ente in universale, che luce all' anima, a ricevere le determinazioni degli enti sensibili, in lui si fissa il comune generico e specifico di essi mediante le determinazioni del senso, e cosí l' ente in universale riceve o almen sembra che in tal fatto riceva. E considerandosi esso come parte dell' anima, dicesi che l' anima lo possiede, è atta a patire tali cose. Laonde, se Aristotele suppone che l' anima nell' intendere patisca; riconosce però, che l' anima ancora agisce nel suo atto d' intendere le cose sensibili, e in quanto ella agisce le dà la potenza dell' intelletto agente. Ora, come spiega egli quest' azione dell' anima? Primieramente egli dice che ella illustra i fantasmi, cioè aggiugne loro il lume, e cosí li fa conoscibili in atto; di poi ella astrae da essi, divenuti conoscibili in atto, l' universale. Ma che cosa è conoscibile in atto? L' ente: dunque, secondo Aristotele, l' anima considera nei fantasmi, nelle forme sensibili l' ente , e poiché con esso sono conoscibili in atto e senz' esso conoscibili solo in potenza; dunque l' ente è altresí il lume dell' intelletto agente, e i fantasmi vengono illustrati perché l' anima v' aggiunge questo lume ch' ella possiede. Dai fantasmi illustrati (2) l' anima astrae la specie, il genere, ecc., insomma gli universali di Aristotele (poiché la mente di Aristotele in quelli si fissa); e questo è facilissimo, poiché il lume aggiunto ad essi è appunto l' elemento universalissimo, che diviene genere e specie tostoché si può limitare e determinare. Conchiudasi adunque, che secondo Aristotele, in quanto l' anima possiede l' ente, ella ha un elemento che diviene ogni cosa conoscibile, e però dicesi ch' ella ha un intelletto possibile ; in quanto ella ricevendo le sensazioni, e ritenendone i vestigŒ, se ne serve come di determinazioni dell' ente, e cosí conosce intellettivamente gli enti, dicesi che ella ha l' intelletto agente . L' anima non ha dunque innata la cognizione abituale dei principŒ, né alcun abito determinato, ma solo la potenza di conoscere. Quell' anima adunque è intellettiva, e può patire l' esperimento , la quale avendo in sé l' universalissimo, lume che illustra i sensibili, ha conseguentemente la potenza di conoscere le cose tutte, mediante un primo atto di conoscere innato; perocché l' intelletto agente, come anco indica la parola intelletto, è per Aristotele un conoscere in atto, in atto cotale, nel quale si conoscono in potenza tutte le altre cose determinate (1). L' Aquinate insegna che l' intelletto possibile di Aristotele sta all' intelligibile in atto, come l' indeterminato al determinato; ed è appunto questa la maniera di dire da noi adoperata ad esprimere la relazione fra l' essere puro, che è al tutto indeterminato, e le specie e i generi, che sono lui stesso piú o meno determinato. Dice l' Angelico, che l' intelletto possibile non ha determinatamente la natura di alcuna cosa sensibile; e questo diciamo noi dell' essere in universale. Quindi Aristotele paragona l' intelletto alla tavola, che non porta ancora pittura determinata. E questa similitudine oltremodo conviene all' essere in universale. Aggiunge San Tommaso, che se vi avessero nell' intelletto gli oggetti determinati, cesserebbe il bisogno de' fantasmi ad intendere le cose sensibili. Dice ancora, che come il lume non ha in sé alcun colore, eppure riduce ad atto tutti i colori; cosí fa l' intelletto agente perché fornito del lume; ed aggiunge che egli partecipa questo lume dalle sostanze separate. Questo lume non è dunque l' intelletto soggettivamente preso, ma è l' oggetto indeterminato che informa l' intelletto, come il lume materiale non è l' occhio, ma quella forma visibile all' occhio per se stessa, per la quale e nella quale vede tutti i determinati colori. Finalmente lo stesso Angelico Dottore osserva, che Aristotele chiama l' intelletto agente anche abito , benché non abito determinato. Ora ogni abito intellettivo suppone un oggetto. Convien dunque dire, che l' intelletto differisca appunto in questo dalle altre potenze intellettive, ch' egli ha in sé la natura di potenza e di abito primitivo (1). Le quali cose tutte intorno alla mente di Aristotele e di San Tommaso ho voluto dire, perché noi non ne vogliamo già spezzare il filo della tradizione della scienza e della verità, ma ci studiamo anzi con tutte le nostre forze di rannodarlo. Dall' analisi adunque della nostra cognizione dei reali o sussistenti, risulta: 1) che la sua base è il puro sentimento (o ciò che cade nel sentimento), il qual sentimento nella mente umana non è ancor ente, perché si prende qui come è anteriormente alla percezione; 2) che la mente lo apprende come termine dell' essere iniziale (il quale è l' essenza dell' ente), e cosí appreso il sentimento è divenuto per la mente un ente, è divenuto sentimento7ente; 3) ma l' ente è cosí fatto, che egli ha due modi, ideale e reale. Quindi la mente, come ogni ente, cosí pure quell' ente7sentimento, di cui si tratta, può considerarlo come ideale e come reale ; 4) ma la forma ideale contiene sempre la stessa essenza dell' ente: dunque niun ente può essere concepito dalla mente privo di questa forma. All' incontro la forma reale non sempre contiene l' essenza dell' ente: ciò non s' avvera che nell' Ente essenzialmente reale, che è l' Ente necessario ed assoluto: gli altri tutti si dicono contingenti, appunto perché la loro realità non abbraccia l' essenza dell' ente. Quindi acciocché si percepisca anche la realità di questi, l' intendimento deve esperimentarne (sentirne) l' azione: mosso da questa esperienza, egli fa quell' atto di affermazione, col quale percepisce l' ente contingente anche come reale. Prima di riprendere il cammino, conviene che qui riassumiamo il problema dell' Ontologia. Il problema dunque è questo. L' essenza dell' essere è una; e ciò perché ogni essenza è una. E di vero, se io penso piú esseri, questi non possono esser piú, se non perché ciascuno ha l' essenza dell' essere: ma questa essenza deve essere la medesima, non un' altra; perocché se fosse un' altra, non sarebbero piú esseri, come si suppone, ma l' uno sarebbe essere, e l' altro sarebbe qualche altra cosa. Or quinci appunto si fa innanzi il problema dell' Ontologia: « Se l' essenza dell' essere è una, come gli esseri sono piú? ». Il rispondere solamente, che i piú esseri partecipano l' essenza unica dell' essere ma non sono dessa, è insufficiente a scioglierla; perocché si replica: « Supponendo che i molteplici enti partecipino l' essenza dell' essere, si suppone che v' abbiano due cose: un ché partecipante, e l' essenza partecipata: ma questo ché partecipante è egli essere? e se non è essere, che cosa è, quando nulla v' ha fuori dell' essere? ». [...OMISSIS...] come si disse in Italia, fin da quando si cominciò a filosofare. Intendere la difficoltà di questo problema è aver fatto un gran passo avanti nella filosofia. E ad intenderlo giova conoscere quante disputazioni sieno state agitate intorno ad esso: come tutta l' antica filosofia classica, cioè la filosofia italiana (perché anche la greca non è che la filosofia italiana continuatasi a svolgere) si dibatté continuamente e s' infranse entro la cerchia di questo sommo problema. A tre si riducono tutte le sètte dei filosofi. La prima è di quelli che atterriti dalla difficoltà del problema di conciliare l' unità dell' essere colla pluralità degli enti, negarono questi, e presero per motto «hen ta panta» ( unum omnia ), e ancora piú propriamente «hen to on» ( unum esse ): motto con cui fu designata la filosofia di Parmenide (1). Altri presero l' opposta via, negando l' unità dell' essere, e il motto di questa sètta fu «ta polla» ( multa ). Finalmente vennero le filosofie piú mature di Platone e d' Aristotele, i quali s' accorsero che né si poteva negare l' unità dell' essere, né la moltiplicità degli enti: ond' ebbero per loro motto «hen aei polla» ( unum et multa ), ovvero «hen polla» ( unum idemque multa ). Le due prime sètte non isciolsero il nodo, ma lo tagliarono annullando l' uno dei due termini; la terza tolse veramente la fatica di scioglierlo. Vero è che lasciarono a noi dei semi preziosi di verità, ma mancarono ad essi tre cose. 1) Non giunsero a discoprire che v' ha in questo problema una parte oscura ed invincibile. Essi s' accorsero bensí che rimaneva sempre qualche cosa di vago, di oscuro, d' incerto, onde molto dissero, specialmente Platone, sulla necessità d' un intervento dell' Essere supremo, acciocché ci si scoprisse con pienezza e certezza la verità, e l' arcano della natura ci fosse disvelato (2); ma, non avendo potuto trovare questo punto oscuro, ben sovente trapassarono il confine della mente, cioè pretesero di dire ciò che non si può sapere. Noi crediamo d' avere con precisione dimostrato in che consista questo punto ignoto, che sparge ombra su tutta la scienza ontologica conceduta all' umana mente: abbiamo detto che l' elemento ignoto è precisamente l' atto creativo , perocché, non cadendo questo nell' intuito dell' umana intelligenza, si può bensí colla riflessione conchiudere che ci deve essere, ma non si vede quale. 2) Ciò che dissero di vero, appena il toccarono, con un linguaggio breve, misterioso, né poterono quindi svolgere con chiarezza i loro concetti. 3) Finalmente riuscirono in frequenti contraddizioni, le quali o non si possono comporre o, se si possono, altrettanto studio e travaglio addimanderebbero, quanto la soluzione del problema medesimo. Delle due prime sètte la seconda, piuttosto che filosofia è volgare opinione, ed essa formò appunto que' filosofi che Cicerone chiama plebei: ma l' altra contiene un altissimo errore, e cosí ingegnoso e profondo, che può far gabbo alle menti piú perspicaci; anzi questa sola fu quella che vide il nodo della questione e ne fu vinta. Parmenide mise questo nodo in aperto, forse il primo di tutti, con mirabile sforzo d' ingegno ed eleganza di esposizione, come si scorge da' frammenti del suo poema «peri physeos» che ancor ci rimangono. Fissò l' acume del suo ingegno nell' essenza dell' ente, e argomentando da questa, tutto ridusse all' unità assoluta: attribuí l' origine della varietà ai sensi, e li dichiarò ingannevoli: onde disse ciechi gli occhi e ottusi gli orecchi e la lingua (1). Con questa maniera d' argomentare, dove non si può a meno di scorgere una mirabile forza logica, egli prova che l' essere è semplicissimo, ed è ogni cosa; e che perciò tutto è uno; e la pluralità non sono che fenomeni, cioè illusioni vane de' sensi. Il lettore sagace non potrà a meno di sentir qui tutta la difficoltà che presenta il problema ontologico a scioglierlo; la difficoltà che si trova a rispondere con rigore logico all' arguire dell' eleatica filosofia; di questa filosofia che fu indubitatamente quella che fecondò l' ingegno di Platone. In Platone stesso, come dicevamo, invano se ne cercherebbe una compiuta soluzione. Ma ciò che vide di vero questo gran filosofo, si fu il fatto che da una parte l' essere è uno, dall' altra gli enti sono piú, e che non conviene distruggere né l' un membro né l' altro del gran problema. Se egli è certo che l' essere è uno, e gli enti sono piú; dunque convien dire che la parola essere in questa proposizione « l' essere è uno »abbia un significato diverso dalla parola ente in quest' altra proposizione « gli enti sono piú »: altrimenti le due proposizioni sarebbero contraddittorie. Che cosa significa adunque la parola essere in questa proposizione: l' essere è uno? Certamente significa « l' essenza dell' essere »senz' altra minima giunta, sia che una qualche giunta le si possa fare, o no. Ora che cosa è l' essenza dell' essere senza piú? Noi vedemmo ch' egli non è già l' essere compiuto con tutti i suoi atti e termini, ma solamente l' essere iniziale «( N. S. , n. 1437) », l' iniziamento dell' essere. Ma nell' essenza dell' essere non si contiene egli ogni essere, ogni ente, ogni entità, ogni atto, ogni termine? Perocché ciò che è fuori dell' essenza dell' essere, se c' è, non essendo essere, sarà dunque nulla; come Parmenide arguiva. Qui appunto è dove sta il piú forte della questione. Ma noi abbiamo detto: I « Che nell' essere iniziale si contiene certamente tutto l' essere, ogni ente, entità, atto, termine, modo » - e questo è quel che vide Parmenide - ; ma che tutto ciò vi si contiene in un modo solo , e questo è quel che Parmenide non vide; il qual modo si chiama appunto iniziale, ideale, manifestativo, ecc.. Ora, posciaché l' essenza dell' essere contiene tutto, ella si chiama semplicemente essere . Ma, posciaché ella contiene tutto solo in un modo, non è assurdo che l' essere possa ancora avere altri atti diversi da quello, benché questi stessi atti sieno compresi nel primo, non al modo loro, ma al modo del primo. Laonde noi ci siamo spinti nell' investigazione dei varŒ modi dell' essere, e ne trovammo tre primordiali, ideale, reale, morale : e quest' è la prima divisione dell' ente, o moltiplicità che si trova nell' ente stesso, che denominammo « divisione categorica dell' ente ». E poiché questi modi sono la base delle categorie, rimase in tal modo sciolto il problema delle categorie. Ora ciò in cui si deve porre soprattutto attenzione, è sulla denominazione d' iniziale data all' essere in quanto è nel modo ideale . Poiché quando si dice che quell' essere è l' inizio di ogni essere , si prende la parola inizio in quel senso nel quale si dice « che l' idea o tipo ideale d' una torre è l' inizio d' una torre ». L' idea della torre e la torre materiale differiscono categoricamente (la qual differenza è la massima di tutte le differenze); e pure dall' idea della torre e dalla torre materiale caduta sotto gli organi sensorŒ si forma per noi un solo ente, un solo oggetto di percezione; il qual oggetto ha un inizio (torre ideale) e un termine (torre reale); e solo quando questi due elementi si compongono nella mente, allora ci ha per la mente l' ente reale che denominasi torre. Ogni qualvolta dunque si applicano i vocaboli di principio e termine entro l' ordine dell' essere reale, il principio è reale, il termine pure è reale; non differiscono categoricamente. Ogni volta che s' applicano entro lo stesso genere o entro la stessa specie di enti reali, il principio e il termine appartengono allo stesso genere o alla stessa specie. Ma nella percezione intellettiva (dove si forma l' oggetto del pensiero, l' ente) il principio e il termine né appartengono allo stesso genere, né alla stessa categoria, ma sí allo stesso ente. Poiché l' ente ha due faccie, coll' una delle quali guarda l' eternità, coll' altra il tempo: cosí giacendo nel talamo della mente il nesso della composizione dell' ente percepito, fanno tra sé il connubio il temporale e l' eterno (1). Fin qui si spiega come l' essere, benché uno nell' essenza , abbia nondimeno una trinità di modi. Questo è già un passo immenso; perocché si è già introdotta una pluralità a lato dell' unità , senza contraddizione. II Quando dunque si dice « l' essere è uno, non generato, unigeno, immobile, eterno, infinito », nel senso di Parmenide, la parola essere viene presa a significare bensí l' essere, tutto l' essere, ma in uno solo de' suoi tre modi, nel modo ideale . Quel primo modo contiene l' essenza dell' essere. Ma quest' essenza si manifesta ella a noi intieramente? Ecco un' altra questione. Ora, il fatto dimostra che l' essenza dell' essere essa sola contiene bensí ogni cosa, ma in potenza; fa conoscere tutto, ma solo potenzialmente, non attualmente: e che è la fina osservazione d' Aristotele. Appunto perché lo contiene unicamente in potenza, ella appare cosí uniforme e senz' alcuna moltiplicità. Ma primieramente noi vedemmo che l' essere ha tre suoi atti primi assoluti e totali, ossia che è in tre modi. Questi tre modi debbono certamente appartenere all' essenza dell' essere, appunto perché son modi ed atti primi dell' essere. Ma in quella guisa, onde la mente umana intuisce la pura essenza dell' essere, questa non vi trova ancora né il modo reale, né il modo morale. Dunque il modo reale e il modo morale vi è come sommerso, non apparente, indistinto; e in somma in potenza. Dunque se questi due ultimi modi appartengono all' essenza dell' essere - nel modo proprio dell' essenza - e tuttavia l' uomo, quando intuisce la semplice essenza, non ve li distingue, convien dire che l' essenza dell' essere è data all' uomo ad intuire incompletamente; e per questo difetto, dalla parte dell' intuizione dell' uomo, quella essenza appare cosí uniforme ed uguale come la ha descritta Parmenide. Questo gran filosofo adunque non si accorse di questa limitazione della mente umana; e ragionò di quell' essenza dell' ente, che è data vedere alla mente, come fosse la essenza intera, completa ed assoluta dell' ente. Tale è la sostanza delle cose ragionate precedentemente: rimane a vedere qual sia la via che ci resta ancora a percorrere per conciliare la moltiplicità degli enti e delle entità coll' unità dell' essenza dell' essere. L' essere è uno, ma egli identico ha tre atti essenziali. Se non si avesse altra distinzione dell' essere che questa, la questione sarebbe in qualche modo ultimata. Ma l' esperienza ci porge ben altra pluralità (1). Ella ci mostra in primo luogo che in ciascuno dei tre ordini cade pluralità, vi ha una pluralità ideale, una pluralità reale, una pluralità morale. In secondo luogo, l' esperienza ci mostra che almeno nell' ordine reale la pluralità degli enti e delle entità eccede l' essenza dell' ente; perocché gli enti che si dicono contingenti, non si mostrano racchiusi nell' essenza stessa dell' ente, eziandio che questa fosse a noi tutta manifesta. Ma, se si considera che è solo il contingente che introduce pluralità nell' ordine ideale e nell' ordine reale, di maniera che questa pluralità ne' due ordini è spiegata solo che si spieghi la pluralità de' contingenti; le due questioni che rimangono son queste: 1) Come può darsi un ente fuori dell' essenza completa dell' ente, come sembra che sia il contingente, quando fuori dell' essenza completa dell' ente non si concepisce che il nulla? 2) Onde la pluralità dell' essere contingente? La prima di queste due questioni è quella della possibilità della creazione; la seconda è quella della creazione stessa. L' una e l' altra riguardano il rapporto che ha l' essere contingente coll' essenza completa dell' ente; e l' essenza completa è l' essere assoluto, Iddio. Spettano dunque entrambe alla parte teologica e cosmologica della scienza. Le stesse quistioni nondimeno diventano ontologiche, quando si considera il contingente in rapporto coll' essenza astratta quale cade nell' intuito della mente. Ora, sotto questo aspetto le due questioni accennate si cangiano in altre: 1) Come noi possiamo vedere nell' essenza dell' essere quello che in quell' essenza non è, cioè il contingente? 2) Che cosa costituisca la pluralità dei contingenti? Cioè, non già come si origini il contingente, ché con ciò si torna alla creazione; ma come dall' esame del solo contingente si possa trovare e determinare precisamente ciò che lo renda cosí multiplo, come l' esperienza ce lo rappresenta. Quanto alla prima questione, noi abbiamo veduto: in primo luogo che la possibilità logica e metafisica di tutti i contingenti si contiene nell' essenza dell' essere, e quindi niuna meraviglia è che coll' essenza dell' essere si conoscano. In secondo luogo essi non sono enti se non perché si considerano uniti alla essenza dell' essere; e in quanto poi sono mere realità, precise dall' essenza dell' ente, intanto non sono punto conoscibili né tampoco concepibili. Ma come queste realità si possono unire coll' essenza, e cosí renderle concepibili, se sono all' essenza dell' essere straniere? E se sono straniere all' essenza, non sono essere. E se non sono essere, che sono? Queste domande ci riconducono alla questione teologica e cosmologica. Ma posciaché ne toccammo qualche cosa, qui riassumerò il detto. E` dunque da considerarsi che l' essere è in tre modi, l' ideale, il reale, il morale. Ora il contingente si riferisce al modo morale, perché la causa di lui non può essere che un agente libero «( N. S. , n. 299 n. ) », e la libertà appartiene all' ordine morale. Se dunque l' essere per essenza è libero, egli per essenza altresí può terminare l' atto suo liberamente. I termini di quest' atto libero, sono le realità contingenti. Dunque anche queste realità, come termini dell' atto libero, vengono ad esser compresi nell' essenza dell' essere. Rimane dunque l' altra questione: « Che cosa costituisca la pluralità de' contingenti? ». E qui si presenta tosto una gravissima domanda che forma l' argomento di questo libro. E` ella la dialettica, quella che moltiplica gli enti, come pretende Hegel? O la pluralità delle cose è ella indipendente affatto dalla mente umana? ha un fondamento nelle cose stesse? Ecco la gran questione: questione che a chi non s' è addentrato nelle profondità dell' Ontologia sembra superflua; ma che riesce tuttavia piú difficile a sciogliersi piú che la mente la penetra a fondo. Noi dobbiamo adunque, prima di tutto, esporla con chiarezza, e farne sentire la difficoltà. Qualunque cosa, di cui l' uomo ragioni, affermi o neghi, distingua o confonda, divida od unisca, ella è sempre una cosa da lui conosciuta. Da questa considerazione generale fu mosso l' autore dell' idealismo trascendentale, Emanuele Kant, a conchiudere: [...OMISSIS...] . Ma per una incongruenza, di cui fu redarguito da' suoi successori, escluse da questa sentenza le cose spettanti all' esperienza sensibile, alle quali lasciò una cotale realità pratica indipendente dalla mente; dicendo delle insensibili, che esse certo erano nella mente, incerto se anche fuori di essa. Fichte, credendo di partire da un vero inconcusso che tutte le cose non eran per l' uomo se non entro la sfera dell' Io pensante, disse di piú che non poteano esser al di fuori dello stesso Io: anche perché da' visceri dell' Io pensante si vedevano derivare; giacché tutte si ponevano con altrettanti atti dell' Io. Cosí la questione logica passò ad essere pienamente ontologica : non si trattò piú come le cose tutte si conoscessero, ma come si producessero. Ma in questo sistema rimaneva distinto ciò che poneva l' Io co' suoi atti, dall' Io ponente: l' atto del porre non poteva essere la cosa posta. Di piú l' Io poneva piú che se stesso, perché poneva l' assoluta perfezione, a cui egli sempre aspirava senza però raggiungerla. A Schelling questi parvero altrettanti difetti di quel sistema. Onde egli credette di aver fatto una grande scoperta dicendo che bisognava identificare l' Io ponente e l' Io posto, od anzi l' Io ponente con tutto ciò che l' Io poneva, e però anche coll' Infinito: il soggetto coll' oggetto; e persuaso d' aver fatto con ciò un sistema nuovo, l' intitolò il sistema dell' Identità assoluta . Applaudí Hegel al pensiero del suo maestro; ma pensò di togliere il vago e l' indeterminato di quest' identità assoluta col darle il nome d' Idea , quasiché con un nome si potesse raggiustare una dottrina: e cosí pose un' idea che fosse tutto, e divenisse tutto. A tal fine conveniva, che l' Idea fosse pensiero, e che il pensare fosse tutto, e l' Idea, essendo pensante, tutto divenisse con atti di pensiero. Essendo questa la necessità del suo sistema, tutte queste cose asserì della sua Idea; giacché, secondo il metodo di filosofare della scuola tedesca, l' asserzione continua ed imperterrita toglie ogni difficoltà. Quindi la dialettica divenne per questo filosofo la creazione stessa di tutte affatto le cose, che altro non erano se non determinazioni dell' Idea, determinazioni che l' Idea poneva con atti di pensiero, uscendo da se stessa, e rientrando continuamente in se stessa con movimento dialettico. Noi abbiamo piú volte indicati i profondi errori e i grossolani assurdi di questi sistemi. Ma, posciaché niun sistema erroneo sarebbe possibile se non tenesse del vero, nel libro presente dobbiamo tornare sull' argomento per additare altri errori. La questione dialettica è dunque questa: « Se il pensiero ponga una separazione reale tra le cose »: ossia « se la pluralità degli enti contingenti dipenda dal pensiero ». A nostro parere, si deve prima di tutto distinguere il pensiero in se stesso, e nel suo movimento. La dialettica , propriamente parlando, altro non è che il movimento del pensiero ordinato dalle sue proprie leggi; cosí presa la dialettica niente produce di reale, niente separa, niente moltiplica, ma solo distingue, e produce degli esseri di ragione. Ma, se si considera il pensiero in se stesso; se per dialettica s' intende tanto il movimento del pensiero, quanto lo stesso pensiero: in tal caso ancora la dialettica, il pensiero, niente produce e moltiplica da sé solo considerato, ma co' suoi aggiunti contribuisce alla produzione e moltiplicazione degli enti contingenti, di cui l' uomo pensa e ragiona, nel modo che si dirà. Noi crediamo di avere stabilita una base immobile all' umana certezza, il punto fermo su cui posare la leva del ragionamento, nell' essere ideale. Abbiamo mostrato che questo è ciò che tutto il mondo appella verità . All' uomo dunque è data per natura la verità stessa, e basta che ad essa ei si attenga, e la accetti dovunque ella si mostra, perché la sua mente conseguisca pienissima pace. Ma vogliamo ora solamente dimostrare, che tutti, anche quelli che non conoscono né intendono scientificamente come sia che il pensiero dell' uomo si fondi sulla verità stessa e perciò solo esista, forz' è che credano al pensiero. Infatti gli scettici stessi, quando vogliono provare col ragionamento il loro scetticismo, mostrano che credono e pretendono che gli altri credano a que' principŒ su cui fondano il loro ragionamento: credono dunque al pensiero che somministra loro quei principŒ. I Kantiani, quando dicono che le forme del ragionare sono soggettive, e però non hanno virtú se non di provare entro la sfera del soggetto pensante, tolgono al pensiero la fede in ciò ch' egli dice: perocché il pensiero dice anzi il contrario; esso dice che quelle forme sono assolute e assolutamente veraci. E tuttavia credono al pensiero, perocché essi partono da questo principio: « Gli atti di un soggetto non possono uscire dal soggetto di cui sono atti; dunque né pure i loro oggetti possono esser altro che condizioni, modificazioni, leggi d' operare del soggetto stesso ». Ma chi ha somministrato loro questo principio? Il proprio pensiero: credono dunque al pensiero; e la questione non riguarda « se si debba credere sí o no al pensiero », ma unicamente « se il pensiero dica questo, o dica quest' altro ». Gli Hegeliani dicono che altro non v' ha che un' idea, la quale pel proprio movimento si trasforma in tutte le cose. Ebbene questa maniera di ragionare suppone che l' autore di essa creda al pensiero; creda ai principŒ, su cui egli ragiona, che gli sono somministrati dal pensiero; creda all' idea, al pensiero dell' Idea, alle determinazioni che ne nascono; insomma a tutto ciò che il pensiero somministra. Convien dunque partire dal principio ammesso da tutte le parti, che « al pensiero non si può negar fede »: resta solo a consultare per sentire ciò ch' egli dice di se stesso. Movendo da questo punto fermo, possiamo pervenire a conoscere qual sia il primo errore dialettico della filosofia di Hegel, dal quale errore tutti gli altri provengono. E a scoprirlo e metterlo in evidenza, useremo il seguente discorso. Alcuni pensieri non si possono concepire senza averne precedentemente concepiti altri nei quali quelli sono virtualmente contenuti. Di qui procede che i pensieri posteriori i quali si ammettono in virtú degli anteriori in cui si contengono, non possono mai di loro natura distruggere gli anteriori che gli hanno generati, e da cui ripetono ogni loro autorità. Quindi sarebbe cosa assurda il pensare che la conseguenza, tratta da un principio, avesse virtú di annullare il principio da cui è tratta, giacché ella stessa non esiste, né ha nessun legittimo valore, se non in quanto esiste ed ha valore il principio. Per tale ragione dei contrarŒ, accade che se una conseguenza è assurda, sia assurdo anche il principio da cui si trasse. Quindi ogni qualvolta taluno stabilisce qualche argomentazione fondata sopra un ordine di pensieri posteriori, e pretende con tale sua argomentazione di distruggere l' autorità e il valore dei pensieri anteriori, vi dev' essere indubitatamente un vizio logico nel suo modo di argomentare. Or tale appunto è il vizio che corrompe nella sua radice il sistema di Hegel, e tutta la scuola tedesca da Kant a noi. Perocché ella, partendo da pensieri derivati ed ammettendoli come certi, si sforza di adoperarli a perdizione e distruzione dei pensieri anteriori, onde quelli derivano, e tolti via i quali, anche quelli son tolti. Questo è il primo errore dialettico del kantismo e dell' hegelismo: vediamolo. Qual' è l' ordine dei pensieri puri? Egli può esser espresso nel seguente schema. I Intuizione dell' essere in universale e indeterminato. II PrincipŒ supremi del ragionamento. III PrincipŒ medŒ . IV Forma del sillogismo. Quindi conséguita, che chi movesse il suo ragionamento dalla considerazione delle forme de' sillogismi, o pretendesse servirsene per distruggere l' autorità dei principŒ medŒ o supremi, cadrebbe nell' errore di logica che abbiamo indicato, poiché le forme sillogistiche non si possono ammettere senza già aver ammessi per buoni quei principŒ. Del pari errerebbe colui che, partendo da qualche principio medio pretendesse di distruggere i principŒ supremi. Finalmente sarebbe viziosa l' argomentazione di colui che, fondando il suo argomentare sui principŒ supremi, togliesse a negare e annullare quella verità che presenta l' intuizione dell' Essere, e che è fonte e vita di tutti i principŒ e di tutte le verità. Di che potremo trovare la formola del primo e universale paralogismo dialettico, la quale è questa: « ogni qualvolta si ammette il valore de' pensieri posteriori, e si pretende di stabilire su di questi una argomentazione v“lta a distruggere il valore del pensiero anteriore, vi ha paralogismo ». Kant muove il suo filosofare da un principio medio, e de' piú bassi, il quale è questo: « « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi » ». Su questo principio fonda un' argomentazione colla quale pretende distruggere il valore oggettivo dei principŒ supremi, e dell' intuizione dell' essere, e per conseguenza anche delle forme del sillogismo, argomentando in questo modo: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi; Dunque anche il pensante pensa secondo le proprie leggi; Dunque il pensiero dell' uomo, soggiacendo alle leggi del soggetto limitato come l' uomo, non può avere un valore oggettivo ed assoluto, ma soltanto un valore soggettivo e relativo. Dunque i principŒ anche supremi del ragionamento, l' intuizione dell' Essere, le forme del sillogismo, non provano già quello che mostrano di provare, ma altro non danno che apparenze soggettive, che hanno valore per l' uomo, ma non in se stesse, o almeno non si può sapere se l' abbiano ». Questa argomentazione pecca del vizio indicato, di far cioè che il pensiero posteriore distrugga i pensieri anteriori, da cui esso è nato. E veramente muove dal principio « che ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo principio si ammette come assoluto: egli è universale: abbraccia tutti i soggetti; suppone dunque che il pensiero conosca i soggetti possibili, e il modo del loro operare. Questo è il medesimo che supporre che il pensiero abbia una virtú e autorità oggettiva: che le cose siano com' esso dice che sono. Dunque questo principio: « il pensiero ha un' autorità ed un valore oggettivo, il pensiero fa conoscere le cose come sono in se stesse », è un principio che appartiene ad un ordine anteriore a quello dell' altro principio su cui si fonda l' argomentazione kantiana: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo secondo pensiero non può essere adoperato giammai per annullare il valore oggettivo del suo antecedente, che è appunto questo: « che il pensare ha un valore oggettivo ». Si dirà forse: E bene, anche il principio da cui muove Kant abbia un valore subiettivo: cosí sarà tolta la contraddizione, e tutto il sapere umano, non avrà mai piú che un valore subiettivo. - Rispondo: Per dir questo dovreste aver prima provato che « ogni pensare ha un valore subiettivo »; ma questo è appunto quello che si tratta di provare, e che non si può provare, stando alla vostra argomentazione, se non si ammette come oggettivamente certo il principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi ». Non potete dunque addurre alcuna dimostrazione che ci provi che questo principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi »sia valido solo rispetto al soggetto, e non lo sia assolutamente ed oggettivamente. Che vi abbia dunque nell' argomento kantiano un esiziale paralogismo, risulta evidentemente dal conoscere che « con un principio posteriore si toglie ad annullare quanto attestano i principŒ anteriori, da' quali quel principio posteriore dipende »(1). I successori di Kant, e specialmente Hegel, lungi dall' accorgersi del paralogismo, altro non fecero che spingere avanti la fabbrica, lasciata difettosa dal suo fondatore, solo perché incompleta. Dice Hegel che Kant pretese di togliere via le contraddizioni della ragione - contraddizioni per altro che non sono della ragione, ma de' nostri filosofi, i quali imputano la brevità e il difetto delle loro proprie vedute alla ragione stessa - e la lotta che hanno insieme le nozioni opposte, per esempio quelle di finito ed infinito, attribuite entrambe da Kant all' universo, trasportandole dal di fuori dentro allo spirito. Ha ragione dicendo che un cosí fatto ripiego non sana l' assurdo di quelle contraddizioni, non pacifica quella lotta, perocché altro non se n' ha, se non che invece d' esser diviso contro sé e squarciato il mondo, rimane diviso contro sé lo stesso spirito. Ma qual nuovo rimedio propone Hegel? Egli fa scomparire, è vero, con Schelling dalla sua idea le dette contraddizioni, supponendo che in essa nulla v' abbia di distinto e di determimato; e dove niente è distinto e determinato, certo è tolta la pluralità, e cosí la possibilità di piú elementi contrarŒ. Ma finalmente quell' idea col suo movimento dialettico genera, secondo Hegel, quelle istesse contraddizioni fino a dichiarare l' essere uguale al nulla e la mancanza di questa derivazione dialettica di tali forme è il difetto che Hegel rimprovera a Kant. Or dunque se l' idea - e non v' è altro che l' idea per Hegel, giacché ella è tutto, ella divien tutto - è quella che produce le nozioni contrarie e le supposte contraddizioni e antinomie della ragione, non rimane cosí ne' suoi visceri lo stesso assurdo? Come Kant adunque rimosse la pretesa lotta dal mondo, e la lasciò nello spirito; cosí Hegel la rimosse a dir vero anche dallo spirito, nella condizione di atto e di effetto, ma ve la lasciò poi nella condizione di potenza, cioè la lasciò in causa nell' idea. Perocché se l' idea la produce, la deve altresí virtualmente contenere, giacché l' effetto trovasi sempre nella virtú della causa; e quest' è quello che Hegel stesso confessa: onde, venendo tolto il principio di contraddizione nella sua stessa radice, torna qui l' oppugnazione d' un pensiero anteriore - qual è il detto principio - da cui debbono pure ricevere il loro valore, se ne hanno, tutte le posteriori argomentazioni del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . Non si può negare che qui si rilevi con molta acutezza una interna contraddizione del kantismo. Kant riconobbe che le forme logiche per se stesse hanno un valore oggettivo, hanno valore di far conoscere le cose in sé (1); ma poscia disse che mancava loro la materia, che questa non era che fenomenale, perché fuori di esse, data dall' esperienza de' sensi; onde quelle forme fatte per conoscere le cose in sé, mancavano tuttavia di valore, non si conosceva per esse che fenomenalmente. Questa contraddizione del Kantismo è importantissima a notarsi. Fichte cercò rimediarvi col supporre, che anche la materia, non solo le forme, provenisse dall' anima. Ma questo era un lasciar il solo soggetto produttore del suo oggetto: in tal caso né le forme logiche né la loro materia avevano piú un valor oggettivo. Questa loro oggettività era apparente, fenomenale; se si toglieva con ciò la contraddizione Kantiana, non si ammigliorava la condizione del conoscere. Che anzi, a dire il vero, anche la contraddizione rimaneva, perché da una parte il conoscere pareva oggettivo, dall' altra si dichiarava soggettivo. L' apparenza oggettiva lottava dunque colla natura soggettiva: l' Io ingannava dunque se stesso. Che cosa fece Hegel? 1) Hegel ritenne quello che aveva ritenuto Kant, che le forme logiche avessero un valore oggettivo; 2) disse, che il far venire la loro materia dal di fuori, cioè dal senso, importasse altrettanto che renderle inutili a produrre una conoscenza oggettiva. Questo era quello che aveva preteso Kant. Ma Hegel ammettendo che se la materia venisse dal di fuori alle forme logiche, queste sarebbero inutili, pensò con Fichte che dal di fuori elle non dovesser venire; 3) disse ancora, che Fichte aveva invano preteso di rimediare al male, col dedurre tanto le forme logiche quanto la loro materia dal soggetto, dall' Io; perocché con ciò non solo la materia rimaneva di una verità soggettiva; ma le stesse forme logiche incorrevano nella stessa rovina; e però il loro mostrare la cosa in sé diveniva apparente; 4) disse che dunque conveniva ammettere che le forme logiche avessero un valore oggettivo, e che portassero altresí la loro materia in se stesse, con che anche la materia loro diveniva oggettiva, ed il sapere oggettivo ed assoluto veniva cosí assicurato. Questo ragionamento facilmente illude, parendo che sia rigorosamente logico. Ma ch' esso non possa esser tale, il dimostrano anche i falsi ed assurdi conseguenti che ne derivano. Uno di questi si è che in tale sistema non potrebbe piú aver luogo l' errore (1), né rimarrebbe piú luogo a spiegare come il sapere umano fosse limitato. Una verace e compiuta filosofia deve dar ragione sufficiente non solo di ciò che l' uomo sa, ma ben anco di ciò che non sa: deve non solo spiegare tutti i progressi dello spirito umano, ma ben anco giustificare i lamenti altissimi che mandò la filosofia di tutti i tempi, d' accordo in questo col senso comune, sulla brevità dell' umana mente, sulla difficoltà di trovare il vero, sull' impossibilità di trapassare certi confini, sulla facilità d' errare. Dove sta dunque il vizio del mentovato ragionamento di Hegel? Esso sta qui, nell' aver egli accettata per buona quella sentenza di Kant che sosteneva non potere le forme logiche avere un valore oggettivo, quando la materia, a cui venivano applicate, giacesse fuori di esse. Ammessa quella sentenza tanto da Kant quanto da Hegel, essi si divisero solamente sul fatto: perocché a Kant parve che il fatto fosse appunto questo, che la materia venisse presa dallo spirito umano fuori delle forme logiche, e ne seguitasse quindi la rovina del sapere oggettivo; invece Hegel, trovando assurda questa conseguenza, negò il fatto, e disse che nelle stesse forme logiche dovea esser contenuta anche la materia del sapere. Il pensiero di Hegel aveva contro di sé: prima di tutto, il senso comune degli uomini, che attesta il fatto andare altrimenti; e di poi l' autorità di tutti i piú gravi filosofi antichi e moderni. Hegel rispose ingegnosamente a queste difficoltà osservando, che ciò che attestavano gli uomini era da essi attinto dalla propria coscienza. Ora, ei disse che la coscienza si formava e svolgeva a gradi. V' avea dunque una coscienza comune ordinaria; e l' opposizione, che questa faceva contro al sistema da lui proposto, potea venire dal non essere ancora formata quella coscienza a cogliere quegli ultimi fatti dell' umano conoscere, su cui egli poneva le basi del suo filosofare. Premesso dunque ciò, disse, che il lavoro del filosofo avea due parti: la prima storica; la seconda propriamente speculativa. Colla prima il filosofo dovea partire dall' ordinaria coscienza degli uomini, e, notando e narrando tutti gli stati successivi, pe' quali ella può passare, condurla fino all' assoluto sapere. Colla seconda poi dovrà, facendo il viaggio contrario, mostrare la necessità dell' origine di quegli stati della coscienza procedenti tutti dal sapere assoluto, dall' Idea. Del quale lavoro Hegel tolse a fare la prima parte nella « Fenomenologia »; la seconda nella sua « Scienza della Logica ». Ma il risultato di questa filosofia - ed è anco il principio di essa - si è questa proposizione: che « « l' essere puro e il puro niente è lo stesso » »: [...OMISSIS...] : ecco la formola di questa filosofia. La formola, che fa un' equazione dell' essere e del niente, è la formola suprema de' contraddittivi: tutte le contraddizioni sono in essa comprese; ella tutte le rappresenta come il piú alto genere rappresenta tutte le specie: e questa contraddizione prima ed universale, è la scienza di Hegel. Hegel dunque, non fa che sostituire ad una contraddizione psicologica, una contraddizione ontologica; trasportarla da un ente particolare a tutti gli enti, allo stesso essere. Egli non fa che dire, che l' ente e il niente stanno insieme; l' uno trapassa nell' altro, anzi l' uno è passato nell' altro, l' uno è nell' altro come in se stesso (2); quindi a cagione dell' identità che v' è tra loro, cessare la contraddizione! Quasi che contraddizione e identità non significassero l' opposto, non fossero contraddizione elleno stesse. Coll' ammettere quindi nel primo pensiero stesso l' assurdo, egli pretende di distruggere l' assurdo. L' annunziare una tale dottrina sembra dover bastare a confutarla. E pure quanti scioli in Germania, colla gravità e coll' autorità di professori, non l' hanno bevuta e la insegnano tuttavia come la chiave dell' universo sapere? Non è già che noi neghiamo ad Hegel molto ingegno: senza molto ingegno non si fanno bere altrui di cotali paradossi. Sia pure un Protagora, un Gorgia, un sofista qualsiasi; ma un sano filosofo, no. Anzi, appunto perché l' ingegno fu speso a piene mani per vaghezza di persuadere al mondo a rinunziare affatto al lume della ragione, egli è necessario non passare sotto silenzio i sottilissimi artifizŒ adoperati a sí tristo e funestissimo intento. Tutti gli argomenti adunati da Hegel, altro non fanno che ribellarsi contro a quel pensiero anteriore a tutti, da cui cavano il loro apparente valore, tentando di torlo via del tutto ed annichilarlo: il qual principio è quello di contraddizione. Onde tutti debbono necessariamente peccare del paralogismo dialettico da noi segnalato. Ritornando dunque al principio di Hegel che « essere e niente s' identificano », egli va cercando di levare d' attorno a un cosí strano principio l' odiosità di quell' assurdo che pur contiene, ricorrendo ad una speciale sua interpretazione. Dice che il niente, di cui egli parla, non è il puro nulla, ma quel nulla che risulta dalla negazione, o, come ancora s' esprime, dalla contraddizione: perocché, afferma, non si può arrivare al progresso scientifico, se non si giunge ad ammettere « « che il negativo è appunto il positivo » », ossia, « « che il contraddittorio non si scioglie nel nulla, nello astratto niente, ma solo nella negazione dello speciale suo contenuto » », ossia ancora, [...OMISSIS...] Ma primieramente, tanto se si tratta di una cosa particolare, quanto presa la proposizione in generale, il negativo non sarà mai e poi mai il positivo. Una cosa particolare, o piuttosto limitata, avrà bensí certe limitazioni, ma non si potrà mai dire che queste limitazioni sieno la cosa stessa. Di poi egli è vero che nella dottrina di Hegel la proposizione « « l' essere e il niente sono identici » » si restringa a quel niente che è negazione di una cosa particolare, e non al nulla assoluto ed astratto? Basta aprire la sua « Scienza della Logica » per convincersi che la cosa non è tale. Hegel incomincia in essa a parlare dell' essere semplicissimo ed astrattissimo, e questo appunto ei lo fa perfettamente uguale al niente, e il niente a lui. [...OMISSIS...] : ed è da questo essere7niente che si pretende sorgano tutte le cose. In terzo luogo, fosse anche vero che, quando il nostro filosofo dice che « « l' essere è il niente » », intenda sotto la parola niente tutto ciò che è particolare, tutto ciò che determina e restringe l' essere; non sarebbe ciononostante uno sformato abuso di parole chiamare niente l' essere indeterminato? Perocché: o si vuole che, tolte all' essere tutte le determinazioni, resti ancora qualche cosa, e in tal caso l' essere puro è essere, e però non è niente; o si vuole che, tolte all' essere le dette determinazioni, s' annulli lo stesso essere, e in tal caso si ha bensí il nulla, ma non piú l' essere. Essere e niente non possono stare insieme in un solo concetto, appunto perché essenzialmente contraddittorŒ. Coll' ammettere una tale compenetrazione e identificazione dell' essere e del nulla, la contraddizione non si toglie già, ma si accresce, si erige in principio della filosofia. L' assegnare poi alla parola niente altro significato da quello che ella ha, non è egli un introdurre gli equivoci a bel principio della filosofia? Ma Hegel ripeterà: « Che cosa è mai l' essere senza alcun contenuto? ». Rispondiamo che, se si trae dai visceri dell' essere ogni suo contenuto affatto, si avrà certo il nulla, ma in tal caso non si avrà piú l' essere; onde non si verificherà mai che l' essere e il nulla sieno identici: se poi si vorrà conservare l' essere, egli non sarà senza qualche contenuto, perché almeno conterrà se stesso. Ma egli è di piú da por mente all' equivoco della parola contenuto «( Inhalt ) » tanto usata da' filosofi tedeschi. Questa parola involge la relazione col contenente: contenente e contenuto sono concetti relativi. Onde non sono applicabili in nessun modo all' essere puro, il quale è semplicissimo: e, considerato senza relazione con altro, egli non è né contenente né contenuto; ma unicamente e semplicemente essere. E` dunque una maniera impropria il dire, che l' essere puro non ha alcun contenuto, se non si aggiunge, che non è neppur contenente: egli non è né forma né materia, in quanto queste parole involgono una relazione tra loro, ma è puro essere: l' essere cosí preso è superiore alla forma e alla materia; ma non per ciò conseguita ch' egli sia niente, appunto perché è essere. Che se si replica, che l' essere in questo stato di astrattezza e purità non è, e che perciò esso è il nulla; conviene rispondere che se non è, dunque ha cessato. In tal caso resta il solo nulla, e non resta piú l' essere. Ma sarà a dirsi in appresso esser falso, che l' essere astratto e puro al tutto non sia per la ragione che egli esige qualche determinazione, se pur la esige; a quel modo che non si può dire che l' accidente sia il nulla per la ragione che esige d' essere concepito nella sostanza. Che se la mente nostra nel concepire l' accidente lo astrae dalla sostanza, questo altro non significa se non un modo imperfetto del concepire; ma la stessa mente non potrebbe fare ciò se non conoscesse la sostanza e nel pensare compiuto non unisse la sostanza coll' accidente «( Psicol. , n. 1372 sgg.) ». L' accidente dunque è, ma la separazione dell' accidente dalla sostanza è solo nella mente. Onde si vede che le cose hanno due modi di essere, l' uno nella mente e l' altro in se stesse; i quali due modi sono appunto quelli che Hegel vuole ridurre a uno, senza che gli possa riuscire, appunto perché non può riuscire ad alcuno il dimostrare ciò che è assurdo. Si dica il simile dell' essere: se si piglia in una totale astrattezza, si potrà forse sostenere che in tale stato non sia in se stesso, ma è nondimeno nella mente: o, per dir meglio in se stesso è: ma la separazione di lui da ogni sua determinazione è solo nella mente. L' essere adunque in nessuna supposizione s' identifica col niente, sebbene la separazione di lui da ogni sua determinazione sia un' operazione o una funzione della mente: e però neppure essa è il niente. Che se poi si cerca l' origine dell' errore di Hegel, si scopre che questa giace nel concetto del diventare , preso da lui secondo l' intelligenza del volgo. La mente di Hegel manca affatto d' analisi: e questo è pure il difetto di tutte le filosofie della sua nazione, onde nasce la loro oscurità. L' ingegno germanico è certo naturalmente robusto, ma la sua coltura è troppo prematura: un paio di secoli di studio non bastano a rendere analitica una nazione. La preziosa dote della mente italiana, sommamente chiara, perché sommamente analitica, è il frutto di tre mill' anni: ogni secolo ci ha lavorato a formarla, ci ha importato altresí qualche nuovo elemento: la civiltà di questa nazione è un abito - ahi pur troppo negletto! - non è uno sforzo momentaneo e contro natura, che dopo un momento di eccessiva energia ricade sopra se stesso. In fatti che cosa significa diventare preso alla volgare? Significa che un ente passa dal non essere all' essere, o che un ente ne diventa un altro. In questo significato si suppone che ci abbia un ente, soggetto identico del non essere e dell' essere, soggetto identico di due enti successivi, l' uno che cessa e l' altro che sopravviene. Nel primo caso è un soggetto pari al nulla perché non è, e diventa un ente che è: il nulla dunque si suppone effettivamente identico all' ente. Nel secondo caso parimenti il soggetto è prima un ente, che per diventare un altro deve annullarsi. Vi ha dunque un momento nel quale questo soggetto è nulla; ma questo soggetto medesimo è l' uno e l' altro ente: dunque il soggetto medesimo pari al nulla, è ente. Ma con un po' d' accurata analisi si scorge che questo soggetto identico è una pura immaginazione e illusione; che non s' avvera mai il diventare preso cosí alla materiale, anzi non può avverarsi, perché è assurdo. Già gli scolastici, S. Tommaso principalmente, dimostrarono (non asserivano come fanno i filosofi di cui parliamo) che un ente non può divenire un altro; perché dovrebbe prima annichilarsi, onde mancherebbe l' identico soggetto della mutazione. Oltre questa prova intrinseca, l' esperienza non pone sotto gli occhi che cangiamenti di forme: mai e poi mai enti novi, o passaggio di un ente in un altro. E` inutile la questione tanto agitata dagli antichi, se si cangino le forme sostanziali, o le sole forme accidentali. Perciocché ad ogni modo trattasi sempre di cangiamenti di forme , e non veramente di enti. E poi questo cangiamento di forme è egli forse un vero diventare? Niente affatto di ciò, ma v' ha la cessazione dell' una, e la comparsa dell' altra, senza che quest' altra sia la prima, la quale anzi è cessata. E` una puerilità filosofica di Hegel il dire che vi ha un vero passaggio dell' una nell' altra. Questo passaggio realmente non esiste: è la sola mente che lo s' immagina, perché ad essa rimane presente la prima forma anco quand' è passata: ond' ella dice, di quella forma che non è piú, ma cui tuttavia la mente pensa come se esistesse, che essa è passata nell' altra. Né manco s' avvera che la forma prima cessando passi allo stato di nulla, come Hegel pretende. Ma anche qui v' ha l' illusione medesima. La forma cessata non è piú, ma è bensí ancora nel puro pensiero, che l' ha presente benché passata: onde lo stesso pensiero ad essa congiunge il nulla, come se il nulla fosse qualche cosa perché il nulla nel pensiero è qualche cosa. Ma il vero si è che il cessare di quella forma non è un passaggio, ma è un mero cessare. Onde quella forma non è già un soggetto identico, il quale si vesta ora dell' esistenza, ora del nulla. Ciò che si disse della forma intera, si dee dire delle sue parti. Ciascuna particella non si cangia, non diventa: è l' ente che rimane identico, il quale per ciò appunto non si cangia, né diventa. Onde il diventare nel senso Hegeliano, ossia volgare, non s' avvera mai: è un puro pregiudizio, un concetto confuso ed in se stesso ripugnante. Veniamo al concetto di creazione, sul quale Hegel tanto insiste, e troveremo la stessa mancanza di analisi, come pure la mancanza totale di dottrina teologica, effetto anche questo del protestantesimo, che, rinunziando a' fonti antichi della teologia, si è ridotto a fare miseramente colla filologia una teologia, come chi volesse colla grammatica comporre un libro di matematica sublime. Anzi udiamo parlare lo stesso Hegel: [...OMISSIS...] . Ecco a quali miseri equivoci s' appiglia il nostro filosofo. La cristiana filosofia non sostenne giammai, che l' essere sia venuto fuori dal niente come dall' uovo; molto meno che il niente sia il soggetto che divenne un ente, e che perciò il niente e l' essere sieno lo stesso. Ammise bensí la creazione dal nulla, ma in questo senso, che prima che un ente creato fosse, egli non era; e però egli non era il niente, né il niente era lui: il niente e l' essere sono successivi, dinanzi alla mente. Tra il niente dunque e l' ente non v' è il passaggio d' un soggetto unico a due stati diversi, e molto meno v' è il diventare. E perciò la prova che Hegel pretende cavare dal concetto di creazione, dato dalla cristiana teologia, altro non prova se non ch' egli non ha molto approfittato nello studio di questa scienza. Di poi egli dice, che, senza ammettere l' unità e inseparabilità dell' essere e del nulla, che si ravvisa nel concetto del diventare, non si può spiegare né il cominciamento né la fine dell' Universo. Egli ci fa questo sofisma. [...OMISSIS...] . Questo argomento è ineluttabile, ma che prova? Prova unicamente che niun ente è cominciato, e niun ente cessa, prendendo le parole incominciare e cessare secondo la significazione volgare e materiale, che Hegel introduce senza esame e senz' analisi nella filosofia: ma non prova mica che niente incominci e niente cessi nel vero senso filosofico di queste parole. Nel senso filosofico, non si vuol mica dire che l' incominciare sia atto dell' ente, quasicché sia l' ente quello che dà a se stesso l' esistenza: certo che se si dovesse cosí intendere, l' ente farebbe un atto prima di essere; l' ente dunque sarebbe il nulla che fa quest' atto di passare all' esistenza. Cosí la intende il filosofo tedesco; ma cosí non l' ha mai intesa la tradizione de' grandi maestri. Dicendosi che un ente incomincia, altro non si vuol dire che in un dato istante un dato ente fu, quando nell' istante anteriore non c' era nulla. Lo stesso si dica del cessare di essere: il cessare di essere non fa che significare due istanti tra quali non passa alcuna relazione di causa e d' effetto: ma nel primo istante l' ente è; nel secondo non è piú, ogni suo atto è già cessato. - Hegel può replicare: prima che l' ente, che incomincia, e prima del suo annullamento vi deve dunque essere una causa che il faccia esistere, o l' annulli. Dunque prima che l' ente sia, non v' è il nulla: dopo che l' ente è cessato, di novo non v' è il nulla. Verissimo; ma la causa non è l' ente di cui si parla. E non v' è alcun bisogno di sostenere che l' ente sia il nulla, o il nulla sia l' ente, a potersi ammettere una causa distinta dall' ente. Non ne vien mica che questa causa sia il nulla, o che sia col nulla indivisibile; appunto perché il nulla è nulla; e non si può unire né dividere, in senso proprio, con cos' alcuna. Non vi ha dunque la contraddizione che pretende di trovare Hegel in quelli, che d' una parte ammettono, che l' ente non sia il nulla, dall' altra ammettono l' incominciamento del mondo. Del resto il sofisma che adopera Hegel per dimostrare in contraddizione quelli che danno al mondo un principio, egli lo adopera puramente come un argomento ad hominem , perocché non è già egli, non può essere egli un di coloro che riconoscano che il mondo è cominciato. Il concetto del diventare in quel senso materiale, in cui egli lo prende, esclude qualunque possibilità che il mondo abbia veramente cominciato ad esistere. In vero, prendendosi il diventare come un atto dell' ente che diventa, egli è chiaro che quell' ente, che con atto proprio diventa, era prima un falso nulla, perché era un nulla che operava, e però un nulla identico all' ente. Cosí non è piú possibile altro sistema che quello dell' eternità del mondo che da se stesso continuamente si sviluppa: e questa infatti è la dottrina che Hegel confessa dichiaratamente di professare. Divien cosí il mondo una serie di mutazioni infinite, una serie di cause e di effetti, che non ha principio. Che cosa è da raccogliersi da tutto ciò? Certamente non altro che il concetto del diventare, cosí rozzo e volgare come lo prese Hegel per metterlo a fondamento del suo edifizio filosofico, è intrinsecamente assurdo, e ch' esso non è somministrato né da cangiamenti che avvengano nella natura, né dal domma della creazione, né dall' infinitesimo de' matematici. Rimane dunque, in tutta la sua nudità, la duplice contraddizione che contiene il principio della filosofia Hegeliana: cioè che l' essere sia niente; e che da un essere, che è niente, possano diventare tutte le cose. Alle quali contraddizioni assurdissime conviene aggiungere questa terza. L' Hegel inveisce amaramente contro tutti i filosofi, che lo precedettero, perché divisero le forme logiche dal contenuto di esse, e dissero che questo si prendeva dal di fuori, dal sentimento; quelle erano date dalla mente. Dopo di ciò egli pone a fondamento di tutta la filosofia l' essere senza alcun contenuto (1), e da questo essere, che non ha contenuto e che è niente, fa venir fuori, svolgendosi, tutte le cose: anzi fa lui stesso uguale al Tutto. Se quest' essere non ha alcun contenuto, dove lo prende? Dal Niente? Certamente, Hegel risponde, dal Niente : e volea dire dalla negazione . Ma se il contenuto è il niente, o si trova nel niente, dunque il contenuto stesso è l' essere, o si trova nell' essere; perché l' essere è lo stesso che il niente. Non è dunque piú vero, che l' essere puro sia privo di contenuto. E se il niente ha egli qualche contenuto da dare, in tal caso si domanda di novo dove lo prende. Tali sono le difficoltà sulle quali Hegel trapassa leggiero, senza dare alcuna soddisfacente spiegazione. Dal fin qui detto apparisce che il nostro filosofo in sostanza altro non fa che considerare i diversi concetti della mente (e ben inteso della mente umana, checché egli sogni: ché altra mente non ha in cui fare le sue osservazioni), lasciando soli questi concetti senza la mente, dichiarandoli altrettanti enti; onde l' andare e il venire di questi (nella mente) è tutto il movimento dialettico che egli vi trova, e che ei loro attribuisce, quasi si movessero da se stessi, e l' uno passasse nell' altro; ma ciò egli fa senza addurre nessuna prova ch' essi abbiano questa vita supposta, senza rendere alcuna sufficiente ragione del preteso suo movimento: meno ancora addurre ragione, perché il moto cessi, o perché non cessi mai quasi non avesse mai raggiunto il suo fine. Cosí il problema dell' Ontologia, che domanda una ragione sufficiente della moltiplicità degli enti e de' loro mutamenti, rimane colla filosofia di Hegel pienamente insoluto e lasciato da parte, e non vi si fa che un' aggiunta d' indicibili contraddizioni. Ma egli è oltremodo utile alla scienza d' investigare le origini logiche degli errori in cui si perdettero i piú celebri filosofi: e però noi vogliamo qui tornare alquanto su quella confusione tra l' idea e il verbo della mente, che abbiamo additata come la stirpe degli errori dell' Hegelianismo. Ignorare la distinzione dell' idea dal verbo della mente, è il medesimo che ignorare la differenza che passa tra il conoscere per intuizione e il conoscere per affermazione . Hegel sostiene che il niente è lo stesso dell' ente. [...OMISSIS...] . Che sia pensato il niente, si può dire: passi dunque; ma che sia rappresentato, questo poi no: molto meno ch' esso sia. Onde è dunque questo sofisma? Il conoscere per via d' intuizione è un conoscere oggettivo : ogni intuizione ha un oggetto, fa conoscere un oggetto. Il conoscere per via di affermazione o di negazione è soggettivo ; non fa conoscere un oggetto novo, ma dispone in un dato modo il soggetto in verso l' oggetto dato dall' intuizione; cioè, altro non produce che una persuasione del soggetto circa l' oggetto dato dall' intuizione. Ora quando si dice di pensare il niente, si parla di un conoscere per intuizione, o d' un conoscere per affermazione, e negazione? Certo, conoscere il niente è un conoscere per negazione. Infatti il concetto del niente non si ha che per la negazione dell' ente. L' ente è l' oggetto, l' oggetto è sempre l' ente. Questo è dato dall' intuizione. Sopravviene il verbo della mente, cioè la negazione dell' ente, e che cosa ella produce? Produce una disposizione del soggetto intellettivo verso l' ente; la persuasione che l' ente non sia: il niente dunque non è; non v' è altro che la persuasione dell' essere intelligente che l' ente intuito non sia, non esista. L' ente, che si nega dalla mente, può esser un ente particolare, possono essere tutti gli enti: ciò è indifferente: l' oggetto è sempre l' ente, e mai e poi mai il niente; ma il soggetto fa un atto riguardante quell' ente, o quegli enti, e quest' atto è la negazione, e l' effetto di quest' atto è la persuasione che quell' ente o quegli enti non sieno: e questa persuasione appartiene al soggetto, è uno stato della mente: nessun oggetto novo s' è formato: la affermazione, o la negazione, o il loro effetto, la persuasione, non producono niun oggetto novo. Questo errore di Hegel è uno sbaglio rozzo e volgare: la sua origine è nell' uso della lingua. Una parola è un segno arbitrario, non è già la cosa stessa significata; quindi l' uso della parola dipende dall' arbitrio dell' uomo. L' uomo può usare la parola anche a significare l' ente negato. A tal fine s' inventano i vocaboli niente, nulla e simili. Ma poiché solitamente le parole, e particolarmente i nomi, significano enti, perché vi è già l' abito di attribuire ad ogni parola un oggetto, un ente; quindi chi non ne considera il valore, non ne analizza il significato, si dà a credere volgarmente che tutto ciò che viene significato da un nome sia un ente, un oggetto. All' incontro, accade che si trovino delle parole, de' nomi, che non significano già novi oggetti, novi enti; ma sí anzi enti negati dall' intelligenza. Tali parole dunque sono inventate a significare quel conoscere che si fa per via di negazione, e non quello che si fa per via d' intuizione; e quindi non suffragano menomamente al sofisma hegeliano. I vocaboli dunque niente, nulla , e simili, ingannano, perché hanno una forma positiva, ma diversa da tutti gli altri vocaboli. Il significato di tali vocaboli, pensato in generale, e però supposto positivo, è un' altra classe di concetti che abbiamo chiamati virtuali : classe che denomineremo virtuali7segnativi , quali sono le lettere dell' alfabeto nell' algebra, di cui non si considera il valore, ma si suppone che abbiano tutte un valore; ond' accade poi che quando si discende a determinare questo valore in particolare, facendo passare il concetto da semplicemente virtuale in attuale, allora si trova che alcuna di quelle parole non ha valore alcuno, perché è .uguale . 0. Or questo errore è perpetuo nella filosofia di Hegel: in esso consiste essenzialmente la sua dialettica, di cui mena tanto vanto che in essa fa consistere tutt' intera la sua filosofia: quell' errore è in una parola l' argomento dialettico, col quale fabbrica que' suoi ragionamenti, che il conducono al paralogismo dialettico indicato di distruggere i pensieri anteriori mediante pensieri posteriori. E veramente la singolare scoperta di Hegel consiste in una pretesa di dedurre per via di negazioni dall' essere puro e astratto tutte le idee, e tutte affatto le cose che sono nel mondo e fuori. Egli dice, come abbiam veduto, che quando l' essere ha prodotto in sé il niente, allora è già nell' essere quell' elemento che genera e produce il contrario dell' astratto, e quindi il passaggio dell' essere astratto al sussistente e a tutte quelle che egli chiama determinazioni concrete (1). Prende dunque il niente come un oggetto novo che è, e che sorge nel seno dell' essere. Ma noi vedemmo che il niente non è un oggetto novo, ma altro non è che l' ente colla negazione: la qual negazione non è un oggetto, na una disposizione soggettiva della mente negante. Cangia dunque in oggetti queste disposizioni soggettive, che niun oggetto producono; anzi si tolgono via: e questa è la creazione dialettica del nostro filosofo. In un altro luogo spiega il suo pensiero dominante dicendo che [...OMISSIS...] . Questo, secondo lui, è il vero metodo della scienza filosofica, da lui definito [...OMISSIS...] . Ora questo movimento di sé, che da se stesso fa il contenuto della coscienza, è per Hegel una continua negazione ripetuta con continuo progresso. Perocché dice: [...OMISSIS...] . Cosí vuole che il secreto del processo dialettico consista in un continuo negare, e che quindi escano tutti affatto gli oggetti ideali e le loro realizzazioni, insomma tutte le cose. Di che procede questa conseguenza, che mentre Hegel pretende di essere filosofo oggettivo per eminenza, di modo che per lui la logica oggettiva già prende luogo della metafisica formale di Kant, e cosí divien la Critica della Critica (3), in fatto, chi va al fondo e non si contenta di parole, trova che Hegel altro non fece se non comporre la sua filosofia di elementi soggettivi, quali sono appunto tutte le negazioni; né coll' appiccar loro i nomi di oggetti si possono rendere oggetti, perché un nome non fa mutar natura alle cose. Onde questo filosofo appartiene a quella classe che altre volte ho denominata di falsi oggettivisti ( Psicol. , 13). Il filosofo nostro confessa che quella negatività, che è l' anima dialettica, è una subiettività , e pure in questa subbiettività giace tutto il vero, e per essa solo il vero è. La verità hegeliana adunque è soggettiva, anzi è un prodotto del soggetto, perché ella è solo mediante questa subbiettività «( durch die es allein Wahres ist ) »: la subiettività dunque è anteriore alla verità, appunto perché questa è per quella. Hegel non è dunque piú che un soggettivista. In fatti il negare non può essere che l' atto di un soggetto negante. E che fa un soggetto che nega? Certo non produce alcun oggetto, che né pure il produce coll' affermare. Ma altro non fa che produrre in se stesso una persuasione relativa ad un oggetto che non esiste già per l' affermazione, né cessa per la negazione; ma in ogni caso è anteriore: ed è dato nell' intuizione. Ma Hegel pretende il contrario: egli converte dunque la persuasione soggettiva in oggetto: e poiché la negazione è per lui « l' anima dialettica che ha tutto il vero in sé, e per cui solo il vero è », perciò tutto il vero, tutti gli enti, tutti gli oggetti si riducono a disposizioni, a persuasioni, modificazioni del soggetto negante. Non essendovi dunque che il soggetto negante e le sue negazioni, quindi tutte le cose sono ridotte ad una sola: al soggetto, il quale, modificandosi, per via di negazioni diviene ogni cosa. Tale è il panteismo hegeliano. Or poiché il negante non può che negare se stesso (non essendovi altro da negare in tal sistema), il se stesso è anche oggetto, e quindi è Idea. Tale è l' Idea di Hegel, che ha il movimento dialettico in sé, ha l' anima dialettica, ha il diventare, ossia il negare, che è la mediazione tra sé e ciò che diventa. E che diventa? Diventa quelle disposizioni e persuasioni che da se stessa suscita in se stessa; le quali di novo negandosi rientrano nel soggetto Idea. Onde quell' Idea, soggetto, definisce anco « l' identità della teoretica e della pratica; della forma e del contenuto », e in generale di tutte le contraddizioni. L' errore sta sempre nell' aver convertite le persuasioni , che sono stati dello spirito intelligente prodotti dalle sue operazioni soggettive dell' affermare e del negare, in altrettanti oggetti; di non avere in una parola distinto il modo di conoscere per intuizione dal modo di conoscere per affermazione e negazione; l' uno oggettivo, soggettivo l' altro. Di questo primo errore dovea nascere e nacque che un oggetto negato sembrasse due oggetti che s' identificano. Quindi l' assurda proposizione che « l' essere e il niente sono lo stesso », supponendosi che l' essere negato altro non sia che l' identificazione di due oggetti: 1) l' essere, 2) il niente. E poiché l' essere si può sempre negare, e dopo averlo negato si può negare la negazione, perciò si disse che « l' essere passa nel niente, e il niente nell' essere », e che la mediazione di questo passaggio è la negazione. E` verissimo che nella negazione, per esempio nel nulla, s' inchiude una relazione colla cosa negata, per esempio coll' ente. Ma quali sono i termini di questa relazione? L' ente è l' uno, la negazione è l' altro. La mente che nega, deve indubitatamente conoscere (per intuizione) ciò che ella nega. Ma che perciò? Ne vien forse che questi due termini facciano un solo oggetto? Né Hegel stesso può talora dissimulare, che nella maniera di parlare, che egli usa, vi ha difetto. In un luogo, dove si sforza di trasportare la negazione nell' oggetto negato, e di farla qualche cosa che con esso lui s' immedesima, confessa nello stesso tempo che le proposizioni che ne risultano non possono soddisfare (1). Quest' è una confessione ben chiara; ma manca d' integrità. Non è solo inadeguata la forma di tali giudizŒ e proposizioni; ma le proposizioni stesse sono false, contraddittorie, assurde. Ma se sono tali, perché mantenerle? Perché riguardarle anzi come le proposizioni fondamentali di tutto lo scibile? Egli dà la colpa di ciò alla natura del giudizio stesso (poiché questi filosofi incolpano di continuo la natura e la mente, sopra di cui pongono se stessi come esseri dominanti!) [...OMISSIS...] . Certo è incapace, se lo speculativo e la verità è quella appunto che vuole Hegel, la contraddizione, l' unità degli opposti: nel che ei fa consistere, come vedemmo, l' apice del sapere. Ma se all' opposto si abbandona una cosí strana sentenza, perché non si potrà esprimere in un giudizio la verità? Quelle proposizioni assurde, diventano in qualche senso vere, se si convertono in queste altre: « Il finito è l' infinito colla negazione dell' infinità; l' uno è i molti colla negazione della pluralità; il singolare è l' universale colla negazione dell' universalità ». E perché anteporre l' imaginoso, il misterioso, il falso, l' assurdo, al linguaggio semplice e vero? Certo perché, usandosi questo, il prestigio è cessato: il sofisma cade: il sistema tutto intero crolla dalle fondamenta. Del rimanente, per restringere in breve l' osservazione principale che avevamo in animo di porgere in questo capitolo, allorquando la mente pensa una relazione fra opposti e contrarŒ, allorquando pensa un positivo e v' aggiunge una negazione; ella non ne fa già risultare un solo oggetto; ma anzi stanno a lei presenti i due termini della relazione senza confondersi, e la relazione quale anello tra essi. Il gioco di voler confondere tutto ciò in uno, è dunque una mera puerilità. A torto dunque Hegel inveisce contro i logici che ammettono il principio che « la contraddizione non sia pensabile », quando secondo lui « « pensare la contraddizione è il momento essenziale del concetto »(3) ». Anzi qui scorgesi venir meno ad Hegel l' accennata distinzione tra il conoscere per intuizione, oggettivo, e il conoscere per affermazione o negazione, soggettivo. Le contraddizioni che cadono nel conoscere per intuizione e quelle che cadono nel conoscere per affermazione o negazione sono di tutt' altra natura; e quelle prime non si chiamano con proprietà contraddizioni, ma piuttosto opposizioni, ovvero relazioni di contrarŒ. Hegel poi parla indistintamente delle une e delle altre senza conoscerne la differenza: e cosí calunnia i logici. Perocché questi dicono non pensabili le sole contraddizioni per via d' affermazione o di negazione. Onde il loro maestro Aristotele definisce la contraddizione: l' « affirmare et negare idem de eodem secundum idem ». Dove apparisce che egli non riconosce altra vera contraddizione che in quel pensare che si fa per via d' affermazione e di negazione. E bene, noi qui domandiamo al sig. Hegel s' egli si reputa cosí valente da saper dire di sí e di no nello stesso tempo, dello stesso attributo, dello stesso soggetto, sotto lo stesso aspetto. Mal per lui se ci risponde di sí: sarebbe lo stesso che dirci, aver egli questa facoltà singolare di fare e di non fare nello stesso tempo lo stesso atto: di avere intorno alla stessa semplicissima questione due persuasioni tra loro contrarie: di mentire essenzialmente. All' incontro l' intuizione non fa che presentare alla mente gli oggetti nella loro pura essenza e possibilità: essa non afferma che sussistano, né lo nega. L' essenza, per essere conosciuta, non abbisogna di essere affermata, né negata: la possibilità che l' essenza ideale venga realizzata, è una relazione tra l' ente ideale e la sua realizzazione. Il giudizio, « la tal cosa è possibile », non appartiene all' essenza pura, ma alla relazione che ella ha col suo realizzamento. E` necessario ben distinguere ogni giudizio dalla mera intuizione. Del resto l' intuizione pura può avere oggetti opposti, perché egli è manifestamente vero che piú cose, opposte fra loro ed escludentisi a vicenda, sono egualmente possibili: hanno di conseguente un' essenza atta ad essere intuita. Questo accade perché la contraddizione non giace mai nelle semplici essenze attualmente intuite, ma solo nel loro realizzamento. A ragion d' esempio, io posso pensare un dato individuo umano di color bianco o di color nero; l' uno e l' altro è possibile; come possibile l' uno e l' altro non si contraddicono; ma se si trattasse di passare alla realizzazione di un individuo umano, e potess' io crearlo, non potrei già fare lo stesso individuo tutto di colore bianco e ad un tempo tutto di colore nero. Ciò dunque che non è contraddittorio pensato come possibile, diviene contraddittorio pensato come reale. L' ordine de' possibili, considerato come l' ordine delle pure essenze, appartiene all' intuizione: e quest' ordine ammette opposizione e contrarietà, ma non ammette contraddizione: l' ordine de' sussistenti appartiene all' affermazione o alla negazione, e quest' è quel solo che ammette contraddizione (1). La stessa parola contraddizione , giusta l' etimologia, significa dizione o pronunciato contrario, e le dizioni, i giudizŒ, sono appunto affermazioni e negazioni. Queste sono le contraddizioni, che a sentenza de' logici, cosí alteramente dispregiati da Hegel, non si possono pensare dall' umana mente; appunto perché l' essere reale, che esclude da uno gli altri individuati, non può aver lotta intima seco stesso. Hegel vide, che nell' intuito si possono pensare i contrarŒ, come anco si può pensare la stessa relazione di contrarietà. Da questo conchiuse che si può pensare la contraddizione ( « Widerspruch »). Certo, che la mente intuisce cose opposte, e vede la relazione fra loro di contrarietà: ma con ciò la mente non si contraddice, né in veggendo tale relazione unisce e confonde in uno le cose contrarie, anzi in virtú di tale relazione, le tiene innanzi a sé perpetuamente distinte e separate. L' unica conseguenza che si può trarre dal fatto, che il nostro filosofo osserva, non è già quella che egli ne vuol cavare, che i contrarŒ si unifichino; ma sí questa sola, e a dir vero importante, che le cose contrarie ed opposte, dalla mente pensate, debbono avere qualche unità: ma non mica una unità in loro stesse, quasi che l' una sia l' altra reciprocamente; ma un' unità fuori di loro in qualche altra cosa unica che le contenga. Infatti, non è già contraddittorio il pensare, che cose opposte ed escludentisi si trovino contenute in una terza cosa, come non è contraddizione neanco che sussistano piú cose, l' una delle quali escluda da sé l' altra. Or, che i contrari pensanti dalla mente trovino unità non in se stessi, ma in altro, l' antica logica nol negò mai, e l' accagionarla di ciò è un mostrar di ignorarla. La metafisica poi in tutta buona pace con quella logica, la qual si può dispregiare ma non mutare, insegna primieramente, che l' intendimento che ravvisa tra due termini una contrarietà, con un atto solo pensa que' due termini, e li paragona, e l' unità di quest' atto è appunto l' unità che accoglie que' due contrarŒ. Questa unità è soggettiva, e consiste nell' unità, per cosí dire, del continente, cioè nell' unità del soggetto che contiene que' due termini contrarŒ. Ma la metafisica non si ferma qui: ella s' accorge bene, che il soggetto intelligente non potrebbe trovare la relazione di contrarietà tra que' due termini, se non li paragonasse; e non li potrebbe paragonare, se non li riferisse ad un terzo termine, nel quale di novo fossero in qualche modo già contenuti. Noi abbiamo già mostrato, che questo terzo termine c' è, ed è appunto l' essere ideale (1). Si domanda come nell' essere ideale possano contenersi oggetti contrari. Rispondo: la contrarietà rimanersi tra contenuti, non passare nel continente. La quale è una proposizione che nella sua forma non involge certo contraddizione, poiché si predica cose contrarie di due soggetti diversi, e non dello stesso. Si rifletta che l' essere nella sua forma ideale è unicamente l' essere possibile, ed apparisce ben chiaro che piú oggetti anche contrari possano essere, senza perciò contraddirsi. Perocché ogni contraddizione sta sempre nell' ordine della realità, a cui si riferisce l' affermazione e la negazione. La ragione di questo si troverà riflettendosi, che l' essere ideale non porge da sé solo l' attualità delle cose contrarie, ma solo le contiene virtualmente, e la contrarietà non ritrovasi che nell' attualità delle cose stesse. Non essendo adunque l' attualità delle cose nel concetto virtuale di esse, niente vieta che questo concetto si possa riferire a cose contrarie, come a una loro comune possibilità e virtualità, a quella foggia appunto come il concetto specifico si riferisce ad infinito numero d' individui, l' attualità di ciascuno de' quali esclude l' attualità degli altri, e però in questo sono contrarŒ. Ma un altro errore di Hegel, si è ch' egli riduce ogni cognizione a quella che si ha per via di negazione, di modo che nella stessa prima cognizione dell' essere puro pretende che vi si contenga la negazione: onde il suo principio, che « l' essere è il nulla, e il nulla è l' essere ». Egli abbracciò senza esame il pregiudizio universale dei sensisti, che la cognizione dell' essere puro s' acquisti per via d' astrazione , nella quale egli vide rinchiusa una negazione , benché anche questo non sia del tutto vero, potendo nascere l' astrazione senza positiva negazione (2), bastando una dimenticanza, o un lasciar indietro, un non osservare: che sono tutti atti diversi dal negare. Ma l' astrazione non può darci l' essere puro che nell' ordine della riflessione. Pigliando dunque il filosofo alemanno per principio del suo sistema mischiato senz' accorgersi di sensismo, l' essere puro riflesso , egli, invece di sollevarsi, come pur si propone, al di sopra della riflessione , comincia anzi la serie delle sue idee da un prodotto di questa. A torto adunque egli chiama il suo essere puro un primo, un immediato: questo è anzi un degli ultimi mediati, giacché la riflessione astraente non giunge a formarsi il concetto dell' essere puro se non assai tardi. Conviene con tutta diligenza distinguere le diverse operazioni dello spirito umano. La negazione propriamente è un atto dello spirito, col quale esso nega un' entità: la è insomma un giudizio negativo. Altro è dunque che alcuni atti dello spirito intelligente non abbraccino tutte le cose, ma abbraccino una sfera di cose limitate: altro è che lo spirito neghi quelle cose che sono fuori di quella sfera. Egli è questo uno de' principali sbagli di Hegel, il credere che l' intelligenza non possa conoscere una cosa se non nega tutte le altre. Posto quest' errore, ne viene che deve primieramente esser posta come nota la totalità , e che quindi si rendano note le cose singole per mezzo di negazioni limitanti quella totalità: questa totalità nota è l' idea assoluta di Hegel . [...OMISSIS...] . Ma questa totalità nota , quest' idea assoluta , che è tutto l' essere e tutti i modi dell' essere, non avrebbe ella bisogno di venir provata? non si dovrebbe dichiarare qual relazione abbia ella coll' uomo? Convien dunque dire che quest' idea assoluta sia presente all' uomo. Ma in tal caso l' uomo che la contempla non può essere l' idea contemplata, né l' idea contemplata può essere il contemplatore. Eppure in quell' idea, secondo Hegel, si contiene tutto anche il reale e il sussistente, conseguentemente l' uomo stesso. Ma se l' uomo stesso reale e filosofante è in quell' idea, rimane a sapere se in quell' idea altro non si abbia che quest' uomo, o vi sia troppo piú. Se in quell' idea non v' è altro che l' uomo filosofante, in tal caso l' uomo che pensa se stesso sarà quell' idea che pensa se stessa, e non potrà l' uomo pensar altro che se stesso. Ora l' uomo, che pensa se stesso, ha con ciò la coscienza di sé; ma secondo Hegel quell' idea assoluta è al di là d' ogni coscienza: non può adunque quell' idea essere unicamente l' uomo che pensa se stesso. Ma l' uomo non sa d' esser uomo, se non in quanto è consapevole di sé: l' uomo dunque non è cosa alcuna di piú di quanto la coscienza gli dice lui essere. Ma la coscienza gli dice di non essere piú che un ente limitato. L' uomo dunque è questo e nulla piú. Dichiarare adunque che l' uomo sia quello che non gli dice di essere la coscienza, è una posizione gratuita, e propriamente una stoltezza filosofica. Se dunque l' uomo non ha ragione di credersi piú di una minima particella dell' universo, egli non può essere tutta l' idea di Hegel, la quale è la totalità nota per se stessa, l' unità di ogni ideale e di ogni reale. Rimane che quest' idea assoluta sia troppo piú dell' uomo, e che l' uomo sia il prodotto dell' idea assoluta che dialettizza e va negando se stessa. Or bene, se la cosa è cosí, quest' uomo posteriore al dialettizzare dell' idea assoluta, siccome da essa prodotto, come può egli conoscere questo dialettizzare che non è il suo proprio dialettizzare, ma che è anteriore alla sua esistenza? Questo è ciò che Hegel passa in silenzio. Che se pure a quest' uomo, si concedesse l' intuizione di quell' idea sua madre; in tal caso già quest' idea intuíta, che tutto comprende, non sarebbe piú l' idea assoluta: poiché nell' intuizione di quell' idea, l' intuente, in quanto è intuente, sarebbe fuori di essa; e però essa non abbraccierebbe piú tutta la realità, com' è necessario che l' abbracci secondo Hegel, acciocché ella sia idea assoluta. Rimane dunque che Hegel ci dica com' egli parli e proponga la teoria di una tale idea assoluta. Poiché lo stesso fatto del filosofare distrugge il sogno di quell' idea assoluta che Hegel prescrive. Egli si dimentica, filosofando, di essere uomo, e il volo ch' egli prende coll' immaginazione, e non punto colla ragione, non è solamente temerario e funesto come quello di Icaro, ma è di piú oltremisura ridicolo. Ma se fosse vero ciò che egli afferma, le negazioni di cui parla, dovrebbero essere negazioni fatte dall' uomo. Se sono negazioni dell' uomo, in tal caso esse tutt' al piú proveranno che debbono essere precedute da una cognizione positiva abbracciante la totalità dell' essere, da una cognizione, dico, presente di continuo all' umano intendimento. Dunque, l' argomento, tratto dal conoscere per negazione, condurrà tutt' al piú ad un' idea presente all' uomo, e perciò contrapposta all' intuito umano: perciò escludente da sé la realità sussistente di quest' intuito. Questo solo fa crollare tutto l' edifizio hegeliano, che intende di stabilire una idea dove ogni realità si contenga. Ma l' argomento si appoggia oltrecciò sopra il falso supposto che l' uomo conosca tutte le cose particolari e limitate solamente per via di negazione. Ma onde venne ad Hegel questo errore di credere che tutti i limiti delle cose conosciute sieno posti dall' atto della negazione? Questo è un errore da lui ereditato: fu Fichte quello che introdusse il primo l' affermazione e la negazione nella filosofia tedesca, come elleno fossero fonte di tutto l' umano sapere, o certo delle sue limitazioni, disconoscendo il sapere intuitivo e limitato per natura (1). Fu osservato anche da Tedeschi di buon senso (1), che Hegel prende il concetto di una cosa per la cosa stessa; egli vuole che la dialettica sia la stessa cosa sussistente che dialettizza. Questo per altro è coerente coll' aver supposto che esista un essere assoluto (l' Idea), il qual contenga ogni modo di essere, e il quale abbia un moto interno suo proprio che lo rechi a spezzarsi in piú, per via di continue negazioni, limitandosi, determinandosi. Questo moto di negazioni è quella che Hegel chiama dialettica. Ora Hegel dice che questo essere assoluto, o come egli lo chiama idea assoluta , oggetto della filosofia, rimane sempre presente nel principio, nel progresso e nella fine, appunto perché ogni ente è lui stesso negato in qualche sua parte o determinazione. Essendo dunque quest' assoluto ogni cosa per via di negazioni, niuna meraviglia piú è se ogni cosa abbia la sua dialettica, e se ogni mutazione dell' universo altro non sia che un' operazione dialettica. Tutto ciò vien esposto da Hegel in un modo oscuro, lambiccato, forzato, senza addurre mai una prova che abbia forma di prova, accumulando asserzioni sopra asserzioni; e non dandosi cura di ciò che ad ogni passo gli si potrebbe opporre. Innumerevoli osservazioni noi potremmo fare su questa dottrina: ci restringeremo ad aggiungerne alcune poche a quelle che abbiamo fatto sopra. I Osservazione . - L' esistenza dell' idea assoluta di Hegel non può essere considerata tutt' al piú che come un presupposto gratuito. Questo supposto è introdotto dal nostro filosofo pel bisogno di rispondere agli argomenti degli scettici. Tutto l' argomento con cui si crede di provare l' esistenza di quell' idea si riduce a questo entimema: « Gli enti come sono concepiti siccome pure i loro concetti, hanno in sé la contraddizione, sono assurdi in se stessi considerati, come dimostrarono gli scettici. Ma non può ammettersi che sieno assurdi intieramente. Dunque debbono avere un altro modo di essere, nel quale non sono assurdi. Questo modo è il considerarsi in un' idea che tutti gli contenga senza distinzione, e però senza contraddizione che nasce loro dall' essere distinti. Dunque quest' idea, avente l' universalità e la totalità degli enti e dei concetti, esiste ». A convincere d' invalidità questo modo di argomentare, basta negare la maggiore. Noi abbiamo già sopra avvertito che negli enti e ne' concetti v' ha bensí distinzione, ma non per questo contraddizione: questa ce la pone Hegel del suo. II Osservazione . - L' ipotesi d' un' idea che contenga la sussistenza, è assurda. Perocché la sussistenza non si conosce per via d' idee, o per via di concetto, ma per via di sentimento e di affermazione. Nell' idea e nei concetti non s' intuisce che l' essenza possibile delle cose, la loro conoscibilità. Si confonde dunque l' essenza possibile col sentimento che la realizza. Converrebbe dimostrare che questi due modi dell' essere s' immedesimassero; ma quest' è quello che Hegel non fa né può fare, perocché una cosa semplicemente conosciuta come possibile, e una cosa sentita come reale, porge due modi di essere affatto distinti. Queste due cose potranno annodarsi in un essere intelligente; ma confondersi no. La conoscibilità e la sussistenza delle cose rimarranno sempre distinte e incomunicabili, niuna di esse potrà perdere la sua natura passando nell' altra. III Osservazione . - Si suppone che l' idea si presenti da prima come un universale, puro essere; e che poi quest' idea, negando se stessa, produca in sé le distinzioni contraddittorie. Ma quest' attività che ha l' attività di negare se stessa, onde viene? Tutto ciò è asserito gratuitamente. Non basta: tutto ciò ripugna. Se l' idea da principio è un universale, senza distinzioni; dunque non può avere la forza di negare se stessa, perché già non sarebbe piú semplicemente universale, essere purissimo; ma un essere determinato, appunto perché avrebbe una speciale facoltà. Le determinazioni dunque non sarebbero l' effetto dell' esercizio di tale facoltà, essendo la facoltà stessa una di esse; l' avrebbe senza darla a se stessa. IV Osservazione . - L' idea, negando se stessa, diviene il nulla. Ma: o s' intende con ciò che l' idea veramente diviene il nulla, nel qual caso s' avrebbe l' assurdo d' un essere, del sommo essere, che annulla se stesso; cosa ripugnante alla natura dell' essere; o s' intende che negando se stessa produce a sé il concetto del nulla, restandosi ella quel di prima. In tal caso la negazione non produrrebbe che concetti, e non s' avrebbe piú una negazione veramente efficace, operante la realità. V Osservazione . - L' idea diviene ogni cosa negando le proprie determinazioni contraddittorie, correlative. Ma non si può negare ciò che non si conosce. Dunque l' idea conosce in se stessa tutte queste determinazioni, prima che le neghi; e le conosce distinte, perché la negazione nega l' una e lascia l' altra. Dunque non è la negazione che produce tali determinazioni, ma prima già sono, e sono conosciute. E se si dice che non sono conosciute, ma che l' idea s' affissa in se stessa, e cosí vedutele, va poi negandole; in tal caso: 1) Ad ogni modo prima di negarle le viene a conoscere per intuizione o percezione, e però non è la negazione che le produce. 2) Oltre la facoltà di negare, e ancor prima, convien dare all' idea la facoltà di riflettere su di se stessa (cosa oppostissima al sistema di Hegel), d' intuire o di percepire: cosí si aggrava la difficoltà; perché non si può supporre quell' idea come un semplice universale, ma è giocoforza che fin da principio si presenti come un soggetto fornito di varie facoltà, e variamente determinato in se stesso. 3) Finalmente, se la cosa è cosí, in quell' idea non possono scomparire la contraddizione, e tutti i correlativi, ma debbono esser in essa distinti fin da principio. Torna dunque in pieno vigore l' argomento di Jacobi: o quell' idea è un semplice, e in tal caso come da sé sola produce il moltiplice? o è un moltiplice, e voi facendola semplice vi contraddite fin colla prima parola. Ora tutta la ragione del sistema hegeliano è la necessità di conciliare ed abolire le pretese contraddizioni, che gli scettici trovarono negli enti e ne' loro concetti. A questo nulla giova l' ipotesi di quell' idea: dunque il nostro filosofo ha buttato la sua fatica indarno. VI Osservazione . - Fichte diceva che l' Io pone contro se stesso il Non7Io. Hegel, che l' idea poneva tutti i suoi contrari per via di negazione. Ma altro è che l' Io e il Non7Io si trovino esistere in una certa opposizione; altro asserire che l' Io stesso è l' autore del suo contrario. Quest' asserzione, oltre essere del tutto gratuita, oltre essere una illazione falsa, perché quel che è un fatto si converte in un causale, non rimedia punto al difetto della contraddizione supposta, anzi raddoppia la difficoltà, perché, oltre rimanere a spiegare come esista una contraddizione in natura, rimane di piú a spiegare come un termine di questa contraddizione possa produrre la contraddizione stessa, producendo un suo contrario. La stessa osservazione si deve applicare al sistema di hegel. VII Osservazione . - Se davanti ad una mente fosse un' idea generica e nulla piú, detta mente potrebbe considerare quest' idea generica come un' entità particolare, ma non potrebbe mai trovare le specie subordinate a quel genere, né gl' individui di questa specie, e molto meno la reale sussistenza di questi individui. Sieno pure le specie virtualmente contenute nel genere, è impossibile che ella ve le distingua traendole fuori a priori . Soltanto quando le sono date a posteriori , allora le può trovare. Questo è un fatto somministrato dall' esperienza; ed ancor dalla natura dell' universale e della sua virtualità. Hegel dirà, che egli non distingue la mente dall' idea, ma che è la stessa idea universale quella che trova in se stessa i meno universali distinti e i reali sussistenti. Ma la difficoltà rimane la stessa; poiché è dalla natura dell' universale che quella difficoltà procede: se è universale non ha in sé distinti i concetti minori, né le realità, altramente non sarebbe universale. Quando anche dunque l' universale si ponga vivente e pensante, egli non potrebbe vedere in sé ciò che gli manca, né potrebbe uscire di sé per sapere ciò che gli manca. VIII Osservazione . - Il reale abbraccia Iddio e il mondo; e il mondo si compone di innumerevoli enti fra loro distinti. Questi possono essere piú o meno, maggiori o minori, di varie forme e nature. Di piú l' uomo non li conosce tutti, e ne va scoprendo di piú ogni giorno. Egli sa, che per quanto pensi non ne può scoprire un solo e conoscerne la natura positiva ragionando a priori . Cosí, per quantunque pensi, se gli manca uno de' suoi sensi, egli non può piú conoscere la natura positiva di quegli enti che si riferiscono al senso che gli manca. Niuna idea gli produce il sentimento corrispondente. Di piú ancora non dipende dal suo pensiero, che gli esseri vengano sottoposti a' suoi sensi. Questo è quello che accade all' uomo. Ora una teoria del sapere umano deve dare ragione di tutto ciò: ma l' idea assoluta di Hegel nulla spiega di tutto questo. Quest' idea, secondo lui, si trasforma nell' uomo stesso, nello spirito soggettivo e nel mondo, mediante altrettante negazioni, che le fa fare: la consapevolezza dell' uomo riceve le sue leggi da quell' idea, ed è quell' idea stessa. Ma quell' idea, opera ella a capriccio? od ha in sé qualche ragione che la obblighi ad operare piuttosto in un modo che in un altro? e qual è questa ragione? Di tutti questi fatti il sistema di Hegel non dà la menoma ragione; né solo li lascia inesplicati, ma li rende inesplicabili; perocché la sua idea, da cui tutto dipende, non è sapiente, e pur non può essere capricciosa. Non è sapiente, perché non è indicata la ragione che la possa movere a negare se stessa. Non può essere capricciosa, volendosi ch' ella sia la ragione stessa, l' autrice di tutte le cose, il fonte d' ogni sapere; e il mondo mostra vestigi di sapienza luminosissima, e la sapienza non può essere senza sapienza. Dobbiamo parlare della vuota visione , dove Hegel ripone il principio della scienza, e l' Assoluto stesso che col principio della scienza s' immedesima. Hegel conviene che per ciascun uomo la scienza deve muovere dalla propria coscienza (1). Ma egli fin da principio confonde la coscienza cogli oggetti contenuti nella coscienza definendo l' Io « « La coscienza di sé qual mondo moltiplice all' infinito » » [...OMISSIS...] . Or quest' è idealismo (piú propriamente il soggettivismo) ricevuto da Hegel come cosa già passata in giudicato, come un nuovo pregiudizio. E su questo errore il nostro filosofo erige il suo gotico edifizio. Or, la coscienza, interrogata a dovere, attesta ad ogni uomo che il proprio Io non è il mondo . Conviene dunque non già supporre preventivamente e senza esame, che il Mondo sia nell' Io, come il vino è in una botte, ma piuttosto diligentemente osservare la natura che ha la relazione che passa tra l' Io e il Mondo. L' Io può essere considerato nella sua parte sensitiva; la relazione peraltro del mondo materiale con un principio sensitivo, se ben si esamina, suppone un extra7soggettivo, una virtú che non cade nel sentimento, ma sí agisce in lui modificandolo (relazione di azione modificante); suppone altresí un esteso sentito, termine del sentimento, ma opposto al principio senziente, e però molto piú inconfusibile con lui (relazione di sensilità). In tutto ciò non si tratta ancor dell' Io, ma del mero principio sensitivo: l' Io è il principio razionale, e la relazione di questo col mondo è quella di percipiente a percepito. Ora, in nessun modo mai il percepito è il percipiente, o viceversa; esigendo la natura della percezione, che l' uno non sia l' altro. La coscienza lo attesta, e nessuna argomentazione vale a indebolirne la testimonianza; perocché, l' attestazione della coscienza è appunto uno di que' pensieri anteriori, dalla cui autorità dipendono tutti gli altri. E` dunque da tener fermo questo primo errore psicologico di Hegel di confondere il percipiente col percepito, di voler identificare l' uno all' altro, e ciò per via di una semplice asserzione, e di un mero postulato, quantunque ei si mostri tanto contrario a' postulati. Hegel dunque, dopo aver detto, che ciascun uomo move necessariamente dalla coscienza, dice, che il filosofo deve innalzarsi da questa al puro sapere . E che cos' è il puro sapere? « E` l' ultima assoluta verità della coscienza »(1). Suppone dunque che la coscienza abbia bisogno di prova e di giustificazione, che la sua assoluta verità stia nel puro sapere. Questo si potrebbe accordare qualora il nostro filosofo non avesse identificati gli oggetti della coscienza colla stessa coscienza. Perocché se questi oggetti sono distinti da lei, in tal caso ella potrà trovare in essi, in alcuno di essi, la sua verità e la sua giustificazione. Cosí appunto accade nel nostro sistema, nel quale l' essere (la verità) sta presente alla coscienza senza immedesimarsi con essa, ed essendo quest' essere la verità, il primo lume, tutto viene per lui dimostrato: anche la coscienza riceve da lui la sua autorità, il suo valore. Ma se gli oggetti tutti si identificano colla coscienza, nulla piú resta di distinto da essa, onde possa mutuare la sua verità, e provare la sua veracità; perocché essi sono gli oggetti conosciuti, e gli oggetti conosciuti sono la coscienza. Ma tornando al sapere puro di Hegel che costituisce l' assoluta verità della coscienza, è egli questo sapere puro nella coscienza o fuori di essa? Il nostro filosofo dice, che il sapere puro è « « risultato dal sapere finito della coscienza » » [...OMISSIS...] ; dove alla coscienza attribuisce un sapere finito, prendendo la coscienza come sinonimo di sapere: all' incontro il sapere puro secondo lui è infinito. Quindi il puro sapere, essendo infinito, sembra fuori della coscienza, che è un sapere finito. Dice ancora che [...OMISSIS...] : dove sembrerebbe che la coscienza stessa si trovasse nell' assoluto sapere in cui è portata nel suo sviluppo. Ma veniamo piú d' appresso alle sentenze del nostro autore. Dopo aver detto che la filosofia deve cominciare dal puro sapere, paragonando il puro sapere coll' Io , cioè colla coscienza, dice che [...OMISSIS...] . Non approva quindi di cominciare la scienza dall' Io come fece Fichte. All' opposto si deve cominciare da un semplice dove non v' abbia oggetto distinto dal soggetto. Laonde dice, che l' Io non potrebbe essere principio della scienza, se non si divide dalla moltiplicità de' suoi oggetti, che il rende concreto, e che cosí separato non è piú l' Io comune. [...OMISSIS...] . Al qual ragionamento noi opponiamo le seguenti osservazioni: L' Io è un principio razionale riflesso «( Psicol. , 61 sgg.) ». Non v' ha alcuna speranza di far cessare in lui la distinzione del soggettivo e dell' oggettivo, perché un principio non è intellettuale o razionale, se non a questa condizione, che egli abbia un oggetto da intuire o percepire, il quale nella sua forma di oggetto da lui si distingue. La distinzione dell' oggetto e del soggetto cessa soltanto allora che cessa l' intelligenza. Di che si raccoglie che il concetto fisso nella mente del nostro filosofo non poté essere altro che quello della materia e del senso, dove solo è l' abolizione del soggettivo e dell' oggettivo, posta da lui a condizione del suo puro sapere. Non vi ha dunque un atto, il quale possa sollevare il concetto dell' Io al puro sapere, come il nostro autore s' esprime, senza che ne rimanga affatto distrutto l' Io medesimo. Del resto egli è vero che in quel puro sapere, onde incomincia la scienza, non cade la distinzione dell' oggetto e del soggetto; ma è vero in tutt' altro senso, e a tutt' altra condizione. Cessa la distinzione nel puro sapere, perché non rimane altro che l' oggetto intuíto: il soggetto vi è del tutto escluso. Onde rimane escluso il Sé dalla sua cognizione; il Sé vi è solo come operante, non come conosciuto. E questo si avvera prima di tutto nell' intuizione di quell' essere essenziale, che è il vero principio della scienza. Dove si noti che quando noi diciamo che l' oggetto permane, diciamo ciò, intendendo che non rimane come oggetto, involgendo questo vocabolo la relazione col soggetto, ma vogliamo dire che rimane quell' ente, al quale poscia la riflessione attribuisce la qualità e denominazione d' oggetto, inserendolo al suo soggetto. Ora questo che facciamo noi, non può fare Hegel, il quale immedesima l' oggetto colla coscienza. Egli volendo evitare una dualità in quel primo vero onde incomincia la scienza, e perciò sbrigarsi dalla distinzione dell' oggetto e del soggetto, che fa? Immagina che questi possano andare insieme, e svariarsi l' uno nell' altro, ciò che è assurdo ed affatto opposto alla natura della cosa. E perché viene egli a cosí arbitrario partito? Per amore del suo sistema di cavare dal primo vero non pure tutta la scienza, ma tutte le cose reali e sussistenti altresí, quasiché l' essere non avesse altro modo che il scientifico. A tal fine doveva dunque stabilire un principio che contenesse il germe dell' ideale e del reale, e che non fosse tuttavia né l' uno, né l' altro, ma virtualmente fosse l' uno e l' altro: questo principio, non trovandolo, se lo immaginò. E pure aveva egli stesso detto questa buona sentenza che [...OMISSIS...] ; ma non gli valse. Egli si ridusse alla vuota visione degl' indiani filosofi, dove scomparisce ogni ente determinato, e credette d' essersi rinvenuto in essa al fonte di tutte le cose e di tutte insieme le idee. [...OMISSIS...] . Vi ha bensí un pensare puro; ma questo altro non è che il pensare naturale all' uomo, l' intuizione dell' Essere ideale indeterminato. Nel puro essere non è ancora compreso l' ente pensante, né è compresa alcuna realità, e però l' uomo pensando all' essere non pensa a soggetto, e non pensa alla relazione che l' essere ha con sé pensante. Questa relazione la scopre in appresso per via di riflessione, ed è allora che l' essere intuíto è diverso e contrapposto a sé intuente: il che è quanto dire, lo ravvisa nella sua relazione di oggetto e soggetto. Nel puro semplice pensare non è ancora la coscienza incominciata. La coscienza dell' Indiano che nomina Brama, dicendo sempre: Om, Om, Om, può essere bensí illusa, ma non vuota. Può bensí l' Indiano contemplare, non pensare ad un oggetto determinato: ma se veramente pensa, egli deve avere un oggetto almeno indeterminato, avrà il tutto senza distinzione, avrà l' origine delle cose, o checché altro egli attribuisca al suo Brama. Ora un oggetto anche indeterminato, non è certamente un nulla: perché neppure un concetto o un astratto è nulla: ed appunto perché non è il nulla, appunto perché è un oggetto, egli si distingue dall' atto del pensare, che ha condizione di soggetto. Fa meraviglia che Hegel non abbia potuto capire che chi pensa, in qualsivoglia maniera pensi, dee pensare ad un oggetto; che un oggetto indeterminato dee ancora essere un oggetto; e che se si toglie via tutto da quest' oggetto, si toglie con ciò stesso anche la possibilità di pensarlo: se poi resta qualche cosa, incontanente sopravviene la dualità del pensare e del suo oggetto sintesizzanti. Ma viemaggiore è l' abuso ch' egli fa della parola coscienza , quasi fosse sinonimo di pensare. Il pensare può essere oggetto della coscienza, e appunto da ciò da lei si distingue. La coscienza è un pensare riflesso, pel quale l' uomo sa ciò che passa in sé. Quindi è una grossolana illusione di credere, come fa Hegel, che la pura e vuota coscienza, possa essere cosí immediata, onde possa cominciare la filosofia. Ancora egli è assurdo parlare della coscienza vuota , quasi potesse essere senza oggetto. Falso è poi che la coscienza possa avere per oggetto immediato un indeterminato; dappoiché la coscienza ha sempre per suo oggetto lo stesso principio intellettuale e razionale a cui la coscienza appartiene, esprimendosi coi vocaboli sé, me, io , e simili. Noi stessi dunque siamo l' oggetto della coscienza, e noi siamo enti attuali, sussistenti, e determinati, benché possiamo essere consci di pensare ad oggetti indeterminati. Finalmente, mai e poi mai si potrà dire che questa coscienza vuota immaginata da' filosofi tedeschi sia l' Essere, l' essere puro; questo è l' oggetto del pensare, non della coscienza: e l' oggetto del pensare è distinto per sua propria natura inconfusibile coll' atto del pensare. Vi ha dunque difetto totale di analisi nel nostro filosofo: ond' avviene che egli confonde in uno i concetti piú disparati. Ora in questa confusione appunto egli si lusinga di aver trovato il principio della scienza e del mondo. Perocché a lui pare di aver fatta scomparire ogni distinzione fra soggetto ed oggetto, fra reale e ideale, fra sapere ed essere, fra essere e nulla; e che tuttavia gli rimanga in mano un germe fecondo, avente un movimento dialettico che riproduce dal proprio seno, dopo averle ingoiate, tutte quelle distinzioni. Ma in sostanza, se si désse veramente, o se concepir si potesse quella coscienza vuota, altro ella non sarebbe che un soggettivo, o il concetto astratto di un soggettivo, affatto incapace di produrre cosa alcuna da sé medesimo. E questo soggettivo dimostrerebbe nuovamente che il sistema hegeliano pecca di soggettivismo fino dalla prima sua mossa: perché quella coscienza non può essere finalmente altro che il concetto del soggetto intuente con astrazione da ogni oggetto. Coll' invece cominciare dall' oggetto, che solo è essere puro, incomincia da un soggetto, ossia dal principio soggettivo astratto, e il fa produrre fuori di sé tutti i concetti e le cose (gli oggetti) che si possono pensare a lui contrapposti (1). Ma, che questi sieno per loro natura a lui contrapposti, è un fatto; ch' egli poi li produca per proprio spontaneo e necessario movimento, non si dimostra in tutte l' opere voluminose del nostro filosofo; onde il passaggio, la pretesa loro generazione, il mirabile loro parto dalla coscienza vuota, non si vede, né niuna levatrice v' ebbe mai assistito, né può quindi attestarlo, foss' anco la madre di Socrate. Altrove abbiamo indicato, che i pensamenti ontologici, fino al cominciamento della filosofia in Italia, si divisero in tre sentenze. Alcuni sostennero che l' essere era uno ed immobile: tutto il resto esser fenomeno e illusione. Altri dissero che non s' aveano se non esseri moltiplici, trascorrenti, continuamente mobili, nascenti e morienti. Finalmente la filosofia matura di Platone e di Aristotele disse che v' avea l' uno e l' altro essere. Hegel retrocede e s' aduna colla seconda schiera. Infatti ponendo Hegel a principio della scienza il diventare , egli non potea piú riconoscere nulla di veramente stabile ed assoluto. Egli ci dice che « non vi è nulla né in cielo, né nella natura, né nello spirito, né ovunque sia, che non contenga tanto l' immediatità «( Unmittelbarkeit ) », quanto la mediazione «( Vermittelung ) », cosicché queste due determinazioni si mostrano come indivise e indivisibili , e la loro opposizione «( Gegensatz ) », come un nulla «( Nichtiges ) » »(1). Di vero, se per immediatità e per mediazione il nostro filosofo intendesse semplici vedute dello spirito, volendo significare che ogni cosa può essere dallo spirito pensata in modo immediato e in modo mediato, considerandosi come un immediato quand' ella si prende quale principio onde dedurre altre cognizioni, e come mediato quando si deriva e deduce essa stessa da un altro; in qualche modo potrebbesi lasciar passare quella sentenza. Ma no: ché per Hegel la veduta dello spirito è la stessa cosa, lo stesso oggetto: la diversità di veduta viene cosí trasportata nell' oggetto. Onde tutto, anche Dio stesso è : ed intanto è un immediato; e diventa , s' annulla, e torna a diventare: e intanto è un mediato. Tale è il circolo dialettico di Hegel. Laonde all' essere stesso, e però ad ogni essere, Hegel attribuisce di fare equazione al nulla. [...OMISSIS...] : di maniera che Dio stesso non avrebbe la verità se non isvanisse nel nulla; e alla sua volta non diventasse: lo stesso fluire di tutte le cose è il divino di Hegel. Hegel fu accusato di Panteismo e di Ateismo: vediamo se la cosa sia fondata. I sistemi di Panteismo si possono dividere in due classi: tutti fanno di Dio e del mondo una sola sostanza: ma alcuni a questa loro unica sostanza lasciano tutti gli attributi divini; altri le tolgono questi attributi e non le lasciano che quei soli che appartengono alle nature limitate. I primi sono manifestamente incoerenti, perocché gli attributi divini escludono quelli delle nature limitate, e il legare insieme cose sí opposte è contraddizione manifestissima. Tuttavia, non annullando essi direttamente le proprieta di Dio, non si possono dire assolutamente atei; benché il loro sistema tenga in seno il germe dell' ateismo, bastando levargli la contraddizione grossolana in cui cadono, perché ne riesca un ateismo puro. Ai secondi assai meglio conviene il titolo di atei che di panteisti, perocché in fatto annullano i caratteri della divina natura. Ora vediamo se all' una o all' altra classe di questi s' accosti il nostro filosofo. Tutte le cose si riducono alla sua idea assoluta: il movimento dialettico, che ha in se stessa, per via di negazione la trasforma in tutte le cose: ella è Dio, ella il Mondo, ella la Natura, ella lo Spirito. Tuttavia gli ripugna assai la parola di Panteista. Vediamo dunque com' egli se ne purghi: [...OMISSIS...] . Pianta dunque la sua difesa sulla definizione del Panteismo. Se questa definizione è accurata, egli se ne va netto ed assoluto, venendo tutta la colpa a ricadere su tutti gli altri uomini del mondo, i quali tengono che essere sia essere, e niente, niente. Perocché egli all' incontro tiene che essere sia niente, e niente sia essere, ed essere e niente sieno lo stesso, e costituiscano il diventare di tutte le cose. Dio stesso per lui diventa, come diventa il Mondo e lo Spirito. Ora, poscia che ciò che diventa non può essere Iddio, conseguita che, sebbene nel suo sistema tutto si riduce ad un solo principio, il diventare; tuttavia egli non sia panteista, perché Iddio manca affatto nel suo sistema, mancando la proprietà e il carattere di Dio di essere immutabile e non poter diventare cosa alcuna. In una parola egli si colloca cosí nella seconda classe de' Panteisti, che propriamente Atei devono denominarsi. Del resto noi abbiamo udito il nostro filosofo dichiarare che: [...OMISSIS...] . Né giova il dire che queste negazioni sono ne' limitati nostri concetti, perché Hegel nega questa limitazione del pensare e del concepire dell' uomo; e di questo appunto mena vanto, di aver tolto i confini all' umana mente, e d' esser giunto a trovare il pensare infinito: perocché, dice, l' infinito è il ragionevole , onde, secondo lui, il dire che la ragione è incapace di conoscere l' infinito, equivale a un dire che la ragione è incapace di conoscere il ragionevole, il che sarebbe assurdo! (2). Né vale il dire, che altro è la ragione assoluta che è quella di Dio, altro la ragione dell' uomo: perché Hegel attribuisce alla ragione il conoscere, o piuttosto l' essere o il far l' infinito, come cosa a lei essenziale; onde, là dove è la ragione, forz' è che sia l' infinito: la sua essenza è una sola. Perocché anco il filosofo che ragiona è la ragione stessa, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si è trasformata nel filosofo. Se non che supponiamo vero tutto ciò: che l' idea assoluta, negando se stessa, si sia trasformata nel signor Giorgio Guglielmo Federico Hegel. Ora quest' idea trasformata o è limitata, o illimitata ed infinita. Consideriamo i due lati di questo dilemma. Se ella è illimitata ed infinita, di conseguente è anche infallibile ed onniscia. Convien dunque dire, che il signor Hegel sia infallibile ed onniscio. E per la stessa identica ragione debbano essere infallibili, ed onniscŒ i suoi predecessori, ed ancora tutti gli umani individui. Ma questi diversi filosofi si negano e si accusano d' errore scambievolmente. O dunque tutti sono in errore, o ha ragione l' uno d' essi e torto gli altri. Nel primo caso la ragione trasformata de' filosofi non fa che cadere in errore, il che è assai peggio che l' esser solamente limitata. Nel secondo caso la ragione, contraddicendosi, mente a se stessa. Né gioverebbe ad Hegel rispondere, che, quando i filosofi si contraddicono, è la ragione, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si fa piú ricca, e solo quand' ella assorbe in sé ed abolisce queste contraddizioni, torna allo stato di idea assoluta. Poiché (lasciando stare il gergo frivolo di queste parole) rimane sempre a vedere se l' idea, che cosí si fa assoluta, è la mente de' filosofi che cosí opera, o non è questa mente. Se non è questa mente, rimane un mistero inesplicabile come Hegel, che è pure un filosofo individuo, sappia dire tutto ciò uscendo necessariamente da se stesso: per quale rivelazione? Se poi è la sua mente stessa, che fa tutto ciò: egli è evidente, che, per restituirsi allo stato d' idea assoluta, dee perdere la sua individualità, quella individualità che filosofeggia. Dee svanire il filosofo di Stuttgarda. Che diremo dunque al nostro filosofo? Diremo: tacete; parla l' idea assoluta, lasciatela far da sé. Non vi sono orecchi che l' ascoltino, è vero, poiché se v' avessero, ella si sarebbe trasformata in orecchi, sarebbe caduta nello spazio, nel tempo, non sarebbe piú assoluta. Ecco il requiem aeternam della filosofia. Passiamo all' altro membro del dilemma. Se l' idea trasformata, cosí trasformandosi si è limitata, in tal caso la ragione individuale del filosofo urta nel limite dell' infinito, e non è piú vero che il ragionevole del filosofo sia l' infinito, e non s' abbia altro infinito che questo. Rotta questa maglia, tutta la calzetta filosofica del nostro autore si discioglie fino all' ultimo punto. Ma consideriamo come il nostro filosofo aguzzi l' ingegno a voler provare che anche in Dio vi ha il negativo. [...OMISSIS...] . Di che egli deduce, che il vero concetto dell' infinito e la sua assoluta unità non è altro che temperare, vicendevolmente limitare, mescolare (2); e conchiude che dunque Iddio [...OMISSIS...] . Ora è evidente, che i ragionamenti che fa Hegel per dimostrare che in Dio cade il negativo, e che s' identifica col niente, non possono generare alcuna convinzione: perché tai ragionamenti partono tutti dal principio, supposto come certo, che le negazioni e determinazioni che fa l' umano intelletto quando dapprima tenta formarsi il concetto del sommo Essere, sono quelle che producono questo stesso Essere sommo, e insieme con lui il suo concetto. Quei ragionamenti adunque suppongono dimostrato che il pensare umano produca Iddio producendo il suo concetto; e le negazioni e astrazioni del pensare umano sieno gli elementi che costituiscono Iddio. A questa condizione quei ragionari hanno valore. Ma si osservi con quale confidente sicurezza, egli conchiude che se gli attributi di Dio debbano perdere la loro distinzione e ridursi in una unica essenza, non se ne possa aver altro che l' essere astratto vuoto di contenuto e però pari al niente: che non si possa adunare quegli attributi nell' essenza divina se non per via dell' astrazione che lascia da parte la differenza e serba solo quello che hanno di comune. Egli non rinviene colla sua perspicacia altra via d' unirsi a quegli attributi se non solo per astrazione; non ne sospetta neppure un' altra. E qui è da notarsi, che non è neppur necessario saper indicare un' altra via di identificazione dei sopraddetti attributi, ma basta che sia possibile avervene alcuna, benché incognita, acciocché la sentenza di Hegel ne vada in fumo: giacché questa non ha forza se non a questa sola condizione che « non ve ne possa essere alcun' altra ». Perocché si può in primo luogo dimostrare che per la via di Hegel non si perviene ad un essere perfetto sussistente e attualmente infinito, cioè a Dio; e però la sua via non condurrebbe ad altro se non a stabilire l' ateismo. Di poi non è impossibile il dimostrare che l' unificazione di quegli attributi, come non si può fare per via d' astrazione, perché l' astratto essere o anco l' astratta perfezione non è la loro unificazione, ma unicamente la loro abolizione; cosí si deve poter fare unicamente per via d' integrazione , la quale senza loro tor nulla di positivo, loro si aggiunge, e non mai per via di negazione; non è impossibile il dare in qualche modo ad intendere come far si possa questa integrazione, che pur supera cotanto l' umana esperienza. Già i teologi s' ingegnarono di farla intendere per via di analogie. Ma la migliore delle analogie, se ella non può fors' anco aspirare al titolo di vera similitudine, si è quella del principio razionale, il quale racchiude in sé tutte le entità sentite sotto la condizione di enti: dove accade che l' unica virtú dell' intelligenza sia anco senso, ma in un modo eminente «( Psicologia , 255 7 264) ». Oltrecciò egli è a stupirsi che il nostro filosofo sia cosí rozzo nell' analisi delle idee. Perocché egli si contenta di pigliare gli attributi della bontà, della sapienza, della potenza, ecc. al modo volgare, supponendoli tante essenze reali per sé separate. Che se invece ei si fosse data la cura di sottometterli all' analisi per ben conoscerne l' intima natura, avrebbe trovato ch' essi sono, piú che altro, relazioni dell' essenza divina al creato: nelle quali relazioni un termine, cioè Iddio, è semplicissimo; le creature sono molteplici, e di molteplici doti fornite. Onde niente vieta che le relazioni di Dio alle creature sieno molte, senza bisogno che questa moltiplicità cada in Dio. La scuola dei sofisti aperta da Kant in Germania ha formato dei pensatori, ciascuno dei quali vuol essere originale ed unico trovatore della vera teoria: il che non toglie che rubino là dove possono. Cosí si scorge, per poco che si consideri, come il pensiero motore della mente di Hegel nella formazione della sua logica fu questo principio di Spinoza: Omnis determinatio est negatio . Qui egli prese la sua negazione, quel portentoso mediatore che trasforma le cose, le une nelle altre; l' idea assoluta in tutti gli enti, e tutti gli enti nell' idea assoluta. Egli stesso parla di quella sentenza dello Spinoza dichiarandola d' infinita importanza (1). Dice che l' unica sostanza è la necessaria conseguenza di tale proposizione (2). Ma quanto non è equivoca e capricciosa una tale sentenza! Se ella si prende alla lettera, la parola determinatio e la parola negatio non significano che operazioni soggettive, le quali non appartengono all' oggetto. Onde se io determino, se nego qualche cosa in un ente, queste operazioni, che fo io, non alterano l' ente; e non pongono in lui nulla, o nulla realmente a lui tolgono: tutt' al più il mio concetto si rimane determinato soggettivamente. E quest' è appunto l' errore fondamentale di Hegel di fare del concetto e dell' essere una cosa sola, o per dir meglio, di supporlo. E pure questa identità del concetto e dell' essere, ch' ei pone a principio della logica (3), è il punto principale della questione che dovrebbe esser provato a rigore, acciocché tutto il castello, privo di solido fondamento, non vada a terra. Se dunque il determinare e il negare è un operare del soggetto determinante e negante, quest' operare non può produrre che un conoscere soggettivo. Rimane adunque l' altra questione, rimane a sapere, mediante la ragione integratrice, di quanto questo nostro conoscere soggettivo è aggiustato e conforme all' oggetto conosciuto, e di quanto non è, ma solo è una via imperfetta di conoscere, la cui imperfezione rimane nel soggetto e non passa all' oggetto. Questa questione non si può evitare né pure secondo i principŒ di Hegel, perché anche questo filosofo riconosce diverse maniere di pensare: il pensare comune, il dialettico e lo speculativo o razionale, al qual ultimo solo attribuisce il cogliere il vero. Rimane adunque ancora la questione: « Se ogni determinazione ed ogni negazione appartengono al pensare speculativo », e lo stesso Hegel dice di no; « se appartengono al pensare dialettico », e questo stesso non vorrebbe Hegel stesso sostenere, io mi credo; perocché con ciò verrebbe a disconoscere che anche il pensare comune nega e determina, cioè verrebbe a disconoscere un fatto evidente ed innegabile. Vi hanno dunque delle determinazioni e negazioni che finiscono nel soggetto; sono forme e modi limitati di concepire, e nulla affatto pongono di negativo nell' oggetto. Starà adunque a vedere quali sono. Ora Hegel stesso confessa che la negazione di negazione è un' affermazione (1), sebbene abbia, rispetto al soggetto che la fa, forma di negazione. E che cosí vuol dire essere un' affermazione? Vuol dire che nell' oggetto di cui si nega qualche negazione, non s' intende con ciò di negar cosa alcuna, ma di riconoscervi anzi il positivo. Ora tali appunto sono le negazioni che la mente umana fa intorno a Dio per formarsene il concetto. Queste non pongono nulla affatto di negativo in Dio, ma altro non fanno che negare il negativo, e però, vi riconoscono tutto il positivo senza elemento alcuno di negativo, che incontanente distruggerebbe il divino concetto. Dunque ella è falsa la sentenza di Spinoza che ogni determinazione è una negazione in senso oggettivo, com' egli la prende; tutt' al piú può essere vera in senso soggettivo. Sia pure l' operazione della mente umana negativa, cioè abbia pur la forma di negazione di negazioni: questa non è che la via che ella dee fare per la sua limitazione: non è l' oggetto, il termine a cui vuol pervenire: le negazioni rimangono anteriori ad esso termine. Erra dunque Hegel e si contraddice quando vuol provare che in Dio stesso v' è il niente: perocché egli con ciò trasporta nell' oggetto le operazioni del soggettivo pensare. Dalla maniera di questo pensare non si può ridurre quella dell' oggetto: dunque, se nel pensare vi è la forma negativa mescolata colla forma positiva, non ne viene per questo la conseguenza hegeliana che [...OMISSIS...] ; non ne viene « che il risultato di questo pensare sia identico al suo principio », il qual principio, secondo Hegel, è l' essere uguale al niente, il diventare (2); non ne viene che l' unità dell' essere e del niente sia la definizione dell' assoluto (3): dunque il diventare è un concetto imperfetto, appartenente al pensar comune , e non piú al pensare speculativo . L' Hegel dunque si propone di trovare il pensare speculativo razionale ultimo perfetto, e poi scambia questo pensare col comune imperfetto, e col dialettico che non è altro che la via a quello, sulla qual via rimangono le negazioni senza fondersi nell' ultimo oggetto. Dunque l' oggetto non essendo identico ad un tale pensare, egli è da un tale pensare indipendente. L' oggetto è sempre identico; il pensare muta e rimuta, e si perfeziona in ragione che accoglie piú in sé dell' oggetto non mutabile (1). Dunque l' hegelianismo è insussistente: reca ne' suoi visceri i germi della sua assoluta confutazione e distruzione. La via dunque tenuta dall' Hegel non conduce a rinvenire la soluzione del problema dialettico che ci proponemmo. Cercavamo se dal pensiero dipende la pluralità degli enti e delle entità. Abbiamo già veduto, che non è il pensiero, e molto meno il movimento del pensiero, quello che costituisce la trinità delle forme dell' essere. Ove si voglia assegnare al pensiero il suo posto in dette tre forme, conviene collocarlo nella categoria dell' essere reale, perocché il pensiero è un atto del soggetto, e il soggetto è reale, come pur sono reali i suoi atti. Vero è che il pensiero intuente quand' è diretto, risiede cosí fattamente nel suo oggetto che non fa ritorno su di sé: onde non conosce se stesso, ma l' oggetto, l' essere. Questo fatto ingannò Giorgio Hegel; il quale ne indusse che in tal atto il pensiero è abolito, e non rimane piú che l' essere . Ma l' unica conseguenza che si può raccogliere da quel fatto si è che l' essere è il solo cognito , il pensiero rimane incognito . Ma ne viene forse ch' egli non sia piú? Questo ne verrebbe qualora fosse vero il supposto « « ciò che non è cognito non è » ». Tale è in fatto, a ben considerare, il continuo supposto hegeliano: ma quel supposto che cosa è se non ciò appunto che si deve provare? Di piú, quel supposto, si può dimostrare del tutto falso. Infatti dopo l' atto diretto del pensiero affissato nell' essere, sopravviene nell' uomo l' atto riflesso per mezzo del quale si conosce lo stesso pensiero. Nella riflessione sul pensiero diretto quali sono gli oggetti? Questi sono due: cioè il pensiero diretto e l' essere suo oggetto. Il pensiero è azione : e l' oggetto non è azione, ma puramente essere . Ora, se la riflessione rende cognito il pensiero che prima era incognito, dunque il pensiero esisteva prima, perché non si può rendere cognito ciò che non esiste. Dunque poteva esistere un pensiero incognito di fronte all' essere cognito . Dunque è falso il supposto che ciò che è incognito non ancora esista. Si noti che questa dimostrazione s' appoggia al principio già stabilito che in ogni sistema conviene prima di tutto credere al pensiero. Ora la riflessione è anch' ella pensiero; pensiero della stessa natura del pensiero diretto, non variando dal pensiero diretto se non per la diversità de' suoi oggetti. Se non si volesse adunque prestar fede al pensiero riflesso, converrebbe egualmente negar fede al pensiero diretto; e quindi non si crederebbe piú al pensiero: non sarebbe piú possibile la filosofia, né il ragionamento. La quale considerazione abbatte dalle fondamenta il sistema dell' identità assoluta, e ogni altro de' falsi7oggettivisti. I quali attribuiscono alla riflessione il distinguere le cose e il moltiplicarle. Onde fanno che la riflessione sia quasi la creatrice della pluralità delle cose. Ma essi confondono l' ordine degli enti cogniti coll' ordine semplicemente degli enti. Poiché è bensí vero che la pluralità degli enti cogniti nasce dalla riflessione, ma non è vero che la pluralità degli enti, per sé, sia produzione del pensiero riflesso. Perocché, o si crede al pensiero riflesso, o no. Se non gli si crede, si dee negare fede ad ogni pensiero, ed allora è resa impossibile la scienza; se gli si crede, egli ci attesta due cose innegabili: la prima che non produce, ma solo conosce; la seconda che conoscendo non altera l' oggetto, ma il lascia tale quale è in se stesso (1). L' una e l' altra delle quali cose suppone che la pluralità degli enti preceda la riflessione, sia indipendente e sia una condizione necessaria di questa. La stessa cosa si rileva qualora si considera, che, se la riflessione producesse la pluralità degli enti, questi dovrebbero prima esser oggetto del pensiero diretto sotto la forma di unità. Ma il fatto ci dà il contrario; poiché nell' oggetto del pensiero diretto vi ha l' essere come unico cognito, senza il pensiero che rimane incognito. Dunque, la riflessione, di cui parliamo, non divide l' oggetto del pensiero diretto in piú; ma lasciandolo stare qual' è, vi aggiunge un oggetto nuovo, cioè il pensiero diretto oggettivato. La riflessione dunque è un atto della stessa natura del pensiero diretto: colla sola differenza che il pensiero diretto ha un oggetto solo; e la riflessione ne ha due legati insieme: cioè lo stesso oggetto, piú il pensiero che lo contempla. Se dunque il pensiero diretto non produce il suo oggetto, neppure la riflessione può produrre i suoi due oggetti e la loro relazione, ma questa pluralità d' oggetti dee antecedere la riflessione. Un' altra prova dello stesso vero si trae dalla dottrina intorno a Dio. Egli è fuori di controversia, che in Dio non v' ha riflessione, ma solo pensiero diretto. Se dunque fosse vero, che la riflessione cagionasse la pluralità degli enti, ne verrebbe l' assurdo, che Iddio non conoscerebbe la loro pluralità. Ma non potrebb' essere che l' ente stesso fosse in fine non altro che il pensiero? E da prima concediamo, che, essendo l' essere, pigliato nel suo puro concetto, indeterminato, non si porge immediatamente come assurda la sentenza che l' essere abbia per sua determinazione essenziale la natura di pensiero. L' essere è un atto: il primo atto: non par dunque assurdo, che, cercandosi che cosa sia determinatamente questo primo atto, si trovi che egli è pensiero, giacché il pensiero è anch' egli un atto. In tal caso la distinzione tra l' essere e il pensiero sarebbe unicamente mentale. Ma l' analisi del pensiero dimostra che la cosa non va cosí; e a quest' analisi si deve credere, poiché ella non è che la riflessione, che distingue le differenze e non le crea. E veramente noi già vedemmo, che l' essenza stessa del pensiero importa una dualità: cioè un' azione e un oggetto ; e che l' azione non è l' oggetto, né l' oggetto come oggetto è l' azione: il pensiero è azione; l' oggetto, non essendo azione, conseguentemente non è pensiero. Ma se il pensiero ed il suo oggetto, l' ente, sono distinti hanno fra loro nondimeno una essenziale relazione, cosí fattamente che l' uno non può star senza l' altro. I filosofi della Germania sognarono un pensiero senza oggetto (1), ma un tal concetto è del tutto assurdo: nella dualità del pensiero sta la sua differenza dal sentimento, il quale è uno. Del pari, sognarono l' oggetto senza pensiero, l' essere puro di Hegel. Ma l' essere non si può concepire senza che sia oggetto. Che se la prima condizione dell' essere è quest' appunto di potersi concepire, che ne costituisce la possibilità logica e metafisica; dunque egli per sua essenza è oggetto. E se per sua essenza è oggetto, dunque s' appoggia al pensiero, cioè al principio che il concepisce. Tenendo innanzi agli occhi questa verità, ne abbiamo una chiara dimostrazione della limitazione del pensare umano. Poiché vedemmo che il pensare umano è incognito a sé medesimo, e non si rende cognito se non per via di un altro atto di pensiero riflesso. Questo pensiero riflesso è ancora incognito a se stesso, e ci vuole un' altra riflessione acciocché si possa dall' uomo conoscere. E cosí è da dirsi di tutti gli atti riflessi, l' ultimo de' quali si resta perpetuamente incognito, perché non si oggettiva. Ma pensiero e realità sono tutti gli atti del pensiero appartenenti al soggetto pensante, che è l' ente reale. Quest' ente reale è; ma noi vedemmo che niente può essere se non è oggetto, perché la qualità di oggetto è essenziale all' essere. Il pensiero umano adunque non abbraccia tutto l' essere, ma una porzione si rimane fuori di lui: dunque il pensiero umano è limitato e inadeguato all' essere reale in tutta la sua estensione. Il che novamente abbatte que' sistemi che mettono l' umano pensiero in capo a tutto: lo vogliono infinito, lo divinizzano, e finiscono nell' ignominioso orgoglio dell' antropolatria. E questo stesso ragionamento ci condusse a conoscere l' esistenza di una mente suprema. Poiché ce ne dà in mano questo argomento: 1) Ogni ente reale deve essere conosciuto: poiché tutto ciò che è, è possibile; e tutto ciò che è possibile, è tale, perché è concepito da una mente: non può esser dunque alcuna cosa reale se non a condizione che sia oggetto d' una mente. 2) Ma molte cose reali si dànno, che non sono conosciute dalla mente umana. 3) Dunque vi ha una mente superiore, che conosce tutte le cose reali, tutta affatto la realità, compreso sé medesima; che la conosce senza riflessione, giacché ogni riflessione esclude se stessa dall' oggetto cognito; che la conosce ab aeterno , poiché se vi fosse stato un tempo, in cui la realità non fosse stata conosciuta, ella sarebbe stata impossibile, e non si sarebbe potuta conoscere giammai; che conosce tutta la realità anche futura, e perciò tutta la realità possibile, la quale è infinita. Ora, questa mente eterna ed infinita dicesi Dio. Or, come abbiam veduto che il pensiero sintesizza col suo oggetto, cosí viceversa l' oggetto sintesizza col pensiero. Questa relazione essenziale è già inchiusa nel significato della parola oggetto . Ma qualunque cosa s' esprima con un nome somministrato da un linguaggio qualunque, sempre si esprime la cosa sotto forma di un oggetto. Quindi procede che il pensiero e il suo oggetto sono due entità distintissime, ma però tali che l' una è sempre in presenza dell' altra, sicché né si dà pensiero senza oggetto, né oggetto senza pensiero per la relazione essenziale che li congiunge. Ma che cosa è l' oggetto? - Noi distinguiamo l' oggetto per sé dall' oggettivato, che è l' oggetto per partecipazione. Quand' io sto osservando una colonna di porfido, quali atti fa la mia mente? Quali notizie ne trae? La mia mente fa due cose: 1) ha un oggetto; 2) e attribuisce a quest' oggetto una potenza d' azione attuale sui miei sensi e sopra i corpi che lo accostano, la quale esterna azione tutta presa insieme dicesi reale sussistenza . La reale sussistenza adunque si riferisce al sentimento: l' oggetto proprio della mente non è che la colonna con tutti i suoi accidenti. Questa colonna co' suoi accidenti, se si divide dalla sussistenza, cioè dalla reale attività sul sentimento, rimane ancora, ma rimane non altro che una colonna ideale, l' essenza della colonna presente alla mente. Quest' essenza è per sé oggetto. Alla colonna, dunque, in quant' è per sé oggetto, non appartiene la sussistenza: la sussistenza adunque della colonna non è per sé oggetto. E tuttavia anche la sussistenza può diventare oggetto per partecipazione: il che si dice essere oggettivata. La sussistenza si oggettiva congiungendosi all' oggetto, con una maniera speciale, che qui descriveremo. Il principio umano è razionale; ma al principio razionale costituente l' uomo è naturalmente congiunta un' attività sensitiva, che da se stessa non è umana, ma dicesi umana in quanto è unita e sottostà al principio razionale. Questo sentimento, come pure ogni altro sentimento, presta materia alla cognizione umana. Ma il sentimento non si fa materia alla cognizione umana, se non quando il principio razionale con un atto suo proprio lo percepisce. Tale atto è duplice: e noi gli abbiamo imposto i nomi di universalizzazione , che è una funzione speciale dell' intuizione, e di affermazione . La materia del conoscere data dal sentimento viene oggettivata coll' universalizzazione, e non coll' affermazione. Infatti, che cosa è l' oggetto? Egli è un ente o un' entità considerata dall' intendimento nella sua pura essenza. Dunque, quando considero la colonna di porfido, ho oggettivato colla mente tutto ciò che mi ha somministrato il senso. Ho considerato quella pietra nella sua possibilità. Formato una volta nel mio intelletto un tale pensiero, l' azione della colonna su' miei sensi può cessare del tutto, la stessa colonna può essere annullata. L' oggetto del mio pensiero rimane tuttavia. L' oggetto del mio pensiero è bensí la colonna sensibile, ma solo nella sua possibilità, non nella sua realità: la realità dunque, l' azione attuale e reale, è cosa straniera all' oggetto del pensiero, giace fuori di quest' oggetto; ma la possibilità di tutte queste cose entra nell' oggetto. Ma qualora la colonna sensibile mi cagioni attualmente le sensazioni, allora non solo ne conosco l' essenza, ma ben anco dico: « quest' essenza di colonna, quest' oggetto possibile, non è soltanto possibile, ma è attualmente sussistente ed operante in me ». Con dir questo non ho mutata l' essenza; ma di quest' oggetto ho predicato l' attualità. Si dirà: ma se l' oggetto è divenuto reale, se acquistò l' attualità, non s' è egli aumentato con ciò stesso? - No; qui è il punto piú difficile ad asseguirsi. Quand' io pensavo la colonna nella sua pura essenza, io pensavo anche la sua attualità e realità, ma non la sentivo: ciò che mancava non era che il sentimento, e il solo sentimento è per se stesso fuori della sfera della cognizione, è un eterogeneo: tutto ciò dunque che è per sé conoscibile nella colonna, io lo possedevo nell' oggetto. L' attualità e la realità è conosciuta appieno dalla mente che ne contempla la natura. Dunque l' affermazione di questo sentimento non aggiunge nulla all' oggetto della mente, neppure la cognizione dell' attualità e della realità; ma aggiunge qualche cosa al soggetto uomo, il quale non è solamente mente, ma mente unita al sentimento (1). L' oggetto dunque essenziale è l' essere ideale, o sia puro da ogni limitazione, o sia limitato dalla relazione sua al reale limitato che nel modo detto si oggettiva. Un recente scrittore, disconoscendo questa verità la travolge siffattamente, che, il reale egli afferma essere il solo oggetto e dichiara soggettivo il puro ideale: cioè a dire, quello che è oggettivo lo fa soggettivo, e viceversa. Primieramente egli tolse dai sensisti l' erroneo pregiudizio che l' essere ideale si faccia per via d' astrazione (1). Di poi non s' accorse che anzi i veri astratti sono per sé oggetti, e che il soggetto intuente non è autore di essi, ma unicamente della loro limitazione e determinazione: onde questa si può dir soggettiva, ma non l' astratto in se stesso (2). Su questi due errori è fondato il paralogismo su cui cammina tutta l' opera sua Degli errori , ecc.; la quale tende a provare che l' essere ideale è cosa soggettiva, accagionandoci poi di panteismo e d' altri assurdi, perché diamo a ciò che è soggettivo attributi divini. Il quale argomento a troppo maggior ragione si rivolge contro di lui, poiché, divinizzando egli il reale, che è veramente soggettivo, e facendo che l' ideale vero oggetto sia opera della mente umana, confonde il divino coll' umano e l' umano col divino (1). Convien dunque conchiudere che l' essere ideale non è produzione della mente astraente, non è opera della dialettica, ma è per sé distinto dall' essere reale. Quelli che negarono non solo l' astratto, ma l' universale, cioè l' ideale, come cosa per sé esistente, non sapendo concepire altro che il reale a cui tutto vogliono ridurre: sogliono usare del sofisma detto da noi del Creatore e della creatura . Questo sofisma consisteva in questo dilemma: « « tutto ciò che è, è Creatore o creatura » ». Onde deducevano che chi pone l' ideale essere qualche cosa distinto per se stesso dal reale lo dovevano dichiarar Dio. Ma quel sofisma antico si scioglie con una distinzione pure antica, da noi piú volte adoperata, fra Dio e le cose divine : poiché le idee sono cose divine, appartenenze di Dio e riducibili in Dio: però non viene che sieno Dio nel loro stato proprio d' idee. I platonici, lungi dal voler negare l' ideale, lo innalzarono ad essere Dio stesso, onde venne prima quel razionalismo che, cangiando Iddio in un' idea, riduce tutta la comunicazione coll' Essere supremo a freddissime speculazioni ideali. Quindi la dialettica è divenuta per tali filosofi teologia, come divenne recentemente Ontologia allo Hegel e seguaci di lui. Ma egli era impossibile che questi filosofi, i quali dall' aver veduto che nell' idea sta qualche cosa di divino, erano corsi a conchiudere che l' ideale stesso è Dio, avessero cosí ferma e costante la mente in questo primo loro concetto. Ostava a ciò primieramente il non essersi ancora marcata la distinzione fra l' ideale e il reale. Dipoi il comun senso concepiva Iddio come un realissimo. Laonde, senza che pur se ne accorgessero, nel loro Dio ideale introdussero tutte le proprietà del reale; e le idee furono tosto cangiate in anime, eroi, deità, supremi Iddii. Ora, posciaché il commercio dell' uomo colle idee è frequentissimo e naturale, ne doveva venire, e ne venne la conseguenza che si supponessero frequenti e naturali comunicazioni con Dio e cogli Dei minori: onde tutte le superstizioni degli ultimi platonici, la Teurgía e la magía. Ma per tornare a coloro che tolgono via l' essere ideale per sé essente dichiarandolo produzione dell' umano soggetto, essi si partono in due sètte. L' una e l' altra vuole che sia l' astrazione quella che lo produce: ma i primi danno per oggetto reale su cui opera l' astrazione, gli esseri finiti; quelli dell' altra sètta, che procede dall' Hegel, vogliono che l' astrazione si eserciti sull' essere reale infinito, che a detta di Vincenzo Gioberti è termine primitivo e naturale dell' umano intuito. I primi sono i sensisti e i nominali; i secondi denominarono il loro sistema ontoteismo. Gli uni e gli altri convengono finalmente in questo: che il solo reale per sé esiste, e l' ideale non è che un' astrazione, un essere mentale che dal reale non è per sé distinto, ma solo per opera della mente. Noi riconosciamo bensí una relazione essenziale dell' ideale colla mente; ma neghiamo che l' ideale, in quant' è oggetto, sia un prodotto della mente: anzi la mente umana da lui dipende e dalla sua presenza è creata. La mente poi divina è compresente al suo oggetto né a lui inferiore. E veramente se l' ideale o universale è puramente soggettiva produzione dell' umana mente, non è piú in lui che possiamo trovare un dettame autorevole per la nostra condotta morale: egli non può imporre obbligazione piú di quel che l' uomo possa imporla a se stesso (1). Quindi la legge dovrà ridursi al positivo volere di un essere reale, senza che le azioni abbiano in se stesse alcuna differenza che le rendano per sé buone o per sé cattive. Questa conseguenza fu tirata dal celebre discepolo di Scoto, Giovanni Occamo. Occamo fu seguitato da Pietro Alliaco, da Andrea di Castelnovo e da altri. L' eredità di questi passò in Gregorio da Rimini e in Gabriello Biel (2), e da questi in Lutero, divenuta cosí per qualche secolo proprietà dei Protestanti (3). Occamo e tutti i suoi successori furono condannati dalla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica aveva troppa ragione di condannare una dottrina che toglieva l' intrinseca distinzione fra le azioni buone e cattive. Perocché, se non vi ha differenza morale fra le azioni, ne procede che la volontà, la quale prescrive le une e condanna le altre, operi senza ragione, di puro arbitrio. Laonde si verrebbe cosí a spogliare la volontà dello stesso supremo Legislatore di ogni bontà e di ogni lume e per conseguente di ogni autorità. Le stesse leggi positive conviene che abbiano in qualche modo un fine buono, altrimenti ne cessa la possibilità. Dee considerarsi attentamente che fra la volontà del legislatore e ciò che essa comanda o proibisce passa quello stesso sintesismo che trovasi tra l' intelletto e il suo oggetto l' ente: poiché la volontà è la stessa intelligenza in quant' è attiva; e il bene, oggetto necessario di lei, è lo stesso ente termine di tale attività. Ora, se l' universale e l' ideale non è luce autorevole che dimostri il buono ed il reo, non vi ha piú ragione di ubbidire ad una volontà legislatrice. Ma se l' ideale non è un vero oggetto, ma è cosa soggettiva ed umana, cessa ogni suo valore di mostrare e di provare checchessia; quindi è tolta via l' autorità stessa della volontà divina. Doveva dunque la Chiesa cattolica condannare quel sistema dei Nominali. Ma l' errore di quelli che non riconoscono l' ente sotto altra forma per sé che quella della realità, racchiude in seno molt' altre conseguenze, sovversive de' principali dogmi del cristianesimo; onde la Chiesa fu mossa a ripetere piú volte la condanna di quel sistema (1). E veramente, se l' ente in se stesso non è che reale, come potranno distinguersi le tre divine persone senza cangiarle in tre Iddii? Il nominalista Roscelino si appigliò al Triteismo, argomentando appunto cosí: Il solo essere reale è per sé, e il reale è sempre singolare e individuale. I singolari individui niente hanno di comune, poiché il comune è universale, e quindi ideale, che non è per sé: dunque le persone divine sono tre individui uguali, bensí, ma non aventi in comune la stessa identica natura. Un altro errore del Roscelino, conseguente al primo, si era: che col Figlio si fossero incarnate le altre due persone (2). Laonde sant' Anselmo chiamò i nominali dialetticamente eretici (3). E qui vuolsi diligentemente notare, che quelli che non riconoscono l' ideale come per sé distinto dal reale, distruggono il dogma della cristiana trinità: non già perché la divina natura sia qualche cosa d' ideale; ma piuttosto perché, distrutto l' ideale, non sono piú concepibili relazioni di sorta alcuna, né accidentali, né essenziali, né personali. Che anzi lo stesso Roscelino non fu abbastanza coerente all' error suo quando diede alle persone una uguale volontà e potenza (1). Ci son di quelli, che pretendono non avervi distinzione sostanziale fra il nominalismo e il concettualismo (2). Io credo che ci sia: credo che i nominali non riflettessero nemmanco al bisogno de' concetti, ma non s' avvisassero che i soli nomi potessero surrogare gli universali, onde sant' Anselmo li appella [...OMISSIS...] ; i concettualisti all' incontro s' accorgessero del bisogno de' concetti, ma li avessero come produzioni soggettive della mente. Per questo cadevano negli stessi errori teologici de' nominali, ovvero in errori simili, poiché, se l' essere ideale è un prodotto soggettivo, egli non è piú per sé ente distinto dal reale; il che equivale a negare la sua originale dignità, la sua divina natura. Se dunque la filosofia de' giorni nostri non ispezza il filo che la raggiunse a quella de' nostri maggiori; se vogliamo da' naufragŒ de' precedenti navigatori, dotati diligentemente in sulla carta, conservar memoria de' banchi in cui arenarono, e cosí render sicura la nostra filosofica navigazione: da quale epoca della storia filosofica potremo cavare migliori indirizzi, che dalle disputazioni, cioè, de' nominali, de' concettualisti e de' realisti, soprattutto poi dalle venerabili sentenze pronunciate in mezzo a quelle dispute dalla Chiesa? Non sarebbe egli tempo di sbandire oggimai dalla filosofia quel principio che produsse tante eresie? Or tuttavia, a che si riduce la filosofia de' moderni filosofi? Ella ricade perpetuamente in quell' errore. Per non dir che de' nostri, onde è mai che il Galluppi, il Mamiani, il Romagnosi, il Testa, il Gioberti, e tant' altri, deducono l' essere ideale, se non dal reale che dichiarano anteriore e per sé ente dando a lui solo l' oggettività, che pure al solo ideale veramente appartiene? Tutti questi filosofi soggettivisti di varie forme, non riconoscendo che un ente originale, il reale, debbono riuscire, qualor sieno conseguenti a se stessi, al sistema degli unitarŒ o a quello dei triteisti, e a tutti gli altri pe' quali fu condannato dalla Chiesa il nominalismo ed il concettualismo. Rimane dunque provato: 1) Che parlando dell' essere senza piú, questo è identico sotto due forme, cioè sotto la forma ideale e sotto la forma reale. La prima delle quali dà all' uomo l' universalità, la seconda la singolarità. Questa distinzione dell' essere è primitiva: forma parte dell' ordine intrinseco dell' essere stesso, e senz' essa non sarebbe l' essere, né la mente, né il pensiero. Onde è cosa falsissima farla una produzione della dialettica. 2) Che queste due forme o modi dell' essere sintesizzano tuttavia insieme per modo che l' una racchiude l' altra, l' una non può stare senza l' altra. Fermato questo, giova ora che noi vediamo che cosa l' ideale, che è per sé oggetto, in se stesso contenga. Noi abbiamo veduto che in sé contiene l' essenza dell' essere precisa dalle sue determinazioni , la quale fu anche per noi detta essere iniziale . Che contiene adunque la pura essenza dell' essere, che si rivela al soggetto umano? Ella contiene quanto segue: 1) Il primo elemento di ogni cognizione . - Perocché in qualunque cognizione il primo elemento è l' esistenza della cosa che si conosce, o della quale si conosce qualche cosa. Ma qui già è da porsi in guardia di non prendere equivoco: perocché altro è il conoscere il primo elemento di ogni cognizione, il che non è altro se non sapere che cosa sia esistenza, e altro è sapere che una cosa realmente esista, il che si fa affermandola. Nell' essere adunque puro e indeterminato, di cui io ho notizia per natura, posseggo benissimo l' idea dell' esistenza, della realità, della sussistenza; ma non sono mica messo in comunicazione colla realità e sussistenza degli enti. Onde, quando la reale sussistenza degli enti entra meco in comunicazione, allora io riconosco in essi e affermo quella sussistenza di cui io m' avevo l' idea. Il sapere in generale che cosa è sussistere, ossia l' averne l' idea, è il primo elemento di ogni cognizione; è ciò da cui la cognizione incomincia. E poiché, se manca il primo atto mancano tutti gli altri, perciò questa notizia è la forma dei conoscimenti, il lume dell' intelletto, spento il quale non restano che tenebre. 2) La ragione dell' ordine intrinseco dell' essere . - Questa è verità di altissima conseguenza. Ciò che noi vogliam dire con essa si è, che allorquando si ponga che l' essere, quasi aprendo il suo seno allo sguardo dell' uomo manifestasse tutto sé, sicché l' uomo intendesse a pieno come egli è organato, di quale ordine maraviglioso abbellito, scevro da ogni disordine e causalità: l' uomo vedrebbe manifesta la necessità di ogni parte di quell' ordine ed organismo dell' essere; e tale necessità consisterebbe in questo che egli non sarebbe piú essere, se non fosse cosí ordinato, gli mancherebbe l' essenza di essere se una sola porzione di quell' ordine gli mancasse. Il che è quanto dire, che la pura essenza dell' essere (l' essere ideale indeterminato) è la ragione suprema dell' ordine intrinseco all' essere, la ragione del modo o de' modi in cui è. Ma qui si osservi attentamente che altro è la ragione dell' ordine, ed altro è l' ordine dell' essere. Questo è moltiplice, non essendovi ordine senza pluralità; quella è una e semplicissima. Di che viene la conseguenza che l' essenza dell' essere può conoscersi senza ordine dell' essere, perché quella è diversa da questo; ma solo allora quando sta presente all' intelligenza nel tempo stesso l' essenza dell' essere e l' essere ordinato e compiuto, solo allora l' essenza dell' essere acquista dinanzi all' intelligenza stessa la qualità di ragione del detto ordine, qualità che non si poteva prima conoscere, perché racchiude una relazione coll' ordine dell' essere per anco ignoto. Indi è che si può dire, che, quantunque l' essere ideale non faccia conoscere da sé solo qual sia l' ordine interiore dell' essere, tuttavia lo contenga virtualmente o implicitamente appunto perché egli n' è l' altissima ragione; e però egli diventa il lume a conoscere quest' ordine, tostoché quest' ordine sia comunicato all' uomo nel sentimento. 3) La ragione delle determinazioni dell' Essere . - La parola determinazioni significa i termini, i finimenti e completamenti dell' essere, giacché in ciascun essere la mente concepisce un principio ed un fine. Che se la mente concepisce l' ente solo nel suo principio, senza il suo fine o termine, si chiama essere indeterminato. Ora i termini possibili e finimenti dell' essere sono diversissimi, e variatissimi, e possono essere di condizione finita o infinita ed illimitata. Quindi la parola determinazioni è assai diversa da quella di limitazioni , sicché di Dio, a ragion d' esempio, si può dire che è un essere determinato , benché non si possa dire che sia limitato. Diciamo adunque che l' essere ideale, ossia l' essenza pura dell' essere, contiene la ragione di tutte le determinazioni possibili dell' essere o finite o infinite. Non diciamo già ch' ella presenti la ragione piuttosto di queste che di quelle determinazioni possibili, ma bensí di tutto il complesso di tali determinazioni. Non già del perché una determinazione sia realizzata e l' altra no, ma la ragione del perché una determinazione qualunque sia possibile a realizzarsi. Tuttavia tale prerogativa ed attitudine non si manifesta se non al caso di usarne; e il caso si dà solo allora che ci sono dati degli esseri reali, e con essi insieme le loro determinazioni. E qui di passaggio giova distinguere tra gli esseri reali finiti, e l' Essere reale infinito. Poiché l' Essere reale infinito, posto che ci sia dato da percepire, non è piú un essere nuovo, ma solo il compimento e la determinazione dell' essenza dell' Essere, ma gli esseri finiti nello stesso tempo sono esseri nuovi in quanto alla loro realità, e sono parziali determinazioni dell' essenza dell' essere in quanto alla propria essenza. 4) La ragione dell' Essere assoluto . - Da ciò che dicevamo risulta questo vero, che se ci fosse dato a concepire l' Essere assoluto, noi troveremmo la ragione di lui nell' essenza dell' Essere. Dicendo « la ragion di lui »non dico solo la ragione dell' ordine, o delle determinazioni dell' Essere assoluto (il che già indicammo), ma della sua realità e sussistenza; perocché non sarebbe assoluto se non fosse reale e sussistente; di maniera che questo è solo quell' essere, nell' essenza del quale entra la realità. Che l' essenza dell' essere sia ragion dell' ordine e delle determinazioni, questo non si può sapere se non allora che si contrae questo ordine e queste determinazioni. All' incontro che l' essere ideale sia ragione di una realità infinita, questo si può sapere, purché si abbia conosciuta qualche realità, e se n' abbia tratto la notizia generale della realità. E ciò perché essa stessa l' idea dell' essere mostra d' essere un cotal tema non compiuto ed intero. E nel vero, supponendo che già si sappia che cosa sia realità, si sa tantosto che questo è il termine dell' idea. Avendovi adunque un essere ideale, illimitato, infinito, e necessario, egli è gioco forza che ci sia pure una realità illimitata, infinita, necessaria che costituisca il suo proprio termine. Argomentando dunque dall' essere ideale, la mente perviene a conoscere l' esistenza divina. Quindi dicevamo che l' essere ideale si porge a noi come ragione dell' Essere assoluto; ossia dà a noi la ragione, perché la mente nostra è obbligata ad ammetterne l' esistenza. Né ciò conduce già all' assurdo, che Iddio abbia una ragione fuori di sé; giacché l' argomento, che noi facemmo, importa anzi che Iddio ha la ragione di sé in se stesso; la qual ragione è a noi comunicata, precisa dall' essenza divina, ma tale che ben si scorge esser essa un' appartenenza di Dio medesimo. - Ma Iddio ha egli una ragione? - Non ripugna ammetterla, purché si ponga in lui stesso, e non fuori di lui. La quale dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori non può essere direttamente impugnata; ma dà occasione a considerare certe verità che, a primo aspetto sembrano non certo assurde, ma misteriose ed inesplicabili le quali possono benissimo proporsi in forma di obbiezione. Eccone una: « Voi dite che l' essenza dell' essere ha d' avere i suoi termini: e lei unita co' suoi termini, e compiuta, dite esser appunto l' Essere assoluto. Ma voi chiamate termini di quell' essenza anche gli enti contingenti, onde pare che facciate di questi una cotal porzione di Dio ». La verità difficile, esclusa la quale si presenta una tale obbiezione, si è il distinguere i termini dell' essenza dell' essere che compiono quest' essenza e le sono necessarŒ acciocché sia, dai termini che non le sono necessarŒ né la compiono. Onde gli enti contingenti si dicono termini dell' essere ideale, o essenze pure dell' essere, in tutt' altro significato da quello nel quale si dicono termini di lei i termini suoi necessarŒ. A conclusione di tutto ciò noi riassumeremo cosí: 1) E` a noi nota per natura l' essenza pura dell' essere, e in questo non può cadere inganno alcuno, perché l' essenza dell' essere è la verità stessa (1). 2) L' essenza pura dell' essere che è a noi data è la pura notizia di che cosa sia esistenza , onde questa notizia si chiama anco idea dell' esistenza . 3) L' essenza pura dell' essere è la nozione della pura esistenza, perché manca de' suoi termini necessarŒ e completivi (come pure d' ogni altro); e però dicesi anco essere iniziale, perché è ciò onde incomincia ogni ente concepibile acciocché sia ente: quindi anco il primo elemento d' ogni cognizione. 4) A malgrado che l' essere da noi intuíto non sia che iniziale, egli è la ragione di tutti gli enti; e però al confronto con essi, egli ci fa conoscere perché sieno cosí, e non altramente. 5) La notizia dell' essere iniziale ci fa conoscere altresí la necessità che esista un Essere assoluto, cioè la necessità che l' essere iniziale sia in se stesso compiuto; e però contiene un principio che ci conduce alla cognizione dell' esistenza di Dio; non però della sua natura. Se dunque l' essere ideale è essente per sé; coesistente e non posteriore al reale; non prodotto da alcuna mente, ma termine di ogni mente: e se nell' ideale si contiene la ragione suprema e la possibilità di tutti gli enti reali, del loro ordine intrinseco e delle distinzioni che si possono fare in essi: dunque la dialettica non è la causa né la ragion suprema della pluralità che dicevamo; ma essa anzi deve ricorrere all' essere ideale per trovarci dentro questa ragione, onde la pluralità degli enti e delle distinzioni originariamente procede. Vero è che la ragione della pluralità non è la pluralità stessa, benché virtualmente la contenga. Questa pluralità è propia dell' essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell' ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresí, che prima ci stava occulta in modo virtuale. Nell' essere ideale trovano un corrispondente le stesse finzioni, gli stessi errori dello spirito umano; né perciò essi sono dall' ideale giustificati, perocché li presenta per quel che sono, cioè per finzioni ed errori. La cognizione umana è limitata, è imperfetta: ne vien quindi ch' ella sia necessariamente fallace? V' ebbero alcuni filosofi i quali credettero poter fare questa illazione. Perocché nell' ente, se questo non si presenta all' intelligenza tal quale è in se stesso, l' intelligenza vedrebbe l' ente come non è, e quindi vedrebbe il falso. Ma l' ente in se stesso è illimitato. Se dunque la mente non vede tutto l' ente, e però è fallace e priva di verità la sua cognizione. Al quale argomento rispondiamo accordando che la verità esige una certa infinità. Ma questa condizione si avvera appunto mediante l' intuizione dell' essere ideale. Perocché in questo vi ha tutta l' essenza dell' essere, la ragione come vedemmo di tutto l' ordine dell' essere: lo stesso essere reale e morale vi si comprende, benché solo virtualmente. Di che avviene che la cognizione dell' ente è sempre vera purché si riferisca a tutto l' ente, quantunque non sia cosí intensa e vivace e cosí esplicata come potrebbe essere. A quella guisa appunto che una formula algebrica può contenere la vera soluzione d' un problema benché non sia tratta fuori in numeri. Il qual vero è importantissimo all' argomento di questo libro. Nel quale noi ci siamo proposti di parlare delle diverse apparizioni dell' essere nella mente umana, e di cercare: « quali appartengono alla dialettica, quali sono superiori ed anteriori ad essa: se è vero che la dialettica o il movimento del pensiero sia quello che spezza l' ente, uno per sé; se le apparizioni dell' ente ci ingannino necessariamente ». Ora tutte le apparizioni dell' essere si riducono a tre generi, che costituiscono altrettanti modi di conoscere proprŒ dell' uomo: 1) Quello dell' essere ideale , che la natura dà all' uomo, onde quel modo di conoscere che si chiama intuizione . 2) Quello dell' essere reale , che in misura limitata si dà alla natura dell' uomo, onde il modo di conoscere che si chiama percezione . 3) Quello che ha luogo in virtú dell' attività stessa dell' anima, la quale si esercita su quell' ideale e reale che le è dato da natura, onde il modo di conoscere che si chiama riflessione . L' intuizione è illimitata. La percezione è limitata dalla natura. La riflessione viene dall' attività dell' anima e non solo è limitata, come è limitata questa attività, ma in quanto ella contiene il modo di conoscere per via di predicazione soggiace al vero ed al falso; poiché il vero ed il falso sta sempre in questa maniera di conoscere. La prima di queste tre maniere di conoscere, essendo illimitata, presenta allo spirito la stessa verità, e quindi la norma colla quale vengono perfezionate e rettificate le altre due. Il conoscere per via di percezione, quando si riscontra a quella norma, si ravvisa limitato: e questo basta per impedire che egli non inganni l' uomo: giacché il sapere che è limitato, è sapere il vero e non il falso, il qual si avrebbe soltanto qualora si giudicasse illimitato quello che è limitato. Il conoscere per via di riflessione talora è solamente limitato; talora è un conoscere falso, nel qual caso non è, a dir vero, piú conoscere, ma solo credere di conoscere. In quanto al conoscere riflesso egli è limitato riscontrato alla norma, cioè alla verità, che si conosce nel primo modo; viene perfezionato in questo senso che se ne conosce la limitazione, ond' è ch' egli non può piú ingannare. Ché quando il conoscere limitato si conosce fornito di quella limitazione che gli è propria, già diventa con ciò stesso un conoscere verace e non può piú ingannare. Quando poi nella riflessione cade errore, vi è sempre la via di rettificarlo, bastando che si riscontri alla norma suprema, e cosí l' errore è tolto appunto perché è conosciuto. Quindi in tutte affatto le apparizioni dell' essere non vi ha mai inganno od errore necessario, benché possa esservi necessaria limitazione. La ragion prima d' ogni limitazione dell' umano sapere sta in questo, che la natura comunica l' essere reale limitato. Infatti l' essere ideale è dato dall' intelligenza senza limitazione. Or onde che l' oggetto dell' intuito umano sia l' essere ideale senza il reale? Questa separazione del reale dall' ideale vien' ella dal soggetto umano? dalla sua limitata realità? Appunto cosí. E veramente noi dimostrammo che l' essere in sé non può avere la sola forma ideale. La separazione dunque dell' una dall' altra non dipende dall' essere, ma dal soggetto, che per sua propria limitazione riceve l' una e non l' altra. A chiarire la questione noi porremo un principio generale: « Riducendosi ogni realità al sentimento e a ciò che cade nel sentimento, niun essere può apprendere l' ente reale se non per via di sentimento: quindi ogni essere finito essendo un sentimento finito per natura, non può apprendere che un sentimento piú o meno finito secondo che è quel sentimento che lo costituisce ». Dal qual principio deriva questa importantissima conseguenza che niun ente finito può apprendere o percepire per natura l' essere reale infinito. Consegue che di necessità l' essere ideale risplenda alle menti finite solo, senza il suo corrispondente reale. Si dirà: se l' ideale è relativo al reale, come può starsene tutto solo nella mente? Rispondo che ei contiene il reale virtualmente e questo basta a fare ch' egli si possa comunicare, e a dar indizio della necessità del reale corrispondente: ma non basta a fare che si percepisca attualmente il reale stesso. Contenere virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che s' abbia nel sol reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare per cosí dire che un reale corrispondente all' ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Vi è dunque nell' ideale una cotal scienza di semplice indicazione del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (1). E` dunque da conchiudersi che l' essere reale infinito non può essere percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l' infinito reale può percepir se stesso per sua natura, perché la realità infinita è la sua natura. Se dunque l' essere finito percepisce il reale infinito, non può concepirlo che come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Dio per natura, ma solo per grazia. Ma rimane dopo di ciò a ricercarsi come questi reali finiti, possano aver luogo. Ciascun di essi è forse il sentimento infinito che pone de' confini a se' medesimo? Come si possono concepire de' sentimenti finiti fuori dall' intuito se questo già abbraccia tutto? Poiché come sarebbe infinito se non abbracciasse tutto, se non comprendesse ogni sentimento? Le quali ricerche appartengono tutte al problema della Creazione, che noi ci riserbiamo di trattare a parte. La ragione dunque del perché la percezione sia limitata ad un reale finito si riduce al perché un reale finito possa essere creato; giacché, supposta la creazione d' un reale finito, ne vien qual necessaria conseguenza che la natural percezione di questo reale finito non possa eccedere i confini di esso reale finito. L' intuizione e la percezione precedono dunque la riflessione, giacché sono atti semplici: in essi non vi ha discorso da un pensiero ad un altro. La dialettica adunque, che è il movimento del pensiero, il passaggio d' un pensiero in un altro, è posteriore all' intuizione ed alla percezione; e però quella divisione dell' ente, come pure quelle determinazioni e quelle limitazioni che sono poste dall' intuizione e dalla percezione, non procedono dalla dialettica, ma sono a questa anteriori: sono date o dalla natura dell' ente senza piú, quali sono le distinzioni categoriche, o dalle leggi della Creazione. I limitati creati non procedendo adunque dalla dialettica, come vuole Hegel, ma essendo ad essa anteriori, né pure è vero ciò che pretende questo filosofo che quelle limitazioni sieno passeggiere e mortali, perché si perdono nell' essere dialetticamente (1): niuna dialettica può fare rientrare nell' essere infinito le cose finite, come niuna dialettica poté farle uscire. La dialettica di Hegel è l' esagerazione d' una verità: tali sogliono essere tutti gli errori de' filosofi. Noi ammettiamo di buon grado una maniera di ragionare, che si può chiamare acconciamente dialettica trascendentale . Ma si restringerebbe ad arbitrio il significato della parola dialettica . L' arte di ragionare si dice dialettica, e ogni ragionamento è dialettico, se rettamente procede. Or noi diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la riflessione, avente a materia l' intuíto ed il percepito, trova le relazioni di questi coll' essere assoluto. Questa dialettica trascendentale ha due uffici: 1) Trova ciò che nella percezione vi ha di assolutamente vero, e ciò che vi ha di vero relativamente, confrontando il percepito coll' essenza dell' ente. Nel che s' avverta che questa critica, che la dialettica trascendentale fa della percezione, non riguarda propriamente parlando la percezione stessa, ma quel primo giudizio che segue alla percezione, col quale diciamo a noi stessi o piuttosto presumiamo di conoscere il percepito d' assoluta condizione. Di questo errore ci scioglie la Dialettica trascendentale, e il fa, paragonando il finito percepito coll' infinito intuíto, ossia coll' essenza dell' essere. 2) L' altro ufficio della Dialettica trascendentale consiste nell' estendere la cognizione umana dal finito all' infinito, che è quella funzione che altrove chiamammo dell' Integrazione , la quale si compie raccogliendo le relazioni essenziali e necessarie fra il finito e l' infinito, o le relazioni categoriche. Se il negativo è il solo principio del movimento del pensiero, ne verrà che la Dialettica si rimarrà del tutto sterile, cioè non potrà uscire dalla percezione mescolata quanto si voglia colla negazione dello spirito. E questa sterilità è veramente il carattere della dialettica di Hegel, il quale non può uscire dal circolo del Mondo e delle cose contingenti come vedemmo. Poiché, per quante negazioni e negazioni di negazioni egli accumuli, altro non fa che maneggiar sempre la stessa pasta e darle forme nuove senza accrescerla pur d' una sola molecola. Il dir poi che la negazione della negazione equivale alla affermazione, è bensí vero, ma nulla conchiude a suo pro. Perocché, se il negare del negare è affermare, perché sarò io obbligato a procedere per quella doppia negazione piuttosto che a dirittura per l' affermazione? E se posso affermare senza bisogno d' altro, dunque il movimento dialettico non istà nel negare solamente, ma egualmente nell' affermare. Ma, tanto per affermare, quanto per negare, io ho bisogno di una ragione. Non è dunque il negare o l' affermare preso in astratto che dia movimento al vero pensiero dialettico; ma quella ragione che presiede alle negazioni o alle affermazioni, le giustifica e le conduce. Or questa ragione non è ella stessa né negazione né affermazione, ed ella manca al tutto alla dialettica hegeliana la qual non conosce che la scienza di predicazione. L' intuizione né afferma, né nega, ma talora omette di considerare, cioè restringe il proprio oggetto ideale. Restringendo l' oggetto dell' attenzione intuitiva, non si pronuncia nulla di falso, ma solo si limita il conoscere intuitivo. Gli antichi distinsero accuratamente la limitazione , che il soggetto intellettivo pone al suo oggetto, dalla negazione . Quella può esser fatta ad arbitrio senza questa: questa dee esser fatta con una qualche ragione, altrimenti produce un errore (1). Ora questa ragione è il vero principio del movimento dialettico del pensiero. Hegel confonde la semplice limitazione dell' oggetto colla positiva negazione, il che lo travolge ad interminabili errori. E di vero, se noi consideriamo que' modi d' argomentare, pei quali noi siamo stati condotti dal reale limitato percepito a trovare l' esistenza d' un reale infinito non percepito, vedremo che non dobbiamo cotanta scoperta alla semplice negazione, né tampoco alla limitazione; ma piuttosto a quella ragione superiore che ci ha fatto conoscere la stessa limitazione del reale percepito, e ci ha fatto conoscere esser ella di tal indole, da dimostrare assurda l' esistenza di quel reale se non si ponga un altro reale incognito ma pur esistente che lo produca e mantenga. Infatti due furono le vie del nostro ragionare che ci condussero allo stesso termine. La prima mossa dall' ordine intrinseco e necessario dell' ente reale; il quale esige che ogni ente reale debba avere un atto assolutamente primo. Onde ogni atto reale che non è assolutamente primo, esige, per poter essere, un altro atto reale che sia assolutamente primo. Questo principio ontologico diede la mossa al nostro ragionamento, e non la sola limitazione del percepito (molto meno alcuna negazione). Il qual principio non è finalmente altro che la relazione categorica fra l' essere reale e l' essere ideale applicata all' essere reale limitato, e cosí trasformata in un giudizio che dimostra l' insufficienza di questo solo. Ma questa legge ontologica, che ci condusse a trovare una prima causa reale dell' ente reale da noi percepito, non ci bastò tuttavia a dimostrare che questa causa dovesse essere in atto, giacché nell' idea d' una causa reale non si contiene la necessità della sua attuazione, potendosi pensare tanto in atto quanto in potenza. Non contenendosi adunque nel concetto d' un primo ente reale assoluto l' atto stesso produttore della realità limitata, noi dovemmo supporre, per la stessa necessità logica, che questo primo essere siasi determinato liberamente a produrre il reale limitato, essendo questa la sola supposizione che ne spieghi l' esistenza. Ma quell' atto libero, per sé solo considerato, mancava della sua ragione, di natura sua essendo possibile egualmente che fosse posto e che non fosse. Or egli è posto, noi lo sappiamo: perché è posto il suo effetto, il percepito. Ma l' affermare che quell' atto sia posto, quando può esser l' una cosa e l' altra, suppone la scienza di predicazione andata al di là della scienza d' intuizione. Or questo è assurdo. Convien dunque restituir l' equilibrio fra l' una e l' altra scienza. A tal fine ricorremmo ad una legge dell' essere morale. Questa legge risulta dalla relazione categorica fra l' essere morale e l' essere ideale. L' essere morale supremo (perfetto, essenziale) ama, vuole, produce l' ordine perfetto dell' essere reale che è conoscibile nell' ideale. Acciocché dunque l' idea e l' affermazione riescano equilibrate, io debbo ricorrere ad un' altra idea che giustifichi l' affermazione, e quest' è l' idea d' un reale operante come prima causa. Se nell' idea di questo reale supremo non si contiene l' operazione, debbo ricorrere alla ragione morale, come abbiamo già detto. Per questa maniera di dialettizzare la mente trapassa tutti i confini dello spazio e del tempo, della materia e dello spirito umano, e in una parola del creato universo: Hegel colla sua negazione non può mai varcare questi confini, onde l' ateismo ed il materialismo del suo sistema. Egli cerca invero di divinizzare il pensiero ed il mondo, che è per lui nel pensiero, rifuggendosi cosí nel panteismo: ora questo stesso egli fa ad arbitrio, perché a giusta ragione né il pensiero umano né il mondo può cangiarsi nella divinità. Que' due primi errori sono conseguenti al suo sistema; quest' ultimo è di piú una inconseguenza. L' intuizione e la percezione non ammettono errore. L' errore adunque incomincia colla riflessione. Noi abbiamo parlato di quella riflessione ben ordinata che tende a completar la cognizione dell' essere acquistata coll' intuizione e colla percezione, il qual uso della riflessione appellammo dialettica trascendentale . Or prima d' inoltrarmi a svolgere le altre maniere d' adoperare la riflessione, giova che noi separiamo il fenomeno dell' errore, che non è propriamente cognizione, ma cosa eterogenea al conoscere. Ogni errore si riduce ad atto dello spirito: il quale pronuncia che qualche cosa sia, quando ella non è, e viceversa. Che cosa è il vero? - Il vero è l' essere pronunciato dallo spirito. Il vero ed il falso adunque è una qualità dei pronunciati dello spirito. Se ciò che lo spirito pronuncia è l' essere, il pronunciato ha per sua qualità l' esser vero; se ciò che pronuncia non è l' essere, il pronunciato dello spirito ha per sua qualità l' esser falso. Se il pronunciato dello spirito è vero, l' uomo per esso conosce l' essere che ei pronuncia a se stesso, ha la cognizione. Se il pronunciato dello spirito è falso, non ha la cognizione. Il falso ed il vero convengono nell' essere pronunciati dello spirito, ma non nell' essere cognizione. Quanti uomini dotti apparirebbero ignoranti, se si separasse tutto ciò che v' ha di erroneo nelle loro opinioni! Dare il nome di dotti a quelli che insegnano grandi cose, ma erronee, è abuso di vocaboli: sarebbe tempo che il mondo se ne vergognasse. Ma nell' errore non vi ha ignoranza solamente; vi ha di piú falsa credenza. La credenza è una disposizione soggettiva: la cognizione non è mai puramente soggettiva; dee avere un oggetto. Se l' oggetto non c' è, l' uomo può fingerlo, ma il fingerlo non fa che sia. Quindi si deduce: 1) che l' errore appartiene a quella forma di conoscere che dicemmo di predicazione; 2) che quantunque l' errore tenga la forma di questo conoscere, tuttavia egli non è mai propriamente cognizione; 3) che egli è una disposizione soggettiva; 4) che questa disposizione pone il soggetto intellettivo in contraddizione coll' oggetto; 5) che l' errore suppone un' attività intellettuale, la qual muove se stessa, non verso l' oggetto, ma a ritroso di lui; 6) che l' errore non istà nell' oggetto, ma in ciò che si afferma o si nega intorno all' oggetto. L' errore dunque è un conoscere privo d' oggetto: la sua natura per questo consiste nel negativo, e non punto nel positivo, qual è sempre la natura del male (1). Ma per ben intendere come l' errore sia privo di oggetto, conviene porre attenzione a queste tre cose: 1) che ciò che v' ha di oggettivo nel pensiero erroneo, non è ciò che costituisce l' errore; 2) che il credere ad un oggetto assurdo, non è aver veramente dinanzi alla mente un oggetto; 3) che l' affermare, o il negare, non è cosa che appartenga all' oggetto, ma al soggetto, e non produce un oggetto, ma semplicemente una disposizione soggettiva che dicesi fede, persuasione, ecc.. Rimane dunque il credere senza oggetto. Rimane l' atto soggettivo, la persuasione che termina nel nulla. Or che cos' è dunque questo credere? Questo persuadersi che certi elementi di conoscere con certi nessi abbiano un risultamento quando non l' hanno? Abbiamo detto che è una disposizione soggettiva di un essere intelligente, la quale rimane senza oggetto. E una disposizione soggettiva è del pari l' affermazione e la negazione. Non è poco difficile a intendere bene la natura di tali disposizioni soggettive. In prima, tali maniere di disposizioni non possono cadere che in un soggetto intelligente. Egli da se stesso si muove verso l' oggetto per prenderlo e farlo suo: questo impossessarsi dell' oggetto e appropriarselo, fa sí che la cognizione diventi una disposizione che il soggetto dà a se stesso; poiché lo sforzo posto in essa, il possesso di essa, è tutta operazione e atteggiamento soggettivo. Tale è il verbo della mente; è un pronunciato del soggetto. Tale è la credenza: questo aderire, questo assentire, o affermare, ovvero fare il contrario di tutto ciò, è attività soggettiva suscettibile di vero e di falso. Se si assente ad una proposizione falsa, vi ha l' errore. Ma se il falso della proposizione fosse evidente, niuno potrebbe assentirvi. Conviene adunque sempre che il falso si nasconda: onde in ogni errore cade nel soggetto qualche oscurità; assente a ciò che non vede chiaro, a ciò di cui non vede chiaro la ragione. Ogni qualvolta adunque lo spirito umano impera a se stesso di assentire e credere a proposizioni che esprimono ciò che non è ( errore semplice ), o ciò che non può essere ( assurdo ), vi ha errore: il qual si può definire « un atto dell' essere intellettivo che non raggiunge l' essere ». Dalle quali considerazioni in primo luogo s' intende che gli errori e gli assurdi non sono punto entità; e che perciò la ricerca ontologica non ha bisogno d' occuparsi intorno alla generazione degli errori e degli assurdi, che come tali non sono punto entità. In secondo luogo, si ravvisa quanto vanamente l' Hegel abbia infarcito l' ontologia delle negazioni, de' negativi, del nulla, pareggiando il nulla all' essere, perché anche il nulla viene pensato. Egli non ebbe c“lta la distinzione fra la cognizione oggettiva e la soggettiva, e quindi molto meno egli poté vedere che vi hanno degli atti del soggetto intellettivo i quali si rimangono senza loro proprio oggetto. Coll' aversi ben dichiarato pertanto questo fenomeno dello spirito intelligente di poter fare degli atti che non raggiungono alcun oggetto, si ha dissipato intieramente il prestigio della dialettica di Hegel. Il cui sofisma sta sempre nel prendere il segno dell' oggetto per l' oggetto; i componenti dell' oggetto, cioè gli oggetti che si suppongono componenti, per l' oggetto che essi debbon comporre; gli atti del soggetto intelligente e le relazioni di questi atti con qualche oggetto, per l' oggetto stesso. Nel pensare erroneo adunque interviene sempre un oggetto fattizio composto di segni, d' idee e di nessi d' idee, il quale oggetto fattizio si adopera a determinare l' oggetto ultimo del pensare, ma invano; poiché nel pensare erroneo quest' oggetto ultimo non si trova, è affatto nulla: e l' errore sta appunto in questo, nel voler che il nulla sia qualche cosa. Quindi l' errore non istà negli oggetti fattizŒ; neppure in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che non deve avere, ma in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che deve avere, che pretende d' avere quando non l' ha. S' io dico il nulla è nulla, il mio pensiero non ha oggetto, perché il nulla non è oggetto, e tuttavia non è erroneo, perché non pretende di averlo, anzi sa ed afferma di non averlo; ma s' io dico « il nulla è qualche cosa », erro, perché fo un pensiero che, mentre non deve aver alcun oggetto, vuole, pretende, afferma d' averlo (1). Questa contraddizione fra la intenzione del pensare e l' oggetto, è propriamente l' errore. Vi è dunque un pensare per via di oggetti fattizŒ, il quale non è erroneo: e di questo giova che ora parliamo. Al pensare umano presiedono queste due leggi: L' oggetto del pensiero è l' essere. L' attenzione del pensiero non può fissarsi in un essere determinato se non vi è tirata e tenuta dal reale sentito. Queste due leggi reggono il pensare oggettivo. Dato questo pensare, sopravviene l' affermazione e la negazione, cioè il pensare di predicazione. In virtú di queste due leggi accade: 1) Che l' uomo non possa limitare colla mente e determinare ad una forma speciale l' essere ideale se non prevalendosi di un reale che attiri e trattenga la sua attenzione e serva a lui di segno determinante e limitante l' ideale. Nulla di meno gli ideali determinati, cioè le specie piene, sono oggetti fattizŒ in questo senso che risultano dalla relazione categorica che passa fra l' ideale e il reale finito mediante l' intelletto. 2) Quando si comincia ad esercitare su di essi l' astrazione, interviene l' azione della riflessione soggettiva che limita vie piú l' oggetto (l' essere universale) che in natura non è limitato. Or non potendo la mente pensare una tale limitazione senza l' aiuto d' un reale, e non giovandole a ciò quel reale a cui corrisponde come tipo l' ideale, ella deve ricorrere ad un altro reale che le presti l' ufficio meramente di segno. Egli è per questo che gli astratti non si possono avere senza il linguaggio o altri segni che giovano a dirigere e fissar l' attenzione in qualche elemento dell' ideale, cioè della specie piena rattenendola dal fissarsi nell' intera specie «( Psicologia , Vol. II, n. 1515 sgg.) ». Ma, cercandone la ragione ontologica, questa si trova ne' bisogni parziali dell' uomo, e la ragione di questi bisogni molteplici e parziali dee riferirsi alla condizione del sentimento che costituisce l' uomo: soprattutto al sentimento animale, avente per termine il corpo e la materia divisibile senza termine alcuno. Diamo un esempio. Considerare le sostanze materiali nella loro qualità di alimentari, egli è un considerarle astrattamente. Ora che cosa induce l' uomo a questa astrazione? L' aver egli il bisogno di alimentarsi. E questo bisogno onde procede? Dal sentimento animale, dall' organismo, e in fine poi dalla materia. Altro dunque è l' ideale , altro le diverse vedute dello spirito che lo considera secondo i diversi bisogni dai quali è mosso a considerarlo. Onde, se la specie piena è l' ideale nella sua relazione col reale finito intero, gli astratti sono pure l' ideale considerato in relazione delle diverse parti, elementi, virtú, attitudini, bisogni del reale medesimo. L' azione dunque del soggetto intelligente è quella che moltiplica i concetti, o sieno universalmente determinati, o sieno astratti. L' oggetto, ossia l' essere ideale, in queste operazioni rimane sempre presente allo spirito, ma egli viene moltiplicato, e questa moltiplicazione è quindi l' opera del pensiero. Ma si noti bene di qual pensiero: di un pensiero i cui atti sono limitati. Quindi la domanda: « qual' è la ragione, perché gli atti del pensiero riescano cosí limitati ». A cui si risponde: « perché il pensiero è limitato al reale ». Nel che si osservi che una limitazione del pensiero ne porta un' altra. E veramente, posto che i primi atti del pensiero sieno limitati a cagione della limitazione del reale, e cosí quelli astratti che vengono tosto appresso la percezione, avviene che l' uomo sia spinto a moltissime altre astrazioni di astrazioni senza fine, tutte anch' esse limitate. Del che la ragione è questa. Il primo pensiero dell' uomo, l' intuizione naturale, ha un oggetto infinito; ma in questo primo suo atto intellettuale egli è ricettivo. La sua perfezione consiste nell' aderire all' infinito essere colla sua propria attività. Per questo il suo pensiero attivo si mette in moto. Ma questo pensiero attivo trova incontanente la limitazione del reale. Egli quindi si sforza d' uscirne per arrivare all' essere assoluto. A tal fine non gli rimane che accumulare pensieri sopra pensieri, i quali sono tutti limitati, perché sono limitati i primi ai quali è dato un termine limitato. Quest' è la ragione ond' accade che le speculazioni di quelli uomini che si danno alla contemplazione della verità sieno interminabili, e che gli uomini, per quanto sappiano, non si chiamano giammai soddisfatti: il solo sapere naturale non felicita l' uomo, perché non conduce all' intera cognizione e percezione dell' essere assoluto. Gli astratti, noi dicemmo, non si pensano dalla mente se non legati ad un reale che serve loro di segno. Questo pensare per via di segno, è un pensare limitato d' una speciale maniera. Il segno reale è oggetto certamente del pensiero; ma non è l' ultimo oggetto, il termine di un tal pensiero: questo è la cosa significata. Si pensa dunque un oggetto per mezzo di un altro. Il segno è un reale, e l' astratto significato è un oggetto ideale. Si pensa dunque un ideale per mezzo, ossia coll' aiuto, di un reale. Abbiamo veduto che il pensare limitato non è un pensare erroneo, ma che l' errore facilmente ad esso si accoppia ed è quand' egli si prende e giudica per assoluto. Ora il pensare gli astratti, come pure generalmente il pensare per via di segni, benché in se stesso non erroneo, diviene all' uomo occasione d' errori. Un primo errore prende l' uomo quando si dà a credere che gl' ideali determinati ed astratti sieno in se stessi cosí disgiunti come sono nella mente dell' uomo. Quando l' uomo pensa l' un di essi, non pensa l' altro, onde gli pare che ciascuno sia indipendente dall' altro. Un altro errore sarebbe, se, l' associazione fra il segno reale e l' astratto segnato oscurandosi dinanzi all' attività soggettiva del pensiero, l' uomo prendesse il segno per la cosa segnata. Questo errore è molto frequente e apparisce in piú forme, divenendo piú errori. Uno di questi errori si è quello de' dialettici che talora danno corpo e realità alle astrazioni: ma di questo maggiore è quello di coloro che tolgono via l' idealità, non riconoscendo altro ente che il reale; ovvero che abusando di parole chiamano reale l' ideale. Un altro errore della stessa specie fu quello dell' idolatria, onde gli uomini adoravano le immagini e i simulacri invece delle cose divine che dovevano rappresentare. Questo errore grossolano mostrava come la percezione del reale sensibile legasse a sé le menti per modo che non lasciavale piú andare all' ultimo termine insensibile a cui era v“lto il pensiero. I segni, oltre aiutare il pensiero a fissare gli astratti, lo aiutano altresí a fissare gli enti in quanto sono negati dalla mente. La parola nulla , a ragion d' esempio, significa l' ente assolutamente negato. La parola male, difetto, errore , ecc., significa l' ente in cui manca qualche cosa che vi dovrebbe essere. Questo pensare è intieramente soggettivo rispetto al suo oggetto proprio e finale, perché questo manca del tutto, e solo vi ha l' oggetto immediato che è il segno della mancanza dell' oggetto ultimo. Un tal modo di pensare non è ancora erroneo per se stesso; ma l' uomo, vi mescola facilmente degli errori, come accade se giudica che l' oggetto negato, o l' oggetto mancante a cui si riferisce il segno, sia un oggetto vero o un oggetto reale. A spiegare la facilità con cui l' uomo sdrucciola a questi errori, conviene rammentare il principio di cognizione pel quale l' uomo non può pensare nulla che non abbia la condizione di ente. Quindi allorché egli restringe la sua attenzione a pensare un astratto, il quale astratto talora è anche negativo, per esempio, limitazione, privazione, niente , ecc., egli è obbligato di considerare questi termini del suo pensiero siccome enti, altrimenti non li potrebbe pensare cosí nudi e da per sé presi. Cosí diventano oggetti fattizŒ e non veri. Vi è dunque bisogno che la riflessione critica sopravvenga, e glieli faccia riconoscere per fattizŒ, acciocché non lo ingannino. Ma questo lavoro della riflessione critica costa qualche fatica all' uomo, e però si lascia andare a prender quegli oggetti per veri: e allora ei cade in errore. Vedesi adunque che v' ha un seme d' errore nella stessa limitazione a cui soggiace l' umano pensare. Non conviene dimenticare che tutti i ragionamenti, fin qui da noi esposti, intesero ad indicare le origini delle diverse apparizioni dell' essere, di quella moltiplicità nella quale esso all' uomo si presenta. A chiarir meglio tutte queste dottrine egli è uopo dichiarare la natura dell' essere intellettuale, giacché l' uomo è un essere intellettuale, e noi parliamo della pluralità e delle diverse apparizioni dell' ente in relazione a questo. L' essere intellettuale è una conseguenza del sintesismo fra l' ideale ed il reale, perocché l' essere intellettuale è reale, ma accoppiato e informato dall' ideale (1). Ora quest' essere reale informato dall' ideale, può esser finito o infinito. Come può esser finito? Questo è quel nodo che dicemmo appartenere al problema della creazione, e qui ne supponiamo la possibilità. Ora, se l' essere reale a cui risplende l' ideale, è infinito, egli è quell' istesso essere che nell' ideale si vede, perocché nell' ideale si vede la realità infinita, ma nella forma ideale. Ma se il reale è finito, dalla congiunzione di questo coll' ideale nasce l' intellettuale finito, il quale non può vedere nell' ideale direttamente se stesso: onde l' essere ideale apparisce come fosse solo e veramente separato dal reale. Questa divisione adunque dell' ideale dal reale viene, come abbiamo detto piú sopra, unicamente dalla limitazione dell' intellettuale: la qual verità si svela dalla Dialettica critica. Quindi anche accade che l' intuizione d' un ente intellettuale limitato non facendo conoscere il reale, è necessario che il detto ente intellettuale per conoscere se stesso usi di un altro atto, quello della percezione, laddove l' intuizione propria dell' intellettuale infinito è tutt' insieme percezione di se stesso. Come poi il reale è finito, cosí di sua natura è chiuso in se stesso e non percepisce che se stesso, e quindi non percepisce il nesso di creazione che lo lega e continua al reale infinito. In tal modo egli si percepisce come una sostanza separata; benché la Dialettica critica ritrovi che questa sostanza non apossa esister sola senza che v' abbia un reale infinito che la faccia sussistere. Posta questa costituzione dell' ente reale intellettivo finito, s' intende come a prima giunta, ai primi atti dell' intelligenza, e quindi al pensar volgare, rimanga nascosto il sintesismo dell' essere. I nessi essenziali, che raggiungono le forme e le sostanze fra loro rimangono nascosti: quindi quelle e queste sembrano del tutto separate e non pur distinte. Se non ci fosse un essere intellettuale, non esisterebbero relazioni. Il confronto di due termini suppone un terzo termine oggetto in cui si operi il confronto; perocché i termini della relazione, fin che restano distinti, non si confrontano, né basta, per confrontarli a scoprirne la relazione, che si accostino; ma si debbono in qualche parte immedesimare e legare insieme. Qual è dunque questo legame? Certo che il soggetto intellettivo dee esser uno egli stesso per poterli confrontare: ma, poiché le cose conosciute sono nel soggetto intellettivo come oggetti e il soggetto intellettivo non pensa a se stesso in quant' è soggetto, le cose che si confrontano non possono ricevere l' unità dal solo soggetto intellettivo. E` dunque necessario che v' abbia un oggetto in cui si confrontino, e quest' oggetto è l' essere ideale nel quale tutti gli enti e tutte le entità si trovano co' loro nessi e vincoli sotto la forma ideale. Ma l' essere ideale, appunto perché è per essenza oggetto, sintesizza col reale, e non con ogni reale, ma propriamente col reale intellettivo. Il sintesismo adunque fra l' essere ideale e il reale non consiste solamente nel dovervi avere questi due modi di essere acciocché l' essere sia; ma consiste nel trovarsi essi cosí fattamente annodati da doverne risultare per la loro unione l' essere intellettuale. Ora, dato l' essere intellettuale, questo va discoprendo ogni ente nell' ideale, e quindi anche va discoprendo nell' ideale tutte le relazioni e tutti i legami degli enti. Tutti questi vincoli e relazioni nell' idea non si fanno già di nuovo né procedono con successione, ma vi sono tutte eterne: onde dicemmo che l' idea già contiene la ragion della pluralità degli enti [...OMISSIS...] . Ma non è per questo che l' uomo ve le veda tutte sino a principio, ma ve le va discoprendo successivamente a cagione della limitazione dei suoi atti e della poca realità che gli è comunicata. Cosí è che l' uomo va discoprendo le verità da se stesso nell' eterno specchio dell' essere (ché cosí si può chiamare l' idea) con replicati sguardi successivi. La sede dunque di tutte le relazioni è nell' idea, e suppongono l' esistenza di un essere intellettivo che in essa le intuisca. Noi ne proponiamo qui la classificazione ontologica. In prima vi hanno le relazioni eterne e per sé essenti fra le tre forme supreme dell' essere, ciascuna delle quali non sarebbe se le altre due non fossero. L' uomo, attesa la sua limitazione, intuisce l' essere ideale diviso dalla realità; cosí pure pensa in qualche modo l' essere reale diviso dall' idealità. Cosí l' uomo afferma la realità senza badare all' idealità di cui si serve per apprenderla (1). Solo colla riflessione integrante ne discopre in appresso il sintesismo. Ma l' essere morale non è oggetto de' primi pensieri dell' uomo, ma diviene oggetto della stessa riflessione; e però questa forma non si presenta semplice e divisa dalle altre due, anzi non si può concepire senza le altre due. La relazione categorica fra l' essere ideale e reale giace in un nesso ontologico fra loro, il quale nesso produce l' essere intellettuale. L' atto, pel quale l' essere intellettuale vive nell' ideale realizzato, è l' essere morale. Tale è la congiunzione intima dell' essere essente nelle tre forme. All' essere infinito, all' essere come essere, appartengono le seguenti relazioni: 1) La soggettività o realità informata dall' oggetto, e però soggettiva, la quale ha la relazione opposta coll' oggetto. 2) L' oggettività, ossia intelligibilità, in quant' è intelligibile ossia ideale, ovvero anche oggetto, ha una relazione col reale e propriamente col reale intelligente da esso ideale informato. 3) L' amabilità. L' essere, in quanto è inteso, in tanto è amabile; e perché egli è inteso nell' oggetto, è amabile nell' oggetto, e non da sé solo. Onde questa relazione non può essere costituita se non dalle due prime, in quanto il reale è conosciuto nell' ideale. 4) La soggettività o realità intellettiva informata dall' amabilità, la quale ha la relazione opposta all' amabilità. Quest' ultima relazione non è un nuovo modo di essere, ma è il modo soggettivo in quanto trovasi nell' oggettivo. Di queste primitive ontologiche relazioni noi piú innanzi favelleremo ampiamente: ci basti l' osservare come le esposte dottrine ci pongono in caso di giudicare di quella sentenza che chiama effetto della dialettica ogni pluralità che si scorga nell' ente. Discendiamo ora adunque a classificare le relazioni che ci presentano gli esseri contingenti. Le relazioni ontologiche surriferite, appunto perché intime all' essere, non possono del tutto mancare neppure ne' contingenti, perché loro non manca intieramente l' essere. Ma se l' essere non manca in essi, vi è tuttavia limitato: e la limitazione dell' essere limita altresí la partecipazione delle relazioni categoriche. Vediamo con quali distinzioni e differenze si ravvisino nell' essere contingente quelle supreme relazioni. In primo luogo, l' essere contingente non esiste come tale che sotto la forma reale. Quindi, da sé solo considerato, non si può concepire; è non7ente «( Psicologia , n. 1305 sgg.) », ente incoato, rudimento di ente. Non potendo dunque l' ente essere sotto un' unica forma, l' essere contingente dovette venir sostenuto e sorretto dall' essere eterno, acciocché non si risolvesse nel nulla. Quindi unita all' essere reale contingente, trovasi la forma ideale sempiterna. Ora il morale non è che quell' atto di vita pel quale il soggetto si compiace di tutto l' essere conosciuto nell' ideale. Quindi il morale appartiene in proprio alla totalità dell' essere, all' essere assoluto. Rimane che: il contingente non è per sé intellettuale, ma è intellettuale per partecipazione; né esso è per sé morale, ma è morale per partecipazione, o piuttosto è ordinato alla moralità. Queste sono le relazioni categoriche dell' essere partecipate dal contingente. Ma un altro fonte delle relazioni proprie dell' essere contingente nasce dalla sua stessa limitazione. La limitazione è ella stessa quella che lo rende contingente; perocché: il suo concetto è correlativo all' illimitato; questo si concepisce senza di quello, preso nel significato di prima intenzione (1). Ma quello non può essere concepito senza di questo. Il limitato è logicamente posteriore all' illimitato (2): quello si può pensare e non pensare, ma il concetto di questo è tale che, quando si pensa, s' intende impossibile di pensare il contrario: ogni limitato è dunque necessariamente contingente. Il limitato adunque e contingente ha una relazione coll' assoluto, e questa è relazione di creazione, come vedremo. Ma poiché l' assoluto è in tre modi, triplice è pure la relazione del limitato reale contingente coll' assoluto. In quanto l' assoluto è ideale, si manifesta al contingente (e il manifestarsi è una relazione ideologica). In quanto l' assoluto è morale, intanto si comunica al contingente semplicemente come legge morale, ossia obbligazione, la quale è una relazione deontologica: cosí l' essere morale non è dato al contingente, ma mostra la via di pervenirvi. In quanto poi l' essere assoluto è reale, intanto ha relazione di causa col contingente. Non gli manifesta se stesso, non essendo proprio del reale il manifestare, né comunicare se stesso, poiché non potrebbe comunicarsi all' ente contingente se prima quest' ente non fosse: e per far che sia, il che è crearlo, deve restringerlo entro i suoi confini; e produrlo entro i suoi confini è lo stesso che non comunicargli l' infinita realità (1). Ma qui è d' uopo penetrare piú addentro nella natura propria delle relazioni. La relazione in generale è un nesso fra due termini veduto dall' intelletto. Se vi potessero essere due termini veduti simultaneamente collo stesso sguardo dell' intelletto che non avessero fra loro nesso di sorta alcuna, allora si direbbe che avessero la relazione di assoluta separazione: cioè l' intelletto produrrebbe egli stesso una relazione fattizia, il vero valore della quale sarebbe intieramente negativo. La ragione, per la quale l' intelletto ha questa facoltà di considerare come positive le relazioni negative, è quella stessa che egli ha di produrre a se stesso quelle entità fattizie di cui abbiamo ragionato. Cosí l' intelletto pensa il nulla ed il negativo con un pensiero che passa per oggetti che non sono nulla. Ma sebbene l' uomo pensi di queste relazioni negative, tuttavia è impossibile che si dieno due termini del pensiero, i quali sieno privi di qualsivoglia relazione. Perocché, hanno almeno la relazione d' analogia di questo stesso che sono pensabili. Che se l' un d' essi fosse negativo, fosse il nulla a ragion d' esempio; in tal caso la relazione v' avrebbe tra il termine positivo e le operazioni dello spirito negante. Se i termini sono entrambi negativi, la relazione giace fra le due persuasioni che li costituiscono. Ma se i termini sono entrambi positivi, essi convengono almeno nell' essere, e però non può mancar loro la relazione d' identità quanto all' essere. Ora consideriamo le relazioni che cader possono fra i termini positivi, che sono vere entità. La prima cosa da notarsi si è la distinzione delle relazioni che passano fra termini della stessa natura, e quelle che passano fra termini di diversa natura. Diciamo adunque che, se, i due termini essendo della stessa natura, il primo sta al secondo in quanto alla natura come il secondo al primo, la relazione è uguale considerata da una parte e dall' altra. Ma se i termini sono di diversa natura, allora la relazione che il primo ha col secondo è anch' essa di diversa natura dalla relazione che il secondo ha al primo. Or questo stesso, si dee anche dire, proporzion fatta, di que' termini che convenissero o variassero negli accidenti: cangeranno le relazioni come cangiano gli accidenti. Questo dimostra chiaramente che ogni relazione fra due termini è duplice, e non semplice come comunemente si crede, potendosi considerare i due termini con due vedute diverse dell' intendimento, l' uno rispetto all' altro, e l' altro rispetto al primo. Ciascuna di queste relazioni abbinate suole appellarsi abitudine , poiché manifesta come l' uno de' due termini se habeat rispetto all' altro. Or poi i termini delle relazioni possono essere d' altrettante maniere quanti sono i termini del pensiero. Ora i termini del pensiero sono di quattro maniere: 1) essenti; 2) fattizŒ; 3) falsi; 4) assurdi. I soli due primi sono interamente veraci. Quindi il pensiero concepisce o crede di concepire quattro maniere di relazioni, ciascuna delle quali tiene la natura di que' termini. I termini essenti sono compresi nelle tre categorie, cioè sono entità reali, ideali e morali. L' abitudine che ha ciascun agli altri due è diversa, come è diverso l' un modo dall' altro. Ma poiché l' essere è identico in tutti i tre modi, sembra che abbiano altresí una relazione d' identità. Tuttavia è da considerarsi che l' identità non appartiene ai modi, ma all' essere; onde il dire che i tre modi hanno una relazione d' identità non è proposizione esatta: perocché non è vera se non in quanto nei modi si considera l' essere e non il modo. Qui il pensiero umano aggiunge del suo. Poiché non sapendo egli concepire in un modo perfetto l' essere assoluto, che è ad un tempo nei tre modi uno senza replicarsi, egli considera l' essere successivamente, prima in un modo, poi nell' altro, poi nel terzo; ma, sopravvenendo la Dialettica trascendentale, questa pronuncia che quell' essere, che pareva triplicarsi, è identico. Oltre questa relazione fattizia d' identità, se ne presenta al pensiero un' altra fra l' essere e il modo categorico. Ma anche questa è puramente fattizia, poiché l' essere in ciascuna delle tre forme è tutto e puramente essere: onde non v' ha mica un modo suo che non sia lui stesso, ma egli stesso è i tre modi ed è ciascun modo. Questo linguaggio adunque, nel quale appariscono distinti i modi e le forme categoriche dell' essere dall' essere stesso, manifestamente dimostra quel pensare umano imperfetto che ha prodotto un tal linguaggio; e la Dialettica trascendentale sopravviene a correggerlo. Ma torniamo a considerare le abitudini dell' essere assoluto, in ciascuna delle sue forme, coll' essere limitato. Abbiamo veduto che fra l' essere ideale qual si concepisce nell' ente assoluto e l' essere ideale qual si osserva nell' ente limitato, apparisce una relazione d' identità. Ella nondimeno è imperfetta da parte dell' intelletto reale che lo contempla. Ma se si considera la relazione che ha l' ideale coi reali finiti percepiti realmente, o supposti, questa relazione è quella di possibilità. Nell' essere ideale noi vediamo la possibilità logica delle cose. E la possibilità logica ci si presenta come possibilità assoluta, ossia con altra parola come possibilità metafisica. Quando noi abbiamo il concetto di un ente qualsiasi, se poi troviamo che questo ente esiste, non ce ne facciamo maraviglia, perché sapevamo che poteva esistere. Questo fatto dimostra che la possibilità logica contiene virtualmente l' indizio d' una cotal potenza infinita atta a fare che le cose (le essenze) passino all' esistenza. Ma appunto perché questa potenza infinita è compresa soltanto virtualmente nella possibilità logica, quindi noi non sogliamo cosí facilmente accorgercene, ma pure senza accorgercene operiamo e ragioniamo a tenore di quella secreta persuasione (1). Nati poi i concetti mediante il rapporto dell' essere reale finito coll' ideale veduto dall' intelletto, questi si moltiplicano coll' astrazione; e colla riflessione si trovano fra loro le relazioni d' identità e di differenza. Queste sono le abitudini dell' essere ideale verso il reale finito, delle quali fondamentale è la categorica; segue l' ideologica; e finalmente la relazione di possibilità logica metafisica. Le abitudini poi dell' essere reale finito coll' essere nelle tre forme supreme sono quelle d' intuizione per l' essere ideale; per l' essere reale, quella di creazione passiva; pel morale, come vedremo, quella di obbligazione e attività morale. L' essere reale infinito col reale finito ha l' abitudine di creazione attiva. L' essere morale poi prende col reale finito l' abitudine di legge (relazioni deontologiche), in quanto questo morale è nella forma ideale; in quanto poi è nella forma reale, in tanto non ha relazione naturale col finito, ma ha relazione di grazia nell' ordine soprannaturale. Gli antichi distinsero le relazioni in reali e mentali . Che è da giudicare di una tale distinzione? Primieramente le relazioni non si dicono mentali perché sieno condizionate ad un intelletto in generale, all' intelletto assoluto; ma si chiamano mentali qualora sieno enti fattizŒ dell' intendimento umano. In secondo luogo conviene anche spiegare l' appellativo di reali . Questo appellativo altro non può volere dire che le relazioni che sono indipendenti dall' intendimento umano. Premesse queste dichiarazioni, noi domandiamo come una relazione possa essere dell' oggetto, indipendentemente dall' intelletto umano. Di poi domandiamo come una relazione possa essere fattizia. Affine di rispondere alla prima di queste due questioni, riduciamo le relazioni ad abitudini di una cosa verso l' altra. Si presenta primieramente questa difficoltà: « L' abitudine non può essere in un oggetto solo, perché è relativa ad un altro; non può essere in entrambi gli oggetti, perché in tal caso sarebbero due abitudini distinte; non può essere frammezzo gli oggetti, perché frammezzo non v' ha nulla, e se vi fosse qualche cosa, sarebbe un terzo oggetto. Dove sta dunque l' abitudine di un oggetto all' altro? ». In quanto alle abitudini categoriche è da osservarsi che ciascuna forma dell' essere inesiste nell' altra, come abbiamo detto. Ciascuna forma è unita all' altra cosí essenzialmente, che senza questa unione non sarebbe. L' abitudine adunque è qui l' identico essere considerato come modo suo proprio. Tale abitudine risiede in ciascuno de' termini. Non vi ha dunque un vacuo tra un termine e l' altro, ma l' essere costituente entrambi i termini. Queste abitudini per sé essenti si spiegano adunque per via dell' inabitazione dell' un termine nell' altro. Questa inabitazione delle tre forme si ravvisa anche quando l' essere reale è finito; nel qual caso l' inabitazione rimane però imperfetta a cagione della limitazione dell' essere reale. Diciamo dunque qualche parola anche di questa inabitazione imperfetta, a cui si riduce la seconda classe di relazione: quella cioè che corre tra l' essere infinito nelle tre forme, e l' essere finito. La maniera con cui l' essere reale finito inabita nell' essere ideale non è cosí perfetta come quella nella quale l' essere reale infinito inabita nell' ideale. Il reale finito, non essendo nell' ideale che virtualmente, non si può sentire nell' ideale, perché il sentirsi è attualmente essere; e quindi il sentimento suo proprio non è per se stesso cognito, ma cieco ed incognito, giacché niente è cognito se non per l' ideale e nell' ideale. Ora l' essere un sentimento per se stesso incognito equivale al concetto di una separazione, di un esser fuori dell' ideale. Questa parola esser fuori dell' ideale riferita al reale finito, non significa che esser per sé incognito , e convien guardarsi di non attribuirle il concetto di un esser fuori materiale come la parte di un corpo è fuori di un' altra. Ma appunto perché l' ideale inabita nel reale finito, questo per natura sua intuisce l' ideale, senza percepire in esso immediatamente e con questa stessa intuizione se stesso, intuendovi solo il reale virtualmente. La relazione dunque del reale finito coll' ideale inabitante in lui è quella d' intuizione. Ora l' intuizione, essendo il primo atto intellettivo dell' essere finito, egli è l' atto sostanziale di questo essere, quell' atto pel quale l' essere intellettivo è. La sostanza dunque dell' essere intellettivo finito, questo stesso essere intellettivo inabita nell' ideale; ma non vi inabita, come necessario all' ideale, come identico con esso lui; ma come aderente a lui in modo accidentale e contingente, alla similitudine dell' atto del vedere rispetto alla forma visiva. Or poi la reciproca inabitazione dell' essere reale finito intellettivo e dell' essere morale trovasi ancora piú imperfetta. Perocché l' essere morale infinito è l' essere reale infinito che per sé cognito si dimostra infinitamente amabile a se stesso; ma il finito reale nell' ideale non percepisce punto l' essere reale infinito nella sua attualità, ma solo virtualmente: quindi solo virtualmente altresí ne intuisce l' amabilità. Onde l' essere finito intellettivo non ha per se stesso che l' elemento morale in potenza. Quando poi percepisce degli enti finiti proporzionati alle sue facoltà percettive, allora ravvisa in questi un' amabilità limitata, la quale, appunto perché limitata, non è ancora morale; ma quando poi s' accorge che l' amabilità dell' ente reale è proporzionata ai gradi di quest' ente, ha concepito una proposizione universale, che riguarda la totalità dell' essere e non piú una parte. Di piú, sentendo egli che questa amabilità appartiene alla natura stessa dell' essere, e che è assoluta, s' avvede che qualora i suoi affetti non si lasciassero regolare da tale amabilità, egli si porrebbe in contraddizione con tutto quanto l' essere e con se stesso altresí che n' è una porzione; sente in una parola quella che si dice obbligazione morale, necessità deontologica. L' essere morale adunque non inabita nella natura umana se non sotto la forma di legge obbligante; la legge obbligante adunque è l' essere morale virtualmente compreso nell' ideale e applicato dall' uomo agli enti finiti da lui percepiti, e piú tardi poi all' ente infinito in quel modo che gli riesce conoscerlo. Se poi si cerca come l' essere reale finito inabita nel morale, questa inabitazione per natura non si concepisce distinta dalla inabitazione di quello nell' ideale. Ma perché tale inabitazione si fa nell' intuizione, l' intuizione non è ancora l' attività libera (1) del soggetto, e però non si dà in atto un elemento morale; onde la facoltà morale, a cui si richiede un primo atto, nasce posteriormente, e da prima non ve ne sono che gli elementi. Per natura adunque il soggetto intellettivo finito non è ancor morale, e non ha che la sola disposizione a divenire cotale. Ma nell' ordine soprannaturale l' essere intellettuale finito inabita veramente nell' essere morale, di cui gli è data la percezione, e l' essere morale in lui: il che dichiara l' Antropologia soprannaturale. Qui osserveremo soltanto che allora dicesi vera inabitazione nell' essere morale quando tutta l' attività del soggetto si accoglie in lui come suo oggetto percepito e nel proprio sentimento sentito, quasi extrasoggettivo, poiché allora l' atto del compiacimento non compiacendosi piú di altra cosa, è tutto accolto in tale oggetto, in lui solo vive e come tale esiste. E qui giova richiamare quella sentenza di sopra accennata, che a far che sia una relazione è sempre necessario che intervenga l' essere intellettuale. Quest' essere stesso è la relazione categorica dell' essere reale coll' ideale: in questa prima relazione si fondano tutte le altre: l' intelletto interviene sempre, è sempre presente come una condizione senza la quale sparirebbero le relazioni fin qui descritte: esse non sono prodotte dall' intelletto, poiché egli stesso è una di esse: ma in quanto sono, in tanto sono anche intese nel primo intelletto, poiché l' intelletto è in tutte esse. L' umana riflessione poi posteriore a tale relazione non fa che riconoscerle in modo riflesso: ma avanti questa riflessione le relazioni categoriche non sono note per se stesse. E cosí appunto sono reali, non perché appartengono alla sola realità, o perché sieno senza ogni intelletto; ma perché sono nell' essere stesso, ne costituiscono l' ordine intrinseco, e quindi non sono già produzioni posteriori dell' intelletto umano. L' essere in una delle tre forme non ha relazione alcuna con se stesso. All' incontro l' essere reale finito ha moltissime relazioni con se stesso, perocché egli non è uno, ma moltiplice. La costruzione intima degli enti finiti produce certe loro interne relazioni, perocché niun ente finito è semplice, ma composto di piú entità finite che concorrono a formarlo. L' unione di queste entità, è la piú stretta di tutte dopo quella che abbiamo chiamata inabitazione delle forme categoriche. Ora, se fra questi componenti vi ha l' intelletto, o se l' ente reale risultante dai componenti è l' ente intellettivo, in tal caso la relazione è formata, poiché non si può dare relazione senza la presenza dell' intelletto, essendo proprio del solo atto intellettivo l' andare quasi fuori di sé in altro, e quindi l' essere acquista la frase scolastica ad aliquid . Ma se niuno dei componenti dell' ente è intellettivo, in tal caso il loro nesso in cui si forma l' ente non si può dire relazione, ma soltanto fondamento di quella relazione che risulta nell' intelletto quando questo scompone quel nesso e ravvisa come ciascuno è legato coll' altro (1). Convien accuratamente distinguere il fondamento della relazione dalla relazione stessa. Il fondamento può essere qualche cosa di reale; ma non è ancora l' abitudine stessa fino a tanto che un intelletto non considera quest' entità reale nel nesso ch' ella ha coll' altro termine. La piú intima delle unioni adunque è la categorica, perfetta nell' essere assoluto, imperfetta in quel modo che abbiamo detto nel limitato, e a quest' unione l' intelletto è sempre intrinseco; dopo la categorica la piú stretta unione è quella degli elementi che costituiscono un ente finito, e in questa unione talora l' intelletto è intrinseco, talora estrinseco, quasi uno straniero contemplatore: nel qual ultimo caso nei componenti dell' ente vi ha la materia ossia il fondamento della relazione ed abitudine, ma la relazione formale è posta dalla contemplazione dell' intelletto, e nell' ente. La terza maniera di unione si ravvisa nell' essere reale finito, ed è quella di azione e di passione. Per l' azione e la passione un ente non inabita totalmente nell' altro, ma entra nell' altro, non colla sua essenza, cioè col primo e totale suo atto, ma colla sua potenza, cioè, con un suo atto parziale. Rimane ad accennare la terza classe di abitudini relative che l' intendimento umano suole scorgere negli enti finiti; e abbiam detto esser quelle che nascono dal vario grado di conoscibilità che hanno le entità finite e dai diversi modi nei quali l' uomo le concepisce e le pensa. Queste si possono ancora suddividere in tre classi minori: 1) quelle che risultano dal diverso grado di conoscibilità; 2) quelle che risultano da un pensare puramente fattizio; 3) quelle che sembrano ovvero si credono risultare da un pensare erroneo ed assurdo. Tutte queste relazioni sono, almeno in parte, razionali. Da tutte le quali cose si scorge che volendo avere una suprema classificazione di tutte le abitudini relative, noi potremo dividerle in quattro grandi generi, ciascuno de' quali ammette molte suddivisioni. I Relazioni categoriche nell' essere assoluto ed infinito. II Relazioni categoriche partecipate nell' essere finito. III Relazioni dell' essere reale finito con se stesso. IV Relazioni mentali, ossia razionali, prodotte dai modi limitati di pensare dell' essere intelligente finito. A questa classe appartengono tutte le relazioni di relazioni, le quali non hanno fine, come non hanno fine gli atti possibili del pensare limitato. Vi hanno adunque tre maniere generiche o tre gradi di pensare: il pensare imperfetto , il dialettico trascendentale e l' assoluto . Noi abbiamo parlato del pensare imperfetto e del dialettico trascendentale; ci rimane ora a dire dell' assoluto. Il pensar comune è quello che s' arresta ai primi giudizi offerti alla spontaneità della mente dai vari sentimenti e principalmente dalle sensazioni esterne, come volgarmente si chiamano, i quali giudizi pongono quella stessa divisione dell' essere che il senso presenta, com' ella fosse assoluta. Su questi giudizi, mediante la riflessione, si edifica una logica ed una metafisica (e tale è quella di Aristotele eccetto qualche breve tratto dove s' innalza piú alto senza pure avvedersene), e insomma un sistema intiero di scienze. Il pensar dialettico trascendentale sopravviene a suo tempo, e convince il pensar comune di contraddizione, e quindi, spingendo il passo innanzi, tenta la via di abolire la contraddizione sgombrando cosí la strada al pensare assoluto. Quando poi dal pensare comune si cava l' edificio scientifico allora le antinomie dànno talora cosiffattamente nei piedi che non si può a meno di incastrarle nel sistema della scienza come altrettante obbiezioni. Ma gli uomini si affaticano a sciorre quelle antinomie, a rispondere a quelle obbiezioni collo stesso pensar comune che le ha nel seno; onde, o dànno risposte insufficienti di cui s' appagano, ovvero s' involgono in un raddossamento di obbiezioni sopra obbiezioni, di distinzioni sopra distinzioni, che rende la scienza un ginepraio. Questa è la ragione delle infinite sottigliezze della scolastica, le quali hanno finito collo stancare gli ingegni, e cosí la resero meno stimabile presso i dotti. Ma alto e arduo è l' investigare del pensare assoluto. In prima ogni pensare ha qualcosa di assoluto in se stesso; se no, non sarebbe pensare. Quest' è appunto quello che distingue il pensare dal sentire. Il sentire è un modo di essere relativo a chi sente: niente è d' assoluto se non il sentir di Dio, perché quello è il sentire dell' essere stesso. In che sta dunque l' essere assoluto? In che sta l' essere relativo? L' essere assoluto è l' essenza dell' essere: tutto ciò che si contiene in quell' essenza e si rimane essenza dell' essere, è assoluto. All' incontro il relativo è tutto ciò che non è l' essenza dell' essere, che non rimane piú tale essenza, a cui non compete piú tale denominazione. Da questa definizione dell' assoluto e del relativo si vede che il modo di essere relativo suppone un soggetto a cui sia relativo, un soggetto senziente o pensante, di maniera che il modo relativo dell' essere risulta dal sentimento o dal pensiero. All' incontro l' assoluto non involge nel suo concetto questa duplicità, perocché sotto questo nome non si concepisce che l' essere, l' essere come egli è. Il pensare assoluto è quando l' oggetto del pensiero è l' essenza dell' essere e tutto ciò che è in essa si pensa senza dividerla da essa. All' incontro il pensare è relativo quando il suo oggetto e termine è un' entità relativa, come sarebbe un sentimento limitato, considerato in se stesso: il che si dice anche l' esser fuori dell' essenza dell' essere, o esser da quest' essenza distinto. Dalle quali definizioni si scorge, che nel pensare vi ha sempre alcuna cosa dell' assoluto, perché niente si può pensare senza pensare insieme l' essenza dell' essere che in quanto è manifesta alla mente dicesi idea. Ma è da avvertirsi che nel pensare comune l' essenza dell' essere interviene come mezzo del pensare, piuttosto che come oggetto. Questa distinzione deve essere diligentemente considerata e chiarita. Diciamo adunque in primo luogo che v' ha un atto primo di pensare immanente, costitutivo della potenza degli atti secondi. A questo atto primo è oggetto unico e permanente l' essere ideale, l' essenza dell' essere manifesta. Quindi cotest' atto primo appartiene al pensare assoluto e non al relativo. Ed è questa la ragione perché di poi in ogni atto di pensare, anche relativo, si mescola il pensare assoluto e lo suppone innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell' atto primo, il pensare relativo sull' assoluto. Questa è la ragione altresí per la quale in fondo ad ogni pensare giace una verità assoluta; la ragione per la quale gli scettici, cercando l' assoluto senza coglierlo, hanno il torto; la ragione perché la mente ha per norme de' suoi giudizi delle ragioni assolute (1); e finalmente la ragione perché l' essenza dell' essere, ossia l' idea dell' essere in universale, costituisca il vero criterio della certezza. Ma veniamo agli atti secondi del pensare: questi sono provocati dal sentimento, da un sentimento finito come quello dell' uomo, da sentimenti parziali di questo sentimento finito, come sono le sensazioni. Ora, fra gli atti secondi del pensare, quelli che precedono gli altri sono le percezioni, le quali hanno per oggetto gli enti sensibili: quindi questi atti di pensare si dicono relativi ed imperfetti perché hanno a loro materia delle entità relative. Vero è che interviene l' essere; ma, in quanto l' essere è universale, non vien se non come un precedente e come un mezzo per arrivare al particolare, né si pon mente a lui nella sua universalità, ma in quanto rimane limitato dal sentimento: onde non si pensa piú l' essere in se stesso, ma invece di lui rimane l' essere relativo a proprio termine del pensiero e dell' attenzione. Le percezioni adunque delle cose sensibili appartengono al pensare imperfetto e relativo, non all' assoluto; e tuttavia presuppongono un primo atto anteriore di pensare assoluto. Ora, posciaché la riflessione comune si fa sulle cose percepite, o certo con un continuo rapporto ad esse; quindi tutte le riflessioni comuni tengono della stessa loro materia primitiva alcuna imperfezione, e non possono giungere al pensare assoluto. Ma la riflessione analitica e l' astrazione aggiungono al pensare de' nuovi elementi d' imperfezione, mediante sempre nuove limitazioni apposte all' essere, ciascuna delle quali è una esclusione e quasi eliminazione della essenza dell' essere dinanzi al pensiero. Ma questa è la differenza tra il pensare ed il sentire, che il sentire non ha alcun bisogno dell' intuizione dell' essenza dell' essere, e però non ha niente in sé di assoluto; ma pensare non si può senza l' essenza dell' essere, e però è sempre qualche cosa di assoluto che forma la base di ogni pensiero, benché le percezioni e le riflessioni che ne conseguono tengono del relativo a cagione che non sono puro pensare, ma mistura di due atti congiunti di pensare e sentire (2). Sembra che quando si dice pensare assoluto si dica cosa semplice e non suscettibile di piú gradi, pigliandosi la parola assoluto , quanto un dire d' ogni parte perfetto. Ma non è questo il significato. Chiamiamo assoluto il pensare ogni qualvolta egli ha per oggetto l' essere nella sua propria semplicissima essenza. Ora questa essenza si fa presente alla mente umana in varŒ modi: ella rimane sempre dessa, ma non perciò è uguale la congiunzione di lei colla mente. Il che consuona con ciò che ragionammo del pensare attuale e virtuale. Quando l' oggetto del pensiero è l' essere stesso, allora la virtualità non è un difetto che sia nell' essere, ma sí nella mente. Questa virtualità dell' essere, come oggetto del conoscere umano (giacché in se stesso e come oggetto del conoscere divino non ha virtualità alcuna), è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché oscuro e misterioso non è meno un fatto. Quando noi parliamo di virtualità nella cognizione, non si creda che si parli di cognizione totalmente in potenza, la qual non sarebbe cognizione: parliamo di vera cognizione, avente un oggetto, abbracciante tutto l' essere, l' essenza dell' essere; ma egli è in quest' oggetto stesso, come oggetto non come essere, che trovasi la virtualità il che è quanto dire che quell' oggetto virtualmente contiene tutto, tutto l' essere. Ora i gradi di questa virtualità variano grandemente, ed è perciò che dicevamo anche il pensare assoluto avere diversi gradi. La prima comunicazione dell' essere essenziale alle creature non si fa che per via d' intelligenza. Or nell' intelligenza vi ha prima l' essere ideale che la informa; di poi si copula ad esso il reale onde nasce l' atto della percezione e gli altri atti a cui la percezione apre la via; finalmente si manifesta l' essere conosciuto come amabile e beante, che è quanto dire come essere morale. Ora, secondo quest' ordine delle tre forme dell' essere, si ravvisa anche nel pensare assoluto tre gradi, ad ognuno de' quali si scema la virtualità, e tuttavia non cessa del tutto. Il primo grado è quello della semplice intuizione dell' essere. L' oggetto dell' intuizione è virtualissimo di tutti, poiché non solo niente in esso si distingue idealmente, ma le stesse forme della realità e della moralità, non appaiono in esso attuali, ma si nascondono nella sua virtualità. E questo nascondersi vuol dir questo solo che, allora quando si giunge ad avere la percezione attuale del reale e del morale, vedesi che nell' ideale v' avea già il principio di queste due forme, e queste stavano in lui in modo simile a quello che la specie si sta nel genere. Il secondo grado del pensare assoluto è quando l' essere reale stesso è da noi conosciuto nella sua totalità in un modo distinto dall' ideale e tuttavia virtualmente. Che se noi aderiamo volontariamente all' essenza dell' essere, ci congiungiamo a lui moralmente, cioè attivamente per via di nostra volontà; questa unione in cui sta il sentimento morale dà materia al terzo grado del pensare assoluto, che anche qui può avere la sua virtualità e però ritenere dell' imperfetto. Le tre forme dell' essere adunque danno luogo a tre gradi del pensare assoluto. Ma questi gradi sono in pari tempo maniere distinte di pensare e categoricamente distinte, ciascuna delle quali ha i suoi gradi di virtualità, e però quelli d' imperfezione piú o meno. Del pensare assoluto che ha per termine l' ideale non accade far altre parole. Senza che, egli è cosí semplice, che non ammette altri gradi se non quelli della riflessione che vi si sopraggiunge, e che non accresce né diminuisce l' oggetto. Il pensare assoluto adunque, che ha per termine il reale, ha luogo, secondo la definizione, quando il reale che si pensa non lo si pensa come distinto dall' essenza dell' essere, ma come adunato in essa, come essenza dell' essere egli stesso. Questo può accadere in diverse maniere e con gradi diversi. Prima di tutto è da distinguere a questo proposito il pensare negativo dal pensare positivo. Perocché dicesi pensare negativo quando l' oggetto stesso non si percepisce sensibilmente e direttamente, ma si conosce per via di sue relazioni e differenze ch' egli ha da qualche altro oggetto percepito direttamente e sensibilmente. Il pensiero va negando dell' oggetto, a cui vuol pervenire, quella qualità ch' egli vede negli oggetti percepiti, e sa che l' oggetto di cui si tratta deve averne delle altre in luogo di esse, ma tuttavia non sa dir quali, e di queste qualità incognite conosce solo alcune condizioni ontologiche. E cosí quando la Critica trascendentale giunge a notare le antinomie del pensar comune, e perviene fino a conoscere che quelle antinomie nascono a cagione che il pensare che le produce si ferma nell' essere relativo, e intende che riducendo l' essere relativo all' assoluto quelle antinomie dispariscono: già con questo solo il pensare è pervenuto negativamente a rendersi assoluto, in quanto che è arrivato a vedere che l' essere assoluto non può fallire che ci sia. E qui giova osservare che anche nel comune delle intelligenze va quasi sott' acqua serpendo e lavorando un pensare assoluto. La cosa si spiega, tostoché si ponga mente a quello che abbiamo detto, che il primo atto dell' umana intelligenza appartiene al pensare assoluto, e quest' atto si mantiene sempre vivo, e accompagna e regge tutti gli altri atti. Né fa maraviglia che talora l' uomo ragioni senza aver coscienza del ragionamento che fa, perché va da sé, come vanno pure da sé tante altre potenze dell' uomo, e l' uomo non se ne può render conto se non vi riflette; e talora egli non vi riflette punto né poco. Il pensare assoluto che si fa, non per la primitiva intuizione o per la percezione dell' assoluto stesso, ma per via di ragionamento, è sintetico nel piú alto grado. Che cos' è la forza sintetica della ragione? Questa preziosa facoltà non consiste solamente in raccogliere o aver presenti molti fatti reali e circostanze, e molti dati del pensiero, ma consiste assai piú in saper unire questa pluralità, riducendola in uno quasi risultamento psicologico e ontologico di quei piú. Se ben si considera qual sia l' intima natura dello spirito quando sintesizza, si troverà che ella si riduce a pensare il particolare congiunto coll' universale o col tutto (1): il che far non potrebbe se alla percezione o considerazione del particolare la forza mentale s' alienasse dall' universale o dal tutto. Quegli ingegni che dalla percezione de' particolari rimangono quasi assorbiti e legati divengono inetti ad afferrare e stringere insieme l' universale coi particolari, e quindi i particolari fra loro, formandone unità; i quali tutt' al piú possono avere ingegno analitico, ma non sintetico. Quella forza adunque della mente di vedere i piú nell' uno, e quella inclinazione a non esser paga la mente de' particolari se non li vede raggiunti negli universali o in un cotale organismo (sia questo ontologico, logico o fisico), varia grandemente negli uomini e da questa varietà dipende che gli ingegni siano piú o meno sintetici e comprensivi. Or devesi qui osservare che l' universale è bensí necessario a formare quel pensiero che si dice sintetico, ma questo pensiero non è la semplice intuizione dell' universale, ma la congiunzione di particolari per via dell' universale e nell' universale. La ragione dunque di un problema, è come cappio di tutti i fili, la sintesi di essi. Or vi hanno delle menti che afferrano piú facilmente questa ragione. Quando un uomo di vaglia scrive o ragiona, gli vengono sul labbro o sulla penna filate e ordinate tutte le proposizioni del suo ragionamento, i lumi e gli amminicoli del discorso, cotalché l' uditore o il lettore è costretto a dire: « Questi ragiona bene! che connessione, che coerenza, che efficacia di prove! ». Ebbene, questo possente oratore e logico ragionatore, nel momento in cui incominciò a dire, aveva egli dinanzi al pensiero tutte quelle proposizioni bene concatenate? Di niuna di quelle aveva coscienza; ma, poiché gli uscirono fuori, convien dire che vi avesse in lui il pensiero fecondo ond' egli le trasse, come la filatrice il filo dal pennacchio. Ora quel pensiero che era in lui, doveva essere un pensiero sintetico, un pensiero fecondo di tutto il suo ragionare che aveva in seno, e pure quel pensiero rimaneva egli stesso inosservato ed occulto fino a tanto che il ragionatore non vi pose l' attenzione, che ne dedusse i lunghi suoi ragionari. Questo fatto dimostra due cose. La prima, che i pensieri della mente umana hanno due stati: l' uno d' involuzione, ed è sintetico; l' altro d' evoluzione, ed è analitico. La seconda, che il pensiero in istato d' involuzione sfugge facilmente alla coscienza, sfugge almeno dalla coscienza la sua fecondità, anche quand' egli è attualmente presente; laddove il pensiero analitico facilissimamente soggiace alla consapevolezza, se egli è attuale e presente, e non abituale come accade quando rimane nel deposito della memoria senza che ci si pensi. Or questo pensiero involutissimo e insieme attissimo a svolgersi, non è puramente l' intuizione dell' essere in universale, perché questa sola, benché pensiero involutissimo ed assoluto, non è atto a svolgersi, mancandole ancora l' elemento reale e quasi maschile che la fecondi. Oltre adunque l' essere ideale, per termine del pensiero assoluto, di cui parliamo, vi ha l' essere reale (la totalità dell' essere); ma questo concepito come un incognito di cui sono cognite piú o meno relazioni, e conseguentemente piú o meno qualità negative ed anche analogate (1). E poiché il pensiero assoluto, di cui parliamo, può risultare da piú o meno di queste relazioni, e da queste qualità relative ed attributi analogati; perciò il pensiero assoluto ha una gradazione, giacché forma una sintesi or piú or meno complessa di piú o di meno elementi risultanti: la qual gradazione appartiene sempre al pensare assoluto, perché abbraccia tutta l' essenza dell' essere nella sua realità, mancando tuttavia la percezione di essa, ma in suo luogo formando termine del pensiero l' incognito determinato dalle riflessioni dette. Questo pensiero assoluto è il fonte da cui proviene la Teosofia, la quale non è altro che quel pensiero stesso analizzato e dedotto in conclusioni, e tutte queste conclusioni sintesizzate e ridotte in quel pensiero. Perciò la Teosofia è la scienza che può aver anch' ella piú o meno di svolgimento, piú o meno di perfezione. E questo pensiero sommamente sintetico, difficilissimo a cogliersi dalla coscienza, tiene, rispetto al suo sviluppamento, la legge comune di tutti i pensieri sintetici. Il pensiero sintetico non ancora svolto sta nella mente come un' unità infeconda: tale sembra alla mente stessa. Ora egli accade che, se la mente si fa a contemplarlo fissamente per un tempo notabile senza adoperarvi intorno alcuna analisi, pare a lei di starsene per poco oziosa, e di meditare senza costrutto. E tuttavia questa meditazione, cosí unita ed asciutta, fortifica la mente; la quale poi in altro tempo incomincia e prosegue l' analisi di quel pensiero con grande facilità e ricchezza. Questa legge è comune ad ogni pensiero sintetico. Il pensare assoluto che ha un termine reale, se non eccede i confini della ragion naturale, non può esser altro che negativo. Di che la ragione è chiara: perché quello si dice pensare assoluto che termina nell' essere assoluto; ma l' assoluto reale non si percepisce dall' uomo entro i confini di sua natura. Per andare al di là, conviene che s' aiuti coll' ideale; e con quest' ala egli perviene a conoscere che deve esistere il reale assoluto, non percepisce lui stesso esistente. Che adunque a un soggetto finito come l' uomo sia dato a percepire il reale assoluto quest' è opera soprannaturale, poiché soprannaturale è il reale assoluto non avendo la natura che un modo di essere relativo. Questa comunicazione soprannaturale si fa in questa vita per due modi: per via di carattere e per via di grazia , secondo il favellare de' teologi; il primo de' quali si riferisce all' intelletto, il secondo alla volontà: nel primo caso si comunica l' essere assoluto come reale , nel secondo come morale . E quantunque questo argomento spetti all' Antropologia soprannaturale , tuttavia, egli era mestieri che qui s' additasse: cosí a fine di tenere distinto accuratamente ciò che è dell' ordine soprannaturale da ciò che è dell' ordine naturale; come altresí per la ragione che il pensare assoluto non si perfeziona che mediante l' ordine soprannaturale, solo in questo divenendo positivo. Onde manifestamente si vede come la creatura abbia bisogno del Creatore pel suo compimento, non che questo compimento appartenga alla natura o si possa dir naturale: che anzi è d' un' indole tutta soprannaturale e gratuita. Se dunque vogliamo tradurre nel linguaggio della filosofia quel carattere indelebile che giusta l' insegnamento di Cristo viene impresso nell' anima nella rigenerazione battesimale, diremo che è una percezione primitiva dell' assoluto reale principio dell' uomo soprannaturale la quale corrisponde all' intuizione dell' assoluto ideale principio dell' uomo naturale. Sono questi due pensieri assoluti: l' uno naturale avente per oggetto l' essere nella sua forma ideale; l' altro soprannaturale avente per oggetto l' essere assoluto nella sua forma reale. Questo nuovo pensiero assoluto è nell' uomo continuo, benché l' uomo non abbia piú coscienza di lui di quello che se l' abbia del natural suo pensiero assoluto l' intuizione dell' essere. Ma come quest' intuizione presiede alla produzione di tutti i ragionamenti naturali dell' uomo; cosí il pensiero assoluto proprio del cristiano che ei trasse dall' impressione della verità reale si manifesta come un senso o facoltà di sentire, giudicare, e ragionare rettamente di ciò che è soprannaturale e divino; ed è quella luce a cui camminano non pure gl' individui, ma ancora i popoli battezzati, giusta la profezia: ambulabant gentes in lumine tuo (1); benché anche questa luce sia il piú senza che n' abbia l' uomo coscienza (2). La ragione poi, per la quale di questa percezione soprannaturale non v' ha coscienza da principio, si è quella stessa per la quale di niun atto dello spirito s' ha coscienza senza una riflessione, la quale per lo piú non è contemporanea all' atto, ma a lui succede. Ma perché la coscienza della perfezione soprannaturale neppur di poi vi si aggiunge, o vi si aggiunge almeno molto difficilmente? Primieramente perché ella è immanente, ha forma d' abito: e gli atti abituali non sono stimolo della facoltà riflessiva. In secondo luogo perché l' attività divina, che in tali percezioni a noi si comunica, è quella attività creatrice che finisce unicamente in noi, e però ella non ha altro effetto ed espressione che noi stessi; e poiché è tanto difficile riflettere su di noi stessi cadendo la riflessione sugli atti nostri, e ancor piú difficile è distinguere in noi, che abbiamo natura sí semplice, ciò che è naturale da ciò che è soprannaturale, due elementi che fusi insieme costituiscono l' uomo cristiano; perciò si mostra cotanta la difficoltà che ha l' uomo di formarsi la cognizione riflessa dell' elemento soprannaturale che è in lui. Vi ha poi questa notabile differenza fra il ragionare che scaturisce da quel pensiero assoluto che s' ha per natura e il ragionare che scaturisce dal pensare assoluto cristiano: che il primo, pigliando la sua materia dal reale finito, cessa d' essere un pensare assoluto, e se rimane assoluto procede da un pensiero negativo dell' assoluto reale; all' incontro il ragionare che logicamente scaturisce dal pensare assoluto cristiano, è sempre assoluto egli stesso, pigliando la sua materia dall' assoluto reale positivamente pensato. Conviene anche avvertire che il pensiero assoluto cristiano tiene la sopraindicata legge del pensar sintetico, per la quale la mente, solo col tenersi raccolta a meditare il reale assoluto percepito, benché ancora non l' analizzi e sembri sterile quella sua immota contemplazione, si fortifica divenendo piú adatta a dedurre poi particolari conclusioni e ragionamenti in copia. Questo anco si dimostra dal fatto giornaliero, che, coltivandosi il sentimento generale della pietà cristiana, anche senza alcuna analisi e passaggio a proposizioni determinate, come accade nel popolo assistente alla liturgia in lingua che non intende: lo spirito intelligente ne rimane grandemente avvigorito, e si trova assai piú pronto e ferace al bisogno di documenti e ragionamenti speciali nell' ordine morale religioso e meno incerto di ciò che è da fare nei diversi casi della vita per conservare una cristiana condotta. Questa facilità e sicurezza di giudizio pratico e speculativo in persone rozze ed inerudite, ma pie, non si sa dire talora onde venga; ma il vero si è che viene dalla forza che ha preso in esse quel primo pensiero assoluto, che è la base occulta della vita cristiana e la luce prima soprannaturale onde pendono tutti i ragionari della mente. Vi è anco un pensiero assoluto morale: questo è quello che occultamente domina tutta la vita dell' uomo quando esso si rende pratico. Questo pensiero morale che presiede alla moralità di fatto di ciascun uomo, è anch' esso per lo piú occulto alla coscienza dell' uomo stesso, che alla luce di quello pensa ed opera senza fermare punto né poco la sua riflessione in quella pura luce. Questo pensiero morale assoluto non è semplicemente l' idea astratta della moralità d' un bene e d' un male morale; ma è un pensiero sintetico che ha del reale e del pratico; tanto sintetico che pare all' uomo piú che altro un sentimento e può ancora considerarsi come un atto abituale razionale della volontà. Infatti si può dire che sia ciò che l' uomo vuole nel piú intimo dell' animo suo, ciò che l' uomo vuole quando crede di operare secondo coscienza in tutti gli atti che egli fa, ciò per cui elegge e vuole piuttosto questi atti che quelli; il qual ciò è uno e identico in tutti gli atti. Il pensiero adunque sintetico morale che giace in fondo a ciascun uomo e ne determina l' operar morale, varia in piú modi; ed è perfetto solo quand' è assoluto, cioè quando contiene con piú o meno di virtualità tutto ciò che è veramente bene morale, senza esclusione di cosa alcuna. Tutti quelli, il cui pensiero sintetico morale principio del loro operare è assoluto, operano bene; ma quelli, il cui pensiero intimo fondamentale nell' ordine morale non è assoluto, hanno una falsa probità, non vogliono veramente ciò che è morale, benché osservino gli offici morali parzialmente. E` da notarsi che il pensiero morale rettore della vita può essere assoluto con piú o meno di virtualità. Ma oltracciò il pensiero sintetico7morale, che trovasi in fondo dell' animo, può essere assoluto e non essere tuttavia puro , in quanto che l' assoluto può andar vestito d' una forma speciale che non gli toglie l' essere assoluto, ma gli aggiunge qualche cosa che senza scemare la perfezione del primo pensiero gl' impedisce di svolgersi da tutti i lati, limitandolo ad un cotal modo determinato di svolgimento. Da questo procede principalmente la diversa fisionomia per cosí dire che ha la pratica della virtú negli uomini virtuosi. Il pensare assoluto, di cui parliamo, non è semplicemente quello: « evita il male e fa il bene »poiché è ancora astratto e negativo non determinando punto che cosa sia il male morale che si dee cansare e il ben morale che si dee fare, ma supponendogli conosciuti. All' incontro la prima vista del bene e del male che cade in un animo, questa vista interiore, immediata, colla quale l' uomo conosce direttamente che cosa sia il ben morale, vista che subito si cangia in un sentimento: questo è il pensiero assoluto morale di cui parliamo. Questo pensiero morale assoluto, il piú intimo di tutti i pensieri morali, sfuggente per lo piú alla coscienza, e costituente il carattere morale dell' uomo, spiega come si manifestino talora nelle persone piú rozze gli atti della piú eroica o delicata virtú; e come il senso morale, che distingue colla maggior giustezza le morali convenienze, sia sovente piú squisito in quelli che hanno minor sapere e coltura: è anteriore alla scienza che non può altro che svilupparlo. Or come poi rispetto all' essere reale abbiamo distinto un pensiero assoluto naturale e un pensiero assoluto soprannaturale: lo stesso dobbiamo dire rispetto all' essere morale. E il pensiero assoluto naturale è del pari negativo, mancando nell' ordine della natura quel bene ultimo assoluto che viene sempre dal pensiero morale supposto: onde nacque il gran vuoto alla morale stoica, come abbiamo altre volte dimostrato (1). L' essere assoluto è il bene assoluto. E, posciaché l' essere assoluto è dato all' uomo positivamente solo per quell' opera soprannaturale che si compie nel battesimo; quindi nel cristiano è infuso un nuovo principio morale, un nuovo pensiero assoluto positivo ed efficace, il quale dà all' uomo una nuova vita e una nuova potenza morale; ed è questo secreto principio che rimutò il mondo pagano e che rimuta interamente di male in bene quelle nazioni dov' entra il cristianesimo, vi emenda i costumi, vi fa pullulare azioni eroiche in ogni virtú, le incivilisce e le incammina in sulla via del progresso. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto viene costituito dall' assolutità dell' oggetto; e che ogni pensare imperfetto e relativo viene dal soggetto, il quale termina l' atto del suo pensare in ciò che non è essere assoluto. E tuttavia non è da credere che il pensare riesca imperfetto e relativo per l' unica ragione ch' egli ha degli oggetti finiti; ma la ragione di tal pensare è che si ferma unicamente in questi, non dando attenzione all' infinito, alla relazione che hanno con questo. Ma, che la mente non badi a questo nesso del suo pensare ordinario, dee procedere da qualche ragione naturale, non da difetto accidentale dell' individuo; perocché si vede che cosí fanno tutti gli uomini colle loro riflessioni e prime percezioni. Or questa causa noi l' abbiamo già indicata quando abbiamo detto che rimane occulto all' uomo il nesso che congiunge l' universo con Dio, l' essere relativo coll' assoluto. Ma colla fatica della mente si giunge alla dialettica trascendentale, la quale scorge a vedere la necessità di quel nesso e a conoscerlo negativamente. Vi è dunque un pensare assoluto primitivo naturale d' intuizione; vi ha un pensare assoluto per una cotal sintesi che si fa nell' anima spontanea e che vi dimora abituale (oltre il pensare assoluto infuso che è una via di percezione); finalmente vi ha un pensare assoluto per via di attuale riflessione speculativo scientifico. Quest' ultimo solo fa sí che l' uomo si chiami appagato del suo sapere. Dei due primi, fin che stanno soli, l' uomo non giudica cosa alcuna, né se ne loda, né se n' attrista, perché non se n' è reso consapevole; ma se v' aggiunge la riflessione, a prima giunta non li trova, o gli pare di non conoscer nulla di essi, e in ogni caso non se ne chiama soddisfatto. Appunto perché le due prime maniere di pensare assoluto mancano di questi due caratteri necessari alla soddisfazione dell' animo umano: 1) l' essere, il conoscere positivo; 2) l' essere, il conoscer conscio. Al pensare assoluto dell' intuizione innata mancano entrambi questi caratteri, poiché 1) l' oggetto è puramente ideale; 2) egli è occulto, non riflesso, senza espressione di sorta. Ma perché l' uomo tanto cupidamente desidera che l' oggetto del suo pensare sia reale, positivo, attuale? Ciò che soddisfa il soggetto deve esser cosa del soggetto: perciò conviene che la notizia il soggetto la faccia sua propria acciocché lo soddisfi. Ma appropriarsela, è quanto unirla a sé, a sé riferirla, altro non essendo la proprietà che l' unione d' una cosa esterna al soggetto per via di sentimento razionale (1). Ora non può far questo, fintanto che null' altro conosce che il solo essere ideale. Egli vede l' idea, non la possiede ancora. Il soggetto dell' intuizione è ricevente , non ancora agente ; e dove non vi ha azione propria, esso non può trovare un diletto che gli soddisfi, venendo al soggetto la soddisfazione dalla propria attività, o certo essendo a questa condizionata. Questa mancanza di attività soggettiva nell' intuizione è ancor meno che il non aver coscienza, poiché gli atti stessi dell' attività soggettiva possono rimanere senza coscienza od acquistarla. Or dunque, che l' essere ideale vuoto d' ogni reale non soddisfi all' umano intendimento, apparisce per due cagioni. La prima, perché questa cognizione si presenta come principio di un' altra cognizione che non si ha, ed a questa si richiama e riferisce; onde, tant' è lungi che possa appagare, che anzi essa è l' origine dello stesso desiderio che l' uomo ha di conoscere. La seconda, perché l' essere ideale non ha espressione alcuna, né alcun segno reale che sia stimolo all' attenzione, onde si rimane del tutto inosservato non producendo nell' anima altro sentimento distinto da quello che ha l' anima stessa nella sua condizione d' intellettiva. Passiamo a considerare come non soddisfaccia alla brama di conoscere, che ha l' uomo, il pensare assoluto negativo che riguarda il reale lasciato solo senza le sue deduzioni. La ragione di ciò non è che egli sia al tutto privo di reale, come accade dell' idea dell' essere; ma il reale che ne forma il termine non conoscendosi che per via di esclusione e di negazione, s' intende esser cosa esistente sí, ma incognita: onde eccita la voglia di conoscerla, anziché acquietarla. Ma quello che piú mi preme di osservare, si è quell' insufficienza all' appagamento che il pensare assoluto del reale ha in comune con molti altri casi di pensare sintetico. Il carattere di questo pensare è quello di esser privo di ogni espressione, di ogni segno sensibile che attiri l' attenzione. Questo pensare occulto, privo di espressione, perfettamente sintetico, ha luogo soprattutto nel pensare assoluto positivo del reale, costituente, come dicevamo, l' ordine soprannaturale. Essendo positivo questo pensare, esso ha per materia un sentimento; o piuttosto, il reale nell' idea dell' essere non si vede solo, si sente. Che cosa aggiunga il sentimento alla pura intuizione non si può insegnare a parole, convenendo rimettersi all' esperienza. Nondimeno, poiché il sentimento varia secondo che nasce dall' azione d' un essere piuttosto che d' un altro, per esprimere questa verità, noi abbiamo inventata una parola, non avendone trovata alcuna che ciò significasse nelle lingue: l' abbiamo chiamata, cioè, il tocco del sentimento , onde quel proprio sentimento dell' essere assoluto noi possiamo dirlo il tocco dell' essere . Ed ora possiamo tornare sul problema dell' Ontologia. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto ha, quasi direbbesi, tre faccie. Quella che riguarda l' essere sotto la forma reale; quella che riguarda l' essere sotto la forma ideale; quella che riguarda l' essere sotto la forma morale. Anche il problema ontologico si conforma a questi tre aspetti. Egli nasce dalla relazione tra l' essere finito, quale si conosce da noi per via di percezione che appartiene al pensar relativo, e l' essere infinito, quale si conosce da noi coll' intuizione ingenita che appartiene al pensar assoluto. Queste due maniere di pensare, la percezione e l' intuizione dell' essere, raffrontate fra loro, dànno l' antinomia ontologica, poiché si trova di piú nel finito, quale sta nella percezione, che nell' infinito, quale sta nell' idea dell' essere. « Come è egli possibile che nel finito sia piú che nell' infinito? che nell' infinito ideale non si trovi la ragione, la spiegazione, la causa del finito reale? ». Non iscade allora di trono la ragione, non perde ogni autorità? Cessa cosí d' essere vero che l' intelligenza presieda a tutte le cose di necessità ontologica. Non solo ritorna la confusione del caso, ma l' essere stesso ha perduto l' interno suo ordine, che risulta dall' essenziale rapporto fra la sua realità e la sua idealità: e l' essere senza ordine non si concepisce piú, è annichilato, rimane il nulla. Cosí il problema ontologico si riduce alla conciliazione fra il pensare relativo e l' assoluto, l' assoluto, dico, spettante alla categoria ideale. Ma la triplice faccia del problema apparisce allorquando si considerano i diversi modi del pensare relativo, confrontando ciascun de' modi di essi coll' assoluto. Perocché il pensare relativo: 1) talora termina colla sua attenzione nel reale, come accade nella percezione, ecc.; 2) talora termina colla sua attenzione nell' idea, come accade nell' universalizzazione, ecc.; 3) talora termina colla sua attenzione nel morale, come quando sente o pronuncia l' obbligazione, la bontà di una azione, ecc.. Ora se ciò in cui bada il pensiero è un ente finito reale, il problema ontologico si manifesta sotto quella forma che abbiamo espressa, e dimanda: « Come mai l' idea della cosa ne mostri la possibilità senza dare alcuna ragione della sussistenza? ». Il che si risolve in questa antinomia: 1) Il reale finito, l' universo, deve avere una ragione necessaria che ne determini la sussistenza. 2) Il reale finito, l' universo, può essere e non essere, e però non ha ragione che spieghi perché sussista, piuttosto del contrario. Ma se il pensiero si ferma nell' idea della specie e de' generi, allora la difficoltà prende un' altra forma: « Queste essenze sono reali? sono ne' reali, sono fuori de' reali? ». Di che l' antinomia: « Sono ne' reali, poiché di essi si predicano né si potrebbero di essi predicare se ad essi non appartenessero: - Non sono ne' reali, poiché essi sono comuni, e ogni reale è particolare: reale e comune si contraddicono ». Finalmente se il pensiero si ferma nell' essere morale, lo stesso problema acquista una terza forma: è l' antinomia morale che dimanda una conciliazione. Le due proposizioni opposte formanti cotesta antinomia sono le seguenti: 1) « Il soggetto non può tendere che al bene suo proprio, perché il bene, se non è proprio del soggetto, non è per lui bene; e se non è bene, non può tendervi ». 2) « Il soggetto, lungi dal dover cercare il proprio bene, anzi deve unicamente porre ogni suo rispetto ed affetto nell' oggetto, e con piena annegazione di se stesso riconoscere praticamente quell' essere secondo ciò che è oggettivamente ». Trattasi sempre di sciogliere un' antinomia che presenta il pensare relativo, sia nell' ordine reale, sia nell' ordine ideale, sia nell' ordine morale. Questa antinomia non si può conciliare che col pensare assoluto: senza di questo, o rimane insoluta, o di piú conduce gli uomini ai piú mostruosi errori. Ora le tre antinomie categoriche, che esprimono il problema ontologico, appartengono al pensare critico, e ciascuna mette il pensare relativo in contraddizione con se stesso, o col pensare assoluto proposto dubbiosamente. Ma nello stesso pensare assoluto si trova la conciliazione delle antinomie, purché tal pensare a trovarla si applichi. Cosí, per rispetto alla prima antinomia, la ragione perché il mondo sussista, non si trova è vero nell' idea del mondo, ma piú la si rinviene nelle profondità dell' essere morale: è una ragione deontologica, la quale non induce necessità fisica, ma deontologica soltanto. Or questa ragione è sufficiente a determinare l' azione del primo essere, come quello che è perfettissimo. La soluzione della seconda antinomia si trova pure facendo uso del pensare assoluto semplicemente che si può dire assolutamente assoluto, e consiste nel concepire l' essere come uno nelle tre categorie. Se dunque si tratta di spiegare come le idee specifiche e generiche sieno da una parte eterne ed affatto distinte, dall' altra molte; basterà riconoscere che l' elemento eterno che hanno le idee si riduce ad uno, cioè a quello dell' essere, onde tutte quelle che comunemente si dicono idee specifiche e generiche sono propriamente concetti di un' idea sola, dell' idea dell' essere; e cosí col pensare assoluto categorico rimane sciolta questa antinomia. Ma se l' antinomia prende un' altra forma, nella quale l' abbiamo esposta di sopra, ponendo da una parte che le essenze debbono essere nei reali di cui si predicano, e dall' altra che non possano essere nei reali; allora convien ricorrere, per uscirne, al pensare assolutamente assoluto, cioè a quello che apprende l' unità dell' essere nella trinità categorica. Anche l' antinomia morale si scioglie con quel pensare assoluto che ha per oggetto la relazione fra l' essere ideale ed oggettivo e l' essere reale e soggettivo. La qual relazione è questa, che l' essere soggettivo si assolve, perfeziona e beatifica coll' aderire all' oggettivo, non ritornando a se stesso se non in quanto nell' oggetto si ritrova. All' oggetto appartiene l' assolutità dell' essere, al soggetto la relatività ; ma la relatività si assolutizza quando finisce la sua azione nell' assolutità. Questa intrinseca costituzione dell' essere spiega come la morale non possa altrove consistere che nell' adesione del soggetto all' oggetto. Colla quale adesione il soggetto pare che operi in opposizione alla propria natura. Ma ultimamente ritrova se stesso nell' oggetto per amore del quale s' era perduto, e si trova felice: la sua esistenza, se non era assoluta, ha cosí partecipato dell' assoluto. Senza di ciò il soggetto finito mancherebbe della sua piena esistenza ontologica; e la necessità sentita di questa esistenza, acciocché sia completo essere, è la forza veramente ontologica dell' obbligazione. In pari tempo dalle stesse nozioni apparisce che l' attività morale va direttamente nell' essere , e però è universale come l' essere: di maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e da assoluto com' è, l' essere diventasse relativo, non ci sarebbe piú nulla di morale. E questa è la regola a distinguere dalle vere virtú que' falsi concetti che ripongono la virtú in qualche relativo, e non l' estendono a tutto l' essere. Il pensare assoluto, fu già notato, altro è cosí semplice che non mostra nel suo seno distinzione alcuna, né parti, né organi: tale è l' intuizione dell' essere, tale quel pensar sintetico assoluto, occulto nell' anima, che abbraccia tutto il reale, e niente di determinato in esso, sia che spetti all' ordine naturale e negativo, o all' ordine soprannaturale e positivo. Altro è moltiplice, ed è quando si riferisce lo stesso pensare relativo all' assoluto, mettendo accordo tra essi: nel qual fatto il pensare relativo si pensa in un modo assoluto. In questa seconda maniera di pensare assoluto vi è dunque pluralità. Pluralità di termini, di elementi, d' oggetti; e pluralità di modi di conoscere. La pluralità dei modi di conoscere moltiplica gli elementi e gli oggetti; è quella che somministra la materia abbondevole al pensare. E nel vero, la percezione, l' universalizzazione, l' astrazione, la sintesizzazione, sono altrettanti modi di conoscere che producono gli elementi del ragionamento. Dove è da notarsi che la sintesizzazione non è ancora la sintesi assoluta, ma quella che si ferma per cosí dire a mezzo la via. Tale sintesizzazione comincia dal riportare il sentito all' idea dell' essere, che è la sintesi primitiva, o la percezione: dalla quale, se coll' universalizzazione si toglie via la persuasione della sussistenza, rimangono le idee specifiche piene, donde l' astrazione cava i cosí detti astratti. Ma lo spirito, seguitando a sintesizzare, riferisce i percepiti, gli universali e gli astratti all' idea dell' essere, e per essa viene a conoscere le relazioni, e i vincoli attivi e passivi che hanno fra essi. Atteso poi l' esperienza del mancare talora i conosciuti allo spirito, e del loro ripristinarsi e del mancar di nuovo (il che avviene per essere il pensiero umano contingente), si vengono formando le idee del nulla assoluto e relativo, quella delle negazioni. Tali sono gli elementi del ragionamento, i quali appartengono a diversi modi del pensare. Or tutti questi elementi, benché singolarmente presi appartengono al pensare relativo, tuttavia diventano, quasi direbbesi organi dell' assoluto allorquando s' innestano in questo, pensando la relazione che a questo tengono. Ed ora qui, alla fine, siamo in agio di toccare alcune questioni di logica trascendentale, intorno alle quali molto in Germania si fu assottigliato. La prima è, se il sapere umano si volge in circolo, di maniera che dopo le ricerche si torni a quello che si sapeva a principio. Questa questione, o riguarda il sapere, o la certezza del sapere. Rispetto al sapere, se si considera che l' idea dell' essere onde parte la mente contiene virtualmente ogni cosa, si può ben dire che vi abbia negli umani ragionari una specie di circolo, ma solo intendendo cosí la cosa, che nella fine si sa in un modo quello che a principio si sapeva in un altro modo: alla fine lo si sa attualmente, quando al principio lo si sapeva solo virtualmente; alla fine si acquista anche la coscienza di ciò che si sa, la quale al principio non si avea. Onde il sapere assoluto si trova ai due estremi del circolo. Al primo estremo è intuitivo, naturale; al secondo estremo è speculativo, scientifico. Che se trattasi della certezza, fu dimandato se la mente umana debba cominciare dal porre ciò che sa come una mera ipotesi, finendo poi il suo cammino col trovare quell' ipotesi convertita in certezza. Or quest' è vero in parte, non in tutto. Se si parla dell' andamento naturale e spontaneo della mente umana, essa incomincia dalla certezza e va sicura fino che urta nelle antinomie del pensar relativo. Allora nasce dubbio, e, verificata la contraddizione, un periodo di scetticismo nel quale non può riposare; indi il desiderio di uscirne, poi la speranza ai primi albori del pensare assoluto che ritorna a farsi vedere alla mente: il quale diventa pienamente luminoso, concilia le antinomie e restituisce alla mente il riposo. Il quale cammino, se è l' ordinario della mente, non è però cammino dell' animo, che può tenere la mente in briglia coll' autorità della ragione morale e non lasciarla mai perduta nel dubbio. Ma se si vuol parlare non di tutto il cammino che fa la mente svolgendosi, ma del scientifico solamente che è parte del tutto: in tal caso egli è vero che le prime cose, si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi, da quanto consèguita, il lume dell' evidenza. E cosí noi pure facemmo, cercando il fondamento dell' umana certezza. Supponemmo come un fatto il pensiero, benché non giustificato ancora, non purgato dal dubbio scettico che sia illusione, e nel pensiero trovammo l' essere; e nell' essere la verità stessa, l' evidenza innegabile, dalla quale partendo fu dimostrata la certezza de' fatti dell' esistenza umana, dell' umano pensiero; e come questo, fin che ha per guida la luce dell' essere, non può illudere o mentire (1). La seconda questione si è: « onde incominci la scienza ». E` simile alla precedente, involgendo questa difficoltà: « Se io comincio dire o pensare qualche cosa, e m' occupo a dimostrare questo qualche cosa o a accennarlo almeno come evidente, il pensiero che vi adopero è adoperato gratuitamente, non essendo provato ch' io il possa adoperare o che mi dica il vero, ond' egli è fuori dell' oggetto della scienza ». Come trovar dunque un cominciamento che non lascia fuori nulla, nulla supponga arbitrariamente, non dipenda da cosa che provata non sia, o almeno da cosa che rimane fuori dalla scienza? Di questo labirinto si esce nel modo accennato, cioè: 1) la scienza deve cominciare dal considerare appunto quel pensiero che è l' istromento di lei, e porlo quale ipotesi o postulato sino a tanto che l' osservazione non trovi nel pensiero l' idea dell' essere; 2) trovata questa base fondamentale, tutto l' edificio è consolidato, poiché l' essere porta quasi direi scritto nella sua fronte il suo titolo: pure contemplandolo si vede che non può non essere: anzi egli è la verità che toglie via tutte le illusioni. A questa questione è affine l' altra, che dimanda: « Se si possa definire la prima scienza », il che dall' Hegel si nega. La difficoltà e la soluzione della difficoltà somiglia alla precedente. Diamo che si definisca. Ora, questa scienza definita non sarà la prima: perché non può essere la definizione stessa. Se il definito non è la definizione stessa, dunque la definizione è ciò di cui la definizione si compone. Ciò di cui la definizione si compone, parole, concetti, ecc., nell' ordine del sapere è anteriore al definito: e però la scienza definita non è la prima cosa che si sappia; la prima scienza dunque non si può definire. Ma siffatta difficoltà non è insolubile, se non supponendo arbitrariamente e falsamente coll' Hegel che tutto si riduca alla categoria della scienza. Infatti, posto che sia vero che la scienza dee assorbire ogni cosa, non si può piú definire il suo principio: perocché in qual si voglia modo che si definisca, egli suppone sempre qualche cosa d' anteriore sfuggente alla categoria della scienza. Infatti, il pensiero, il puro pensiero, non è ancora scienza, ma via alla scienza. Scienza non può essere se non l' oggetto del pensiero. Rimane adunque il pensiero come una realità anteriore alla scienza che non si lascia assorbire dalla scienza. Vero è che il pensiero può pensare se stesso: ma questa proposizione suppone che il pensiero in quanto è pensante non sia al modo stesso del pensiero in quanto è pensato, e che tuttavia il pensiero pensante e pensato sia uno. Ma scienza non è il pensiero se non in quanto è pensato. Laonde, quand' anche si ponesse la definizione cosí: « la prima scienza è il pensiero pensato », questa definizione lascia fuori come un antecedente il pensiero pensante, il pensiero della definizione medesima. In somma l' atto, che è quanto dire la realità, è necessariamente anteriore all' oggetto e all' oggettivo, che è quanto dire alla idealità. Si dirà: Se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra quella un qualche cosa, cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario interamente al pensiero. - Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo questo, ben dimostra la limitazione dell' umano intendimento; ma non è però, che ciò che resta fuori dal primo pensiero, e che è condizione del pensiero stesso non pensato dall' uomo, non venga raggiunto di poi colla riflessione; e se non fosse raggiunto noi pur ora non ne potremmo parlare e dire che egli sfugge alla definizione della scienza prima. Dallo sfuggirci cosí, altra conseguenza non viene se non la distinzione tra la scienza considerata in se stessa nella somma sua perfezione e la scienza limitata dell' uomo. S' intende assai bene che la scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coetanea ed adeguata a tutto l' essere; anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la realità, non escluso se stessa; e quest' atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto conoscitivo. Ma quest' ideale del sapere, che s' avvera in Dio, non s' avvera nell' uomo, al quale nondimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio essere ha di limitato. La limitazione di esso è pur questa, che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni, ecc., che incominci e non sia stato sempre, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è sapere scientifico sia un atto secondo, il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto conoscente, e la realità dell' atto anteriore in ordine logico a' suoi oggetti che costituiscono la scienza. Poste le quali cose, quando si cerca la definizione della prima scienza deve intendersi di quella che è prima per l' uomo, giacché in Dio non vi è scienza prima né seconda, e la sola espressione di scienza prima involge il concetto di una scienza limitata. Or dovendosi questa e non altra definire, basterà che ciò che si definisce sia primo nell' ordine del sapere, benché non sia primo negli altri ordini categorici, cioè nell' ordine reale e morale. E però, quando si dirà che la scienza dell' essere ideale è la prima, non si andrà lontano dalla giusta definizione, benché questa definizione sia preceduta da un pensiero, che è realità, ma non scienza. All' incontro, la scienza della logica hegeliana, posta da Hegel per la prima, è proscritta dallo stesso Hegel allorquando egli dichiara che non la si può definire, cessando manifestamente d' essere una scienza ciò che non si può definire, ed apparendo contraddittorio che la scienza sia nello stesso tempo una cieca indefinibile realità. La legge ontologica del sintesismo dichiara che « l' essere ha un cotale organismo ontologico, che la mente divellando un organo dall' intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende come ente completo, nasconde in sé un assurdo, del quale assurdo tostoché la mente s' accorga, conchiude che quell' organo divelto non può stare cosí solo, è nulla, e neppure si può pensare quando vi abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa fino a tanto che questa vi giace nascosta in istato, come abbiamo altrove detto, virtuale »(1). Dalla quale definizione si vede, che la mente fino ad un certo segno può sciogliere il sintesismo dell' essere, pensando un organo di lui separato dal tutto; ma ciò le avviene solo perché ella dapprima non s' accorge che l' organo cosí separato porta in seno una ripugnanza; e quivi è appunto l' origine di quel pensare che abbiamo chiamato relativo , in opposizione all' assoluto che non dismembra l' organismo ontologico. Or le due maniere di pensare assoluto e relativo, le quali si distinguono pe' loro oggetti, non si devono e non si possono giammai confondere insieme. Molto meno si deve confondere insieme l' essere assoluto e l' essere relativo quasicché questo si potesse ridurre a quello come parte al tutto. L' assoluto e il relativo si oppongono ed escludono per siffatto modo, che mai non si possono congiungere in uno, e restano sempre due; perocché l' essenza stessa del relativo importa che non sia assoluto. E questa relazione fra l' essere relativo e l' assoluto, dove sta veramente il nodo gordiano della Teosofia, è cosí nuova, che si scioglie in due proposizioni, le quali sembrano contraddittorie e non sono. Perocché si può sostenere, non aversi nulla di cosí vicino e legato, come sono vicini e legati l' essere assoluto e il relativo; e si può ugualmente sostenere, niuna cosa essere piú lontana e aliena da un' altra, quanto uno di quei due esseri dall' altro. La prima di queste due proposizioni è vera se si guarda all' origine. Perocché il relativo viene dall' assoluto; ma non si dee credere che sia formato dalla sua materia, che anzi l' assoluto non ha materia; neppure si deve credere che sia una medesima sostanza con lui, perocché l' assoluto non è sostanza, ma puro essere; onde il relativo comincia ad essere d' un tratto, mentre prima non era, per virtú dell' assoluto. Nello stesso tempo la natura dell' essere relativo e la natura dell' essere assoluto sono cosí fra loro contrarie, che nulla v' è nell' uno che sia identico a ciò che è nell' altro, e però sono ancora piú che categoricamente distinti ; infinitamente piú che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di essere, che giustamente si può denominare differenza ontologica . Per intendere come stia questa cosa, conviene por mente, che l' essere si dice relativo in quanto esprime ciò che si riferisce, ciò che è ad un principio soggettivo. Questo principio soggettivo, e ciò che è a lui, è l' essere relativo (reale, non l' essere relativo ideale o razionale) (2). E chi terrà ferma tale definizione dell' essere relativo, né manco troverà difficile a rispondere s' altri chiedesse: come non sia cosa assurda che l' essere, il quale è pel concetto suo semplicissimo, si raddoppi per modo che v' abbia un essere assoluto e un essere relativo. Perocché: l' essere assoluto è uno e comprende ogni entità assoluta; ma tant' è lungi che comprenda la relativa come relativa, che se la comprendesse sarebbe difettoso e cesserebbe d' essere assoluto. Dove è da osservarsi che l' essere relativo non può concepirsi che come relativo. Né pregiudica alla dignità dell' assoluto, che fuori di lui v' abbia il relativo; appunto perché è un' esistenza relativa e non assoluta, ed è dipendente dall' assoluto, come da causa. Or il tener ben ferme queste relazioni fra l' essere assoluto ed il relativo, è la principale avvertenza che dee avere il teosofo. Si farà qui ancora un' altra obbiezione: se il relativo è anch' egli essere ed essere è pure l' assoluto, vi ha qualche cosa di comune fra l' uno e l' altro, e questa è l' essenza dell' essere. Tanto l' assoluto dunque, quanto il relativo partecipa della stessa essenza dell' essere, non sono dessa: vi hanno dunque due esseri, e di piú l' essenza dell' essere separata da essi, che non è l' essere: assurdo manifesto. A che si risponde che l' essere assoluto è l' essenza dell' essere ultimata e compiuta, e che l' essere relativo ne partecipa non assolutamente, ma relativamente al soggetto che è base dell' essere relativo; e perciò appunto dicesi relativo. Se dunque l' assoluto è l' essenza dell' essere intieramente compiuta, e il relativo non è l' essere, ma l' ha congiunto, vedesi in che modo si può dire che l' essenza dell' essere sia comune: questa non diviene due perciò, né l' assoluto ha qualche cosa di piú dell' essenza dell' essere, come la specie per esempio ha qualche cosa di piú del genere, ma è la stessa essenza dell' essere compiuta. Il relativo per contrario, non è, ma si forma, si genera continuamente, per parlare con Platone. E la generazione del relativo, si può esprimere in questo modo: un termine dell' attività volontaria dell' assoluto ha una relazione con se stesso: e a questo termine, in quanto ha una relazione con se stesso e non in quanto è termine dell' assoluto, si aggiunge dalla mente l' essenza dell' essere, e questa sintesi che fa la mente è la generazione dell' essere relativo. Ma: quando la mente aggiunge a quel termine l' essenza dell' essere, non ve l' aggiunge completa, ma priva de' termini suoi; e ciò perché la mente non conosce per natura che l' essenza dell' essere priva de' suoi termini. Vedesi manifestamente come l' essenza dell' ente rimanga una, e tuttavia per opera della mente ammetta un termine relativo, e cosí sembri accomunarsi a piú. Ma il vero si è che l' essenza dell' essere è solo propria dell' assoluto dove ella è tutta intiera e spiegata, quando il relativo non è propriamente ente per sé, ma si fa tale per operazione della mente stessa. Convien dunque dire che la differenza che passa tra l' essere assoluto e il relativo non è da sostanza a sostanza; e ancor maggiore della differenza da categoria a categoria; perocché s' ha differenza di essere in questo senso, che l' uno è assolutamente ente, l' altro assolutamente non7ente. Ma questo secondo è relativamente ente: ora col porre un ente relativo non si moltiplica assolutamente l' ente; sicché rimane che assolutamente l' assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensí un essere solo (1), e in questo senso non v' abbia diversità di essere, anzi unità di essere. Ma posto che la mente l' abbia fatto tale, esso dee avere tutte le condizioni dell' essere; altrimenti non potrebbe esser concepito, pel principio di cognizione che è la prima legge della mente (2). Or qui nasce l' obbiezione: non è ella condizione dell' ente anche il suo ordine intrinseco, quello che noi abbiamo chiamato organismo ontologico? E l' ente relativo difetta di questo organismo; che anzi noi appunto riponemmo in questo l' essere un ente relativo, che egli è distaccato relativamente a se stesso dall' intero organismo proprio di ciò che è assolutamente essere. Diciamo che, ogni qual volta l' ente relativo che si pensa non involge errore, egli deve avere tutte le condizioni dell' ente, perché ne partecipa l' essenza che dalla mente gli viene aggiunta. Ma posciaché la mente finita vede l' essenza dell' ente solo nella forma ideale, nella quale è contenuto l' organismo dell' ente solo virtualmente: perciò anche il pensiero degli enti relativi offre bensí tutte le condizioni dell' ente proprie dell' essenza, ma nasconde nella virtualità quella che riguarda il compiuto organismo ontologico. E tuttavia l' organismo, benché limitato, non manca neppure nell' essere relativo; giacché la legge del sintesismo che lo forma s' avvera ovunque è essere. Noi abbiamo veduto che ella ha come tre amplissimi campi. Il primo campo in cui la legge del sintesismo si spiega è lo stesso essere considerato nella sua compiuta essenza, che appar manifesta nei tre modi categorici, tutto intero e identico, nel modo ideale, reale e morale. Di poi si manifesta nel nesso necessario che hanno i termini dell' operare volontario coll' essere assoluto, i quali termini si contengono implicitamente nell' essenza dell' essere, e sono in essa attuati per volontà, e da morale necessità determinati. In terzo luogo, ricorre fra l' essere assoluto e il relativo, per essere la costituzione piena di questo una sintesi fra il sentimento finito e relativo e l' essenza dell' essere nella pura forma ideale, colla qual sintesi sono costituite le intelligenze che sono gli enti relativi completi - e ancora il sintesismo fra l' essere assoluto e il relativo apparisce quando l' intelligenza pensando la sua propria esistenza relativa si concepisce e si pone come ente; la quale operazione è una sintesi fra il sentimento relativo e l' essenza dell' essere. Finalmente allora quando l' ente relativo è ultimato mediante questa operazione sua propria, egli di nuovo si dimostra cosí costruito, che le sue parti sono tutte legate insieme, per modo che, l' una divisa assolutamente dall' altra occulta nel suo seno l' assurdo. Del terzo e del quarto genere, cioè del sintesismo fra l' essere relativo ed assoluto, e fra gli organi dello stesso essere relativo, dobbiamo trattare in questo libro, il quale ha per argomento l' essere nella sua forma reale. La mente adunque che contempla l' essere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell' essere: ella è quella che costituisce propriamente la realità dell' essere. Non s' introduca qui coll' immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per evitare questo ravvicinamento fra materia corporea e materia essenziale dell' ente, noi risuscitando una voce antica, chiameremo questa, in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell' ente (1). Dividendo noi coll' astrazione lo stoffo dell' ente reale dalla sua forma organica, ne abbiamo fatto anche cosí due elementi ontologici i quali sintesizzano insieme per modo che l' uno non istà senza l' altro, ma la mente col suo pensare imperfetto li separa, pensando attualmente ad uno, e sottintendendo virtualmente l' altro. Né tuttavia si prenda lo stoffo dell' ente reale di cui parliamo come fosse lo stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima ; perocché la materia prima degli antichi è concetto piú astratto, è l' astrazione dell' elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa essenza d' una realità, quale cade nella nostra esperienza, prescindendo da ogni sua organica costituzione ontologica. Principio di metodo per tutte queste ricerche, che tendono a scoprire la natura delle cose, è questo: doversi cogliere le cose come a noi si presentano in quel primo atto nel quale le conosciamo; perocché in appresso le operazioni della mente e i diversi sentimenti loro s' associano, le opinioni altresí ricevute ce le possono alterare e contraffare. La natura o essenza che si ricerca è certo la natura o essenza conoscibile. Se dunque ella deve cadere nella nostra cognizione, in qual cognizione cadrà, se non in quella, per la quale abbiamo imposto alla cosa un nome? Or questa è quella prima, che ce n' ebbe dato il concetto. Se i ragionamenti bene rispondono a questo concetto, sono veraci; se definiscono la cosa diversamente da quel primo concetto che solo è significato dal vocabolo, vanno forviando. Cosí ancora gli antichi logici sapientemente definivano l' essenza della cosa, ciò per cui da prima la si conosce. Or questo è il buon metodo, il metodo d' osservazione accomodato alle cose spirituali, osservare ciò che cade nella nostra cognizione, e come vi cade: osservare come le cose da noi si conoscono. Come adunque si conosce lo stoffo dell' ente? Lo stoffo dell' ente può essere conosciuto direttamente dall' uomo soltanto col mezzo della percezione ; e appunto perciò, considerando quale cognizione ci somministri la percezione, noi potremo formarci il concetto giusto dello stoffo dell' ente. Nella percezione di un corpo, la mente nostra distingue la grandezza, la forma e oltre di ciò prova una modificazione speciale del proprio sentimento che resta innominata; solo le si applicano in certi casi degli epiteti generali, come a ragion d' esempio si dice esser piacevole o dolorosa, ma niun vocabolo si trova nelle lingue per indicare il proprio di una data sensazione. Ad ogni modo in ognuna delle dette sensazioni vi è questo fondamentale sentimento, che riceve quasi subietto i limiti e accidenti della grandezza, forma, ecc.. Lasciando dunque che la parola sensazione abbracci tutto ciò che cade in lei, noi per esprimere la parte fondamentale e primitiva di essa adoperammo questa espressione: « il tocco della sensazione ». Or quello che abbiamo detto della percezione de' corpi esterni, dobbiamo universalizzarlo a tutte le realità: tutte possono essere percepite, e la percezione di un reale si distingue essenzialmente dalla percezione di un altro pel tocco del sentimento, ehe è l' effetto primo, immediato, proprio che colla sua azione produce nel percipiente; è quello per cui è conoscibile dall' intendimento, è quell' atto, in una parola, con cui un ente reale esiste in un altro pure reale, e però da ogni altro si distingue. Lo stoffo dunque d' un ente reale è conosciuto dalla mente nel tocco del sentimento; e questa è quella cognizione che si suol chiamare positiva . Si prende la denominazione di positiva , data alla cognizione, tanto pel contrario di razionale, ideale, dedotta ; quanto pel contrario di negativa . Nel primo significato vuol dire cognizione d' un fatto posto, attuale, presente, distinguendosi da un fatto possibile, non presente colla sua efficacia in colui che lo conosce. Nel secondo significato, si viene ad esprimere, che nella cognizione che abbiamo del reale, conosciamo ciò che è proprio di lui come oggetto, ciò che costituisce il suo fondamento conoscibile. Mancando questo fondamento, che è appunto il tocco dell' essere, si dice la cognizione del reale rimanersene negativa, cioè orbata di ciò che è proprio del reale, oggettivamente considerato, vuota di ciò che costituisce il suo effetto conoscibile, quella sua azione, per la quale un reale conosciuto vive nel sentimento di un altro reale. Una tale mancanza, che trae dalla cognizione, per cosí dire, la sua propria sostanza, non può essere supplita né surrogata da nessun ragionamento, da nessun' altra maniera di conoscere. Ma onde avviene poi che un reale può avere in qualche modo cognizione d' altro reale, benché non ne riceva l' azione, e il tocco della sensazione non cada nella sua esperienza? Perché, come abbiamo detto, un ente reale, oltre comporsi dello stoffo, si compone altresí d' un cotale organismo ontologico, e, trattandosi d' un essere finito, anche di elementi negativi, di limitazioni. Di piú egli ha molte relazioni esteriori con altri enti reali, che possono essere conosciuti. Allora il complesso di queste determinazioni, conosciute che sieno, si prendono come l' espressione del reale, tengono luogo del reale, e cosí costituiscono la cognizione dell' ente, che dicesi negativa, perché non fanno conoscere propriamente l' ente, ma soltanto lo segnano in modo, che qualora si venisse a conoscere, lo si riconoscerebbe per desso. E` nondimeno da avvertirsi che gli elementi negativi non determinano propriamente un ente reale, ma ne danno una cognizione generica o astratta, che può dirsi ideale. Questa parte di cognizione né pure ne prova la realità sussistente, ma supponendo questa siccome ammessa, ne fa conoscere i caratteri generali. Ma le relazioni d' un ente reale con altri enti reali possono determinare primieramente l' ente, e dimostrarne la sussistenza; il che s' avvera quando l' esistenza degli altri enti reali conosciuti sia condizionata a quello che resta incognito. Allora di questo si conosce che sussiste, ma ci rimane occulta la propria natura, perché manca il tocco del sentimento: la cognizione della sussistenza riman vuota della real essenza, e però dicesi negativa . Queste due maniere di conoscere un reale, quando si trovano insieme, diconsi « cognizione ideale7negativa ». Anche lo stoffo dell' ente ha due modi categorici di essere, l' oggettivo o ideale, il soggettivo o reale. Si chiederà come lo stoffo dell' ente possa essere ideale, se in esso abbiamo fatto consistere la realità dell' ente. E` a rispondere, che le forme categoriche inabitano l' una nell' altra senza confondersi; e che perciò anche la realità inabita nella idealità, e allora prende il modo di questa. E` la realità quasi direbbesi vestita d' idealità. Onde noi prendiamo la realità in due modi: o com' ella è pura e semplice; o com' ella si trova nel seno dell' idealità stessa. Quella prima è da noi chiamata realità senza piú, questa seconda dicesi essenza della realità , o idea della realità, o realità ideale, ovvero anche realità oggettiva, o tipo della realità. Sotto la stessa distinzione adunque deve considerarsi lo stoffo dell' essere, il quale se è nel modo suo soggettivo, costituisce la semplice realità; ma se si prende in un modo oggettivo, costituisce lo stoffo ideale, l' essenza dello stoffo. Lo stoffo non è l' ente, ma un elemento di esso, che la mente col suo pensare imperfetto divide dal resto. Onde, quantunque sia propria dell' ente l' unità «( Psicologia , vol. II, lib. IV, cap. .) », e cosí anco dello stoffo, tuttavia l' unità dell' ente può essere organica; laddove lo stoffo prescinde da ogni organismo, e però è un' unità semplice, cioè a dire priva di moltiplicità alcuna. E di vero né la stessa mente può trovare alcuna moltiplicità dello stoffo dell' ente, perocché ella nol conosce se non come somministratole dal tocco del sentimento, il quale è semplicissimo. Ciò che potrebbe far dubitare che lo stoffo non si presentasse alla mente come un semplice, si è la moltiplicità dei sentimenti e le loro diverse misture. Ma conviene distinguere in tali misture i sentimenti semplici ed elementari, e pigliare ciascuno di questi come rappresentante d' uno stoffo diverso. Un dubbio piú difficile a sciogliersi contro alla piena semplicità dello stoffo, si è quello della gradazione che si trova in un medesimo sentimento. Ora qui è necessario distinguere accuratamente fra la parte soggettiva della sensazione, e l' extra7soggettiva «( Antropologia , n. 199 sgg.) ». Lo stoffo dell' ente reale è appunto di due maniere; come è di due maniere il reale, soggettivo cioè ed extra7soggettivo. Parliamo del reale e del suo stoffo extra7soggettivo. Lo stoffo del reale extra7soggettivo, benché semplice, può essere a dir vero percepito dal soggetto con piú o meno d' intensità, e di perfezione: ma questa gradazione appartiene al soggetto, e non all' extra7soggettivo; il quale rimane semplice. Veniamo allo stoffo del reale soggettivo. Il reale soggettivo è il soggetto stesso sentito e le sue modificazioni. Ora noi abbiamo già detto, che trattandosi d' un soggetto senziente, questo non ha che un' unità organica, e però, benché unico, risulta da piú sentimenti distinguibili col pensiero astraente. Anche il suo stoffo adunque, partecipa di questa moltiplicità, e non è di questo stoffo che noi parlavamo, quando ne affermavamo la pienissima semplicità: il soggetto non è lo stoffo elementare, ma lo stoffo organato e d' ogni parte compito. Tornando ora ai due modi categorici dello stoffo, il modo di essere soggettivo è propriamente il proprio , pigliata questa parola a significare il contrario di comune . E per verità negli enti conosciuti, se sono puramente ideali ed oggettivi, v' ha il comune, e non il proprio; se poi sono enti reali (sussistenti o ipotetici), ciò che in essi vi ha di proprio è unicamente la sussistenza. Il proprio adunque non è altro che la sussistenza, la realità, pura e semplice, nella sua soggettiva esistenza. La sussistenza (il modo soggettivo) è l' ultimo atto dell' essere rispetto ad un ente, pel quale l' ente è in atto; è l' attuazione dell' essenza. Prima che un' essenza sia attuata potrà essere attuata in diversi individui, ma in quanto è già attuata in un individuo non può essere in un altro; perciò quest' atto ultimo è il proprio, non avendone alcun altro in cui ulteriormente attuarsi. Si può bensí trovare il proprio anche nella pura essenza quando si considera il proprio come inabitante nell' essenza (idea del proprio); ma in tal caso non è il proprio semplicemente , ma il proprio come oggetto, che si potrebbe chiamare con una maniera imitata dagli Scolastici, il proprio vago , rispondente al loro individuum vagum . La sussistenza e realità d' un ente non è la sussistenza e la realità di nessun altro; dunque ella sola è ciò che v' ha di proprio nell' ente; per essa sola il comune, sia sostanza, sia accidente, si rende proprio; cosí una sostanza in quanto sussiste è propria, e anche un accidente in quanto sussiste è proprio ma nel mero concetto della sostanza e dell' accidente nulla v' ha di proprio; ed anzi il proprio non vi ha in nessun concetto, ma soltanto nella sussistenza , che è il contrario del concetto o dell' idea: idea o concetto dice comune , sussistente dice proprio . Noi conosciamo due maniere di enti reali, noi stessi, e altri diversi da noi. Ora come conosciamo noi stessi? che cosa è questo noi stessi che conosciamo? - Per quantunque si consideri non si trova da dir altro, se non che ci conosciamo pel nostro proprio sentimento «( Psicologia , vol. I, n. 61 sgg.) », e che nulla conosceremmo in noi, se nulla vi sentissimo; convien dunque conchiudere, che noi siamo fatti di sentimento e non d' altro; non d' un sentimento fenomenale, e transeunte, ma sostanziale e permanente. Noi stessi dunque siamo sentimento. Ma che cosa sono le altre cose, gli altri enti reali distinti da noi? Come li conosciamo? Li conosciamo in due modi, come abbiam detto: o con una cognizione ideale7negativa o con una cognizione positiva. Quelli che conosciamo per via di cognizione ideale7negativa, noi li riferiamo a quelli che conosciamo positivamente. Possiamo sí bene pensare che esistano enti reali assai diversi da quelli che percepimmo, ma non diversi nel carattere generico e fondamentale; altramente ci sfuggirebbe di mano il concetto stesso dell' essere reale, e conseguentemente non potremmo piú ragionare. Gli enti diversi da noi, che noi conosciamo positivamente, si debbono pure distinguere in due classi: 1) quelli che percepiamo ; 2) quelli che ci rappresentiamo coll' immaginazione intellettiva . Gli enti diversi da noi, che noi percepiamo, sono: 1) il corpo nostro soggettivo; 2) il corpo extra7soggettivo; 3) qualche entità mista di corporeità e di spiritualità, come io credo che accada al contatto, se non anco alla vicinanza, di due esseri viventi della stessa specie (1). In tutte le diverse realità che si percepiscono, lo spirito giunge naturalmente alla sostanza e quivi si ferma. Ora tutte le entità percepite dall' uomo si riducono ad avere per loro basi conoscibili due sostanze: la sostanza del nostro spirito, e quella del corpo (2). Ma si vuol distinguere accuratamente fra ciò che si conosce come sostanza nella percezione del nostro spirito, e nella percezione del corpo. Questa differenza fu da noi esposta nella « Psicologia », dove abbiamo dimostrato che la sostanza spirituale che percepiamo in noi stessi ha natura di principio , quando la sostanza corporea non la percepiamo che colla natura di termine ; onde deducemmo che fuori della sostanza corporea, tal quale è da noi percepita e nominata, deve avervi un' altra sostanza che le serve di principio. Ancora da questa diversità, noi deducemmo la classificazione suprema di tutte le sostanze relative alla cognizione dell' uomo, cioè di quelle sostanze di cui l' uomo pensa e parla, o può pensare e parlare, riducendosi tutte a sostanze7principio, e sostanze7termine. Ora qui parleremo del corpo che noi percepiamo come sostanza7termine. Si deve distinguere fra la percezione de' corpi dataci mediante le speciali sensazioni organiche; e la percezione immediata che lo spirito fa del proprio corpo, al quale è individualmente unito. Quella detta da noi percezione extra7soggettiva, ci fa accorti che esiste un corpo extra7soggettivo, non congiunto a noi soggetto; questa, chiamata soggettiva, ha per suo proprio termine un corpo cosí aderente allo spirito nostro percipiente, che per essa il principio s' individua, onde tal corpo chiamasi soggettivo. La sostanza che serve di base conoscibile a tutte le notizie che noi possiamo avere intorno ai corpi, è data dalla percezione soggettiva; a quella si riferisce, in quella si riduce anche l' extra7soggettiva. E però la sostanza corporea si percepisce immediatamente nella percezione del corpo nostro proprio, anteriore a tutte le sensazioni organiche speciali. Ma è necessario che noi qui consideriamo, come le sensazioni speciali organiche si riferiscano al corpo nostro sentito immediatamente e fondamentalmente, non solo rispetto allo spazio, che occupano, ma ben anco rispetto allo stoffo della corporea natura (alla materia). Tutte le sensazioni speciali organiche ci danno dei sentiti , che non possono esser altro che modificazioni del sentito fondamentale (1). Questa proposizione sembra manifesta col solo enunciarsi, essendo un fatto, che quando io provo una sensazione organica qualsiasi, il mio sentimento è modificato. Quindi convien dire, che tutte le sensazioni speciali sieno virtualmente contenute nel sentimento fondamentale, e in esso quasi latenti. Il qual concetto, due cose racchiude. Poiché il sentimento fondamentale consta 1) d' un principio senziente, 2) d' un termine, che nel caso nostro è un esteso. Ora nel principio senziente forz' è ammettere la virtú di tutto ciò che cade nel suo termine, e cosí si può dire che nella virtú del principio senziente sieno virtualmente contenute le sensazioni speciali ed accidentali. Il termine esteso poi è suscettivo di varie modificazioni. E queste, nel principio soggettivo sono altrettante sensioni, benché nel termine considerato come extra7soggettivo sieno movimenti. Si può dunque dire: 1) che le sensioni organiche sieno virtualmente nel termine esteso in quanto egli esiste nel principio senziente, e non in quanto si considera da questo diviso; 2) che le dette sensioni sieno virtualmente contenute nel principio senziente, in quanto questo si considera come suscettivo d' essere unito al suo termine e di subire le leggi con cui questo si modifica. Le sensioni speciali sono dunque in uno stato di virtualità rimota nel principio senziente, e in uno stato di virtualità prossima nel termine permanentemente sentito, e dico sentito perché ciò esprime esistenza del termine nel principio. La causa poi che le determina all' atto non è né nel principio senziente, né nel termine sentito, ma in una potenza extra7soggettiva. Ma se si cerca dove stia la ragione di questa virtualità, convien riporla nella natura certamente misteriosa del principio senziente; in quel primo fatto dell' unione sostanziale del principio senziente e del termine sentito , in questo sintesismo dove sta la genesi contemporanea de' due termini, il senziente ed il sentito. Si prenda il sentito puramente come sentito. Come tale, egli è vero ciò che altrove dicemmo, il principio senziente non essere per sé limitato, ma limitarsi dal solo termine sentito: quello non essere tuttavia per sé nulla, ma essere una energia, e anzi perciò una energia illimitata, ma potenziale; l' atto della quale non ha luogo se non a condizione che sia dato il termine che colla sua limitazione lo limita. Il concetto di questa potenzialità illimitata del principio senziente, degno è che si svolga. Poiché porge alla mente questa difficoltà. Se non ci ha termine alcuno, non ci ha neppure un principio senziente, no' l si può piú pensare, e in tal caso sparisce anche ogni virtualità. Ma se ci ha un termine sentito, allora ci ha l' atto della sensazione, e non piú la mera virtualità. Dunque questo concetto di virtualità è un vero impaccio dell' immaginazione, e non piú. Questo argomento non calza. Quando il principio senziente ha un suo termine e però esiste, l' osservazione del fatto dimostra ch' egli ha un' energia sua propria, per la quale egli agisce siffattamente che l' efficacia della sua azione non può venirgli dal termine, benché il termine sia condizione di sua esistenza. Ora l' osservazione attenta del fatto dimostra parimente, che il principio senziente conserva spesso la sua identità, l' identica energia sua propria radicale anche quando il suo termine si modifica. Se adunque il principio senziente, è perfettamente identico a quello che era quando non sentiva quella cosa, ne viene per conseguenza che quel principio, prima ancora di sentire attualmente quella cosa, la sentiva virtualmente. Convien dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nascosta e confusa in sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l' energia propria del principio senziente. Secondo questo concetto, un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni, di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l' ultima perfezione dell' atto, in un primo grado di atto, a cui solo manca l' ultimazione. Dalle cose dette apparisce, che le sensazioni accidentali sono congiunte colla sostanza spirituale (sentimento fondamentale); ch' esse suppongono questa, che questa contiene quelle virtualmente, e che quelle sono modificazioni del termine di questa. Ma perciocché oltre la sensazione, che accusa un ente spirituale, cioè senziente (sostanza principio), cade ancora nell' esperienza nostra una forza extra7soggettiva che accusa un ente materiale (sostanza termine); perciò vediamo come lo spirito vada dalla sensazione esteriore a percepire un ente reale, un corpo. Il passaggio che fa lo spirito dal sentito al pensato, è della stessa natura tanto se egli va dalla sensazione all' ente reale spirituale, quanto se egli va dalla forza extra7soggettiva che nella sensazione è contenuta, all' ente reale corporeo. Onde di questo solo ora noi parleremo. Alto e difficile passo nel cammino della Filosofia l' acquistarsi il giusto concetto del sentimento mero , cioè non pensato, non accompagnato dal pensiero. Una prova della difficoltà, si è il vedere come molti anche dotti scrittori, lungi dall' afferrare la vera natura della sensazione, la concepiscono sempre mista col pensiero della loro mente. Noi diciamo che questo è essenziale alla mente e al pensiero, d' aver per termine un' esistenza oggettiva, un ente oggetto; e che la mente non può pensare l' esistenza soggettiva della sensazione o del sensibile, se non nell' esistenza oggettiva, ossia nell' ente oggetto, e però mediante questa; diciamo dunque, che dee precedere nello spirito l' esistenza oggettiva, e che allora solamente egli ha la facoltà di pensare, perché ha il mezzo in cui e per cui può apprendere quello che è soggettivo; e il dir questo è quanto un dire, che la facoltà cogitativa si forma mediante l' intuizione dell' essere oggetto. Riduciamo la questione a questa domanda: « Allorquando lo spirito pensa un sensibile, l' oggetto del suo pensiero è egli né piú né meno il sensibile come sensibile? ovvero sia quell' oggetto ha un elemento di piú, che manca nel mero sensibile precisamente come sensibile »? La risposta dipende unicamente dal saper osservare qual sia l' oggetto sensibile del pensiero. Ora, per venirne a capo, noi poniamo come principio che ogni diversità che si trova fra il termine del pensiero, e la sensazione precisa dal pensiero, è un elemento da questa non somministrato, il quale deve essere spiegato. Ma egli è manifesto che ci ha gran differenza (piú veramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto , e un sensibile che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo. Dunque l' essere oggetto non è dato dalla sensazione, dal sensibile. Di piú, il sensibile come oggetto può essere affermato o no. L' essenza dunque del sensibile7oggetto è scevra di affermazione. Ma se io penso un oggetto7sensibile senz' alcuna affermazione, egli è tale che io gli posso, volendo, applicare il predicato di possibile, e di universale. Or l' universale non è dato dalla sensazione. Dunque è dato altronde alla mente. Ma l' oggetto è l' ente, l' ente in universale; altramente l' oggetto dato alla mente sarebbe nulla. Dunque la mente non riceve dalla sensazione l' ente in universale; ma intuisce quest' ente con indipendenza da quella: e questa intuizione è la condizione antecedente, è la prenozione, colla quale ella può pensare il sensibile, e la sensazione. Di che si vuol conchiudere, che il sentito o sentimento può dirsi realità , non ancora ente ; perocché quest' ultima espressione acchiude l' oggetto, giacché l' istituzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l' oggetto della mente. In una parola, la realità non è l' ente, ma ella è un modo categorico dell' ente, uno dei modi nel quale è l' ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un vocabolo che ne esprime il concetto. La quale distinzione fra l' ente e la realità , è necessarissima all' Ontologia: senza di essa, questa aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest' altra fra la sostanza e l' ente reale . E nel vero la sostanza fu da noi definita: « l' atto pel quale sono le essenze specifiche », le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell' atto nel quale e pel quale questi sono, il quale atto si chiama sostanza. Ora in quel reale che viene pensato dalla mente siccome un ente, ella distingue un elemento primo, nel quale e pel quale sono gli altri, che perciò si chamano accidenti; e quel primo è la sostanza. Di che apparisce che la distinzione fra sostanza e accidenti proviene dalla forma reale dell' ente, e dalla limitazione a cui questo soggiace. Quindi nel sentimento e in ciò che cade nel sentimento, che sono i due generi del reale, si distingue la sostanza e l' accidente ; e però queste entità soggettive non sono conoscibili per se stesse, perché non sono enti, ma hanno bisogno, acciocché sieno alla mente, di venire oggettivate, cioè vedute nell' ente, che è essenzialmente oggetto della mente, il che è quanto dire unite coll' ente, col quale, e colla mente sintesizzano (1). Quando adunque la sostanza s' unisce all' ente7oggetto; allora ella è divenuta ente; e gli accidenti sono divenuti cosí modificazioni variabili dell' ente . Se si avesse un primo atto di sentimento, il quale per l' essenza sua fosse nella mente, cioè fosse unito all' idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; e non ha bisogno di venire oggettivato. Laonde la divina sostanza non è puramente sostanza , ma è ad un tempo ente , anzi è l' Ente. Laonde a diritta ragione fu proibito in qualche Concilio il dire che Iddio sia una sostanza in senso proprio, potendosi egli chiamare sostanza solo in senso analogico. Le quali cose ci mettono in istato di dare la teoria della rappresentazione. Vi ha un' opinione comune, che tutto ciò che la mente intende, l' intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresenta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in piú luoghi l' erroneità di questa opinione. Non vogliamo ora ripetere il detto, ma solo succintamente indicare sotto quale aspetto abbia luogo una specie di rappresentazione nell' atto cogitativo. Questa cotal rappresentazione, è di due maniere: l' una consiste nel servigio che presta l' idea al conoscimento dell' ente reale; l' altra consiste nel servigio che presta il sentimento e la sensazione al conoscimento trascendentale dell' ente reale corporeo. Parliamo d' entrambe. L' idea fa conoscere l' essenza della cosa, ma non, da sé sola, la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l' essenza, cioè senza averne l' idea. Quindi è che si suol dire, che l' idea, la qual certo non è la cosa sussistente, la rappresenti. Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della cognizione è l' essenza la quale è solo rappresentativa. Onde fa bisogno un altro atto col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato. E questo secondo atto è appunto quello che noi chiamiamo affermazione . Veniamo or alla seconda maniera di rappresentazione , ed è quella, nella quale il sentimento e la sensazione si prendono come rappresentanti, e l' ente reale come rappresentato. Qui si debbono distinguere più cose. Primieramente quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale, non è già rappresentativo di questa sostanza, perché anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. Ma altro è la sostanza abbiam detto, altro è l' ente reale . Questo ente reale è la sostanza stessa, che sintesizza colla mente. Quest' ente reale (nel caso nostro, lo spirito) è conosciuto ancora immediatamente dalla mente senza intervento d' alcuna rappresentazione. Ma dopo di ciò sopravviene il ragionamento dialettico trascendentale, il quale vede che il sentimento finito è un relativo. Questo ragionamento trasporta dunque il pensiero dalla sostanza finita all' ente assoluto; ed è allora, che quella diviene una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un geroglifico di questo. Questa specie di rappresentazione appartiene dunque unicamente al pensiero trascendente, ed è quella di cui accenna l' Apostolo, dove dice: Videmus nunc per speculum, in aenigmate . Le sensazioni, considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappresentano, appunto perché sono modificazioni, e però non mai sole, ma unite al sentimento sostanziale, né prime nell' ordine logico. All' incontro il sentito corporeo rappresenta il corpo. Ma dobbiamo spiegare in che senso lo rappresenti. Nel sentito convien distinguere due elementi, la forza e il tocco del sentimento . Ora vi ha una forza che modifica il principio senziente producendo in lui il fenomeno dell' esteso: vi ha pure una forza che modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell' effetto. Vero è ch' ella suppone un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi dei corpi, questo ente soggetto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e quindi il corpo. Cosí il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per mezzo di alcuna rappresentazione. Ma questa cognizione è relativa; e desunta dall' effetto. Ora questo effetto essendo doppio, poiché l' effetto è quello che la forza produce in noi producendoci il fenomeno dell' esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce nell' esteso stesso, perciò la sostanza corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze. Ma colla riflessione poi si trova che trattasi d' una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a cagione ch' essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è doppio, benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire, che le due forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo, sieno rappresentative dell' unica sostanza corporea. Una forza diffusa nell' estensione esprime il concetto del corpo, che hanno comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascendentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggettivo principio. Ma di questo non altro si conosce che l' esistenza con tale ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene cosí rappresentativo di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantunque la cognizione che ce ne dà non sia piú che proporzionale e negativa. Ma veniamo alle sensazioni organiche. Uno stesso corpo produce innumerevoli immagini, come pure sensazioni tattili, acustiche, ecc.. Dunque altro è il corpo, ed altro sono i sentiti organici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rappresentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l' effetto della persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell' attività reale di questa. All' incontro la sensazione organica è l' effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma come un cognito; perocché la sostanza corporea, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci fanno riconoscere la presenza di questa forza. Noi abbiamo fin qui ragionato dell' ente reale a quella maniera, che egli cade nella percezione intellettiva: ora dobbiamo considerarlo come oggetto dell' immaginazione intellettiva. Quello che non può l' immaginazione sensitiva, bene il può l' immaginazione intellettiva, come l' esperienza ci dimostra. Perocché non è dubbio alcuno, che noi possiamo immaginare un altro noi stessi, ed anzi molti. Or egli è necessario che si analizzi questa operazione. In primo luogo noi non potremmo immaginare un altro noi stessi, se non potessimo concepire l' ente in sé quale oggetto, indipendentemente da noi, da quello che noi sentiamo. La quale operazione dell' intelligenza, se bene si perscruta, manifestamente si risolve in un atto che considera il senso per sé soggettivo come entità oggettiva, e, se trattasi di sentimento sostanziale, come ente. La prima operazione adunque dell' immaginazione intellettiva, che è la facoltà d' immaginare enti od entità, consiste in questo, in contemplare il sentimento proprio come un ente o una entità, oggettivamente, universalmente. La seconda operazione è quella di considerar questo sentimento oggettivo come possibile a sussistere in un numero indeterminato di individui. Già, se si tratta di un sentimento sostanziale, l' individualità vi è compresa. Se si tratta di sentimenti accidentali, la mente li individua pigliandoli come subietti dialettici. La terza operazione si è quella di pensare espressamente uno di questi sentimenti individuati possibili, o pensarne piú, in un numero determinato. E questo è appunto cosa che fa stupire chi ben considera: che uno spirito intelligente abbia virtú di formare in se stesso un altro ente, un altro principio senziente, un altro spirito. Questa specie d' inesistenza d' uno spirito in un altro è degna della piú profonda riflessione. Non è da credere che nell' immaginazione intellettiva avvenga solamente un fatto simile a quello che avviene nell' immaginazione sensitiva. In questa tutto si riduce a modificazioni del soggetto. Per l' immaginazione intellettiva si forma un soggetto nuovo nel nostro spirito, il quale noi sappiamo che non è il nostro, ma è naturato e foggiato come il nostro. Questo soggetto, non è un segno, non è un' immagine, non è una pura rappresentazione; molto meno è una modificazione nostra. Noi pensiamo propriamente e direttamente un soggetto sostanziale, quale è in sé, lo pensiamo senziente, pensante, ecc. d' un sentimento e d' un pensiero sostanzialmente e totalmente diverso dal nostro, al nostro incomunicabile. Come ciò si spiega? Vedemmo che l' essenza della realità è tutta nell' idea. Ora egli accade, che noi non vediamo nell' idea la realità della sua essenza, se non a misura che ci viene comunicata nel suo ultimo atto, che costituisce propriamente la realità sussistente, e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo sentimento reale, noi tosto ne vediamo l' essenza nell' idea, e distinguiamo quest' essenza dall' atto di lei, il quale la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare la realità nella sua essenza, stoffo della realità ; e nel suo ultimo atto, atto della realità . La realità adunque nella sua essenza, esiste nel mondo metafisico, cioè nell' idea. E se si tratta di realità infinita ed assoluta, vi esiste coll' ultimo suo atto, che a lei non può mancare. Ma se si tratta di realità finita e relativa, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto, che è quanto dire come ideale e possibile. La realità dunque, il sentimento, un determinato sentimento, ha l' essenza sua nell' idea, e quest' essenza è proprio lo stoffo della realità. Questo sentimento che acconciamente si dice sentimento7entità, ha per natura sua un' esistenza oggettiva. Quest' oggetto adunque, che è un soggetto possibile, è ciò in che si affissa l' immaginazione intellettiva, quando forma e compone dentro di noi un sentimento sostanziale ch' ella pensa e contempla. Quest' oggetto dell' immaginazione intellettiva è distinto da noi stessi, appunto perché egli ha meramente un' esistenza oggettiva; laddove noi abbiamo un' esistenza soggettiva, e non ci intuiamo come s' intuisce un' essenza, ma di piú ci percepiamo come un soggetto relativamente esistente , e cosí rispetto a noi l' essenza è appropriata e coll' ultimo suo atto particolareggiata. Egli è degno qui di notarsi, che la distinzione antichissima fra materia e forma fu tratta dalla cognizione che noi abbiamo de' corpi. E` la natura stessa che costituí due termini distinti: 1) lo spazio puro illimitato; 2) ciò che empie lo spazio, limitato. Dallo spazio puro, limitato da ciò che lo riempie, procede il concetto di forma , il quale in rispetto a' corpi abbraccia la grandezza e la figura ; ciò che riempie lo spazio somministra il concetto di materia . Per questo si può concepire in qualche modo la materia senza la forma. Sono separate per natura: sono termini diversi del sentimento. Se non fossero termini diversi del sentimento, né pur l' astrazione potrebbe dividerli. Dalle quali cose acquistano nuova luce i difficili concetti di essere in atto, e di essere in potenza. Anche questi antichissimi concetti filosofici nella loro origine furon tratti dalle percezioni e notizie nostre de' corpi. In fatti la materia corporea non potendo esistere se non vestita di una forma, pel sintesismo che ha con questa si disse che quella, presa puramente, era in potenza alla forma. In tal modo, della materia si fece un essere astratto suscettivo di tutte le forme. Questo concetto rimane spiegato tostoché: 1) si riconosce che la materia ha in natura una distinzione dalla sua forma, trovandosi bensí unita con essa nel nostro sentimento, ma venendo a questo sentimento i due elementi (la materia e la forma) da due fonti diversi; 2) e tostoché si riconosce che la materia sintesizza nel sentimento nostro colla forma, onde senza di questa ella rimane un essere astratto e possibile, e perciò appunto universale; ed essere un' entità universale è il medesimo che essere in potenza (1). Anche la forma poi dicesi in potenza alla materia; ma la forma ha natura d' iniziamento dell' essere, laddove la materia ha natura di termine. Quindi il termine si considera in potenza ad unirsi col principio, quando per astrazione da lui si divide; il principio si considera in potenza ad unirsi col termine, quando del pari si divide da lui coll' astrazione. Quando adunque piú entità dipendono l' una dall' altra per un sintesismo unilaterale, cioè tale che trovasi soltanto rispetto alla dipendente e non rispetto a quella da cui dipende, allora questa può essere realizzata senza l' altra, come accade dello spazio puro che può stare senza il corpo; e quella, cioè la dipendente, rimane ideale, cioè un ente in potenza, e però dicesi che è in potenza quella realità prima rispetto alla seconda, cioè che non ripugna alla realizzazione della realità da lei dipendente. Cosí è che lo spazio, e la forma sono in potenza a ricevere la materia, e il corpo. Quando gli antichi metafisici considerarono tutti gli enti come composti di materia e di forma, essi altro non fecero che generalizzare ciò che avevano osservato ne' corpi. Cosí la loro Ontologia non fu che la Fisica generalizzata. Ma il peccato maggiore che commisero gli antichi generalizzando il concetto di materia si fu ch' essi non giustificarono in modo alcuno tale generalizzazione, né provandola con qualche efficace raziocinio, né deducendola per via di osservazione di tutti gli enti cogniti (cosa per altro assai difficile). Or poi, che questo principio non goda della generalità attribuitagli, ma si debba restringere ad alcuni enti, lo si prova facilmente anche coll' esempio dello spazio puro, il quale non ammette alcuna composizione di materia e di forma benché sia contingente, ma è un ente semplicissimo avente natura di termine dell' anima sensitiva. Al presente nelle scritture filosofiche la parola materia ha due significati ben distinti, l' uno speciale e l' altro generale. Nel primo vale « ciò di cui constano i corpi ». Sarebbe a desiderarsi che si chiamasse questa materia corporea . Nel secondo significato piú esteso significa in generale « ciò di cui un ente è composto ». Ma 1) quando si dice « ciò di cui un ente è composto », allora si suppone che l' ente si componga di piú elementi, come appunto accade de' corpi, i quali risultano de' due elementi, cioè da una forma, e da una materia che la empie; questo dimostra che la materia non si può trovare dove l' ente non sia composto né componibile. 2) Di piú, l' espressione « un ente composto di qualche cosa »suppone che la cosa che compone l' ente di cui si tratta sia concepibile prima dell' ente, e che quand' ella entra nella composizione dell' ente, rimanga identicamente quella che era prima. La materia dunque non si può rinvenire se non in quegli enti, che non sussistendo per sé, vengono alla sussistenza per una via concepita dal pensiero, il quale gli rappresenta a se stesso prima come informi, e poscia come formati: non si dà dunque materia , neppure nel senso piú generale della parola, negli enti necessari, ma solo ne' contingenti . I soli contingenti adunque, e fra questi quelli che constano di ciò che si concepisce identico ancor prima che l' ente sia formato (1), hanno materia , presa quella parola nel suo piú generale significato. Il vocabolo termine ha un significato sempre relativo al suo principio; e il vocabolo principio ha un significato sempre relativo al suo termine. Al che non badando potrà sembrare che tali vocaboli in queste nostre metafisiche trattazioni si prendano a significare cose molto diverse; ma pur non è, e solo avviene quello che incontra di tutti i vocaboli che ammettono una latitudine grande e generalità di significazione, la quale rimane sempre la stessa benché si applichino a cose speciali diverse. Di queste cose diverse, a cui s' applicano i vocaboli di principio e di termine, facciamo una breve enumerazione. Prima è a separarsi l' ente assoluto e l' ente relativo. Nell' ente assoluto distinguonsi tre forme primitive da noi chiamate reale, ideale, morale. Lasciando da parte la morale che complicherebbe il discorso, riteniamo la forma reale e la ideale. Queste si possono anche chiamare forma soggettiva, forma oggettiva. Se si considera la relazione di queste due forme fra loro, trovasi che la soggettiva ha natura di principio , e la oggettiva ha natura di termine immediato. Ma qui, nell' ente assoluto, principio e termine non dividono l' ente; perocché nel termine vi ha tutto ciò che nel principio, eccetto l' esser principio; e nell' ente principio vi ha tutto ciò che nel termine, eccetto l' esser termine; di maniera che la distinzione delle forme può dirsi modale e non entitativa. Ma le due forme oggettiva e soggettiva, se si considerano rispetto all' ente relativo, dividono l' ente, cioè fanno che vi abbia un ente soggettivo diverso dall' ente oggettivo. Il che si vede considerando che la forma oggettiva non appartiene in proprio all' ente relativo, perché la forma oggettiva è l' idea spettante all' ordine delle cose eterne e necessarie; onde l' ente relativo non ha come sua propria, che la forma soggettiva e reale. Rimane adunque la forma oggettiva, separata dall' entità relativa, come un' appartenenza dell' essere assoluto; e dall' altra parte rimane la entità relativa, soltanto soggettiva, che riceve e partecipa il nome di ente unicamente perché s' appoggia alla forma dell' ente assoluto, pel quale appoggio viene oggettivata . Se dunque noi cerchiamo in questa relazione dell' entità relativa colla forma oggettiva ed assoluta, qual sia il principio e qual sia il termine; noi troviamo che la forma cioè idea è principio, e l' entità relativa, soggettiva solamente, è termine. Ciò vale per qualsivoglia ente relativo. Ma quale è poi la ragione che divide l' ente relativo in piú enti? L' ente relativo che è termine, considerato in relazione coll' ente assoluto, costituito che sia come ente, e in se stesso considerato, dividesi in principio e termine. Infatti principio e termine nell' ente relativo divide l' ente, cioè fa che l' ente relativo non sia un ente solo, ma vi abbiano piú enti relativi, alcuni de' quali sieno principŒ ed altri termini. Per vedere come ciò sia, egli è uopo distinguere tutti i termini proprŒ dell' ente relativo. Ora primieramente noi troviamo che l' idea è termine dell' essere intellettivo, intelligente; quell' istessa idea che abbiam detto essere suo principio per modo che da lei riceve la denominazione oggettiva di ente. L' idea dunque, la forma oggettiva, partenenza dell' essere assoluto, sarebbe ad un tempo principio e termine dell' essere relativo intelligente. Non sembra qui intervenire contraddizion manifesta? No; perocché ella è principio in un ordine, ed è termine in un altro. L' essere relativo intelligente è anch' egli, come ogni altro essere relativo, nell' ordine oggettivo, e in quant' è nell' ordine oggettivo egli ha per suo principio l' idea, di cui è termine come soggetto divenuto oggetto ossia oggettivato; ma in quant' è in se stesso come semplice soggetto egli è principio, ed ha per suo termine lo stesso oggetto, cioè l' ente oggetto e l' ente oggettivato. Veniamo ora a quei termini che si possono conoscere coll' osservazione ontologica nell' interno degli enti relativi, e che sono anch' essi enti relativi. L' essere relativo intelligente è separato dagli altri enti relativi per quel suo termine che appartiene all' ente assoluto. Questo termine adunque divide e separa l' essere intelligente e relativo tanto da sé, termine, quanto dagli altri enti relativi. Ora in tutti gli enti relativi il termine a cui s' appoggiano nell' ordine soggettivo è uno straniero, e però un altro ente che per ciò appunto dicesi extra7soggettivo. Or fra gli enti extra7soggettivi non è oggetto per sé se non quello che è termine dell' intelligenza, l' idea; gli altri sono meramente extra7soggettivi; e non essendo oggetto forz' è che appartengano ad un altro soggetto che resta occulto, ma che si rileva appunto mediante questo ragionamento dialettico. Una di queste entità è lo spazio, e un' altra è la materia; e queste due entità sono termini del principio sensitivo animale. Or poiché son termini stranieri, ne viene che l' essere principio e termine divida l' ente per modo che l' ente principio, cioè nel caso nostro l' anima sensitiva, sia un ente diverso dallo spazio e dalla materia. E questa è la confutazione ontologica del materialismo, ricavandosi ad evidenza che l' anima sensitiva non è estensione né corpo; ma che all' estensione e al corpo ella è opposta siccome principio al termine straniero. Nell' ordine adunque degli enti relativi il principio e il termine divide l' ente, perché il termine è straniero. La differenza ontologica poi fra lo spazio e la materia è questa, che lo spazio è illimitato e però unico, né può essere realizzato se non tutto intero. La materia poi non può mai essere realizzata tutta. La sua essenza è inesauribile: quindi ella è subietto di quantità, venendo realizzata piú e meno. Vero è che la materia è anch' essa unica nella sua essenza ideale; ma non potendo l' essenza della materia per quanto di lei si realizza rimanere esausta, tutto ciò che di lei si realizza rimane limitato, e queste limitazioni prendono il nome di forma quando limitano la materia da ogni lato, onde la materia è suscettibile di moltiplicazione per la sua forma, cioè per la sua onnilaterale limitazione. Quindi le forme della materia possono variare all' infinito; la materia all' opposto è identica sotto ciascuna. Ma conviene aver sempre presente, che queste forme della materia sono limiti, e però non sono enti positivi. Di che si può trarre una piú compiuta definizione della materia dicendo « che ella è un ente termine del principio sensitivo, ed è soltanto termine, e termine finito in se stesso d' ogni parte »; dove dicendola termine finito in se stesso intendiamo dire che è finita rispetto alla sua essenza; perché la sua essenza abbraccia sempre di piú di ciò che è la materia realizzata, essendo inesauribile. Cosí la significazione della parola materia involge una relazione colla sua forma sia che l' abbia già in realtà, o che la consideri come atta ad averla. Le quali dichiarazioni premesse, noi potremo tentare una classificazione analitica di tutti gli enti, e per analitica intendo una classificazione fondata sui loro elementi, sui caratteri pe' quali vengono dalla mente concepiti. Ora la materia essendo un concetto relativo alla forma , conviene che noi favelliamo anche di questa. Se si comincia dal considerare accuratamente ciò che volgarmente si dice la forma del corpo, vedesi: 1) che la forma contiene due elementi, lo spazio ed i suoi limiti; 2) che il primo elemento, cioè lo spazio, che è ciò che la forma ha di positivo, viene all' uomo da una fonte diversa da quella, onde gli viene la materia corporea ed i limiti della forma; 3) che i limiti dello spazio, i quali lo determinano ad una forma, non sono suoi propri, ma appartengono alla materia limitata secondo l' arbitrio del Creatore; ovvero all' immaginazione che ha virtú di rappresentarceli; 4) che il corpo non esiste senza una forma, non già perché egli sia spazio, ma perché sintesizza collo spazio. Quindi l' atto primo pel quale il corpo esiste, e a cui viene imposta la denominazione di corpo, può dirsi la forma acquistata dalla materia colla sua estensione nello spazio e co' suoi limiti. Di qui viene che il corpo sia la materia formata. Ma non si potrebbe egli anche definire il corpo la forma materiata? No; e si intenderà considerando che lo spazio il quale è l' elemento positivo della forma, non è già quello che diventa corpo (ente termine) coll' aggiunta della materia; perocché per la sua semplicità e indivisibilità egli non soffre dalla materia alcuna modificazione o perfezionamento, né riceve limiti. Non diviene dunque lo spazio corpo, né soggetto del corpo; ma presta unicamente alla materia il luogo ove ella sia. All' incontro la materia estendendosi nello spazio con dei limiti suoi propri, viene da questi limiti definita. Quindi si considera la materia come il subietto dei corpi, e la forma come un cotal predicato loro essenziale. Se ora prendiamo la parola materia, nel suo significato piú generale, per ciò di cui un ente si compone; ogni qualvolta noi in un ente possiamo pensare una realità (qualche cosa che cada nel sentimento), ma priva di quei limiti di cui abbia bisogno per sussistere, senza quell' ultimo atto che ne rende possibile la sussistenza, noi chiameremo quella realità materia , e quell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto , lo chiameremo forma , nel qual senso la forma si può definire: « il complesso di quelle determinazioni che individuano l' ente », ossia, per le quali l' ente è un individuo. Quando adunque si dice forma si dice bensí l' ultimo atto che perfeziona l' entità rendendola ente compiuto, ma non si creda che per un tale atto s' intenda la sussistenza , perocché, trattasi dell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto, sussista egli o no; non trattasi di quell' ultimo atto ontologico che dicesi sussistenza , ossia realizzazione dell' ente ideale. Onde altro è la sussistenza dell' ente, altro la forma , che non fa se non rendere possibile la sussistenza della materia. Si vede, che il concetto di forma vuol avere un' unità molteplice ed organica, perocché la forma racchiude tutte le determinazioni che dee avere la materia acciocché possa costituire un ente reale. Si può dunque definire la forma anche in questo modo: « il complesso delle determinazioni di cui abbisogna la materia perché somministri il concetto di un ente realizzabile ». Ora, se si suppone che il concetto dell' ente di cui si tratta sia dato nella mente, si può altresí coll' analisi distinguere la sua materia, e tutte le determinazioni che la costituiscono un ente. Il concetto dell' ente determinato precede dunque nell' ordine logico i concetti analitici di materia e di forma. Ma l' ente stesso come viene egli dato? La soluzione di questa questione giace nascosta nell' abisso dell' Essere assoluto : l' essenza dell' essere ci scorge talora a conoscere quali enti (in potenza) sieno impossibili, e son quelli che involgono contraddizione; ma nessun mortale può enumerar e conoscere tutti quelli che non l' involgono: è l' ordine essenziale dell' essere a noi nascosto nella sua origine, che determina e risolve un tanto problema. Tostoché è dato l' ente reale composto di materia e di forma, quell' ente con questi due suoi componenti si disegna nell' ideale, nel quale la mente vede una materia ed una forma possibile. Ma vi ha grandissima differenza fra il concetto di materia (materia possibile), e il concetto di forma (forma possibile). Primieramente la materia non si può pensare come possibile se prima non la si è percepita realmente sussistente; perocché ella risponde a quello che abbiamo chiamato lo stoffo dell' ente; lo stoffo non è altro se non la materia, come sta nella nostra percezione. In secondo luogo la materia è una, e però il concetto della materia non fa conoscere che una cosa sola, e questa cosa che fa conoscere non è un ente completo, e piuttosto, come lo chiamavano i Greci, gli conviene il nome di non ente. Onde una intelligenza col solo concetto di materia non conosce ancora alcun ente; e il concetto facendo conoscere solo l' elemento di un ente, e questo non ancora moltiplicabile, perché la materia non si moltiplica che per la forma, manca di ogni universalità, e quindi tale cognizione soddisfa cosí poco l' intelligenza, che con essa sola a lei pare di non aver incominciato ancora a conoscere; perocché la luce che soddisfa all' intelligenza umana è propriamente quell' idea, quei concetti, pei quali si conosce tutti gli enti possibili di una specie, d' un genere, o di un modo qualsiasi. Or questo è appunto l' officio che fanno i concetti delle forme. Primieramente è da avvertire che i concetti delle forme suppongono già il concetto di materia: perocché la forma non essendo che il perfezionamento della materia, questa rimane sempre presupposta. In secondo luogo, appunto perché la forma perfeziona la materia dandole quegli atti che la costituiscono ente, perciò anche la limita; e cosí la divide e la moltiplica. Onde questa materia che è infinita può ricevere dalla forma quanti confini si vogliano senza che perciò venga esaurita giammai. Di che accade che una forma medesima possa riprodursi e realizzarsi in un infinito numero di individui (1). Cosí accade che il concetto di una forma sia per se stesso universale. E qui si scorge la ragione, perché gli antichi, gli Aristotelici e gli Scolastici specialmente, confusero sovente le idee colle forme (2). Ma il vero si è, che le cose s' intendono non colle loro forme semplicemente, ma colle idee delle forme, cioè colle forme nel loro modo ideale di essere. Questa differenza è importantissima, perocché in primo luogo se ne trae che il concetto della forma non fa conoscere se non quegli enti che sono composti di materia e di forma. Oltre ciò apparisce che le forme in primo luogo appartengono alla realità, in maniera che se si prescinde da ogni realità, non si può concepire né pure nell' idealità alcuna forma, se non creandosi un' illusione coll' immaginazione. Insomma ogni forma è una limitazione, e niuna limitazione cade nell' essere ideale puro; le forme ideali adunque nascono dalla relazione categorica fra il reale e l' ideale, in quanto questo si usa dalla mente a conoscere quello, onde diviene come suo rappresentante. Dalle quali cose tutte si raccoglie: 1) Che l' essere possibili infiniti individui reali d' una stessa specie piena nasce dalla congiunzione della materia colla forma a cagione dell' indeterminazione e illimitazione di quella, e che perciò questo deve aver luogo in tutti gli enti composti di materia e di forma. 2) Che la forma non è il lume conoscibile per sé, ma questo lume è unicamente l' idea; la forma quindi è anch' ella prima reale e poi ideale , risultando il concetto ideale disegnato nell' idea dal confronto colla realità. 3) Finalmente che non si può con proprietà attribuire forma agli enti semplici, che non hanno materia e non sono ordinati ad informare la materia: e qualora si voglia chiamar forme le intelligenze separate, conviene mutare il significato della parola, cioè prescindere dalla relazione della forma colla materia, e pigliare la forma in senso di primo atto o simigliante. Distinti gli enti nelle due classi di principŒ e di termini, se ne può trarre una verità importantissima e fecondissima nell' Ontologia, che « ogni attività dee appartenere unicamente all' ente principio, ed all' ente termine non può appartenere che la facoltà di essere ricevuto e di patire ». Perocché egli è manifesto che il subietto dell' azione è il principio di essa, e perciò appunto si chiama principio perché indi incomincia e si propaga l' azione. All' incontro nel termine l' azione finisce e non incomincia, e perciò ivi non può avervi attività, ma anzi il fine dell' attività. Si dirà che ogni ente per esser tale dee aver qualche azione, almeno l' atto primo che lo fa esser ente, secondo l' assioma degli antichi: « Qui nihil agit, esse omnino non videtur (1) ». Ma è da considerarsi che il termine non sarebbe ente se non fosse unito al principio, e da questa unione di lui col principio riceve l' atto primo pel quale ha condizione di ente; onde anche quest' atto primo non è suo proprio, ma appartiene al principio da cui dipende. Onde l' ente che è soltanto termine dipende dal principio, dal quale ogni atto egli riceve. Ritornando ora al principio, che dee dirigerci nella investigazione dell' ente reale, e che è perciò il principio rettore di tutto questo libro, noi dicemmo che « lo stoffo dell' ente reale non si conosce da noi che per via di percezione » [...OMISSIS...] . Dopo di ciò noi favellammo della veracità della percezione nel capitolo dove esponemmo la teoria della rappresentazione [...OMISSIS...] . Finalmente noi trattammo dell' immaginazione intellettiva , la quale ci rende presente un ente reale benché attualmente nol percepiamo. Egli è necessario indagare qui qual veracità si abbia l' immaginazione intellettiva; e ciò pel pericolo che nella dottrina dell' ente reale si intromettano delle illusioni non conformi alla verità. L' immaginazione intellettiva , come abbiamo veduto, è quella facoltà per la quale, dato un sentimento, la mente pensa un ente non agente attualmente nel senso, e lo pensa di quello stoffo che è somministrato dal sentimento attuale. Ora da questa facoltà dell' immaginazione intellettiva noi abbiamo tenuta distinta l' altra dell' affermazione . Imperocché altro è immaginare un ente fornito del suo stoffo, compiuto di tutto punto, che è appunto la specie piena attuata dinnanzi al pensiero, altro è affermare e persuadersi che quell' ente sussiste. Quell' ente semplicemente immaginato è ancora un ideale, un concetto; ché noi abbiamo pure veduto che anche lo stoffo di un ente è nelle due forme categoriche, la ideale e la reale [...OMISSIS...] : quest' ente all' incontro affermato come sussistente è reale, o supposto come tale (ente ipotetico), o tale creduto (ente illusorio). Da ciò si deduce che l' immaginazione intellettiva è verace; perocché non è funzione di lei affermare che quell' ente sta presente alla percezione; ma questo, se ha luogo, è solamente errore del giudizio (dell' affermazione), che prende l' immaginato per un percepito. La semplice intuizione immaginaria è verace, posto che l' ente immaginato non involga contraddizione. Poiché vi hanno due maniere di vero, come vi hanno due maniere di cognizione: le cognizioni intuitive, e le cognizioni di predicazione. Il vero, ossia la veracità delle cognizioni intuitive, consiste unicamente nell' assenza di contraddizione, poiché, non avendo contraddizione in se stesse, esse appartengono all' essere possibile, e l' esser possibile o ideale è la verità (1). Il vero poi delle cognizioni di predicazione consiste in questo, che ciò che si predica sia nel subietto di cui si predica. Ora l' immaginazione intellettiva appartiene all' intuizione. Nell' oggetto dunque dell' immaginazione intellettiva non vi ha nulla di potenziale; tutto è attuale. Ma noi abbiamo veduto che la contraddizione non si nasconde se non nei concetti potenziali. Dunque l' immaginazione intellettiva non può essere che verace; benché in appresso possa cadere l' errore in quella affermazione colla quale si pronuncia che l' oggetto immaginato è sussistente. Rimettendoci or dunque in via, il primo e originario fonte di ogni nostra cognizione del reale si è la percezione intellettiva, che è quanto dire: « la apprensione del sentimento, o di quanto cade nel sentimento ». Di questa rimane la memoria e poi ella si spezza nei tre elementi dell' affermazione, dell' idea, e del sentimento; e lasciando il primo da parte, gli altri due costituiscono il concetto specifico7pieno. Succede l' immaginazione intellettiva, che richiama in atto questo concetto dopoché è cessato di esser presente all' attenzione. Quindi all' opera dell' immaginazione intellettiva si associa l' astrazione. Vedesi adunque che tutto questo edificio di pensieri intorno all' ente reale ha per sua base e materia prima la percezione; e che perciò se noi osserveremo ciò che ci dà in origine la percezione dei reali, avremo lo sgranellato, per usare una frase del Romagnosi, di tutte le nostre cognizioni intorno al reale; e le classi primitive, per cosí dire, dei reali a noi conosciuti. Queste sono le seguenti: 1) Il sentimento di noi stessi, il quale è la prima sostanza reale, e come conosciuto a se stesso è un ente principio . 2) Il termine corporeo che ha l' anima nostra, termine a cui l' anima è unita per natura, per la percezione fondamentale. 3) La sostanza corporea extra7soggettiva. 4) Finalmente io sono persuaso che anche le anime altrui, si dieno a percepire alla nostra, non però nude, ma insieme co' corpi che esse informano, onde si generano gli affetti dell' anime fra loro. 5) Nell' ordine soprannaturale poi vi ha indubitatamente la percezione di Dio, la quale è fondamento alla dottrina che deve esporsi nell' Antropologia soprannaturale. Le nostre cognizioni intorno all' ente reale possono adunque ripartirsi in due grandi classi, le immediate e le mediate . Le cognizioni immediate sono quelle che ci vengono fornite dalla apprensione immediata dell' ente, cioè dalla percezione , e dall' immaginazione intellettiva che n' è la universalizzazione. Le cognizioni mediate procedono dal ragionamento che si fa sulle immediate, il quale è duplice, analitico e dialettico trascendentale . Fin qui noi abbiamo applicato all' essere reale immediatamente conosciuto il ragionamento analitico. A questo ragionamento appartien la notizia, che l' ente reale risulta quasi da due suoi primi organi, dal reale e dall' ente, cioè dalle due prime forme categoriche: cosí pure, che alcuni enti reali si compongono di materia e di forma. Finalmente anche quelli che non si compongono di materia e di forma, se sono enti finiti, si compongono di positivo e di negativo, cioè di entità reale e di limiti di questa realità «( Teodicea ) ». Vuol notarsi accuratamente, che i limiti degli enti si partono in due classi: altri sono accidentali , i quali si restringono o si dilatano senza che l' ente perda la sua identità; altri sono necessari ; e questi ultimi costituiscono la natura dell' ente e si dicono ontologici. Ma trattandosi di enti completi, cioè di quelli che risultano da un principio e da un termine, le limitazioni ontologiche si suddividono in due altre classi: perocché o limitano il principio, o limitano il termine. Ora, se il termine fosse mutato intieramente, l' identità dell' ente andrebbe sicuramente a perdersi. Ma se il termine rimane della stessa natura, l' aggiungersi un altro termine di tutt' altra natura adduce certamente un cangiamento sostanziale nell' ente; ma non per questo rimane perduta l' identità dell' ente. E questo è ciò che accade nell' ordine soprannaturale. All' incontro quelle limitazioni ontologiche che limitano immediatamente il principio degli enti, li costituiscono altresí per quello che sono, e non si possono alterare se ad un tempo non si smarrisca anche la loro identità. Queste limitazioni ontologiche costituenti , sono state prese alcune volte da' filosofi per la forma degli enti, e furon quelle che ingannarono l' Hegel, e il condussero a far venire il positivo stesso dal negativo. Per altro esse hanno in sé qualche cosa di oltremodo mirabile e misterioso; giacché per esse avviene che un ente limitato non può essere un altro. Acciocché si possa intendere come un ente limitato escluda da sé tutti gli altri, conviene supporre che l' essenza loro dipenda dalla stessa loro limitazione: la limitazione dunque ontologica7costituente entra nella essenza dell' ente, è un elemento negativo, ma che influisce sul positivo, lo determina e propriamente il forma. Acciocché la cosa si possa intendere, conviene ricorrere alla natura dell' ente relativo . Questo è costituito dalla relazione, è ente relativamente a sé; e solo relativamente ad un sé, a un principio di sentire e d' intendere, l' ente può essere limitato. La esclusione dunque nasce dalla relatività dell' ente . E che la cosa sia cosí, si può convincersi maggiormente ripensando a ciò che nasce nella propria coscienza. Ciò che a me non si riferisce, non esiste per me: egli è fuori di me. Cosí questo me è un principio relativo, che limita l' essere; e ne esclude da sé la massima parte. Ma il principio del sentimento non esiste che nel sentimento, senza di questo è nulla. Non vi ha dunque una divisione possibile fra il principio dell' ente e l' ente, ma il principio è nell' ente come un elemento nel tutto. Dunque l' ente di cui si tratta ha una relatività in se stesso: l' intima sua costituzione è dunque quella che lo divide dal mare dell' essere, per cosí dire, lo rende esclusivo, limitato, incomunicabile. Questo fatto è dato dall' esperienza, e non involge contraddizione; né pregiudica all' unità di tutto l' essere; perché quest' unità appartiene all' essere assoluto, e la limitazione è relativa, e appartiene all' essere relativo. Or poi quanti e quali possano essere enti sussistenti limitati, condizionati, relativi; questo è quello che rimane occulto negli abissi dell' essere assoluto, al cui fondo lo sguardo umano non può penetrare. Tornando dunque al ragionamento analitico applicato agli enti reali, a lui è dovuta ancora quella classificazione degli enti, che abbiamo esposto nel capitolo XXVIII di questo libro. Il ragionamento analitico trova ciò che è nell' ente reale conosciuto immediatamente; il ragionamento dialettico trova ciò che deve essere in esso o fuori di esso, acciocché egli sia un ente completo. Il ragionamento analitico non fa che riconoscere parte a parte ciò che è dato dalla percezione e dalla immaginazione intellettiva, senza aggiunger nulla; il ragionamento dialettico considera ciò che è dato dalla percezione e dell' immaginazione intellettiva come un condizionato, e ne cerca le condizioni. Il ragionamento analitico non applica piú l' idea dell' essere, e si contenta di averla come data nel percepito e nell' immaginato; ma il ragionamento dialettico tiene dinanzi l' essere ideale come un esemplare a cui riscontrare il percepito e l' immaginato, e conosce ciò che gli manchi per adempire la compiuta nozione di ente. Il pensiero dialettico, tenendo fissi gli sguardi nella natura dell' essere come in esemplare e norma di giudizi intorno all' ente, domanda che tutti questi caratteri si avverino e dichiara che dove non si avverino, ivi non è un ente completo: dove ne scorge alcuni, conchiude che vi debbano indubitatamente essere anche gli altri, facendo questo sillogismo: « Alcuni caratteri, elementi, organi o condizioni dell' ente sono: la percezione me ne assicura; Ma all' ente non può mancare nessuno de' suoi caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, né questi possono andar divisi; Dunque anche tutti quei caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, che non sono dati dalla percezione, debbono esservi »(1). Cosí il ragionamento dialettico colla guida dell' essere intuíto esce dai confini della percezione e dell' immaginazione intellettiva; e perviene all' invenzione di nuovi enti, e di nuove verità che non cadono nell' esperienza. Or qual' è l' ufficio del pensare dialettico trascendentale? Non altro se non ridurre ad un pensiero attuale ciò che prima era nel pensiero virtuale e potenziale. L' elemento virtuale adunque, che è nella percezione e nell' immaginazione intellettiva, è il germe che si sviluppa col ragionamento dialettico, per un continuo novello confronto fra ciò che si percepisce, e l' essere ideale che nella percezione stessa si comprende. Uno dei piú importanti principŒ, di cui fa uso il ragionamento dialettico trascendentale, è quello che nasce dal quarto carattere ontologico, che l' ente dee essere un atto primo , acciocché sia concepibile, sia possibile. Di qui il principio che, ogni qualvolta l' atto primo è nascosto al pensiero, si dee conchiudere indubitatamente che egli tuttavia non manca, e il pensiero virtuale tacitamente lo suppone, il pensiero poi dialettico ed attuale è autorizzato ad affermarlo. Questo assioma trae seco amplissime conseguenze, la prima delle quali si è che « ogni qualvolta ciò che noi pensiamo è un ente termine, riesce ontologicamente necessario che esista un principio a lui corrispondente, che lo completi ». L' essere ideale ha ragione di principio rispetto a quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo , ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo. Considerando l' essere ideale in rispetto all' ente soggettivo , egli non ha ragione di principio, ma di termine medio , di maniera che nell' ordine ontologico egli ha avanti di sé per suo principio il soggetto. Ma se noi consideriamo l' essere ideale rispetto al soggetto uomo, noi troviamo ch' egli ritiene pure la nozione di termine medio; e si riscontra una singolare analogia fra questo termine medio nel soggetto intelligente, e lo spazio che è pure termine medio nel soggetto senziente. Del rimanente, l' essere ideale nell' uomo è anch' egli un termine straniero. Il principio intelligente riceve dall' essere ideale l' oggetto primo che lo rende intelligente, egli riceve e non dà; dunque l' ente oggetto non può essere produzione del principio intelligente umano, ma egli esige l' esistenza d' un' altra attività, d' un altro principio che rimane all' uomo occulto. Ma qual principio suo proprio può avere l' ente oggetto? Un soggetto, come abbiam detto. Dunque l' ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente contiene l' esistenza d' un soggetto suo proprio, il quale sia principio soggettivo del termine medio oggettivo. Ma il principio dee essere adeguato al suo termine proprio, col quale egli costituisce un solo essere. Ora l' essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito per suo principio. Questa è la dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori , che si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo (1). Il ragionamento dialettico trascendentale adunque dimostra l' esistenza di enti che non cadono nella nostra esperienza, tanto partendo da quegli enti termini che sono dati nella costituzione del nostro sentimento, quanto partendo da quell' ente termine7medio, che è dato nella costituzione della nostra intelligenza. Ora possiamo sciogliere la questione « se l' essere reale si riduca sempre ad un sentimento ». In primo luogo, se noi poniam mente all' esperienza, questa non ci dà altri esseri reali se non quelli che hanno natura di termine, ovvero di principio. Ora i principŒ sono i soggetti, tutti dotati di sentimento. I termini reali poi sono i sentiti, i quali si riferiscono al principio senziente, e però sono nel sentimento. Ma se noi applichiamo a questi dati dell' esperienza il ragionamento analitico, troviamo: 1) che la parola sentimento significa propriamente l' atto ultimato del principio senziente; 2) che il termine sentito o è proprio, o straniero. Se è proprio, egli è lo stesso principio senziente come sentito. Cosí nel sentimento espresso con il vocabolo Io , il senziente e il sentito s' identificano; 3) ma se il termine è straniero, egli ha bensí un rapporto essenziale col principio straniero col quale è unito, ma non gli appartiene l' atto proprio del principio straniero, e però neppure il sentimento. Quindi egli si rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia bensí sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita. Cosí il pensar comune è giustificato; ed egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte. Fra queste verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio, che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio appartiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra nel sentimento. Ma quella entità che è a noi termine straniero non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da noi è sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio. Quindi nel termine del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmente sentito; la materia che si suppone non sentita, e questa è un' entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito, dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non l' attitudine ad esser sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal suo principio proprio con un sentimento diverso dal proprio. Onde quella materia che rimane in mezzo ai due sentimenti si considera come materia identica dell' uno e dell' altro. Ma propriamente parlando ella non esiste separata dai due senzienti, ma è un cotal figmento della maniera nostra limitata di concepire; e quindi neppure ella è identica ai due sentimenti. Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia in se stessa, ma solo ci fa conoscere avervi un' entità reale, la quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente, dal qual contatto esce il nostro sentito. Ora, questo concetto negativo è il concetto di una realità pura ed astratta , che è qualche cosa di anteriore al sentimento, e però appunto dicesi pura; 4) troviamo adunque che in ogni sentimento, come pure in ogni sentito, vi ha un' attività. Ora l' astrazione suol separare anche l' attività del sentimento dal sentimento; e a quest' attività suol pure dare il nome di realità pura , cioè separata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci prendendo i prodotti dell' astrazione quasi per sé essenti, come enti reali. Perocché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l' attività è sentimento ella stessa. Vero è che l' effetto di questa attività del sentimento si manifesta anche fuori del sentimento, modificando la materia del medesimo. E poiché quest' azione noi poniamo che appartenga ad un principio senziente che non viene raggiunto dalla nostra esperienza, quindi il concetto di azioni reciproche fra principŒ diversi che immutano reciprocamente i sentimenti proprŒ nei loro rapporti attivi. Il qual fatto è importantissimo, e non cosí facile a spiegare. Perocché, che un sentimento sia attivo entro la propria sfera s' intende, ma che egli produca un effetto fuori di questa, egli è un nodo difficile a sciorre. Tanto piú che l' effetto da esso prodotto in un altro sentimento non è da lui sentito, almeno nello stesso modo come lo sente chi riceve l' effetto. E pure il fatto de' termini stranieri dimostra, che il principio proprio di questi, comeché sia, influisce nel principio straniero in modo da somministrargli il termine. Se noi analizziamo questo fatto, dalla descrizione di un fatto cosí meraviglioso, qual' è l' azione e la congiunzione attiva e passiva dei principŒ sensitivi, si possono cavare le seguenti conclusioni. Se si tratta di quella congiunzione attiva e passiva per la quale gli enti relativi si costituiscono, convien dire ch' ella appartiene alla loro natura. E nel vero ella è appunto quel sintesismo, pel quale sussistono e reciprocamente si sostengono, onde gli enti non si possono concepire senza questa loro congiunzione essenziale, senza la quale perirebbero. La ragione pertanto di questa congiunzione dee cercarsi unicamente nell' autore della loro natura. Infatti non si potrebbe in essi trovare ragione che spiegasse tale congiunzione, essendo ciascuno un ente per sé. Or questo è nuovo argomento, col quale il ragionamento dialettico trova la necessità di una terza potenza che, quasi disposando due enti fra loro, li costituisca entrambi. Coll' astrazione si separa quell' azione di uno che è passione dell' altro, come fosse cosa diversa dai sentimenti stessi; ma propriamente è da dire che entra ella stessa in entrambi i sentimenti, come termine in chi lo fa, e principio ma principio straniero in chi la riceve. E cosí s' avvera che l' ente reale non sia altro che sentimento, ma sentimento suscettivo d' azione e di passione. Di che non di meno avviene che si formino colla mente due astratti, separandosi il sentimento dall' azione , e separandosi l' azione dal sentimento ; la quale separazione non esiste in natura, ma solo nell' ontologia scientifica in quant' è frutto dell' astrazione. Di che si passa facilmente all' errore di credere che si dia azione e passione senza sentimento, o che si dia sentimento senza azione o passione; laddove nella natura queste cose non ne formano che una, un ente solo, il quale sentendo agisce o patisce, ed agendo o patendo sente. Del resto, non deve essere leggermente trapassata l' osservazione che noi facevamo di sopra, che l' azione e passione di due principŒ senzienti suppone un terzo ente, o certo una ragione fuori di essi. Un terzo ente che ad un tempo stesso che fa esistere i due principŒ, li mette ancora fra loro in comunicazione: l' uno non può trovar certamente l' altro perché non lo sente; e perciò appunto è necessario che una terza forza sia quella che li congiunge; e poiché il congiungerli è lo stesso che porli in essere, perciò questa terza forza è quella che li pone in essere, che dà loro l' esistenza. Veduto come si distingue il concetto di azione dal concetto di sentimento, dobbiamo vedere come si distingua il concetto di essere dal sentimento medesimo. Il concetto di essere è il medesimo che il concetto di primo atto; e il primo atto è assoluto o relativo. Il primo atto assoluto è quello che è primo assolutamente cioè universalmente, di maniera che non se ne possa pensare un altro avanti di lui. Il primo atto relativo è quello che è primo nella sfera di un sentimento limitato, di limitazione ontologica, cioè tale che lo costituisce separandolo da ogni altro. Or si domanda se il concetto di atto primo, o sia di essere, diversifichi dal concetto di sentimento, di maniera che un ente possa essere non sentimento. Rispondesi, che in quanto all' essere assoluto, il concetto di essere o di atto primo è sotto ogni forma sentimento, ma non nello stesso modo, poiché nella forma reale è sentimento7principio, nella forma ideale è sentimento termine7medio, e nella forma morale è sentimento termine7ultimo. Rispetto poi agli esseri relativi, essendoci data in natura un' azione che non è sentimento rispetto a noi, perché il sentimento suo proprio ci rimane incomunicato e nascosto; perciò egli deve accadere e accade, che movendo da tali azioni l' intendimento nostro si formi il concetto di esseri privi affatto di sentimento. Perocché data a noi l' azione non sensitiva, l' intendimento nostro considera necessariamente o lei stessa come prima azione, primo atto, e però come ente insensitivo; ovvero ascende da essa a trovare un' azione prima, un primo atto che sia l' ente a cui ella appartiene, per quella legge ontologica per la quale la mente è sospinta sempre a pensare il primo atto, cioè l' ente come oggetto necessario del pensiero «( Psicologia , P. II, l. IV, c. VII) ». E cosí è che il pensiero comune giustamente concepisce una materia insensitiva, e in generale degli enti che non sono sentimento. Ma l' ontologo mediante le meditazioni che abbiamo esposte viene ad accorgersi che gli esseri insensitivi sono propriamente entità risultanti e relative di secondo grado, non veri enti primitivi relativi di primo grado. Or qui ci si offre una difficoltà. Se l' ente deve esser uno, come accade egli, che risulti sovente da un principio e da un termine? Si ponga attenzione che il solo termine non può giammai costituire un ente, benché possa costituire una sostanza relativa all' appercezione umana; d' altra parte il principio reale ha natura di soggetto, e però di ente soggettivo che è infine quanto dire di ente reale. Ora ogni principio reale è soggettivo e semplice ed uno: quindi la semplicità e l' unità dell' ente reale risiede nella semplicità e unità del principio reale soggettivo (1). Ma si dirà: il termine adunque non entra egli per nulla nella composizione dell' ente? - Si distingue il termine straniero , e il termine proprio dell' ente . Il termine straniero non è piú che un eccitatore e anche suscitatore del principio; ma tali termini non si confondono punto col principio, questo rimane l' unico soggetto suscitato: e il soggetto, che è uno e incomunicabile, è il solo ente reale. La moltiplicità dunque rimane fuori dell' ente, rimane nel termine che non è ente; l' unità e la semplicità è nel principio, che propriamente è ente. Il termine proprio all' incontro non è che l' ultimo atto dell' ente, e, per cosí dire, la punta dell' atto. Noi non abbiamo esperienza di alcun ente, il cui ultimo atto non abbia bisogno di un termine straniero; questa è la prova ontologica, che tutto l' universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro. Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fossero desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell' essere Divino. Imperocché egli deve contenere i tre modi categorici, essere ad un tempo reale, ideale, e morale. Per altro egli è evidente che l' ente che ha un termine suo proprio, sarebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l' ente principio e l' ente termine; la distinzione sarebbe ne' modi di essere, e non nell' essere stesso; la divisione si farebbe nell' astrazione, ma non nello stesso ente. A rigore: non è ente veramente completo se non l' assoluto. Tuttavia si dicono relativamente completi quelli enti, che sono suscettivi di coscienza, i quali sono in se stessi e virtualmente a se stessi; onde relativamente a sé sono completi; perché essi non sentono il bisogno, per essere, che di se stessi. Ma oltre questi enti ve n' hanno di quelli che sono anche relativamente incompleti, e sono quelli, i quali non sono in sé, né a sé, non hanno veruna relazione seco stessi, perché non hanno sentimento proprio, e quindi non possono avere un sé , ma la loro esistenza è interamente relativa ai primi dotati di un sentimento proprio intellettivo che sono in sé. Tali sono appunto lo spazio, la materia, i corpi. Gli enti relativi dunque si dividono in due grandi classi: 1) in quelli che hanno un' esistenza relativa a sé; 2) in quelli che hanno solamente un' esistenza relativa ad altri, cioè a que' primi. Vero si è che l' uomo ha una naturale inclinazione d' attribuire alle cose diverse da sé un' esistenza simile alla sua subiettiva (1). Egli ha ben anco di ciò fare una cotale necessità dialettica, perocché non può concepire un ente, senza attribuirgli un' esistenza subiettiva. Ma questa necessità è appunto soltanto dialettica , cioè è una necessità che egli ha di cosí supporre ogni ente qual condizione necessaria a concepirlo (2). Ma queste necessità dialettiche , sono mere supposizioni , mere aggiunte provvisorie per arrivare a concepire gli enti; le quali aggiunte l' uomo stesso le abbandona tostoché si pone a ragionare sugli enti già concepiti. La prima classe adunque di enti relativi ha non solo un' esistenza oggettiva , ma ben anco un' esistenza soggettiva ; la seconda classe ha un' esistenza oggettiva , ma non soggettiva . La prima classe contiene gli enti primitivi , nell' ordine della relatività, la seconda classe contiene gli enti risultanti dalla connessione, e dal sintesismo degli enti primitivi fra loro. L' ente completo assolutamente ha un' esistenza oggettiva sua propria, laddove l' ente completo relativamente ha un' esistenza oggettiva partecipata. Sotto il qual aspetto, gli enti si possono distribuire in tre classi, che sono: 1) Ente completo assoluto , il quale ha un' esistenza oggettiva propria , e cosí parimenti una propria esistenza soggettiva ; 2) Ente completo relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata e non propria, ed un' esistenza soggettiva propria ; 3) Ente incompleto relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata , niuna esistenza soggettiva. Ma torniamo al carattere dell' unità , che deve aver l' ente per legge ontologica. Questa investigazione conduce a vedere che l' unità ontologica è tale, che non esclude ogni moltiplicità, e quindi a conciliare la moltiplicità coll' unità ontologica. In fatti, la prima maniera di unità, è quella che essendo semplicissima, esclude ogni moltiplicità. Or questa specie di unità non si riscontra negli enti completi , né tampoco negl' incompleti ; ma tutt' al piú negli astratti, che non sono propriamente enti, ma piuttosto entità divise ipoteticamente col pensiero dal resto che hanno congiunto. Questa maniera di unità astratta , o di uno astratto , si può chiamare acconciamente elementare , perocché non può rappresentare che un elemento , non mai un ente. Ad essa si può ridurre 1) l' unità di numero, l' uno ; 2) l' unità di punto matematico ; 3) l' unità dell' estensione illimitata ; 4) l' unità dei singoli atti, delle singole potenze, dei singoli abiti , ecc.; 5) l' unità della qualità ; 6) l' unità della relazione , e dell' abitudine ; 7) l' unità dell' essere ideale . Questa unità elementare non è l' unità ontologica . Conviene adunque che noi cerchiamo un' altra maniera d' unità, la quale colla moltiplicità si compone; e per agevolarcene la ricerca, investighiamo quali sieno le pluralità che non distruggono l' ontologica unità. Noi possiamo enumerare le seguenti: I) L' essere assoluto è nei tre modi categorici: in ciascuno è identico e intero - quindi la pluralità dei modi categorici, in cui l' ente è identico, non toglie la sua unità. II) Gli esseri relativi completi , considerati nella loro esistenza soggettiva hanno dei termini stranieri; ma essi appunto perché stranieri, non entrano in composizione con quell' ente che in essi termina. Questi enti dunque, per avere tali termini, non perdono la loro unità ontologica. III) In quanto all' esistenza oggettiva degli enti, essa giace nell' essere ideale: ora questo non toglie l' unità ontologica per le seguenti ragioni: 1) Se si parla dell' essere assoluto , l' essere ideale non può distruggere l' unità dell' ente; perché questo è identico nei due modi di esistere, il soggettivo e l' oggettivo; 2) Se si parla degli enti relativi completi, ovvero incompleti, la loro esistenza oggettiva è nella mente; e noi abbiamo veduto che nella mente l' ente ideale e il realizzato è identico «( Sistema Filosofico , n. 23 sgg.) ». IV) Gli enti relativi incompleti, che abbiamo chiamato anche risultanti , o termini risultanti , hanno una moltiplicità relativa al soggetto o principio a cui sono termine, la quale è reale, benché essi non sieno soggetti . Ora, essendo a noi nascosta la natura di questo principio proprio, consegue che noi non sappiamo in che modo questo principio straniero produca que' piú termini, e se egli è un solo principio, forz' è che in lui vi abbia la pluralità del termine, come quello che essendo semplice, la può accogliere in sé medesimo. Tutte le grandi questioni ontologiche si riducono a due; la prima è quella astrattissima che si volge intorno la pura essenza dell' essere che nell' idea si contempla; la seconda è quella che tratta della costruzione dell' essere , e questa discende all' essere reale. Noi ci proponiamo in questo capitolo di entrare in questa seconda questione dell' ontologia, e ne uscirà forse un commentario a quella soluzione data da Anassagora (1) con sí brevi parole, che Socrate se ne lagnava (2). Noi vogliamo adunque dimostrare, che vi deve essere un' intelligenza non già per la necessità di spiegare i vestigi di una causa intelligente che si manifestano nel creato; ma perché senza un' intelligenza l' ente non sarebbe costituito, e però non vi potrebbe essere alcun ente; la quale è necessità ontologica. L' ente infatti è per sé necessario; perocché quello che è per essenza, non può non essere. Dunque è pure necessario tutto ciò che ha natura di condizione o di elemento costitutivo dell' ente. Se dunque si prova che l' ente non si potrebbe concepire, qualora non vi avesse intelligenza, con ciò sarà provata la necessità ontologica di questa. Rammentiamo che l' ente termine non può stare da sé solo senza il principio a cui essenzialmente si riferisce, e quindi che il sentito corporeo non può stare senza il principio senziente. Da questo viene immediatamente la conseguenza, che il pensare che non vi avesse nell' universo se non materia e corpi, è un pensare assurdo, perocché quando si dice materia e corpi si dice termini, e quando si dice termini si dice relazioni con un principio, e cosí si afferma implicitamente il principio. Quando poi si dice che non si hanno se non corpi e materia, allora si nega l' esistenza del principio. Dunque si afferma e si nega nello stesso tempo: dunque vi ha contraddizione. Questa è la prima confutazione ontologica del materialismo. Dimostrata la necessità ontologica dell' essere senziente, rimane a dimandare, se vi abbia contraddizione intrinseca anche nella supposizione che non vi avessero altri esseri fuorché il senziente. In primo luogo, questo essere puramente senziente, per la supposizione stessa sarebbe privo d' intelligenza, e però non avrebbe, né potrebbe avere alcuna coscienza di sé. Un Sé non esisterebbe; neppure esisterebbe chi potesse applicare a questo essere senziente il pronome Tu o Egli. Egli non sarebbe dunque né a se stesso, né ad alcun altro essere. Conviene conchiudere che non sarebbe del tutto. Poniamo l' obbiezione piú ovvia: « un essere senziente, se non vi avesse alcuna intelligenza, certo non potrebbe essere né conosciuto né affermato; ma come dimostrate voi, che egli non potesse essere al tutto, quantunque praticamente incognito a se stesso o ad altro chicchessia? ». In questa obbiezione parlasi d' un principio senziente che si suppone atto ad essere conosciuto, si suppone possibile, si suppone tale che abbia un Egli ed un Sé; il che è quanto dire, si suppone, che insieme con lui esista un' intelligenza, il che distrugge la supposizione fondamentale del ragionamento. Si rifletta che l' obbiezione fatta di sopra si riduce a questa proposizione: « potrebbe essere un ente senziente del tutto sconosciuto ». Ella si appoggia adunque sulla possibilità di un tale ente. La questione adunque si riduce tutta alla possibilità. Or che cosa è la possibilità? Noi abbiam detto piú volte, non è altro che l' intelligibilità. Dunque quando si dice un ente possibile, con questo stesso si ammette che sia intelligibile; ed essere intelligibile è lo stesso che avere una relazione con una intelligenza. Si suppone adunque, senza avvedersene, che una intelligenza esista all' atto dell' essere senziente. L' obbiezione adunque parla di un essere sconosciuto; ma nello stesso tempo suppone che sia conoscibile. Ora acciocché ella avesse forza dimostrativa, dovrebbe parlare di un ente non pure non conosciuto, ma anche non conoscibile, il che è quanto dire non possibile. Si replicherà che quest' essere intelligente basta che sia possibile anch' egli, non è necessario che sia sussistente. Ma si risponde, che il replicare cosí altro non sarebbe che il perdersi entro un circolo vizioso ovvero un progresso all' infinito. Perocché se si riconoscesse necessaria la possibilità , acciocché l' ente senziente sussista (e per vero dire ciò che non è possibile non sussiste); e quindi si riconosce la necessità che v' abbia un' intelligenza possibile; dove poi si porrà la possibilità di questa intelligenza? Converrebbe ricorrere ad un' altra intelligenza possibile. E posciaché la serie di queste intelligenze possibili non può andare all' infinito; cosí conviene di necessità fermarsi ad una intelligenza sussistente, nella quale si trovi la sede della stessa possibilità. La dimostrazione medesima si deriva da altri principŒ da noi stabiliti. Noi abbiamo veduto che il reale non può stare senza l' ideale pel sintesismo di queste due forme. Ora enti sensitivi, senza piú, sono reali. Dunque addimandano i loro ideali corrispondenti. Ma l' ideale è il termine oggettivo dell' intelligenza. Il termine poi non può stare senza il principio. Convien dunque che vi abbia un principio intellettivo nell' universalità delle cose, acciocché vi possa avere l' ideale che in esso essenzialmente dimora; e convien che v' abbia un essere ideale che costituisce la possibilità del reale, acciocché vi possa avere l' ente reale, che è l' effettuamento e l' ultimo atto di quello. E poiché il senziente è un reale; perciò non può esistere nell' universo il solo ente sensitivo. Lo stesso si deduce da un altro vero, cioè dall' essere l' ideale, ente iniziale, sí fattamente che la costituzione di ogni ente reale in lui incomincia. Egli è dunque impossibile che v' abbia la realizzazione di un ente, che v' abbia la sua forma reale la quale è compimento, se mancasse il suo inizio che è il primo passo che dà l' ente verso alla sua compiuta esistenza. Dal che procede, che l' ente che non ha intelligenza è incompleto, ed ha bisogno di appoggiarsi alle intelligenze fuori di lui, alle quali solo egli è relativo : all' incontro l' ente che è dotato d' intelligenza è ente completo , e però questa sola maniera di enti, cioè gl' intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie che viene da «enteleches», perfetto , denominazione ontologica perché tratta dell' intima costituzione degli enti stessi. Cosí tutte le nature delle cose sono connesse, l' una all' altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, l' armonia, e la consonanza di queste: la base altissima delle quali essenziali relazioni degli enti giace nell' originario sintesismo delle tre forme categoriche, nelle quali l' essere uno è medesimamente ancora trino. Il legame ontologico delle cose fra loro è quello che rende la teosofia una scienza sola, e non la lascia partire in piú. Che anzi le sue tre parti, che abbiamo detto essere ontologia, teologia naturale e cosmologia, neppur si possono trattare cosí recise e partire l' una dall' altra, che le materie dell' una non si debbano colle materie dell' altra alcuna volta tramezzare. E questo è quello che qui ci accade. Poiché sponendo noi le attinenze dell' essere reale, e come quello che è privo d' intelligenza s' attenga necessariamente e quasi si aggrappi all' essere intelligente, siamo sospinti a parlare della prima intelligenza a cui ogni ente è condizionato, e a raccogliere la dimostrazione della sua esistenza, che qui da se stessa in nuova forma ci si presenta. Dimostr. - Necessaria è una proposizione, quando la sua contraria involge contraddizione. Ora « che l' essere non sia necessario »involge contraddizione. Perocché se l' essere non è necessario, l' essere potrebbe non essere. Ma essere e non essere sono termini contraddittorŒ. Dunque la proposizione contraria involge contraddizione. Dunque l' essere non può non essere, ossia l' essere è di natura sua necessario; il che dovevasi dimostrare. 1) Questa necessità dell' ente è la proposizione fondamentale della scuola italiana d' Elea [...OMISSIS...] Dalla quale proposizione fu tratto a torto il panteismo perché si applicò all' ente relativo quella proposizione che non vale se non per l' ente essenziale ed assoluto. 2) La necessità dell' essere è la prima fra tutte le necessità; non vi ha alcuna necessità logica che da questa non derivi: non sia questa stessa partecipata. Laonde ogni necessità si riduce a questa, alla necessità dell' essere. Dimostr. - Nelle proposizioni nelle quali si predica qualche cosa dell' ente, il subietto della proposizione è l' Ente possibile, o ideale. E in fatti tali proposizioni, che sono giudizi analitici, riguardano le doti e qualità proprie dell' essenza dell' ente. Ora l' essenza dell' ente è quella che s' intuisce nell' idea. La proposizione adunque, che « l' essere è di natura sua necessario », versa intorno all' essere ideale , il che si dovea dimostrare. 1) Molti scrittori fra gli antichi, e del tempo medio, fra' quali ultimi Sant' Anselmo, credettero di poter dare una dimostrazione a priori dell' esistenza di Dio argomentando dal concetto di Dio. Recando questo concetto che « Iddio sia ciò di cui nulla si può pensar di piú grande » conchiusero che dunque non gli potea mancare la sussistenza. Cosí trovarono la sussistenza nello stesso concetto di Dio, e conchiusero che Iddio è per sé noto, cioè egli è noto tosto che è noto il suo concetto. Ma l' acutissimo San Tommaso trovò difettosa tale dimostrazione. E nel vero questa sussistenza nel concetto è ancora una sussistenza ipotetica , e non una vera e reale sussistenza. Onde San Tommaso giustamente disse: [...OMISSIS...] . Ora questa difficoltà che fa l' Angelico a quelli che vogliono provare l' esistenza di Dio dal concetto, non vale contro la proposizione che pone l' essere necessario, perocché questa proposizione pone l' essere soltanto nel concetto, cioè l' essere ideale. L' essere ideale dunque è per sé noto, e manifestamente necessario, né da alcuno che ragioni giammai negato con coerenza di ragionamento. 2) La necessità dell' essere ideale nell' ordine dell' umano ragionamento è il primo noto . Sopra di questo solido fondamento si erige la teoria della certezza da noi esposta nell' « Ideologia (1) »; perocché ogni certezza si acquista riducendo ogni proposizione che si vuole dimostrare a quella prima, di modo che « se si negasse la proposizione che si assume, si dovrebbe coerentemente negare anche la prima proposizione dell' essere per sé noto »: formola che esprime l' artificio di ogni dimostrazione. Quindi « la necessità dell' essere ideale »è anche il principio della Logica. 3) Nella tesi fu detto « l' essere che apparisce a noi necessario è l' essere ideale », e ciò perché l' essere necessario è anco nelle sue forme reale e morale, ma in queste forme a noi non apparisce immediatamente e intuitivamente, come si raccoglie dalla sensata obbiezione fatta da San Tommaso. Del resto non solo rispetto all' uomo, ma anche in se stesso l' essere ideale è il primo noto , perocché il reale necessario è conoscibile per necessario, appunto perché è nell' ideale: questa adunque è la ragion prima di tutte le cose. Dimostr. - Questo è il noto assioma dei logici, che ab esse ad posse datur consecutio . Ciò che è, appunto perché è, può essere; perocché se non potesse essere non sarebbe. Ma questo in altre parole viene a dire, che dato il reale si può argomentare il possibile, che è la proposizione che si proponeva. 1) Quando tutto il mondo dice che se una cosa è, ella per conseguente è possibile; allora viene a riconoscere che v' ha una progressione entitativa dal possibile al reale; di maniera che il possibile ed il reale si considerano come due passi che fa l' ente per costituirsi; ed è quanto un dire: « il secondo passo suppone il primo, non s' arriva al due se non passando per l' uno ». Noi pensiamo adunque e parliamo col senso comune, quando diciamo che il possibile è « l' ente iniziale »che è quanto dire « il primo passo dell' ente, che si pone ». 2) Se ella è sempre evidentemente vera la proposizione che ab esse ad posse datur consecutio , la sua contraria a posse ad esse non datur consecutio ha bisogno di essere limitata e spiegata cosí: che per essa si dica che « dal potere all' essere non si dà sempre un' illazione », e però che « quando si vuole arguire dal potere all' essere, trattasi di un tal potere, di un tal possibile, che nel suo seno racchiude necessariamente la sussistenza », il che non accade se non trattandosi di Dio, dove lo stesso essere è ideale e reale. Se dunque il reale suppone il possibile, ne viene che il reale solo non può stare nella natura, e però che sarebbe assurdo il pensare che non vi avesse altro che materia, o non vi avesse altro che sentimento corporeo; ma convien dire che se sono questi, dee esser altresí il possibile , ossia l' ideale . Dimostr. - L' essere ideale dunque è necessario. Ma l' essere ideale per la sua definizione è il termine oggettivo, l' oggetto della mente. Né si può concepire oggetto della mente senza che sia la mente di cui egli sia oggetto, né tampoco si può concepire la mente senza alcuna relazione con un oggetto. Se dunque è necessario l' oggetto, è necessaria altresí la mente ossia l' intelligenza soggetto, come diceva la proposizione. Di qui incomincia ciò che di nuovo vogliamo aggiungere secondo il titolo del capo presente. Dimostr. - Diamo che l' essere ideale fosse termine straniero di una intelligenza. In tal caso, quell' intelligenza non è il principio, ossia il soggetto suo proprio. Dunque il termine non cessa di esistere anche considerato diviso da quel soggetto che gli è straniero. Ma diviso da quel soggetto non potrebbe continuare ad esistere se non avesse un altro principio, e questo non gli può esser di nuovo straniero, perocché in tal caso si dovrebbe ripetere lo stesso ragionamento. Non potendosi adunque andare all' infinito nella serie de' principŒ che si suppongono uniti a quel termine, convien fermarsi ad un principio che sia proprio dell' essere ideale; e al quale l' essere ideale sia termine proprio, e questo è ciò che si diceva nel lemma proposto. Dimostr. - L' essere ideale non può stare senza un' intelligenza, di cui egli sia termine proprio. Ma il termine proprio è quello, nel quale l' ente è identico quale è nel principio, secondo la datane definizione [...OMISSIS...] . L' essere adunque è identico nel principio e nel termine proprio. Ma qui il termine è l' essere ideale, il quale ha i caratteri della necessità, della unità, dell' eternità, dell' immutabilità, e tant' altri caratteri divini. L' ente dunque dee avere i medesimi caratteri anche nel principio proprio, perché altramente non sarebbe l' ente identico. Ma il principio proprio dell' essere ideale è l' intelligenza, ossia un ente soggetto intelligente. Dunque l' intelligenza che è principio proprio dell' essere ideale dee essere anch' essa necessaria, universale, eterna, immutabile, ecc.. Ma una tale intelligenza è infinita ed assoluta. Dunque l' essere ideale non può stare senza un' intelligenza infinita ed assoluta, ciò che appunto si dovea dimostrare. 1) Un oggetto intelligente infinito ed assoluto che ha per termine proprio l' essere ideale è Dio. Dunque Iddio è, ed è necessariamente; e Iddio non è una potenza infinita cieca, ma una infinita intelligenza. 2) Dunque Iddio è un ente che è identico nel modo reale (soggetto intelligente) e nel modo ideale (oggetto). E però Iddio è ugualmente ne' due modi di essere accennati: egli ha come sua propria tanto l' esistenza soggettiva, quanto l' esistenza oggettiva. 3) Il primo ente adunque, l' ente essenziale vuol essere intelligente. Noi abbiamo fin qui favellato dell' intima costruzione dell' ente reale, applicando a questo l' osservazione ontologica (1): abbiamo veduto com' è costruito quell' ente reale, di cui abbiamo esperienza. Dall' esistenza del corpo o di piú corpi abbiamo arguito l' esistenza di un principio sensitivo, e dall' esistenza di uno o di piú principŒ sensitivi abbiamo arguito l' esistenza di una intelligenza. Questa maniera di arguire merita il nome di ragionamento sintetico . Ma non ci siamo fermati qui. Noi abbiamo di piú dimostrato la necessità assoluta che sussista un' intelligenza; e l' abbiamo dimostrata come illazione della necessità assoluta dell' essere ideale . Abbiamo veduto che l' essere ideale è un punto fermo, sufficiente a cui appoggiare, per cosí dire, la leva filosofica, e portarci alla certezza indubitabile di un soggetto reale sussistente, e non solo alla certezza della sua sussistenza, ma della sua necessità. Questo nostro si può chiamare a giusto titolo, ragionamento sintetico a priori . Varcato il ponte che unisce la possibilità colla sussistenza, non ci siamo fermati; ma siamo venuti fino a conchiudere con logica illazione che l' intelligenza che dee per necessità sussistere dee anche essere infinita, ed assoluta, e quindi esser Dio. Or fino che arguivamo unicamente un' intelligenza, non eravamo ancora usciti dalle cose che cadono sotto l' umana esperienza; ma quando poi ci slanciammo con un procedimento logico fino all' intelligenza assoluta ed infinita, allora abbandonammo interamente col nostro volo il mondo esperimentale e pervenimmo in una regione incognita, nella regione appunto dell' infinito. Questo è ancora ragionamento sintetico a priori , ma perché egli eccede l' esperienza, merita la denominazione che già abbiam data di ragionamento dialettico trascendentale . Dobbiamo ora continuare ad applicare questa maniera di ragionare agli esseri finiti di cui abbiamo esperienza, per discoprire, al di là dell' esperienza, ciò che è condizione trascendente dell' esistenza delle cose esperimentali: cominciamo applicando questo possente istromento della dialettica trascendentale all' ente sensitivo. Gli studi fatti nei moderni tempi dagli studiosi delle scienze naturali, diedero questo mirabile risultamento, che « tutte le operazioni e i fenomeni della vita e dell' animale organismo si riducono sempre a leggi perfettamente identiche ». Ma la Psicologia va piú innanzi (1): ella dimostra col piú gran rigore d' osservazione e di ragionamento, che: « il sentimento animale, ha in se stesso una virtú attiva capace ella sola di spiegare tutti i fenomeni animali, come pure tutti i fenomeni vegetativi, ed anco corporei dipendenti da ogni specie di attrazione; non però quelli delle leggi del moto meccanico ». Procede che a spiegare i fenomeni animali non si dee assumere altro principio o cagione ipotetica, fermandosi alla virtú insita nel sentimento. Giacché l' esistenza di questa causa è dimostrata, e d' altra parte è sufficiente alla spiegazione de' fatti: la legge adunque della ragion sufficiente vieta che si ricorra ad altra causa incognita non punto necessaria. La Psicologia ancora dimostra, che dalla disposizione degli elementi nello spazio, dipende l' organizzazione, la quale si forma per le attrazioni degli elementi, e modificazioni di tali attrazioni, quelle e queste dipendenti dalla virtú insita al principio sensitivo; e che dall' organizzazione dipendono poi tutte affatto le specie degli animali e i fenomeni della vita in ciascun d' essi «( Psicol. , 542) ». Quindi apparisce ancora in quanto sia vera la proposizione di certi fisiologi che dicono « la vita inesauribile », potersi questa diramare, distendersi senza fine alcuno. Tutto ciò non eccede ancora il regno dell' esperienza: proseguiamo. Il sentimento animale risulta dalla congiunzione di un principio con un termine. Questa congiunzione è cosí essenziale, che se si toglie via il principio senziente non è piú il termine sentito, e se si toglie via il termine sentito non è piú il principio senziente. La cosa è del pari evidente se invece di parlare di sentito si parla di corpi, e invece di parlare di senziente si parla di anime sensitive. Ma egli sta a vedere se il corpo e l' anima suppongono degli altri enti d' innanzi da sé, i quali se essere vi dovessero noi li chiameremmo, in relazione al corpo e all' anima, ultrasostanze. L' anima sensitiva è informata dal suo termine: questo la trae all' atto del sentire: la sua sede è lo stesso termine sentito: in esso ha la sua attualità senziente. La sua esistenza è dunque relativa al sentito: da questo ancora trae la sua individualità «( Psicol. , 560 7 566; 572 7 577) ». A malgrado di ciò, se colla astrazione noi mettiamo da parte il sentito, ci rimane tuttavia qualche cosa: il principio, è vero, non è piú senziente; egli ha perduto ciò che lo individuava; e tuttavia egli rimane ancor qualche cosa dinnanzi al nostro pensiero, rimane un principio. Lo stesso si prova in un altro modo. Il sentito porge la materia in cui esercitarsi quest' attività, e quest' attività si spiega agli atti suoi proprŒ tostoché la materia opportuna le sia preparata. Se dunque coll' astrazione della mente si rimuove questa materia, l' attività del principio rientra in se stessa, si accoglie in una potenzialità, ma non ne segue da ciò che ella sia perita dinanzi alla mente. Questo principio adunque non è piú principio in atto, ma rimane una potenza che riacquistando la materia può ridivenire principio. Vi è dunque anteriormente al principio senziente qualche cosa, che non è nominata in nessun linguaggio, perocché la parola anima o l' equivalente ne' diversi linguaggi non significa punto quella potenzialità anteriore al principio senziente, ma significa lo stesso principio senziente ovvero sia sensitivo. Ora quel qualche cosa che si vede dovervi avere avanti al principio sensitivo, avanti all' anima, è ciò che noi chiamiamo una ultra7sostanza. Il primo atto dell' anima sensitiva adunque è quello del sentimento fondamentale; e in questo primo atto, che termina nel sentito fondamentale, è la sostanza dell' anima, a cui solo conviene il nome. Se si suppone cessato questo primo atto, l' anima non è piú. Rimane ciò che vi era prima di lei, ciò che vi è al di là di lei, di cui il primo concetto che possiamo formarci è quello di una entità potenziale, che è quanto dire una potenza di produr l' anima. Quindi s' intende come l' anima sensitiva sia un ente relativo. A fine di conoscere questa relatività, conviene fissare dove stia il primo atto che mette in essere l' anima sensitiva. Questo atto sta nel sentimento di un esteso: questo sentimento non è l' anima: questo sentimento è chiuso e limitato, che non va fuori del suo termine: questa limitazione, questa sfera del sentimento determina la sua relatività, perocché è talmente relativo a quell' esteso, che fuori di lui quel sentimento non è piú; tutto ciò che è fuori di quel termine non esiste per quel sentimento, né in quel sentimento. Questa è una di quelle che abbiamo chiamate limitazioni ontologiche . Perocché abbiam detto che gli enti finiti si compongono di un elemento positivo, e di un negativo, che è appunto l' essenziale loro limitazione (1). E qui si trova la risposta alla difficoltà: « Come un negativo può essere un elemento che entri nella composizione di un ente? ». A cui si risponde: la limitazione ontologica è nel sentimento, e nel sentimento ella è qualche cosa; perocché anche il negativo è qualche cosa nel sentimento. In fatti un sentimento che sente la propria limitazione, da questo sentire la limitazione rimane determinato ad essere piuttosto un sentimento che un altro, e trattandosi di sentimenti primi, cioè atti primi, ad essere piuttosto un ente che un altro. Cosí la limitazione diventa ontologica anche per gli enti soggettivi e reali, di cui parliamo; non perché ella stessa sia qualche cosa di positivo, ma perché in conseguenza di essa ridonda nell' ente uno speciale sentire, che lo determina e separa da ogni altro sentire. Questa proposizione è conseguente a tutto ciò che abbiamo detto. E nel vero che cosa è il soggetto? Il soggetto è l' atto primo del sentimento; cioè quella cosa che prima di tutto è sentita e che è sentita attivamente, cioè nella sua qualità di atto. Quindi il soggetto ha natura di principio reale, e noi abbiamo già veduto che non si dà ente senza principio; perocché tutto ciò che esiste è principio o termine, niente conosciamo nell' università delle cose, niente possiamo concepire, che non abbia condizione dell' uno o dell' altro. Ma il termine non può stare senza il principio. Dunque senza un principio, che è quanto dire senza un soggetto, l' ente non è possibile. I Da questo si trae primieramente che mutato il soggetto, è mutato l' ente; l' ente non è piú quello ma un altro ente. II Di poi consegue che tutto ciò che è anteriore al soggetto, cioè all' atto primo del sentimento, resta fuori del sentimento, e perciò non appartiene allo stesso ente, ma ad un altro che esige necessariamente un altro soggetto. III Quindi che, se trattasi d' un soggetto intelligente, tutto ciò che è anteriore al sentimento che lo costituisce, non può essere da lui percepito: la limitazione del soggetto limita la percezione e la cognizione, e non lascia alla intelligenza che una conoscenza dialettica negativa. IV Tale è la costituzione dell' essere reale, la quale si riflette nell' ordine logico. In quest' ordine la ragione astraente si forma degli enti senza soggetto reale; ma in facendo quest' operazione, ella è necessitata di trattarli come fossero soggetti. Tali sono i subietti dialettici ossia subietti del discorso. Ora nel discorso vale rispetto a questi la stessa legge annunziata pe' subietti reali, cioè che mutato il subietto del discorso il discorso sia un altro. V Un altro importantissimo corollario, si è che qualora la mente divide un ente e ne lascia da parte il soggetto, quello che le rimane non è piú l' ente di prima. E questa è anche la ragione perché la semplice idea dell' essere non è Dio, giacché ella è puramente oggetto e però manchevole del soggetto divino. Laddove se la si considera quale è in Dio, si vede avere il suo soggetto, cioè lo stesso soggetto divino con cui s' identifica, ed ella stessa diviene altra cosa e cosí cessa di essere pura idea. Possiamo, qui giunti, affrontare una questione non meno ardua, quella dell' unificazione degli enti reali. Certo, non è possibile darne una soluzione completa attesa la limitazione dell' umana esperienza, ma possiamo stabilire un principio, che a lei presieda: « qualora un ente senta un altro ente non solo quanto al termine, ma ben anco quanto al principio, e lo senta come principio, allora i due principŒ si compenetrano, non sono piú due, ma un solo, e però un solo ente; laddove se un principio sente il termine di un altro ente, ma non ne sente il principio, egli è il caso della subordinazione ontologica degli enti, gli enti restano due, e non un solo ». Ora sentire un principio come principio è il medesimo che avere il sentimento proprio del principio; il medesimo che essere quel principio. Dunque un principio che ne sente un altro è il principio sentito, il che equivale alla identificazione de' principŒ e cosí degli enti. Questo non è un caso ipotetico: n' abbiamo l' esperienza nell' anima umana nella quale il principio intellettivo e il principio sensitivo è il medesimo «( Psicologia , 636 7 646) ». Dalla stessa verità dipende la sentenza di San Tommaso e degli Scolastici, che nell' uomo v' ha una sola forma sostanziale e questa è l' anima intellettiva; giacché qui per forma intendono l' atto primo che noi chiamiamo anche soggetto. Or questa dottrina dell' identificazione de' principŒ e quindi degli enti riesce preziosa anche alla teologia, come si vedrà nell' « Antropologia soprannaturale ». Ed ora che abbiamo esposto la teoria dell' ente reale per ciò che riguarda l' intrinseca sua costituzione, possiamo passare a dare la teoria della sua azione; il che esaurirà in qualche modo l' argomento di questo libro, giacché tutto si riduce ad essere e fare. Abbiamo veduto che l' essere stesso è un primo atto, e che l' essere reale è un atto soggettivo, che è quanto dire un primo atto di sentimento. Non è a noi necessario soffermarci a notare le differenze di significato che hanno le parole atto, ed azione: le useremo come sinonime fino a tanto che il ragionamento nostro non dimandi la loro minuta distinzione. Soltanto osserveremo che atto è piú generale di azione convenendo a tutte le tre forme dell' essere; laddove l' azione spetta soltanto all' essere reale e soggettivo. Ogni qualvolta adunque la nostra mente pensa un essere, o un grado di essere di piú che prima, ella pensa un' attività, un atto; e ogni qualvolta pensa un essere o un grado d' essere soggettivo o sentimentale, ella pensa un' attività, un atto, un' azione. Definiremo dunque l' azione « un atto dell' essere reale, pel quale esiste una entità che è nuova rispetto alla mente che la considera ». Dichiarato il concetto dell' azione in universale, dobbiamo discendere alle sue diverse maniere. E queste sono due, la creazione , che fa cominciare un ente del tutto nuovo, e l' operazione degli enti che già sussistono. Noi omettiamo di parlare qui della creazione di cui dobbiamo fare special trattato, e ci limiteremo a dare la teoria dell' operazione; la quale non fu forse mai svolta sufficientemente da' metafisici per non aver essi conosciuta l' intima costituzione dell' essere reale. E nel vero noi abbiamo veduto: 1) avervi degli enti sintesizzanti; 2) degli enti coordinati , cioè individui della stessa specie; 3) degli enti ontologicamente subordinati; 4) degli enti identificati. Ciascuna classe di questi enti ha la sua maniera propria di operare. Una delle questioni piú difficili si è: « come un ente possa agire in un altro ». E veramente ella pareva un nodo insolubile, poiché si ragionava cosí: « un ente non può uscir da se stesso, essendo limitato alla propria sfera; ma l' azione di un ente appartiene all' ente che la fa: dunque anch' essa dee rimaner nell' ente: dunque niun ente può avere alcun' altra azione se non quella che rimane in se stessa: ogni azione è interiore all' ente stesso che la fa ». Questo specioso argomento condusse Leibniz al sistema delle monadi, ed altri a quello delle cause occasionali, ed altri ad altri ancora. Per uscirne invece di ragionare su principŒ ontologici preconcepiti, astratti, imperfetti, gratuiti, conveniva rilevare colla osservazione ontologica l' intima costruzione e organizzazione dell' ente. Ce ne risultò che una quantità di enti finiti sono composti di un principio e di un termine straniero; che la loro entità, propriamente parlando, è il principio: essi non sono altro che principŒ, ma non già principŒ isolati e divisi, ma uniti ad un termine che gli specifica e gli individua, termine che ricevono in se stessi, ma ch' è diverso tuttavia da essi, ad essi opposto. Quindi in ognuno di questi enti giace una opposizione, vi hanno come due poli opposti, che noi chiamiamo la polarità degli enti . Questo non ha cosa alcuna che ripugni; giacché la proposizione che un ente inesista nell' altro non è ripugnante in se stessa, e solo sembra ripugnare a coloro che pretendono giudicare di tutti gli enti da quanto vedono avvenire ne' corpi, i quali sono impenetrabili. Convien dunque lasciare un' ontologia cosí misera e gretta ai soli materialisti. L' esistenza dunque di questa maniera di enti ha per condizione che l' uno, cioè il principio, abbia in sé l' altro come termine opposto. Per tal modo non è piú difficile spiegare l' azione che uno esercita sopra l' altro, perocché consegue da essa che l' uno può agire nell' altro senza uscire di sé medesimo. Il termine agisce nel principio e il principio nel termine: questa è la formula di tutte le azioni degli enti, di cui parliamo. Ma egli conviene che noi dimostriamo come la detta formula comprenda e spieghi tutte le azioni che esercitano fra loro gli enti sintesizzanti. I due primi che ci si presentano sono l' anima sensitiva e il corpo. Se si parla di un corpo animato, anima e corpo sono appunto principio e termine, costituiscono quell' essere completo che si dice animale. Il corpo è nell' anima e l' anima è nel corpo a quel modo che abbiamo spiegato. Qui non v' ha dunque alcuna difficoltà a spiegare la loro mutua azione. Ma i corpi agiscono anche fra loro. Un corpo esterno anche inorganico agisce sul corpo vivente, e modifica il termine del principio sensitivo cioè dell' anima: l' anima sente la mutazione violenta del suo termine. Del pari l' anima modifica il suo termine, ed anche lo muove, e col muoverlo lo accosta ai corpi esteriori e li modifica. Anche questa operazione dell' anima è spiegata, perché si esercita immediatamente sul proprio termine che è il corpo animato. Ma rimane a spiegare come un corpo agisca sull' altro. L' azione d' un corpo sull' altro è duplice. L' una è meccanica, quella che viene prodotta dal moto locale, quando i corpi in moto si urtano. L' altra è fisica, tendente all' organizzazione. Queste due maniere di azione, sono un fatto innegabile dato dall' esperienza. Ma la causa è data dall' esperienza solo in parte, cioè rispetto a que' movimenti che dipendono dal principio sensitivo. A conoscere adunque totalmente la causa de' movimenti altra via non ci resta se non il ragionamento dialettico trascendentale, che dovrà investigar due cose: 1) se la spiegazione de' movimenti che si scorgono ne' corpi si possa avere ponendo altri principŒ animali, fuori della nostra esperienza, che li producano; 2) se questi non bastando, si debba ricorrere ad un altro principio di moto. E nel vero tutto ciò che noi conosciamo ne' corpi tiene natura di termine. Ma tutto ciò che appartiene al termine del principio sensitivo, per la natura appunto che ha di termine, è inerte, passivo, ricevibile, e non piú. La forza dunque suppone un principio attivo e soggettivo. Se dunque là dove è il termine si manifesta una forza, questa non si può attribuire al termine quasi a subietto di essa (1). Con questo abbiamo veduto che oltre il termine corporeo deve esistere un principio corporeo trascendente che spieghi quella attività che si mescola col termine stesso. Or noi abbiamo altrove indagato quale possa essere questo principio attivo, ed abbiamo trovato il sistema degli atomi animati «( Psicologia , 500 7 553, 666, 667) ». Il qual sistema è sufficiente a spiegare il moto organico de' corpi animati. Ma è egli sufficiente a spiegare ogni attrazione, da quella degli atomi fino a quella de' corpi celesti? Finalmente il principio animale preso come causa di moto non ispiega la natura stessa del moto, ma la suppone. Quant' è dunque alla natura del moto, per cominciare da questa ricerca fondamentale, noi crediamo 1) che i corpi non fanno che ricevere il moto, e però non ne sono mai la causa, 2) che il moto è realmente discontinuo, e continuo solo fenomenalmente. La tesi del moto discontinuo conduce necessariamente a distinguere il moto fenomenale dal moto reale, a quel primo rimanendo la continuità e la traslazione della materia, e questo secondo riducendosi ad essere un avvenimento pel quale accade, che la materia si rende sensibile in una serie di luoghi successivi di cui niun senso può percepir la piccolissima distanza. Il che è difficile ad intendere solo a coloro che non pervennero a formarsi il giusto concetto della spiritualità dell' anima; ma la considerano piuttosto come un punto dello spazio; nel qual modo di considerarla ella deve trovarsi sempre in un dato posto dello spazio medesimo. All' incontro il vero si è ch' ella è immune affatto dallo spazio, e per conseguente è immune altresí da' suoi limiti; e di piú, tutto lo spazio semplice ed immisurato è in lei come suo termine, di che procede ch' ella abbia una perfetta indifferenza ad un luogo anziché ad un altro. Ma il suo termine materiale all' opposto occupa sempre una parte determinata dello spazio, e perché ella agisce in questo suo termine, pare che anch' ella sia determinata ad un luogo. Ora, se noi supponiamo che la causa prossima di questo termine materiale sia in parte l' anima stessa, in parte, come abbiam detto, un' altra sostanza spirituale, sicché l' azione di queste due sostanze spirituali concorrano a produrre il termine materiale, sarà facile ad intendere come queste possano assegnargli successivamente colle loro azioni diversi luoghi nello spazio, essendo loro indifferente un luogo o l' altro dove estrinsecare la loro azione. Ma ciò non basterebbe a spiegare perché il corpo nel suo movimento prenda una serie successiva di luoghi cosí vicini l' uno all' altro, specialmente che l' anima umana che a sua volontà può muovere il proprio corpo non è consapevole d' imporgli ella stessa una tal legge. E` dunque da considerare oltracciò, che l' anima umana riceve dal di fuori il suo termine, e ch' ella in quant' è sensitiva concorre a produrlo soltanto rispetto al fenomeno, ma non rispetto all' attività ed alla forza, verso la quale ella è passiva. Quest' attività dunque e questa forza dipende dall' altra sostanza, e da questa dee venir pure principalmente la legge del moto, che appar continuo a cagione della somma vicinanza de' luoghi in cui la materia si rende sensibile all' anima umana. Nel qual sistema né pur si perde, a cagione del moto, l' identità de' corpi, quell' identità, dico, che si può loro attribuire, e che lor viene da tutti attribuita. E qui si avverta bene che dalla tesi, « il corpo, che si muove, trovarsi successivamente in una serie di luoghi vicinissimi »procede che i diversi spazŒ da lui successivamente occupati abbiano una piccola distanza fra di loro, ma non già che per questo debba avervi necessariamente intermittenza nelle azioni delle sostanze spirituali che concorrono a porre il corpo successivamente, perocché il loro operare può essere immune dal tempo. Nulla di meno dandoci l' esperienza che il movimento del corpo impiega tempo, è da dire ch' egli nel suo movimento faccia delle piccole more in ciascun luogo in cui si pone, e che le sostanze spirituali che lo pongono, specialmente il principio corporeo onde viene la forza corporea, abbisogni d' uno sforzo per traslocarlo, il quale sforzo impieghi qualche tempo ad ottener l' effetto. Ma si può credere che questo sforzo che trasloca il corpo sia un' azione diversa da quella che lo fa essere. Questa seconda azione assegnerebbe la direzione alla prima, e potrebbe essere intermittente e consistere in uno sforzo bisognevole di qualche tempo ad ottenere l' effetto. E cosí facilmente si avrebbe in parte la spiegazione alla prima classe di azioni che si attribuiscono a' corpi, cioè la spiegazione della comunicazione del moto d' un corpo all' altro per via di percussione. Il corpo è termine di due principŒ, l' uno straniero che è l' anima, l' altro proprio che è il principio corporeo. Questo termine occupa una porzione dello spazio, e lo spazio è di natura immobile, e quindi una porzione di spazio non può essere trasportata in un' altra porzione, il che involge contraddizione colla natura dello spazio stesso. Se dunque ogni corpo ha bisogno di una data porzione di spazio, due corpi di egual grandezza debbono avere bisogno di due porzioni uguali dello spazio, e non possono stare entrambi in una porzione sola, ripugnando questo alla legge che ogni corpo occupa una porzione dello spazio. Quindi procede l' impenetrabilità de' corpi, che non è altro che questa stessa legge. Qualora dunque una porzione di spazio sia occupata da un corpo, il principio corporeo non può in questa stessa porzione porvene un' altra; di che nasce che se quell' attività che presiede al movimento de' corpi, e che è diversa dall' altra attività che li pone in essere, operando in questa seconda produce il movimento di due corpi in tal senso che tutti e due i corpi tendano ad occupare lo stesso luogo, nasca necessariamente un urto fra loro, l' effetto del quale urto sia appunto la comunicazione del moto. Le leggi della quale si riducono tutte a questa, che « la quantità totale del moto, nella stessa direzione, de' due corpi che si urtano, sia, dopo la percossa, uguale a quella che era prima ». Qui si dimanderà se quella attività che determina il moto, e quella attività che pone il corpo in essere appartengano entrambe ad uno stesso principio. - Io credo evidente che appartengano a principŒ diversi. Ed anco in generale si può dimostrare la necessità che intervengano due principŒ, non potendo lo stesso principio avere due attività che vengano in una cotal lotta fra loro. E nel vero, l' attività che pone in essere il corpo in un luogo dello spazio, tende o a mantenervelo in quiete, o a mantenerlo in moto equabile indifferente all' uno o all' altro stato; onde acciocché il corpo si faccia passare dalla quiete al moto, o dal moto alla quiete conviene che intervenga un' altra cagione. Conservando noi dunque la denominazione di principio corporeo a quello che pone i corpi, chiameremo l' altro in generale principio del moto , e la questione si ridurrà a cercare: « qual sia il principio del moto ». Ora investighiamo: « se il principio corporeo sia un solo per tutti i corpi, ovvero tanti quanti sono i corporei elementi ». A noi pare dover essere vera questa seconda sentenza. Or questa pluralità di principŒ corporei è quella che finisce di spiegare il fatto singolare dell' urto de' corpi, che rappresenta la lotta di piú principŒ e non l' operazione di un solo. Di che viene questa singolar conseguenza, che l' urto de' corpi esprime la lotta di due spiriti che finiscono col mettersi in accordo. I corpi sono enti7termine: l' azione apparente de' corpi fra loro si manifesta negli enti7termine, cioè nei corpi, ma l' azione appartiene sempre al principio, il solo principio è il soggetto dell' azione; tuttavia l' azione si manifesta nel termine perché nel termine risiede il principio, e però avviene che l' azione sembri propria del termine. Il che spiega la volgare opinione che i corpi sieno attivi l' uno sull' altro. Noi poi sappiamo dalla propria consapevolezza, che l' anima muove e modifica il corpo animato. Cosí ci è data dall' esperienza un' azione del principio sopra il termine straniero: in questo fatto noi percepiamo l' azione congiunta al principio; laddove nell' azione de' corpi fra loro non ci è data che l' azione divisa dal suo principio e stante da sé, onde noi siamo costretti dalle leggi del pensiero, cioè dal principio di cognizione, di aggiungerle un subietto incognito e indeterminato, ma pure un subietto, perché altrimenti non potremmo pensare quell' azione, e qui si ferma il pensar comune. Ma sopravvenendo la scienza con ragionamento dialettico, quel subietto volgare e comune, che gli uomini generalmente aggiungono all' azione de' corpi, si cangia in un vero ente sensitivo trascendentale, in un ente principio come abbiamo veduto. Negli enti sintesizzanti adunque ogni azione si riduce all' azione de' principŒ fra loro; ma quest' azione da noi si percepisce in due modi: o divisa dal principio che la produce, quando il principio si nasconde alla nostra esperienza, ond' egli dicesi trascendente perché non si rinviene da noi se non facendo uso del pensiero dialettico trascendente; o unita al principio stesso che la produce e n' è il soggetto, come accade delle azioni che esercita l' anima nostra sensitiva sul nostro corpo, e allora il principio dicesi esperimentale. Ora l' azione divisa dal suo principio e ricevuta da un altro principio, nel caso nostro dall' anima, come termine straniero, è ciò che costituisce la realità del termine stesso, ed è in questo senso che noi abbiamo posto l' essenza de' corpi nella forza, intendendo per forza un' azione7termine divisa dal suo principio. Quindi apparisce in che maniera gli enti7principio agiscano fra di loro senza immedesimarsi. Gli enti sono atti; ma gli atti sono di due maniere che i metafisici usarono chiamare primi e secondi. Gli atti secondi sono contenuti virtualmente negli atti primi, i quali costituiscono l' essenza dell' ente. Ora se gli enti7principio agissero tra di sé cogli atti primi, avverrebbe la loro immedesimazione, perché sarebbero i principŒ stessi che si unirebbero come principŒ. All' incontro, operando fra di loro soltanto con gli atti secondi, non s' identificano, ma solo si congiungono co' loro termini, e accade che quello che è atto secondo di un ente diventi termine straniero dell' altro reciprocamente. Cosí si spiega la generazione degli enti termini e l' azione reciproca degli enti sintesizzanti. La quale azione all' esperienza nostra si manifesta in un modo piú o meno completo. L' azione adunque degli enti sintesizzanti si può considerare sotto tre aspetti diversi: o come azione de' termini fra loro , o come azione reciproca fra un principio e il suo termine straniero , o come azione de' principŒ fra loro . Quest' ultima maniera di considerarla è la piú completa e dialettica; le due prime sono necessarie all' uomo a cagione dell' imperfezione e della limitazione del suo conoscere esperimentale, e relativo. Conviene altresí distinguere nella comunicazione degli enti sintesizzanti ciò che spetta all' azione costituente da ciò che spetta all' azione modificante . L' azione costituente è quella per la quale sono uniti e reciprocamente posti in essere; l' azione modificante è quella per la quale il termine si modifica restando però sempre unito al principio straniero. Nell' ordine degli enti sensitivi la modificazione del termine non procede se non dall' anima, che è il principio straniero del corpo, o dalla natura del corpo stesso; questi due enti sono quelli che obbligano il principio corporeo a modificare in certi casi la propria azione. Ma niente vieta che v' abbiano degli altri ordini di cose, degli altri enti sintesizzanti dove apparisca la libera e spontanea azione dei due principŒ, e certo poi ciò si scorge avvenire almeno nell' ordine dell' intelligenza soprannaturale; dove i lumi superni come termine oggettivo dello spirito variano e si ammodano non per virtú dell' anima che li riceve, né perché l' uno impedisca l' altro come i corpi, ma per l' azione spontanea e libera del loro principio proprio, che è Dio. Del rimanente, la spontaneità stessa dell' anima sensitiva non è un principio libero; anzi è determinato dalle sue proprie leggi. Queste fanno sí che l' anima sia propensa ed inclinata ad avere il corpo, suo termine, costituito in un dato stato, il quale è « lo stato piú piacevole e ch' ella può ottenere coll' operazione sua piú piacevole ». Di che si raccoglie che vi hanno nell' anima certi atti connaturali, e sono quelli ch' ella fa per arrivare alla condizione immanente a cui aspira, e degli atti opposti alla sua natura e alla sua spontaneità, ai quali è mossa per una violenza esterna. Or si rifletta che ogni percezione parziale che l' anima fa in conseguenza di una forza esterna che modifica il suo corpo, nasce da violenza , perché ella è parziale, laddove l' anima tende ad una condizione universale ed armonica del suo organismo. Quindi quella violenza esterna che modifica il suo corpo suscita in lei una nuova attività spontanea tendente a mettere tutto l' organismo in armonia colla nuova modificazione parziale ricevuta nel suo corpo. E quindi si manifesta la ragione, 1) perché l' azione costituente non è mai violenta, essendo universale e connaturale all' anima (eccetto se intervenisse il caso d' un' affezione morbosa), ed è l' anima stessa che spontaneamente la riceve e la produce; 2) perché l' azione modificante , veniente da cagione esteriore, come quella che è parziale, presenti il concetto della violenza , la quale però è piacevole se suscita nell' anima un' attività connaturale volta a restituire una migliore armonia in tutto il corpo animato, spiacevole poi se non presta occasione a questa nuova armonia. Onde nelle percezioni vi ha sempre violenza, non però sempre spiacevolezza, anzi diletto ove non dissipino l' armonia, ma la migliorino. Diamo ora un' occhiata al sintesismo del corpo, del senso e della intelligenza umana affine di conciliare insieme certe sentenze qua e colà da noi stessi pronunciate, che sembrerebbero discrepanti. Il corpo esterno al nostro sintesizza col nostro per la virtú che ha di mutarlo, onde nasce la sensazione organica. Rimossa l' azione del corpo esterno sul nostro organo sensorio, ne rimane il fantasma o l' attitudine di riprodurlo. Quando si pensa il corpo si pensa ciò che ha operato nel nostro organo sensorio, lo si pensa nell' atto di questa operazione: perocché l' atto, quantunque passato, riman presente all' intelligenza che non conosce prima né poi. Quindi è che tutto il concetto che noi abbiamo dei corpi è concetto che ce li fa conoscere nell' atto della loro operazione sopra di noi, e però nell' atto pel quale sintesizzano con esso noi. E poiché il concetto che abbiam delle cose racchiude la loro essenza a noi intelligibile che è quella a cui diamo il nome, nel caso nostro il nome di corpo, e sulla quale formiamo poi la definizione della cosa; perciò la cosa espressa dalla parola corpo acchiude una relazione sintetica con noi, cioè col nostro sentire; e però la cosa espressa dalla parola corpo non esiste piú se sopprimiamo uno dei due termini di tal relazione sintetica; tolto via adunque il principio sensitivo è tolto via anche il corpo. Rimane a vedere qual sia il sintesismo coll' intelligenza. Gli atti dell' intelligenza ossia le cognizioni sono di due maniere, oggettive e soggettive. Le cognizioni puramente oggettive sono le intuizioni, per le quali si contemplano le cose nella loro essenza e di conseguente nella loro mera possibilità. Or queste intuizioni hanno per oggetto o il solo essere senza determinazioni, ovvero l' essere con determinazioni, p. es. l' essenza del corpo. In questo secondo caso l' intelligenza ha bisogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determinazioni. Or queste determinazioni non potrebbe pensarle come possibili se il senso non gliene presentasse un esempio , che è appunto quello che da lei viene universalizzato. E qui comincia una prima sintesi fra l' intelligenza e il senso, di modo che non si può pensare un determinato possibile, se questo primo determinato non è innanzi dato dal senso. Non è già che il senso porga questa copia all' intuizione intellettiva; ma mentre le sta presente la copia, ella non vede la copia, ma l' esemplare; per quella legge che abbiamo di sopra dichiarata che ogni agente opera secondo la propria natura. Si dirà che per spiegare questo fatto converrebbe supporre che l' ideale e il reale avessero qualche cosa di comune. E la cosa sta appunto cosí; perocché l' essere reale e l' essere ideale hanno di comune o per meglio dire d' identico l' essere, di cui quelle sono forme categoriche. Ciò che rende a molti difficile intendere questa dottrina si è che essi non arrivano a capire che il reale e l' ideale non è disgiunto per se stesso, ma soltanto per la limitazione nostra e per la disgiunzione delle nostre facoltà, per la qual disgiunzione accade che una delle nostre facoltà, cioè il senso comunichi colla sola forma reale, e quindi ci sembri che il reale si stia da se stesso come cosa compiuta; e l' altra nostra facoltà cioè l' intuizione comunichi colla sola forma ideale, e quindi ci sembri che l' ideale pure stia da sé del tutto separato e segregato dal reale. E qui ci sembra utile cosa di toccare alquanto di quelle questioni che agitarono gli scolastici circa le relazioni reali delle cose. Il fiore di quanto insegnarono le scuole ci par contenuto in questo luogo di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo vi hanno piú verità importanti. E da prima la sentenza che: [...OMISSIS...] , esprime benissimo la natura del reale oscura e inintelligibile per se stessa, dividendosi cioè coll' astrazione dall' intelligenza, quindi bisognosa di trovarsi congiunta coll' ideale acciocché possa essere intesa. Di poi in quelle parole: [...OMISSIS...] , si ha la conferma di quel vero che noi dicevamo che ogni principio opera secondo la propria natura, e però che l' azione del corpo su di noi, è totalmente diversa dall' azione del principio sensitivo che ne è l' effetto. Ma dopo di ciò quella sentenza che la cosa sensibile e intelligibile sia fuori dell' anima, e però non venga tocca dall' atto del principio sensitivo, né da quello del principio intellettivo, esige la debita distinzione, né ella è vera se non limitatamente. Poiché il corpo sensibile si può considerare o nell' atto stesso in cui è unito all' anima e con esso lei sintesizza, ovvero quando si pensa da noi come separato dall' anima. Il corpo nostro sta sempre unito all' anima nostra e con esso lei sintesizza finché dura la vita; egli agisce continuamente nel principio sensitivo, e il principio sensitivo in lui. E` però vero che l' azione della causa ha un modo totalmente diverso dall' effetto, e questo dimostra che sono due nature diverse, due enti affatto diversi; e però la relazione è scambievole: solo si dee dire che questa relazione è formata da due relazioni unilaterali, perché il corpo non è all' anima in quel modo stesso nel quale l' anima è al corpo. Cosí pure, se si considera quella virtú dell' anima intellettiva che muove il principio sensitivo ad operare nel suo termine corporeo, nel tempo in cui essa è in atto, vi ha congiunzione sintetica fra l' intelligenza, il senso ed il corpo; quando poi quella virtú intellettiva non è piú nel suo atto, ella ritiene ancora la congiunzione sintetica o piuttosto l' identificazione col principio sensitivo, ma non immediatamente col corpo. Lo stesso è da dirsi della facoltà dell' intuizione. Or poi se si parla de' corpi esteriori al nostro (a cui soltanto ha posto mente l' Angelico nel luogo allegato), anche questi o si considerano nell' atto in cui sono al nostro congiunti; ovvero si considerano allontanati intieramente da' nostri sensi. Nell' atto stesso in cui essi operano sui nostri sensori, essi sintesizzano con noi mediante il corpo nostro, le cui impressioni da noi sentite diventano segni della loro esistenza, e si prendono altresí quasi cotali rappresentazioni fenomeniche di essi. Ma quando poi i corpi esterni si considerano nel tempo in cui sono rimossi al tutto dal corpo nostro, sono rispetto a questo modo come se non fossero. Non si può dunque dire nell' ordine meramente extrasoggettivo del senso che sieno fuori dell' anima, ma soltanto che non sono nell' anima. Ma l' intelligenza li pensa ancora. Li pensa tali quali erano quando si trovavano nell' atto di agire sull' anima, li pensa con quell' essere che avevano allora come sintesizzanti. Solamente che l' intelligenza con un altro atto si accorge che questi esseri sintesizzanti erano tali per il passato, e che al presente non operano piú sull' anima. Ma la facoltà di predicare il presente o il passato degli enti corporei è diversa dalla facoltà della rappresentazione. Egli è ancora un terzo atto dell' intelligenza, un' altra affermazione dell' anima, quella con la quale l' anima si persuade che esistano al presente i corpi esterni, quantunque rimossi da lei e nulla affatto su di lei operanti. Ella si persuade che esistano perché solitamente è propria dell' ente la permanenza, e ci vuole una ragione per dire che un ente ha cessato di esistere. Ora l' anima non ha poi trovato alcuna causa che li facesse cessare d' esistere. Di che la ragione è questa, che l' intelligenza nostra non percepisce la causa immediata de' corpi cioè il principio corporeo, e però non sa se questa causa continui o cessi di agire. Ma ella suppone che continui ad agire, essendo, come dicevamo, propria dell' ente la perennità e l' immanenza (9). Intendo per enti coordinati quelli che sono della stessa specie. Non abbiamo nessun esempio datoci dall' esperienza di enti coordinati che agiscano immediatamente fra loro, eccetto quello dei corpi che si percuotono e si comunicano il movimento. L' azione di un' anima sull' altra non è puramente immediata, poiché l' un' anima adopera il mezzo de' corpi per agire nell' altra, o agisce investita ne' corpi. I segni stessi che servono di comunicazione fra un' anima e l' altra sono sensibili e corporei. Or come accada l' azione reciproca de' corpi fu da noi già discorso favellando dell' azione degli enti sintesizzanti. Se poi ci possano avere altri enti principŒ coordinati i quali agiscano fra di loro immediatamente, né li possiamo affermare, né negare; non involgendo tale supposizione contraddizione manifesta, benché l' esperienza nulla affatto ce ne riveli. Dall' azione sintetica di cui abbiamo fin qui ragionato conviene distinguere l' azione ontologica , che si manifesta negli enti ontologicamente subordinati. Vi hanno due maniere di azioni ontologiche rispondenti a quelle due maniere di azioni sintetiche, che abbiamo chiamate costituenti e modificanti; trattiamone separatamente. L' esperienza non ci fa spettatori di questa maniera d' azioni, ma ci porge de' fatti, da' quali il discorso dialettico trascendentale vi ci conduce; né esse involgono contraddizione, e sono necessarie a spiegare i fenomeni che ci presenta il mondo. E poiché mediante l' azione ontologica rimane spiegata l' origine degli enti relativi, ci bisogna prima toccare della natura di questi enti relativi non mentali o ideali, ma reali. Il che faremo riassumendo il detto in forma di tesi e di corollari. Tesi I - L' ente reale è costituito dal sentimento. Tesi II - Si danno degli enti reali che sono principio di sentimento, e degli enti reali che sono termine di sentimento. Tesi III - L' ente7principio è incompleto se si separa dal suo termine, ma completo in se stesso se a questo congiunto: l' ente termine è incompleto tanto se si separa dal suo principio, quanto se sta unito ad un principio straniero. Tesi IV - L' ente7principio relativo è costituito dalla limitazione ontologica del sentimento. Tesi V - La limitazione ontologica degli enti relativi è di due maniere: l' una nasce dalla limitazione del termine, e l' altra dalla limitazione del principio. 1) Dalla qual tesi viene il corollario, che se vi avesse un ente il cui termine fosse infinito, e questo non gli fosse straniero, ma proprio, quest' ente sarebbe Dio. 2) Se ne cava anche il giusto concetto della limitazione ontologica, che è quella che fa sí che un ente non sia l' altro, e piú in generale quella che costituisce l' ente. Raccogliendo ora ciò che abbiam detto, possiamo definire in che precisamente consista la limitazione ontologica. Ella consiste nel principio non già separato dal suo termine, ma nel principio unito al suo termine, da questo posto in atto e individuato. Dove è da osservare, che il principio dal termine acquista un' attività che non aveva prima, venendo suscitata e posta in essere la sua attività. Ma l' atto primo di quest' attività suscitata e posta in essere è virtuale rispetto agli atti secondi, di maniera che il principio suscitato ed individuato, oltre essere un atto primo, è una prima potenza o virtú agli atti secondi. E questa prima virtú o potenza non è già conseguente all' atto primo, ma è lo stesso atto primo, il quale è anche virtú o potenza. Quindi il sentimento della prima potenza o virtú è l' elemento sostanziale dell' individuo, è quello che lo costituisce un ente distinto dagli altri enti, è ciò che v' ha nell' ente di immutabile; laddove il sentimento degli atti secondi è ciò che vi ha nell' ente di mutabile. Tesi VI - Ripugna che piú enti coordinati abbiano un termine identico. Tesi VII - Non ripugna che il medesimo termine sia straniero rispetto a un principio, e proprio rispetto ad un altro; ma in tal caso la medesimezza del termine non esiste se non in astratto, e per rispetto alla pura realità; laddove relativamente ai due principŒ egli è un termine diverso. Tesi VIII - Essendo il principio individuato di un ente relativo un sentimento di limitazione, se vi avesse un altro principio il cui termine contenesse tutto ciò che contiene il termine di quello e qualche cosa di piú, ciò non ripugnerebbe, e l' identità parziale dei termini non esisterebbe che in astratto, e per rispetto alla pura realità. Tesi IX - Il principio che ha un termine finito straniero, e il principio che ha lo stesso termine come proprio, sono due enti relativi finiti. Qui può nascere la domanda, se fra l' essere che ha il termine proprio e l' essere che ha il termine straniero vi abbia necessariamente non solo azione del primo sul secondo, ma ben anco reazione del secondo sul primo. E rispondiamo che questa azione e reazione o reciprocità d' azione non è assolutamente parlando necessaria, giacché ella è cavata da un' osservazione e ristretta a ciò che accade in alcuni fenomeni de' corpi (1). E certamente nell' unione del soggetto coll' oggetto non tiene una tal legge, perocché l' oggetto (l' idea) non è suscettibile di passione alcuna. Ma né anche nell' ordine della realità si può dimostrare che dove vi ha un' azione, ivi debba essere anche una reazione. In fatti le azioni del tutto interne di un ente non hanno propriamente reazione, né azione contrapposta. Finalmente né anche dove si scorge azione e passione, la quale trovasi nell' ordine delle cose reali finite, non è necessario che vi abbia sempre reazione, ossia azione reciproca. Tesi X - Come abbiamo veduto che quell' ente che ha un termine straniero può avere nel suo seno altri enti, ciascuno dei quali abbia per termine una parte del termine totale, purché questa parte costituisca un tutto perfettamente armonico ed uno; cosí non ripugna, che quell' ente che ha un termine proprio abbia nel suo seno altri enti aventi un termine proprio, porzione del termine totale, purché questa porzione costituisca da sé sola un tutto armonico e perfettamente uno. Quindi, se quella che presentemente si conosce come potenza di un ente potesse venir separata dal suo soggetto e stare da sé, incontanente ella stessa diverrebbe un soggetto, rimarrebbe una virtú che avrebbe natura di ente principio, di sostanza. E viceversa, se quella che presentemente è la virtú prima di un ente, divenisse la virtú seconda, venendole aggiunta una virtú anteriore come suo principio, egli cesserebbe d' essere un ente, un soggetto, perderebbe la propria individuazione, non sarebbe piú un principio individuato, né una sostanza; ma bensí una mera potenza di un altro soggetto, perdendo la sua limitazione ontologica. Tesi XI - Se si tratta di un ente maggiore che ha un termine proprio, l' ente minore non può nascere nel suo seno se l' ente maggiore non è intelligente e volitivo, e non lo suscita con un atto pratico della sua volontà. Tesi XII - L' ente che ha un termine straniero non può esser la cagione efficiente di quelli enti minori che sorgessero nel suo termine, ma la cagione efficiente di essi vuole essere il principio proprio del termine straniero, benché il principio straniero possa contribuirvi indirettamente. Tesi XIII - L' ente minore relativo, originato dall' azione ontologica costituente, non può avere un termine del tutto proprio, ma deve avere un termine straniero. Tesi XIV - L' ente intellettivo finito è creato immediatamente da Dio. Abbiamo detto che due sono le limitazioni ontologiche degli enti relativi e finiti: l' una nascente dal loro termine limitato, l' altra dall' estraneità del principio. Or nell' ente intellettivo il termine è l' idea, la quale è infinita. Questa dunque non può esser data che dall' infinito medesimo, cioè da Dio. Quindi l' origine dell' ente intellettivo finito deve ripetersi immediatamente da Dio. La sua limitazione nasce dall' essere questo suo termine a lui straniero. L' ente puramente intellettivo è quello che non ha alcun altro atto fuori che l' intuizione dell' idea. Il sentimento di questo ente è tutto oggettivo perché abita nell' idea. In che consiste adunque la sua limitazione ontologica? In questo, che non ha sentimento di alcuna realità. Che altro non sente se non l' idea. Questo sentimento purissimo dell' idea è una limitazione massima. Qui dunque l' azione ontologica costituente si ridurrebbe ad un' azione, per la quale Iddio distingue mentalmente in se stesso il sentimento della pura idea dal sentimento suo proprio, che è il completo sentimento di se stesso, e con atto libero fa sí che il sentimento della pura idea, distinto colla sua mente, sia anche isolatamente preso, e questo sentimento isolato, diverso totalmente dal divino (sentimento d' isolamento e di estrema limitazione), è l' ente intuitivo finito, da Dio in tal guisa creato. Tesi XV - Se l' ente principio ha un termine straniero finito, allora l' ente principio straniero e l' ente principio proprio devono avere un' origine contemporanea. La costituzione dunque degli enti relativi si fa per un' azione, che esercita un ente principio sul suo termine proprio. Ella esige che in questo termine proprio l' ente principio possa distinguere mentalmente qualche porzione, che, considerata da sé, ha unità ed armonia. La qual divisione puramente mentale non potrebbe farsi senza che il principio che la fa sia intelligente. Ma posciaché una parte del termine proprio divisa soltanto mentalmente non è meno realmente unita al tutto, e neppure si può chiamare parte reale di lui, perocché non vi ha neppure da lei col tutto una distinzione reale; perciò un nuovo ente reale non si origina con questo solo, ma è necessario oltre a ciò di supporre, che il principio che lo produce eserciti un' attività, la quale sia volontaria , come quella che opera dietro l' indirizzo della intelligenza, e sia libera , perché quest' azione non è necessaria all' ente principio operante, e non si racchiude nel concetto che n' esprime l' essenza. Ora quest' atto di libera volontà consiste nel far sí che in quella parte che fu distinta mentalmente nel suo termine proprio, e che è dotata di sentimento e di vita perché tutto il termine è sentimento e vita, nasca un sentimento proprio d' isolamento e di limitazione, il quale non s' estenda a tutto il termine, ma, racchiuso in sé, diventi egli stesso un sentimento uno ed armonico. E questo sentimento di limitazione è il nuovo ente individuato surto nel seno dell' ente maggiore, a cui come a sua radice s' attiene, in quanto alla realità pura scevra di sentimento e di cognizione, onde l' ente minore non può sentire né conoscere per se stesso l' ente maggiore. E posciaché in ogni sentimento vi è attività, se questo sentimento è unico ed armonico, l' attività si accentra ed unifica, prendendo la denominazione di ente principio. Attesa questa costituzione degli enti relativi, non è piú gran fatto difficile a dichiarare la natura dell' azione ontologica modificante, e a conciliare l' azione dell' ente maggiore coll' azione dell' ente minore. E veramente, come vi hanno due enti subordinati, il maggiore e il minore, cosí vi hanno pure due cause subordinate, due virtú, due azioni. L' ente maggiore colla sua azione ontologica costituente: 1) limitò il termine uno ed armonico; 2) fece sí che questo termine avesse il sentimento della propria limitazione e del proprio isolamento. Queste due cose che coll' astrazione da noi si dividono, propriamente non ne formano che una, e l' azione costituente è un atto solo, la limitazione del sentimento. Perocché il sentimento è termine ad un tempo e principio, secondo che si considera come finiente o come cominciante, in quanto è senziente o in quanto è sentito. Ogni sentimento ha queste due faccie, e se non le avesse non sarebbe sentimento. Or è da considerarsi che il sentimento della limitazione ontologica che costituisce un ente relativo, è un sentimento primo, il quale virtualmente contiene molti sentimenti secondi, che sono gli atti secondi ne' quali egli si sviluppa. Questi atti secondi non mutano il sentimento primo; ma mentre a principio li conteneva soltanto virtualmente in istato d' indistinzione, poscia li contiene anche in istato di distinzione. Il trovarsi di tali atti secondi nell' atto primo, virtualmente o attualmente, non muta la limitazione ontologica dell' ente. Tuttavia, benché l' ente rimanga identico, il suo modo si muta per gli atti secondi. Qui nasce dunque la questione, qual parte abbia l' attività dell' ente maggiore negli atti secondi dell' ente minore; e quella parte che vi ha l' ente maggiore si dice azione ontologica modificante. Ma qui è da osservare, che agli atti secondi di un ente limitato e finito concorre altresí qual causa l' azione sintesizzante. Nella Psicologia noi abbiamo trattato a lungo di quest' azione. Noi ci riferiamo in questo punto a quello che abbiamo colà ragionato. Ma perciocché gli enti sintesizzanti hanno bisogno di un ente superiore che li costituisca; perciò al di sopra dell' azione sintesizzante sta l' azione ontologica, e non solo quella che abbiamo chiamata costituente, ma ben anco quella che abbiamo chiamata modificante. L' azione ontologica costituente non fa, a dir vero, se non porre in essere il sentimento limitato che costituisce la natura dell' ente minore e prodotto. L' azione sintesizzante da principio è ella stessa un atto primo, e però una virtú rispetto agli atti seguenti. Ma il sentimento limitato e isolato non può esser posto se non col suo modo, perocché un sentimento privo del suo modo di essere non è piú che un astratto. Quindi l' azione ontologica costituente involge di necessità l' azione ontologica modificante, il che si prova cosí: l' azione costituente continua altrettanto quanto continua l' ente, ha natura di azione immanente come l' ente stesso è un primo atto immanente. Ma essa pone non solo l' ente, ma anche il modo dell' ente. In ogni istante dunque essa pone l' ente con quel modo che egli ha in quell' istante. Ma in quell' istante che l' ente sta per fare l' atto secondo, o che lo ha già fatto, il suo modo è costituito anche dall' assetto in cui si trova nell' atto secondo. Dunque l' azione costituente pone l' ente in quell' assetto o in quell' atto secondo; e in quanto pone tali svolgimenti dell' ente ella dicesi modificante. Ma negli enti sintesizzanti l' un ente è determinato all' atto secondo da una mutazione che nasce nel suo termine straniero e questa mutazione immediatamente è prodotta dall' azione del principio proprio del termine straniero. L' azione ontologica modificante adunque non agisce direttamente nel termine straniero, ma agisce prima nel principio proprio di questo termine, e cosí venendo questo principio a cangiare il modo della sua attività, questa attività cangia il termine straniero, e pel cangiamento del termine straniero anche il principio straniero cangia il modo della sua attività. Ma questo cangiamento suppone l' azione ontologica che pone in un altro modo il principio straniero. L' azione ontologica adunque opera in tutti e due i principŒ, ma in modo che le modificazioni de' due principŒ si corrispondono armonicamente. La virtú poi de' singoli enti sintesizzanti ha questo limite, che ella non può svolgersi agli atti secondi se non ne riceve lo stimolo dal suo termine, e quindi rimotamente dall' azione dell' altro ente principio che sintesizza con esso. Onde, data quest' azione stimolante, l' ente principio si modifica. Ma l' azione stimolante non è ancora la modificazione dell' ente principio individuato nel proprio sentimento, ma è un atto che si fa nella realità pura, la quale è base e radice de' due individui, ma non è gl' individui stessi, ond' essa è anteriore di concetto al sentimento individuato. Tuttavia l' azione dell' ente individuato, s' estende col suo effetto alla realità pura nella quale egli è radicato, e nella quale è pur radicato l' ente con esso lui sintesizzante, e la realità pura che riceve quest' azione la comunica all' altro ente, che ella ha pure nel suo seno. L' azione adunque ontologica modificante è quella sola che può spiegare l' azione degli enti sintesizzanti fra loro, e anche quella degli enti coordinati; poiché quest' azione non può essere spiegata senza supporre che v' abbia fra essi qualche elemento comune. Ma niente hanno essi di comune, che anzi nell' essere intieramente divisi l' uno dall' altro consiste la loro individualità e la loro natura di enti. Ma la comunicazione esiste tuttavia fuori di essi mediante l' ente maggiore e quella realità, che gli enti hanno per loro base e che tuttavia non è dessi, che appartiene perciò all' ente maggiore, in cui essi stessi gli enti minori sono. Gli enti che cadono nella percezione si riducono a tre generi soli: cioè agl' insensitivi , materia, corpi, enti termini; ai sensitivi , e agl' intellettivi . Gli enti insensitivi, puri termini, non hanno azione propria, come vedemmo, perché l' azione spetta sempre al principio che ne è il soggetto. Rimane dunque che noi qui parliamo degli altri due. Il principio sensitivo considerato in relazione a' suoi atti secondi è una virtú, ossia una potenza determinata, e condizionata soltanto allo stimolo. Posta questa condizione, l' ente sensitivo ha nello stesso sentimento primo che lo costituisce la determinazione degli atti che deve emettere, e questa determinazione è ciò che si chiama spontaneità. Questa attività ch' egli esprime in atti secondi sotto lo stimolo, dimostra che tali atti a lui appartengono come quelli che muovono da lui, cioè da quella virtú prima che li contiene, e che è egli stesso. Or come la virtú prima che è lui stesso è posta dall' azione ontologica costituente, cosí del pari da quest' azione è posta la sua spontaneità e gli atti da lei esercitati ed espressi, rispetto ai quali ella riceve il nome di modificante. Cosí le due cause sono subordinate, l' ente sensitivo è la causa immediata di tali atti, e il suo ente maggiore n' è la causa mediata. Ma la causa immediata è il soggetto di quelli atti i quali sono in lui contenuti, laddove la causa mediata non è il soggetto di quegli atti, perché colla sua azione pone un altro ente diverso da sé, e pone gli atti di questo ente, che perciò non sono atti suoi appunto perché sono atti d' un ente diverso. La causa mediata, cioè l' ente maggiore, è bensí soggetto dell' azione ontologica costituente e modificante, ma non dell' ente prodotto da quest' azione e de' suoi atti; ché non sarebbe ente se appartenesse egli stesso ad un altro soggetto; relativamente a sé egli non appartiene che a se stesso, perocché niente sente fuori di sé, e il suo sentire è il suo esistere. Ma rispetto all' ente intelligente è da farsi una distinzione; poiché o egli non si trova in istato di libertà bilaterale, o si trova in questo stato. Se non si trova in istato di libertà bilaterale, di maniera che tutti gli atti secondi sieno determinati nella sua virtú naturale, o abituale, in tal caso la concorrenza dell' ente maggiore e del minore, cioè la conciliazione della sua propria azione coll' azione ontologica che lo costituisce e modifica, si spiega in modo simile a quello che abbiamo esposto per gli enti meramente sensitivi. Ma grande difficoltà s' incontra a conciliare la libertà bilaterale coll' azione ontologica modificante. Lo scopo del discorso deve esser quello di difendere la libertà bilaterale rispetto alle azioni morali, come quella che è condizione necessaria del merito. L' ente relativo è un sentimento limitato: in quanto è sentimento egli è positivo, e in quanto è limitato egli è negativo. Ma poiché la natura propria di lui consiste nel sentimento della stessa limitazione, perciò la sua natura consiste nel negativo, la limitazione è quella che lo individua, il sentimento solo non lo costituirebbe ancora ente individuo. Quindi la limitazione appartiene a lui solo, e non all' ente maggiore, laddove il sentimento come positivo, astraendo dalla limitazione, non appartiene piú a lui che già piú non esiste, ma all' ente maggiore. Quindi anche nelle operazioni o atti secondi di un tal ente rimangono i due elementi, l' uno che tiene del positivo, e l' altro del negativo. Ora, che tutta la parte positiva dell' azione venga ad un tempo posta dall' ente minore e dall' ente maggiore, a quel modo che abbiamo detto degli enti puramente sensitivi, può ammettersi senza difficoltà; purché la parte negativa dell' azione non riconosca per sua causa se non l' ente minore. E che cosí debba essere, vedesi da questo, che il limite, il negativo, non appartiene punto all' ente maggiore. Dunque né anco gli effetti negativi e limitativi gli possono appartenere. Ma la natura del mal morale consiste appunto nella negazione o privazione, non essendo il male che cosa negativa. Dunque se il bene dell' azione morale esige la concorrenza delle azioni de' due enti il maggiore e il minore, non è da dire lo stesso del male che si trova nelle dette azioni, il quale non può appartenere che all' ente minore come quello che è solo soggetto della limitazione e della negazione. Ma il positivo e il negativo dell' azione è intimamente congiunto, perocché il negativo non è che il limite del positivo: dunque chi è l' autore del positivo, è necessariamente anche l' autore del negativo, come quello che potrebbe porre una quantità maggiore di positivo e cosí rimuovere i limiti. Quest' obbiezione, fortissima in apparenza, altro non prova se non che non ogni limitazione degli enti è accompagnata dalla libertà, non sempre l' elemento negativo è causa di un male libero. La libertà bilaterale non si mantiene già da noi per l' unica ragione che nell' operare dell' ente libero v' abbia del negativo; ma solamente diciamo, che se non v' avesse del negativo non vi avrebbe libertà al bene e al male morale, di maniera che l' elemento negativo è condizione della libertà bilaterale, non è quello che la forma. E in altre parole, non ogni elemento negativo è segno e principio di libertà, ma sí un dato speciale elemento negativo. Rimane adunque che noi vediamo qual sia questa specie di limitazione e di negazione che origina la libertà. La libertà bilaterale, non ci potrebbe essere, se l' ente intellettivo fosse già per sua natura tanto aderente al bene morale, che in niuna maniera si potesse da lui alienare. E questa è già una limitazione e negazione dell' ente libero, non aderire compiutamente e immobilmente all' ordine morale. Ma egli non sarebbe libero neppure qualora aderisse pienamente e immobilmente al male, perocché in tal caso gli mancherebbe fin anco la possibilità del bene. La libertà bilaterale suppone non l' atto ultimato del bene, ma soltanto la potenza di lui, per dir meglio la potenza di eleggere fra lui e il male. La potenza che si riferisce ad atti perfettivi del soggetto è sempre una limitazione, e cosí la libertà bilaterale si fonda nella limitazione, nell' elemento negativo dell' ente libero. La differenza fra questa speciale limitazione che costituisce la libertà bilaterale e la limitazione dell' ente sensitivo che non ha libertà, è degna da perscrutarsi. L' ente sensitivo, considerato in relazione a' suoi atti secondi, è una virtú che li contiene tutti, benché ancora involuti ed indistinti: condizionati altresí allo stimolo. Tutt' altra cosa è la potenza della libertà bilaterale. Perocché gli atti secondi di lei non sono contenuti e determinati in essa, anche dato qualsivoglia stimolo che non la distrugga; potendo essa determinarsi all' atto buono, o al suo opposto il cattivo. Dirò meglio; il suo atto proprio, e come tale contenuto in essa virtualmente, non è altro che l' elezione stessa, e l' elezione è quella che determina l' ente all' atto buono o al cattivo, e perciò essa stessa non è né bene né male, ma soltanto è la causa del bene e del male. L' azione ontologica adunque, che costituisce questa potenza dell' elezione libera, diversissima da tutte le altre potenze, altro non fa se non costituire appunto la potenza del bene e del male né all' uno né all' altro determinata. Questa azione ontologica adunque non toglie, ma forma la libertà. Ora posciaché l' elezione è l' atto proprio della libertà, a cui poi consegue la determinazione e l' adesione al bene e al male; perciò, quando l' azione ontologica pone l' ente libero nell' atto dell' elezione (e allora dicesi modificante), non determina l' uomo al bene o al male, ma solamente il pone nell' atto di eleggere l' uno o l' altro. Or quest' atto di eleggere altro non è che la stessa libertà in atto, a cui la determinazione al bene o al male conseguita in appresso come suo effetto. Cosí l' azione ontologica o costituente o modificante non pregiudica in modo alcuno alla libertà in potenza o in atto, che anzi è quella che le dà l' essere. Fatta poi l' elezione (atto iniziale e puramente interno) allora segue la determinazione e l' adesione della volontà al bene o al male, e l' azione ontologica modificante pone anche quest' atto di adesione, ma questa determinazione conseguente non pregiudica neppur ella punto né poco alla libertà, poiché l' atto della libertà l' ha preceduta, il quale atto è quella libera elezione che ha determinato l' adesione della volontà al bene o al male. Ora poi la libera elezione non vi potrebbe essere se non vi avesse i due termini fra cui eleggere: che sono il bene ed il male. Ma il bene appartiene all' elemento positivo dell' ente, e il male al negativo della limitazione. Se non ci fosse dunque questo secondo elemento, la limitazione dell' ente, non ci avrebbe libertà al bene e al male. In questo senso dicevamo che la libertà è cosa conseguente alla limitazione, non ad ogni limitazione, ma ad una limitazione propria dell' ente morale, ad una limitazione dell' intelligenza e della volontà. E perciocché la natura di ogni ente principio relativo consiste nel sentimento della propria limitazione che lo individua, per questo la potenza del male è propria dell' ente intelligente e morale; laddove la potenza del bene procede dall' azione ontologica dell' ente maggiore, che non è il soggetto della limitazione del minore, benché ne sia la causa. 1) La realità pura senza determinazione è un concetto astratto che non dice né ente, né sostanza, né accidente, né principio, né termine, né qualità, né quantità, ma dice solamente un modo dell' essere. Se da questo concetto astrattissimo di realità si discende ad uno meno astratto, ma però anch' esso astratto, e si considera quella realità che è termine esteso del sentimento, ella prende il nome di materia . La materia, presa cosí senza altre determinazioni, è illimitata o per dir meglio, indefinita, e però priva ancora di quantità. 2) Niente di reale può esistere indeterminato. Si prova perché ripugna. Infatti l' esistere indeterminato vuol dire essere ad un tempo e non essere. Perocché l' ente racchiude nel suo concetto certe condizioni o qualità, senza le quali non è ente, e queste sono le sue determinazioni; onde senza queste esisterebbe senza se stesso, senza ciò che ha in sé di essenziale. 3) La realità è di due generi, cioè principio e termine . Alla realità termine appartiene la materia, come dicemmo, alla realità principio lo spirito, cioè il principio sensitivo, il principio intellettivo, e il razionale. 4) Quindi quattro generi di forme: A ) La forma che determina e individua la materia (primo genere di forme). Questa forma produce la quantità dimensiva , la figura , il numero degli individui materiali, le parti. B ) La materia formata determina ed individua il principio sensitivo (secondo genere di forme). C ) Ciò che determina e individua il principio intellettivo è l' ente oggetto (terzo genere di forme oggettive pure). D ) Ciò che determina il principio razionale è l' ente oggetto7soggetto (quarto genere di forme con determinazioni venienti dal soggetto). 5) Finalmente noi possiamo anche raccogliere da tutto quello che detto è: A ) Che la moltiplicazione degli individui reali corporei animali e umani nasce dalla divisione della materia, la qual divisione è conseguente alla forma propria di questa. B ) Che la moltiplicazione delle specie nasce dalla varia natura del termine. Cioè, tostoché un termine ontologicamente considerato è cosí limitato, che l' uno esclude da sé l' altro, onde fra l' uno e l' altro non v' ha graduazione, ma intera separazione, per modo che ci vuole un' altra idea a pensarlo; questo termine suscita nel principio un sentimento pure cosí esclusivo , che non è per gradi ma in tutto da un altro sentimento diverso, nel che consiste, come vedemmo, la limitazione ontologica. Perché poi un termine si renda cosí esclusivo, come l' ente sia suscettivo di tale determinazione, quante possano essere tali limitazioni ontologiche, tutto questo, come abbiam detto, giace occulto nell' abisso dell' essere stesso: quei sentimenti specifici hanno radice in altrettanti atti esclusivi dell' essere. C ) Finalmente la moltiplicazione dei generi è dovuta al pensiero astratto, il quale nondimeno si fonda sull' ordine intrinseco dell' ente quando in questo distingue piú cose: in quanto poi le separa e le considera a parte, egli opera secondo le sue proprie leggi soggettive. I generi poi, che si fanno prendendo qualche fondamento puramente mentale, dovrebbonsi, anziché generi , chiamare classi . Le quali cose tutte parendoci che debbano riuscire difficili a ben cogliersi, ed essendo molte a mantenersi distinte nel pensiero, non dispiaccia al lettore se noi ci intratteniamo ad aggiungervi quella chiarezza e quella distinzione maggiore che per noi si possa. Al quale intento nostro primieramente ci proponiamo la questione, se l' ente reale abbia alcun sentimento dei principŒ che sono in lui fisicamente precedenti. Primieramente dee rimaner fermo che il principio si sente unicamente nel termine. Di poi è ancora da aversi presente, che ogni principio fisicamente non è ancora l' ente, il quale esiste soltanto per la sua ultima determinazione. In terzo luogo è da rammentare, che i principŒ precedenti s' identificano col principio proprio dell' ente; perocché è sempre il primo principio quello che, venendogli dati nuovi termini, mette fuori nuovi atti primi nella loro specie, e però è lo stesso primo principio che diviene successivamente tutti gli altri principŒ, e finalmente l' ultimo che costituisce l' ente. Quindi accade, che i diversi termini legati l' un coll' altro, e l' uno all' altro fisicamente subordinati, giungono a costituire un termine solo organato di piú termini, il quale è il termine proprio dell' ente. Le quali cose premesse, egli è manifesto, che tutti i principŒ debbono avere il loro sentimento in questo termine complesso ed organato a cui si riferiscono, un sentimento però, che ha la stessa unità e lo stesso organismo del termine dove risiede. Di qui procede, che il principio proprio di un ente abbia in sé qualche sentimento proprio della sua comunità con altri enti; giacché noi vedemmo che i principŒ precedenti sono comuni a piú enti, e come tali sono indeterminati, e però non costituiscono ancora nessuno degli enti particolari, ossia degli individui a cui sono comuni. Venendo ora a trattar di quel doppio modo dell' essere, pel quale un ente esiste in sé ed anco esiste in un altro ente, noi stimiamo dovere prima di tutto restringere la questione ontologica, cosí ampia in se stessa, riducendoci qui a favellare soltanto di quelle due maniere di essere, onde un ente si concepisce in se stesso, e si concepisce in noi. La parola noi esprime il principio sensitivo ed intellettivo. « Essere in noi »adunque significa, essere nel nostro principio sensitivo e intellettivo. Laonde tutto ciò che fosse del tutto alieno dal nostro sentimento o dalla nostra intelligenza, in una parola dal nostro principio razionale , non sarebbe veramente in noi, qualunque altra attinenza potesse avere coi principŒ ontologicamente anteriori a noi, dai quali pur dipendiamo. Di qui si può raccogliere una dichiarazione dell' espressione piú universale: « un ente esistere in un altro ». Perocché si scorge, che l' esistenza di un ente in un altro (trattandosi di enti sensitivi od intellettivi) è relativa all' ente che comprende un altro, o che è da un altro compreso. In una parola, l' essenza dell' ente reale soggettivo, è sentimento. Acciocché dunque un altro ente sia in lui, deve essere nel suo sentimento: se non ha l' altro ente nel suo proprio sentimento, non ha l' altro ente in sé. Questa relatività dell' inesistenza consegue alla limitazione ontologica, per la quale un sentimento sostanziale esclude l' altro, benché un sentimento sostanziale possa essere piú ampio di un altro. Questa proposizione è provata pur coll' osservare quale sia l' ente da noi intuíto. L' ente da noi intuíto è puro essere, è quell' idea per la quale noi siamo atti a dire che una cosa è, per la quale siamo atti a giudicare. Quest' essere della mente è indeterminato. Se l' essere intuíto è pienamente indeterminato, dunque egli è puro essere , senza i suoi termini: l' essere dunque ci è stato dato nella sua pura essenza, inizialmente, giacché l' essenza è l' inizio degli enti, e molto piú senza l' aggiunta di alcun fenomeno. Quindi l' essere puro da ogni sua determinazione, intuíto di continuo dall' intelligenza, non ha veruna azione in noi, ma la sola presenza ; il che bisogna di spiegazione pe' diversi significati della parola azione . Ogni qualvolta si scorge un effetto, suol dirsi che vi ha un' azione che l' ha prodotto. Qui prendesi azione per causa . Ma il comune degli uomini non osserva, che l' azione che si riferisce all' effetto, talora è la stessa causa, lo stesso ente che ha la relazione di causa; tal altra volta l' azione è distinta dall' ente causante, è un atto secondo di lui, non lo stesso suo atto primo. Eppure vi hanno effetti che debbon la loro esistenza, non già ad una azione distinta dall' ente causante, ma ad un' azione che è l' atto primo dell' ente causante, e perciò è lo stesso ente causante. Se noi vogliamo fissare un canone universale, col quale si conosca quali enti agiscano in altri col loro atto primo, colla loro presenza, potremo esprimerlo in questo modo: quegli enti i quali hanno dalla loro stessa essenza di essere o di poter essere in altri, questi agiscono col loro atto primo: e però non hanno azione nel senso volgare della parola, ma hanno soltanto presenza. Il qual canone applicato all' essere per essenza, cioè all' essere ideale, ci fa conoscere incontanente, che quest' essere sta nell' intelligenza nostra senza alcuna azione seconda ed accidentale; perocché egli ha per sua propria essenza l' essere nelle menti. Ora l' essere per essenza è appunto il termine oggettivo delle intelligenze, come vedemmo. Dunque il suo atto nelle menti è lui stesso. L' essere dunque è in noi quale è in se stesso. Di piú. Se noi consideriamo attentamente che cosa racchiuda il pensiero del puro essere, se meditiamo il significato della parola è , senz' aggiungervi nulla; noi ci convinciamo indubbiamente, che nell' essere pensato in tal modo non entra alcuna relazione con noi, né con alcun altro ente particolare, né con alcun individuo (il quale è formato da termini che determinano compiutamente l' essere). Perciò noi non mescoliamo coll' essere puro, oggetto dell' intuizione, niun nostro sentimento, niente di soggettivo, né manco di relativo; ma pensiamo l' atto primissimo di ogni cosa, prescindendo affatto dalla cosa di cui egli è atto. Quindi nell' essere non cade niun elemento fenomenale . L' essere adunque, qual' è posto nella intuizione, è scevro da ogni relazione colla mente stessa e da ogni sentimento. Onde la mente l' intuisce non apprendendo in lui relazione alcuna, l' apprende in un modo assoluto . Altro è dunque il pensare l' ente assolutamente ossia in modo assoluto, altro è il pensar l' ente assoluto (1). Pensare l' ente in modo assoluto, vuol dire pensar l' essere, prescindendo da ogni sua determinazione, pronunciare collo spirito nostro il monosillabo è , senz' altra aggiunta: questo modo di pensare appartiene al solo oggetto dell' intuizione, sia che quest' oggetto puro s' intuisca (essere), ovvero anche si affermi e si pronunci ( è ). All' incontro pensare l' ente assoluto è pensare l' ente infinito determinato in se stesso coi suoi termini infiniti e categorici (Dio). Quindi l' oggetto dell' intuizione non è l' ente assoluto, ma è il modo assoluto dell' essere, opposto al modo relativo . Ora, perocché l' intuizione è il primo di tutti i pensieri, ogni altro pensiero la suppone e la contiene. Il che dimostra che in niun pensiero manca giammai il modo assoluto dell' essere e del pensare. Che anzi questo modo assoluto è quello che caratterizza il pensare, e costituisce la differenza essenziale del pensare dal sentire . Quindi s' intende che cosa voglia dire « pensare una cosa in sé, o per sé ». Vuol dire pensarla in quella guisa appunto nella quale si pensa l' oggetto dell' intuizione, pensarla come oggetto. Queste maniere di dire esprimono il modo del pensare , e medesimamente il modo di essere . Dunque tutti gli enti, tutte le entità hanno per conseguente quel modo categorico di essere, che s' esprime colla parola oggettivo , ed è quel modo pel quale esistono essenzialmente in una mente intuente; e conseguentemente possono esistere in tutte le menti intuenti. Si può dunque pensare in un modo assoluto anche l' ente relativo , perocché la relazione appartiene all' ente, e l' assoluto appartiene al modo. Tutti gli enti relativi hanno un modo assoluto di essere, e quest' è il loro modo categorico ideale ossia oggettivo. Vero è che questo modo assoluto non è quello che li costituisce enti a se stessi, perché l' essere enti a se stessi è un modo relativo; ma il loro modo relativo è però congiunto al loro modo assoluto che precede ontologicamente e categoricamente la loro propria relativa esistenza (1). Tutto quello che non è ente puro, oggetto per la sua stessa essenza, si può dire fenomenico appunto perché egli non ha in se stesso le condizioni dell' ente fino che si considera separato da quello che per la sua propria essenza è ente per sé. Non è già che v' abbia qualche cosa che sia separata dall' ente, se l' unione e la separazione si consideri rispetto all' ente ontologicamente primo; ma l' entità relativa è separata considerando la separazione rispetto a lei stessa, poiché ella non sente la sua congiunzione coll' ente, attesa la limitazione ontologica del suo sentimento che la chiude in se stessa. Ora il sentire di questa entità essendo tutto ciò che ella è, e il suo sentire, benché sostanziale, essendo separato da quello che per la propria essenza è ente per sé, perché questo non cade in un tale sentire; consegue che fino che rimane questa separazione, ella non sia ente per sé; onde a ragione si chiama fenomeno . Ma per mezzo della mente che unisce il fenomeno sostanziale coll' ente per sé, anche il fenomeno si eleva alla condizione di ente per sé, perché viene considerato nell' oggetto, vien pensato in modo assoluto, viene oggettivato. Dobbiamo avvertire che i fenomeni si partono in due classi, che sono i fenomeni sostanziali , e i fenomeni conseguenti ai sostanziali , a cui si riducono anche gli accidentali. I fenomeni sostanziali sono quelli che ci si presentano come atti primi di un sentimento relativo, che escludono tutti gli altri fenomeni, eccetto quelli che a loro susseguono come atti secondi. I fenomeni conseguenti ai sostanziali sono atti secondi di questi, proprŒ, integrali, accidentali, ecc.. Quando la mente intuente l' essere concepisce per mezzo di questo i fenomeni sostanziali, ella li concepisce senza piú come enti. Ma i fenomeni conseguenti ai sostanziali non può ella concepirli come enti se non in unione coi fenomeni sostanziali dai quali dipendono; perocché ogni ente ha questa condizione, di dover essere un atto primo. I fenomeni sostanziali dunque sono i veri rappresentatori degli enti, e la regola onde giudicare della legittimità delle rappresentazioni che ce ne fanno i fenomeni secondari e conseguenti. Questi hanno anch' essi virtú di rappresentare, ma solo allora che vanno d' accordo coi primi, e discordanti da essi si chiamano a giusta ragione apparenze ingannevoli e illusioni. Dalle cose dette si raccoglie che l' inesistenza di un ente in un altro è proprietà esclusiva di quello che è essere per propria essenza. E nel vero, fuori di quello che è essere per essenza non rimane che il fenomeno nel modo che abbiamo spiegato. Egli è bensí vero che il fenomeno sostanziale, considerato in unione coll' essere per essenza, diventa anch' egli un ente cioè un ente per partecipazione. Ora un tal ente per partecipazione può anch' egli esistere in un altro, cioè in un altro ente intellettivo. Ma quest' inesistenza gli conviene soltanto in quanto egli è ente; ed egli è ente per partecipazione; dunque anche l' inesistenza sua in altro gli spetta soltanto per partecipazione, cioè in virtú di quell' essere per essenza, in cui si contempla e si pone, e cosí si rende intelligibile, ed acquista natura di oggetto. Dunque, soltanto quello che è essere per essenza ha virtú d' inesistere in un altro ente, cioè nell' intellettivo, nella sua purità di ente. Solo dunque l' essere per essenza ha virtú sua propria d' inesistere puro da ogni fenomeno in un altro ente, laddove l' ente per partecipazione inesiste in quanto è ente, ma mescolato col fenomeno dal quale riceve il nome di relativo. Ma i fenomeni stessi possono essi inesistere gli uni negli altri? Sí, hanno anch' essi certi modi d' inesistenza i quali però debbono essere accuratamente distinti. 1) Una parte del fenomeno esiste nel tutto. Questo modo d' inesistenza però è mentale anziché reale, come mentale è il concetto della parte. 2) Il fenomeno conseguente alla sostanza esiste nella sostanza. Questa proposizione si può esprimere piú generalmente dicendo che gli atti secondi inesistono nell' atto primo che li contiene o virtualmente o attualmente. 3) Venendo ora all' inesistenza de' fenomeni sostanziali, il solo principio è quello che contiene, e il termine è il fenomeno sostanziale da lui contenuto. Da quello che abbiamo detto riceve luce e sviluppo maggiore la teoria che abbiam data della rappresentazione. Lasciando da parte la prima maniera di rappresentazione , che spetta all' idea quasi specchio di tutte le cose, diciamo in che modo il fenomeno sostanziale sia rappresentativo dell' ente reale. In primo luogo vedemmo che l' ente è intuíto immediatamente, e in niun modo può essere rappresentato, perocché se vi avesse qualche cosa rappresentativa dell' ente non si potrebbe mai sapere che ella fosse rappresentativa dell' ente se già non si conoscesse l' ente. La rappresentazione adunque suppone sempre dinanzi a sé che si conosca l' ente; e quindi è impossibile spiegare la cognizione per via di semplice rappresentazione o similitudine, nel che sta il difetto della teoria della cognizione data dagli Scolastici. Ma se l' ente è già conosciuto, a che pro la rappresentazione? In primo luogo l' ente potrebbe essere conosciuto in un modo abituale, senza che ci poniamo attuale attenzione, o che lo crediamo a noi presente. In tal caso la rappresentazione ci presterebbe il servizio di attuare in lui la nostra attenzione. Pure non è questo solo il servizio che ci presta il fenomeno sostanziale. Ciò che noi conosciamo immediatamente, ciò che inesiste in noi per natura senza alcun fenomeno, non è che il puro ente spoglio di ogni sua determinazione. Egli è uno e semplice; ma gli enti sono molti, e l' uno di essi non è l' altro, ciascuno anzi è un individuo che ha un atto primo suo proprio. Quest' atto primo individuato qual si presenta nel nostro conoscere è quello che chiamiamo sostanza, e in quanto una sostanza si distingue totalmente dall' altra mediante la sua individuazione, la chiamiamo forma sostanziale. La forma sostanziale fa sí che una sostanza non sia un' altra, e negli enti finiti che cadono sotto la nostra percezione questa forma sostanziale è il fenomeno primitivo che rimane segnato da un nome sostantivo che gli imponiamo. Ma la forma sostanziale nella sostanza non è ancora l' ente; ma viene ad esser ente quando le si aggiunge l' essere che già conosciamo. Mediante quest' unione dell' essere col fenomeno sostanziale, unione individua, avviene che ne risulti innanzi alla nostra mente un ente reale; ma quest' ente reale non è piú un ente indeterminato, ma determinato dalla forma sostanziale in modo che si divide da ogni altro ente. Ora in questo fatto si può considerare l' ente reale conosciuto sotto due aspetti: o pigliandolo nella sua unità, e cosí possiamo dire di conoscere immediatamente quell' ente reale; o considerandolo nei due elementi dai quali risulta, e cosí noi vediamo che il fenomeno sostanziale non è per sé solo l' ente, ma una rappresentazione parziale dell' ente, di maniera che senza il fenomeno sostanziale noi conoscevamo l' ente solo inizialmente, ma ora aggiungendovi il fenomeno sostanziale conosciamo qualche cosa della realità di lui per la rappresentazione che questo ce ne fa. Vero è che questo fenomeno sostanziale è relativo a noi, e in quanto è relativo a noi non ci fa vedere qual sia il modo della realità proprio dell' ente essenziale; ma tuttavia ci presenta ad ogni modo una realità, la quale deve essere analoga alla realità compiuta ed illimitata essenziale all' ente. Cosí si può dire che tutti gli enti finiti che noi conosciamo rappresentano l' ente infinito, e per essi non s' accresce la nostra cognizione se non perché s' accresce la cognizione dell' ente essenziale: entro a tutte le nostre cognizioni adunque degli enti reali vi ha una cotale imperfetta rappresentazione dell' ente infinito. La percezione risulta dai due elementi, dall' ente ideale e dal fenomeno sostanziale dove termina l' affermazione. Quindi il nostro spirito nello stesso tempo che con una tale operazione conosce la sussistenza affermandola, conosce altresí nell' ideale qualche cosa di piú che non conosceva prima, perocché prima lo intuiva del tutto indeterminato, ed ora gli sono manifeste alcune sue determinazioni. Quando adunque noi percepiamo un ente reale, allora non è a credersi che l' essenza dell' ente in universale e il fenomeno sostanziale si uniscano quasi per giusta7posizione, ma eglino si compongono insieme e ne risulta un ente organato; non è da credere che conosciamo soltanto quello che prima era nei due elementi separati, l' essere universale e il fenomeno, ma v' ha qualche cosa di nuovo che risulta dalla loro unione: la cognizione nostra, che n' è l' effetto, si arricchisce di questo elemento nuovo, il quale rispetto all' ente ideale è un ordine che gli si aggiunge, e rispetto al fenomeno è la realizzazione di quest' ordine. Quindi nella percezione non si afferma solo il fenomeno, ma si affermano alcuni elementi che appartengono veramente all' ente come realizzati nel fenomeno sostanziale, si affermano congiunti, e poi si distinguono mediante l' analisi della riflessione: quindi si viene a conoscere distintamente, che l' ente affermato è atto primo , che è uno , che è pienamente determinato , ecc.; le quali sono proprietà dell' ente realizzate nel fenomeno; rispetto alle quali la nostra affermazione ha una verità assoluta. Or le cose ragionate circa il conoscere per via di rappresentazione dimostrano che l' uomo possiede una lingua interiore intima nella sua potenza conoscitiva, della quale si serve come d' istrumento del pensare. Perocché noi vedemmo che il fenomeno è quello che gli rappresenta l' ente, e che la varietà dei fenomeni è quella che gli rappresenta l' ente in diversi modi e gradi. Quindi senza i fenomeni il principio potrebbe avere bensí l' intuizione dell' ente in universale, e poniamo anche la percezione dell' ente assoluto, ma non la cognizione degli enti finiti e molteplici. Tutti i fenomeni sono dunque segni naturali degli enti; ma i fenomeni primitivi sono segni che si compongono cogli enti stessi finiti costituendo le loro forme sostanziali; giacché trattandosi di enti relativi non è maraviglia che anche le forme sostanziali siano relative. Quando s' impone un nome sostantivo ad un dato ente, allora questo nome esprime l' ente sotto quella forma sostanziale; e cosí il fenomeno primitivo resta inchiuso nel concetto dell' ente che si nomina, e nella definizione di lui. E ogni qualvolta senza badare a questo si volle ritenere quel nome per significare quell' ente spogliato del suo fenomeno sostanziale e quindi della sua forma sostanziale, si aprí il varco a innumerabili errori. Questo è uno dei piú ampi fonti della filosofia sofistica, e specialmente del panteismo germanico. I fenomeni poi conseguenti ai primitivi ed accidentali sono anch' essi altrettanti segni dell' ente, ma non sempre veritieri, come abbiam veduto. Quindi il pensiero tende bensí sempre all' ente di sua natura; ma nella condizione in cui siamo egli si serve per giungere a conoscerlo sempre piú di segni rappresentativi, quali sono i fenomeni, i quali formano come una lingua interiore. Questa lingua nello stesso tempo che conduce il pensiero alla cognizione degli enti relativi e moltiplici, lo dirige altresí quasi a ultimo fine di lui all' ente essenziale, di cui non vede a vero dire la realità propria, ma s' accorge di posseder certi segni di questa realità, e cosí in modo imperfetto e negativo finisce in essa come in ultimo punto delle intuizioni cogitative. Or poi merita sopra modo di esser meditata quella individua unione, che questi segni naturali formano coll' ente che rappresentano, sia questo ente principio o termine: per la quale unione individua si rappresenta alla mente una pluralità di enti compiuti e individuati e nella loro propria sostanza, per guisa che la cognizione è positiva e non negativa, onde ci persuadiamo di percepire quegli enti quali sono nella loro propria natura. Il qual fatto ben inteso spiega perché la parola esterna sia anche essa cosí utile all' intelligenza, e come il suono materiale del vocabolo s' associ e s' individui col concetto, per modo che il nostro spirito vede e pensa l' ente nel vocabolo, e senza i vocaboli non può a lungo ragionare, venendogli meno la presenza degli oggetti pensati. Il vocabolo è un suono e il suono è una sensazione. Vero è che questa sensazione è intieramente diversa dall' ente pensato e benanco da' suoi fenomeni; ma la mente non associa però meno la sensazione del vocabolo coll' ente che vuole esprimere; perocchè la legge del pensiero consiste nell' associazione di un fenomeno coll' ente, senza che sia necessario che il fenomeno, cioè il sentimento, sia uno piuttosto che un altro, supplendo la riflessione, la quale avverte se un fenomeno sia proprio e naturale dell' ente o non sia, nel quale ultimo caso il fenomeno sensibile è un segno arbitrario che rammemora insieme coll' ente anche il suo fenomeno o segno naturale. Cosí la lingua esteriore è un complesso di segni de' segni; cioè di segni arbitrari, che richiamano i segni naturali e con questi l' ente da essi determinato. Qui si vede spiegata l' origine, la necessità e la potenza della parola. Dalle cose dette possiamo raccogliere qual sia l' intima costituzione dell' essere umano: quest' essere è un principio unico individuato da tre termini di diversa natura, lo spazio , la materia e l' idea , organati fra loro all' unità. Or da quanto è detto riceve lume la natura della percezione fondamentale. Perocché dall' aver noi veduto che lo spazio e la materia, in quanto sono termini del sentimento fondamentale, sono puri fenomeni, e però termini proprŒ e non termini stranieri del principio sensitivo, col quale s' identifica il principio, ne viene che la percezione intellettiva fondamentale non è la percezione della realità pura straniera, ma è la percezione dello stesso principio, individuato nel fenomeno. Quindi il principio intellettivo, percependo il detto fenomeno, nol percepisce come cosa straniera, ma come cosa propria, il che è quanto dire percepisce il principio sensitivo individuato ne' due termini dello spazio e della materia fenomenale, il qual principio sensitivo viene cosí identificato col principio intellettivo. Per questo l' uomo a principio della sua esistenza ha un sentimento unico, che è quanto dire sente se stesso in quanto è animale, e sentendo se stesso sente anche il corpo, non essendo il corpo in quel primo sentimento se non l' individuazione del principio animale. Se dunque nel sentimento dello spazio e nel sentimento fondamentale non v' ha percezione della realità pura straniera, in qual momento nasce questa percezione? In prima dobbiamo intenderci sul significato di sentimento, di percezione sensitiva e di percezione intellettiva. Il semplice sentimento del tutto spontaneo, naturale, privo di ogni fatica, non è percezione. Quando nel sentimento ci ha ripugnanza, fatica, e tuttavia necessità (il che chiamasi sentimento di violenza), allora vi ha percezione sensitiva. La percezione sensitiva è dunque sentimento, ma non ogni sentimento, né tutto il sentimento, ma solo quell' accidente del sentimento, che dicevamo senso di violenza. La percezione intellettiva poi è quell' atto dello spirito razionale, pel quale egli apprende il sentimento come un ente. Quindi la percezione intellettiva è di tre maniere. Perocché lo spirito può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, o dalla parte del suo termine. Può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, nel qual caso il principio intellettivo s' identifica col principio razionale. Lo spirito intellettivo può percepire il sentimento dalla parte del suo termine, cioè il sentito. Ora, rispetto al suo termine abbiamo distinto il sentimento semplice dalla percezione sensitiva. Se lo spirito intellettivo percepisce il sentimento semplice, il puro fenomeno, in tal caso non percepisce ancora la pura realità straniera; ma se percepisce il senso violentato, incontanente l' intelligenza si porta alla realità straniera come a substratum di un tale sentito, operando in virtú del principio di sostanza. Le tre maniere adunque di percezione intellettiva sono: a ) Percezione intellettiva del principio sensitivo. b ) Percezione del fenomeno sensibile. c ) Percezione di un sentito violento - In questa si percepisce la pura realità straniera. Ora dal sapere noi che tutto ciò che cade nel sentimento è fenomeno, e per ciò appartiene al principio sensitivo, e che la pura realità del sentito è trovata e posta soltanto dalla mente, ma non è quella che costituisce il nostro individuo, deriva che noi piú facilmente possiamo intendere come l' anima separata dal corpo possa conservare la sua individualità, perocché ella non perde quello che è suo. Vero è che il finimento del suo sentire non può esser piú quello di prima, non può esser piú il sentito di prima, perocché il sentito riceveva il suo limite dalla realità sottoposta. In questo caso il sentimento dee ricadere e concentrarsi in se stesso e non piú vestire di sé quella realità. Ora questo raccentramento de' sentimenti è appunto la loro riduzione in abiti , i quali, come abbiam detto, bastano a mantener l' anima quell' individuo che era prima. Finalmente il terzo termine del principio umano è l' idea. Abbiamo detto che nell' ordine logico l' idea diviene termine dello spirito, quando questo è individuato come animale. Il principio individuante l' animale è quello dell' armonia del sentimento eccitato, il qual principio ha in sé necessariamente anche i precedenti, cioè il principio del sentimento eccitato, del sentimento continuo, e del sentimento esteso, o spazio. Or quantunque l' idea non si presti come termine intuibile se non dopo che il principio ha tutte queste individuazioni; tuttavia è da osservarsi, che l' atto intuente l' idea non si fa già dal principio cosí individuato, quasiché quest' atto si ponesse colla mediazione dello spazio e del corpo; ma l' idea è veduta dal principio puro come principio, non in quant' egli è individuo, ma solo a condizione che sia individuo. Il che chiaramente si scorge considerando che l' idea non può soggiacere alla forma dello spazio o a quella del corpo, essendo scevra per sua natura da ogni estensione, da ogni passione, da ogni corporeità, da ogni mutazione, e da ogni limitazione; onde non si può intuire che con un atto immediato, nel quale altro non si distingue che il principio e lei, ed è per questo che l' essere è in noi puro da ogni elemento fenomenico. E qui ci troviamo in grado di rispondere alla questione: « se l' uomo conosca se stesso fin dal primo momento della sua esistenza ». Gli scolastici dicevano, che egli ha una cognizione abituale di sé. La soluzione ci pare troppo vaga: le considerazioni seguenti vi recano luce. Quando il principio che intuisce l' idea percepisce la propria animalità, la percepisce tale qual' è. Ora l' animale è un principio individuato in quella guisa che abbiam detto. Ma un principio percipiente un principio s' identifica con esso. Dunque l' uomo fino dal primo istante in cui trovasi a pieno costituito, ha percepito se stesso come principio animale individuato: la percezione è cognizione, dunque l' uomo fin da principio si conosce in quant' è animale. Ma si conosce egli ancora come principio intellettivo? Primieramente è a dire, che il principio non è il termine dell' atto, e nulla si conosce se non ciò che è, ovvero è divenuto, termine dell' atto conoscitivo. Ogni principio è bensí un sentimento e però anche il principio intellettivo è tale, ma il sentirsi come principio non è conoscersi. L' uomo dunque non si conosce come principio intellettivo colla prima percezione immanente, ma soltanto con una riflessione successiva, colla quale pone se stesso principio come termine dell' atto conoscitivo. Tre dunque sono i termini principali dell' umano principio: quindi tre attività primordiali: quindi non desta piú maraviglia che lo spirito unico nel suo principio ammetta pluralità nelle potenze. L' attività che finisce nello spazio come nel suo proprio fenomeno, è atto semplicemente, non potenza. Or quantunque il principio individuato dallo spazio presti alla mente il concetto di un atto e non di una potenza, tuttavia si può chiamare potenza dello spazio, per la quale il detto principio, quando riceve il termine corporeo, lo veste e l' informa della estensione. Ma se il principio dello spazio prima di ricevere l' individuazione del termine corporeo si può considerare come in potenza al ricevimento di questa forma, quand' è già individuato egli è già in atto, non piú in potenza. E in generale l' atto, pel quale un individuo è posto, non è potenza ma atto. Quindi né il sentimento del continuo né quello dell' eccitamento, né quello dell' armonia, né l' intuizione dell' essere, in quanto costituiscono il sentimento fondamentale, sono potenze, ma atti primi pe' quali l' individuo esiste. L' uno però di tali atti, quando è ancor privo dell' atto susseguente, dicesi in potenza a questo. Ma queste sono potenze a ricever la forma, perocché un subbietto può avere due specie di potenze, che sono: a ) Potenze a ricevere una nuova forma sostanziale mediante il ricevimento di un nuovo termine (1). b ) Potenze relative al cangiamento accidentale dello stesso termine, passive (facoltà di sentire il detto cangiamento) ed attive (facoltà di produrre il detto cangiamento). L' una e l' altra specie di potenze è sempre una facoltà di porre nuovi atti. Ma la prima specie si riferisce ad atti che producono una nuova individuazione, e che sono atti primi ed immanenti relativamente al nuovo individuo che producono; la seconda specie è di atti accidentali all' individuo, che nol cangiano in un altro, e possono essere transeunti. Ora qui egli è d' uopo di mostrare come nel seno stesso dell' ordine inerente alla realità si ravvisi una relazione ed una dipendenza di essa realità dal suo esemplare ideale. Quello che vogliam dire si scorgerà ove si mediti la natura del secondo genere accennato delle potenze, le quali si riferiscono ad atti che non cangiano il proprio individuo in un altro, e che quindi si dicono a lui accidentali. Ond' avviene che un subietto individuo possa uscire in tale genere di atti? - Da questo, che il termine di tali atti può ricevere delle modificazioni accidentali senza che cangi la sua sostanza. Ma queste modificazioni non sono tutte e sempre presenti nel termine, perocché in tal caso il termine non cangerebbe. Acciocché la potenza del principio reale sia possibile, conviene che il principio, oltre avere l' attività attuale di unirsi col suo termine in quel modo reale che gli sta presente, abbia un' altra attività virtuale che si riferisca a tutti i modi che può ricevere il suo termine e che in presente non ha. In altre parole, l' attività del principio deve abbracciare non solo la sostanza del suo termine, ma ben anche tutti i modi possibili di questa sostanza. Ora, i modi possibili non sono reali, e di essi uno solo alla volta può essere realizzato: dunque, il principio reale colla sua attività eccede il termine che ha presente. Convien dire adunque che il concetto della potenza involga una relazione secreta fra la potenza reale e i modi ideali del suo termine, di che si scopre la ragione per la quale nel reale stesso si trovi una virtualità: la virtualità reale suppone adunque e risulta da una dipendenza che ha l' ordine delle cose reali dal loro tipo ideale. Questa dipendenza è prova manifesta che il temporale e finito dipende da un ordine superiore delle cose eterne, ed è una nuova dimostrazione ontologica che vi ha un ordine invisibile di cose eterne ed infinite, tolto il quale le cose visibili reali e finite non potrebbero aver tra di loro quell' ordine che hanno. Non potrebbe adunque sussistere il mondo reale senza il mondo ideale che gli determina continuamente quell' ordine che in lui si ammira. Concludiamo questo capo osservando, che quantunque i tre termini fondamentali dello spirito umano, lo spazio, il corpo, e l' idea, abbian natura diversa, tuttavia sono cosí organati fra loro da riuscirne un termine solo. Perocché il corpo è ricevuto nel seno dello spazio, e il corpo e lo spazio nel seno dell' idea. Onde l' essere razionale nell' idea possiede gli altri suoi due termini, e quest' unità che formasi nell' idea di tutti e tre è quella che individua l' essere razionale «( Psicologia , 567 7 5.4) ». Noi abbiamo parlato delle azioni , come pure delle inesistenze . Dalla diversa indole delle azioni e delle inesistenze si spiega, come si rinvengono certe azioni che non modificano il loro termine. Poiché l' inesistenza non è azione, nel senso comune della parola che esprime un atto secondo; ma se l' inesistenza stessa si considera come un' azione, e costituita da azioni (nel qual caso l' azione si prende impropriamente anche come atto primo), allora si trova che vi hanno azioni che non modificano il loro termine. L' inesistenza è una proprietà del solo essere essenziale : nessuna cosa inesiste in noi tale quale è, se non l' essere. Ora posciaché l' essere ideale ed essenziale talora è indeterminato, talora piú o meno determinato, secondo che costituisce l' essenza dell' essere universale, dell' essere generico, o dell' essere specifico, quindi ogni intuizione o cognizione delle essenze appartiene a quella classe di atti e di azioni, che non modificano menomamente il loro termine, perché altro non suppongono, ed altro non le costituisce, se non la pura inesistenza; questa è dunque la causa delle azioni che non modificano il loro termine. L' azione del principio rispetto al fenomeno sentimentale suo termine è una di quelle azioni, che producono il proprio termine, e però che non lo modificano. Ella è una specie di creazione; differendo dalla creazione soltanto in questo, che la creazione è libera, laddove il principio che produce il suo termine fenomenale è provocato a produrlo, e determinato a produrlo piuttosto in un modo che in un altro. Quest' azione è un atto primo, col quale il principio pone la propria individuazione. Quest' azione si può anche descrivere come un movimento del principio verso la sua forma che lo rende un individuo determinato. Il principio puro dal fenomeno, e cosí pure la realità straniera che sta al di là del fenomeno, nulla hanno di fenomenale, ma appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale. Dico che appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale, considerando unicamente quello che di essi ci porge il concetto che noi n' abbiamo. L' atto dunque della mente, che per via d' astrazione pensa il principio puro e la realità pura, non avendo per suo termine che l' ente, e l' ente inesistendo senza poter offrire alcuna modificazione, egli è di quelli atti, che non modificano il loro termine. Dalle cose dette risulta, che anche la percezione intellettiva non modifica il proprio termine. Perocché se si tratta della percezione intellettiva de' corpi, il termine di quest' atto è la realità vestita del fenomeno unita all' essere ideale. Ora noi vedemmo che la realità appartiene all' essere realizzato, e però non è suscettibile di modificazione; il fenomeno poi che la veste esiste precedentemente alla percezione intellettiva, ed è un termine prodotto dall' azione del principio sensitivo: in quant' è poi percepito dalla mente non è cangiato il fenomeno stesso, ma soltanto considerato in relazione coll' ente oggettivato, e, per cosí dire, entivato . Or l' aggiungere al fenomeno l' ente non lo modifica, anzi v' aggiunge ciò che è immodificabile e che rende lui stesso immodificabile: quest' aggiunta non essendo fenomenale, ma immune da ogni fenomeno, non può recare varietà alcuna nell' ordine del fenomeno. Se poi si tratta della percezione fondamentale con cui il principio intellettivo percepisce la propria animalità, è da dire il medesimo; e tanto piú, che nel sentimento fondamentale non cade la percezione della realità straniera, ma del fenomeno solamente. Avvi bensí la percezione del principio sensitivo nella sua individuazione e quindi avvi pure l' unificazione del principio sensitivo con l' intellettivo, onde se n' ha un unico principio razionale . Or questa unificazione è una specie di inesistenza, e però non distrugge l' attività del principio sensitivo, né punto la altera o modifica, perché niun principio come tale è variabile e modificabile, per la ragione che è semplice e che appartiene all' ente stesso; ma soltanto può essere aggiunto ad un principio piú elevato, mediante la quale unione cessa di essere quel principio individuato per sé solo esistente che era prima, ma si rifonde in un altro principio individuato maggiore, onde l' individuo viene cosí ad aver cangiata la sua forma sostanziale. Se questa si vuol chiamare modificazione, tale è appunto l' unica modificazione che il principio intellettivo fa della propria animalità. L' immaginazione intellettiva è quella che ci rappresenta un ente vestito del suo fenomeno, per esempio, immagina di vedere e di toccare un corpo qui presente quando presente egli non è. Ora il fenomeno sensibile è quello che rappresenta l' ente dinanzi all' immaginazione. Ma il fenomeno non è propriamente l' ente, ma il segno dell' ente. In quanto adunque l' immaginazione intellettiva termina il suo atto in un segno rappresentativo e non nell' ente stesso, ella non può modificar l' ente, perché questo non è il termine del suo atto. In quanto poi la mente dal segno rappresentativo, procede a pensar l' ente segnato, né pur ella lo modifica, perocché già noi vedemmo che l' ente non è punto modificabile, e che a lui spetta la pura inesistenza nella mente. Da tutto ciò si può raccogliere che gli atti conoscitivi non modificano mai il loro termine, perché non fanno che aggiungere al sensibile l' ente, rimanendo il sensibile come la determinazione dell' ente. Tutto ciò che v' ha nel sensibile si vede nell' ente, e, e l' ente nel sensibile. Questa è semplice inesistenza e inesistenza oggettiva, nella quale non vi ha azione, perocché l' agire è solo proprio del soggetto, e dell' oggetto l' inesistere. L' oggetto può esser pensato nella sua totalità, ne' suoi elementi o nelle sue relazioni ecc.; tutto ciò non modifica l' oggetto, ma la modificazione appartiene all' atto conoscitivo del soggetto: soltanto che l' oggetto si pensa piú o meno completamente. Ma non vi sono dunque anche delle azioni che modificano il loro termine? Indubitatamente un individuo, quand' è costituito ed emette degli atti secondi, modifica se stesso modificando il suo proprio termine. Anche ciò che ha natura di termine, come sono i corpi, manifestano in sé delle azioni reciproche, e quindi reciprocamente si modificano. Ma questi atti secondi, il cui effetto è la modificazione del proprio termine, vogliono essere spiegati a quel modo che risulta dalle dottrine piú sopra stabilite. Richiamandone qui le principali possiamo conchiudere: 1) Che solo i diversi principŒ operano e modificano se stessi. 2) Che due principŒ l' uno straniero all' altro, quando sono posti in relazione mediante un termine comune (comune entitativamente, cioè come realità pura (1), benché avente un modo relativo e fenomenale diverso), sono reciprocamente i motori delle proprie attività, perché ciascuno ha potere dal termine comune, e modificato il termine proprio dell' uno, la spontaneità dell' altro principio è necessitata a modificare il termine proprio; perché i due termini, in qualche modo, s' unificano. 3) Che quando i termini sembrano agir fra loro e modificarsi, senza che apparisca l' azione de' loro principŒ, come accade nel movimento e nell' urto dei corpi, l' azione tuttavia non si può attribuire ai termini come termini, giacché come tali sono inerti ma ai principŒ che inesistono ne' corpi, sebbene questi principŒ non si percepiscano. Noi abbiamo fin qui investigata la natura dell' essere reale e svolta la sua intima organizzazione. Oltre al porre questa dottrina generale intorno all' ente reale, noi dividemmo l' ente reale in assoluto e relativo, e convenendoci favellare dell' assoluto piú a lungo nella seconda parte di quest' opera, ci stendemmo a descrivere l' intima costituzione dell' ente relativo. Vedemmo che egli non è completo s' egli non ha un principio ed un termine, oltre il dover egli avere una relazione colla mente che gli dà la forma oggettiva ed ontologica, od esser mente egli stesso. L' ente reale adunque completo si riduce mai sempre ad essere « un ente principio individuato ». Ma vedemmo ancora che gli enti puramente sensitivi sono individuati da un fenomeno posto da essi in quanto sono principŒ senzienti, senza il qual fenomeno non sono ancora enti mancando loro l' individualità, di maniera che sono enti individui soltanto in quanto inesistono nel fenomeno specifico come in loro proprio termine. Questo fenomeno specifico e primitivo costituisce la loro forma sostanziale, e per esso sono piuttosto una sostanza che un' altra. La cosa non è cosí rispetto all' ente intellettivo, il quale, come tale, non ha fenomeno alcuno, ma soltanto ha per suo termine l' essere, e inesistendo in questo suo termine partecipa la condizione di essere senza bisogno d' altro; di maniera che fra gli enti finiti le sole menti sono enti per se stesse, laddove il reale puramente sensitivo (molto meno quello che si concepisce come insensato) non è ente per se stesso, ma soltanto per la relazione con quella mente che lo percepisce, o che in qualunque modo lo pensa. Ora taluno male intendendo questa teoria potrebbe falsamente indurne che ella arrecasse nocumento alla verità dell' esistenza de' corpi e a quella de' reali sensitivi, quasi queste entità fossero pure apparenze, e la dottrina intorno ad esse esposta si riducesse ad un sistema di idealismo con pregiudizio eziandio della certezza delle cognizioni umane. Or quantunque noi ci siamo dati cura di distinguere accuratamente il fenomeno dall' apparenza, e abbiamo anche difesa la certezza del pensare relativo, tuttavia noi vogliamo pigliarne occasione a compiere la teoria della verità e della certezza che abbiamo in parte esposta nel Nuovo Saggio e nel Rinnovamento e in altre opere. Nelle quali noi abbiamo dato la teoria della verità logica : or dunque esporremo quella della verità ontologica . Cominciamo dal chiarire che cosa s' intenda per verità logica, e che cosa per verità ontologica. La verità logica è la verità delle proposizioni. Si suol parlare di questa quando si dice che la verità e la falsità appartiene ai giudizŒ, i quali s' esprimono in proposizioni; ovvero quando si dice che la verità e la falsità appartiene a quella maniera di conoscere, che si appella conoscere per via di predicazione. Diciamo adunque primieramente che ogni proposizione esprime un atto dello spirito intelligente, con cui vede la convenienza di un predicato e di un soggetto e vi dà l' assenso. Il vedere questa convenienza e il dar l' assenso sono atti inseparabili, ed anzi nel primo loro nascere un atto solo. Ma questo primissimo e naturale assenso è differente dall' assenso posteriore libero, o certo volontario. Il primo assenso appartiene all' inesistenza del principio intellettivo nell' essere; perocché il principio intellettivo inesiste nell' essere in quanto lo vede, e se nell' essere vede la convenienza del predicato col soggetto, con questo atto di vederla inesiste ancora nell' essere dove esso trova un tal ordine. Questo è il primo principio della volontà, la potenza volitiva nell' atto del suo nascere. Se l' essere non avesse un ordine intrinseco, giammai dall' intuizione di lui potrebbe uscirne la potenza volitiva, la quale ha sempre per termine un assenso dato o negato all' ordine dell' essere stesso. Or questo assenso ha piú gradi: lo spirito può aderire all' ordine dell' essere con piú o meno di attività e d' intensione, con un atto solo di assenso o con atti replicati. Questo aumento di attività nel detto assenso non è inchiuso naturalmente nell' intuizione, ed è per questo che si distingue l' intuizione della convenienza fra un predicato e un soggetto, e l' assenso dato a questa convenienza. Una proposizione ha tre parti che si sogliono chiamare da' logici il subietto, il predicato e la copula. La copula si può sempre ridurre ad una espressione sola, cioè al verbo è , il quale può supplire a qualunque verbo. Infatti chi dice questa proposizione: « l' uomo muore »non ha fatto che rendere piú breve quest' altra: « l' uomo è mortale », riducendo la copula e il predicato in una sola parola, che esprime effettivamente due concetti in uno. Se dunque si considerano le proposizioni in questa loro forma semplice e primitiva, vedesi che ciò che si dice in ogni proposizione si è che il subietto è ciò che esprime il predicato. Si fa dunque una specie di equazione fra il subietto e il predicato. La forma poi della copula è non esprime solamente tale equazione in se stessa, ma esprime l' assenso di chi forma il giudizio, perocché è è una parola pronunciata da chi giudica e significa in parole il suo giudizio. L' assenso poi ossia il giudizio è vero se vi ha l' identità pronunziata fra il subietto e il predicato, ed è falso se non vi ha. L' identità dunque del subietto col predicato è la verità oggettiva della proposizione; l' assenso dato a questa verità oggettiva è la verità soggettiva, o per dir meglio la verità oggettiva partecipata, posseduta dal soggetto giudicante. Tale è la verità logica, che può essere considerata astrattamente in due modi: in se stessa, quasi nella sua possibilità, e nel soggetto intelligente che le assente. Ma quale è poi la verità ontologica? - E` a considerarsi che il subietto delle proposizioni logiche è supposto in esse, e che l' intento della proposizione non è altro se non di far conoscere che al detto subietto spetta il tale e tale predicato. Rimane dunque a determinare questo subietto, rimane a vedere se egli esiste, o qual modo e grado di esistenza egli si abbia. Il subietto delle proposizioni logiche viene sempre presentato in esse sotto la forma di un ente, ma non sempre è tale, potendo nascondersi sotto quella forma di ente ciò che non è ente, o ciò che non è ente compiuto, o insomma ciò che ha un modo di esistere anziché un altro. Malgrado di tutto ciò la logica verità della proposizione può rimaner intatta; perocché quella verità non consiste che nella copula, cioè nella identità parziale fra il subietto ed il predicato, e quindi non dipende dalla natura del subietto. Questa verità logica che consiste nella convenienza di un predicato con un subietto, e non in altro, non solo non inganna perché è verità, ma è all' uomo preziosissima sicura regola della sua vita prammatica e morale. Ma posciaché l' uomo in tutti questi giudizi pensa il subietto sotto la forma di ente, egli è manifesto che questo pensiero è tanto piú vero, quanto il detto subietto ha piú dell' ente; e questa si è quella verità che diciamo ontologica. Or la verità ontologica non si può ella ridurre alla verità logica, non si può tradurla in un giudizio, in una proposizione? Questa questione si riduce a quest' altra: quando pensiamo un subietto, lo pensiamo noi sempre e necessariamente mediante un giudizio? Ora, noi adesso cerchiamo se nel pensiero stesso di un ente si contenga necessariamente un giudizio. Ora l' ente si pensa in piú modi. E primieramente colla semplice intuizione si pensa l' essere in universale, la quale non racchiude giudizio alcuno, giacché il giudizio suppone innanzi a sé l' esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l' intuizione è l' atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l' inesistenza d' un principio reale nell' idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l' ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l' idea, al quale essendo dato il sentimento, lo apprende necessariamente nell' idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, ed insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall' ordine dell' essere intuíto, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera. Noi abbiam trattata la questione: se questa percezione sia un giudizio, e abbiamo detto che avanti ch' ella si formi non esistono i due termini del giudizio, cioè il soggetto e il predicato distinti fra loro; ma che dopo compiuta la percezione si può per via d' analisi risolverla in un giudizio «( Sistema Filosofico , 43 7 50) ». Questa espressione dunque: « egli esiste », esprime l' analisi della percezione dopo che è già fatta, non la percezione nell' atto del farsi, perocché egli, il sentimento, prima che aggiungiamo la parola esiste, essendoci del tutto incognito non è atto a fare da subietto del giudizio. Se dunque attentamente si considera la proposizione: « questo sentimento è un ente », ovvero piú in generale: « il tale oggetto è un ente », manifestamente si scorge che già la prima parola della proposizione: « questo sentimento », ovvero « il tal oggetto contiene l' ente », significa un ente perché significa un oggetto cognito, e quindi la seconda parte della proposizione: « è un ente », non è altro che una ripetizione di ciò che fu già detto nella prima parola; se non che la prima parola esprimente il subietto dinotava l' ente unito individualmente colla sua determinazione come è in natura, quando la seconda parte della proposizione pone l' ente come fosse un elemento separato, il che è un puro arbitrio della mente, che ha virtù di astrarre e dividere ciò che è indiviso ed anche indivisibile. Scorgesi da tutto ciò: 1) Che la verità ontologica consiste nell' ente, e che ciò che si pensa ha piú di verità ontologica quanto piú ha di ente, e ha meno di verità ontologica quanto meno ha di ente, e che l' aver piú o meno di ente è un fatto al tutto indipendente dai nostri giudizŒ e dalle nostre proposizioni, dal nostro assenso o dissenso. 2) Che questa verità ontologica non può essere espressa direttamente in un giudizio o in una proposizione, ma viene pensata immediatamente nel pensiero dell' ente; e che allorquando si scioglie questo pensiero in una proposizione, questa non lo rende con esattezza. Perocché interviene un' operazione della mente che divide quello che è indivisibile, e mentre la verità ontologica sta tutta e compiutamente racchiusa nel semplice pensiero dell' ente, il quale ente pensato non somministra piú che un solo de' termini del giudizio, per esempio il subietto, la mente per via di analisi cerca di scioglierlo e spezzarlo ne' due termini del subietto e del predicato; e per far ciò ella è costretta a replicar due volte la stessa cosa, giacché non può pronunciare il solo subietto senz' avere espresso tutto il pensiero dell' ente a cui spetta la verità ontologica, mentr' ella pur vuole estenderla e diffonderla nella copula e nel predicato, che non le aggiungono se non una inesatta ed impropria superfluità. Ogni intelligenza ha per sua legge fondamentale il principio di cognizione che dice: « il termine del pensiero è l' ente ». In oltre ogni intelligenza ha quest' altra legge « di poter pensare tutto ciò che sente », perocché ogni sensibile è contenuto nella sfera dell' essere come il meno nel piú. Finalmente l' intelligenza umana ha una terza legge, ed è: « dopo aver pensato l' ente, poter limitare la sua speciale attenzione in modo che ella non abbracci tutto l' ente, ma solo un elemento, o una relazione ». Queste sono le tre leggi piú generali del pensare umano. In virtú della prima legge, la mente umana non può pensare che l' ente (perché questo costituisce l' essenza d' ogni pensiero); ma per la seconda e terza legge, ella pensa anche il sensibile e l' astratto . Come dunque si conciliano queste tre leggi? Non sembrano esse in contraddizione? Perocché mentre la prima dice che l' intelligenza, ogni intelligenza, non può pensare che l' ente, le altre due dicono che l' intelligenza umana, può pensare anche quello che non è ente, come il sensibile e l' astratto : perocché l' ente essendo per essenza uno, semplicissimo, indivisibile, se gli manca qualche cosa non è piú ente, e però quello che è parte di lui o elemento di lui, non è lui. Questa conciliazione si fa con una quarta legge dello spirito umano, la quale si è, che « l' umana intelligenza suppone ente quello che vuol pensare, ancorché non sia ente »e con questa supposizione lo pensa. Né per questo il pensare umano necessariamente s' inganna. Perocché quantunque egli pensi gli elementi e le parti relative dell' ente come altrettanti enti, tuttavia l' intenzione del pensare non si ferma alla forma di ente aggiunta pel bisogno della concezione; ma termina in quei relativi e parziali, per intendere i quali s' indusse a vestirli da enti, e le sue azioni stesse riferisce a questi. Oltre di che può sempre colla riflessione tornare su cotesta sua fattura, e in essa discernere l' ente aggiunto e sceverarlo dall' elemento o parte relativa che per quell' aggiunta rese pensabile, e cosí istituisce una critica del proprio pensiero mediante un altro pensiero piú elevato e perfetto. Or la dottrina della verità ontologica viene ad essere questa critica appunto del pensare umano, in quanto egli pensa il non ente sotto la forma di ente. Perocché la verità ontologica è lo stesso ente come oggetto del pensiero, e non come mezzo del pensiero. Onde procedono queste due proposizioni: 1) Che il termine del pensiero ha piú di verità ontologica piú che egli ha di ente non mutuato dalla mente, ma in proprio. 2) Che medesimamente il pensiero ha piú di verità ontologica piú che il suo termine ha di propria entità, e non aggiuntagli dalla mente per necessità di concepirla. La verità ontologica adunque è l' ente per essenza. Ma questa maniera assoluta di definire la verità ontologica uguagliandola, o anzi identificandola all' ente, non dimostra aver relazione con una mente, poiché egli pare che l' ente considerato in se stesso e per assoluto a niuna mente si riferisca. La quale obbiezione cade da se stessa, purché si osservi che la ragione, per la quale il concetto assoluto dell' ente non involge quello di una mente in cui inesista, altra non è se non la stessa imperfezione del pensar nostro. Ma una riflessione piú profonda ci fa conoscere che ogni ente da noi concepito, di cui possiam favellare, è necessariamente oggetto, e che il concetto di oggetto suppone sempre quello di soggetto intelligente, e però qualunque ente di cui si parla involge una relazione intrinseca ed essenziale con una mente. Ma se l' ente di cui lice pensare e favellare è necessariamente oggetto, e se l' oggetto è relativo ad una mente, questa relazione non determina per sé sola a qual mente egli sia relativo. E primieramente apparisce ad evidenza, che egli non ha alcuna necessità di essere relativo alla mente umana, o ad altra mente qualsivoglia finita e contingente; perocché potendo tutte queste menti non essere, ne verrebbe che anche l' essere potesse non essere, il che è un assurdo manifesto. Se dunque si considera che l' ente essenziale è un oggetto necessario, forz' è conchiudere ch' egli abbia una relazione necessaria con una mente necessaria, nella quale per sua propria natura inesista ed essa in lui secondo i diversi rispetti di sciente e di scito. E poiché l' essere essenziale come oggetto inesiste per propria essenza in una mente necessaria, perciò questa mente lo dee conoscere e penetrare in tutto il suo ordine intrinseco, e quindi dee conoscere in lui se stessa, giacché nel suo ordine la contiene e racchiude. Onde se le menti finite non vedono nell' ente oggetto se stesse, e però loro sembra che l' ente oggetto abbia un modo di esistere suo proprio fuori di qualunque mente, la mente infinita all' incontro vede nell' ente oggetto se stessa, e in se stessa vede l' ente oggetto; ond' ella conosce immediatamente che l' ente oggetto esiste per sé, e questo esistere per sé è un esistere nella mente infinita che pure esiste in lui per sé. Quando adunque si dice che la verità ontologica è l' ente per essenza, allora non si piglia già l' ente in quanto è fuori della mente, come apparisce al nostro intuito; ma si piglia l' ente in quanto noi con un ragionamento ontologico trascendente veniamo a conoscere che è per essenza nella mente divina, onde la verità è cognita per la sua propria essenza, e quando i metafisici distinguono il vero non cognito , e il vero cognito , la distinzione non è assoluta, ma soltanto relativa alla mente umana o altra mente finita (1). Indi nella mente divina la verità è conosciuta per sua essenza, onde l' essere oggetto e l' essere conosciuto nella mente divina è il medesimo. Di che la mente divina non solo conosce, ma ha sempre conosciuto l' ente pienamente in tutto l' ordine suo, e niuna cosa che non sia ente è da lei conosciuta come ente, nel qual caso ci avrebbe deficienza di verità ontologica in quella mente, il che è impossibile. La mente umana all' opposto non fa che partecipare di questa verità ontologica con certa misura e contingenza. Diciamo che la mente umana partecipa di questa verità ontologica che risiede nella mente divina come in sua propria naturale sede. Perocché ella intuisce l' ente come oggetto, e questo oggetto lo riceve, non procede da lei, è anteriore a lei. E` ben da riflettersi che l' oggetto veduto dalla mente umana è oggetto per sé, e non in virtú della mente umana che è posteriore a lui, e che dicesi mente soltanto perché intuisce l' oggetto. Diciamo ancora, che la mente umana partecipa della verità ontologica con misura e contingenza. E in quanto alla contingenza, ella è manifesta, poiché la stessa mente umana è contingente. In quanto poi alla misura, ella si scorge in tutte quelle limitazioni del pensare umano che abbiamo a lungo e in varŒ luoghi descritte, le quali si possono ridurre a due, che per la loro generalità abbracciano tutte l' altre sotto di sé, e queste sono: 1) Il non estendersi l' intuito dell' umana mente se non all' essere iniziale, e il resto dell' ente contenersi soltanto virtualmente in quell' ente virtuale, che le è dato a vedere attualmente. 2) Il dover ella percepire o pensare come ente quelle cose che non sono enti, ma sono appartenenze dell' ente; ond' è che tali percezioni e pensieri hanno qualche cosa di ontologicamente falso, il che però non pregiudica alla logica verità de' giudizŒ e delle proposizioni. Dalle quali cose tutte possiamo conchiudere che si può ragionare della verità ontologica in due maniere: o considerandola in se stessa qual' è nella mente divina, o considerandola qual' è partecipata dalla mente umana. Gioverà altresí a chiarire il concetto di verità ontologica definirla in altre parole, dicendo ch' ella è l' identità dell' ente reale coll' ideale. Poco innanzi noi dicevamo che la verità ontologica è l' ente per essenza. Ora l' essenza dell' ente si manifesta nell' essere ideale. L' ente reale adunque quanto piú prende di quell' essenza che nell' ideale si mostra, tanto ha piú di verità ontologica. E quanto egli partecipa del concetto, della ragione, ossia dell' idea dell' ente, tanto egli s' identifica con essa. Quindi quanto è maggiore l' identificazione del reale coll' ideale dell' ente, tanto maggiore è la verità ontologica di cui parliamo. Se questo discorso si fa dell' essere puro, allora parlasi di una verità ontologica assoluta. Ma se si parla di enti limitati, l' identificazione del reale col loro concetto determinato e specifico dà luogo ad una verità ontologica relativa. Ogni maniera di verità suppone sempre una relazione fra due termini, l' uno dei quali può dirsi tipo , e l' altro ectipo . Il concetto di tipo e di ectipo non rappresenta già forme secondarie; perocché il tipo e l' ectipo appartengono allo stesso essere per essenza, sono forme primitive le quali costituiscono una parte di quell' ordine pel quale egli è organato. L' essere come tipo è l' essere nella sua forma ideale, l' essere poi come ectipo è l' essere nella sua forma reale; è sempre una sola essenza, un solo e medesimo essere sotto due forme per le quali è in sé ordinato. Ora qui si può domandare « se i vocaboli di verità e di vero debbano applicarsi al tipo, o all' ectipo, o alla relazione fra loro ». Noi abbiamo detto piú sopra, che una relazione si scioglie in due abitudini . E veramente anche i due termini nominati, il tipo e l' ectipo, hanno un' abitudine l' uno rispetto all' altro; il tipo ha un' abitudine in verso all' ectipo, e l' ectipo ha un' abitudine in verso al tipo, nelle quali due abitudini si scioglie la loro relazione , non rimanendo altro, che sia quasi nel mezzo, fuori di quelle rispettive abitudini. Ciò posto, diciamo che la parola verità esprime l' abitudine del tipo in verso all' ectipo; e che all' incontro la parola vero esprime l' abitudine che ha l' ectipo in verso al suo tipo. Se noi applichiamo questa proposizione al primo tipo e al primo ectipo, a quello che è per essenza tipo, e a quello che è per essenza ectipo, cioè all' ideale e al reale , noi ne avremo che l' idea dell' essere è la verità, e che i reali sono veri in quanto adempiono in sé ciò che quell' idea manifesta, e cosí in quanto sono ectipi di lei. Ora è da avvertire che una cosa qualsiasi dicesi vera in quanto partecipa, adempie, esprime la sua verità ; e però acconciamente di ogni cosa vera si dice che ha la sua verità; il che non toglie che il vocabolo verità non significhi il tipo. Illustriamo tutto ciò percorrendo le principali maniere di veri e di verità rispettive, seguendo l' uso del parlar comune, e in ciascuna distinguiamo il tipo e l' ectipo. 1) Verità ontologica assoluta . - In questa il tipo è l' idea (Verità), e l' ectipo è il reale in quanto adempie in sé l' essere che s' intuisce nell' idea (Vero). 2) Verità ontologica relativa . - Il tipo è il concetto (Verità), e l' ectipo è il reale finito in quanto adempie in sé quell' essere limitato che s' intuisce nel concetto (vero). 3) Verità logica . - Il tipo è la convenienza del predicato col subietto (verità), e l' ectipo è l' assenso dato a quella convenienza, sia soltanto internamente coll' animo (vero logico), sia anche espresso colle parole (vero dialettico). 4) Verità morale . - Il tipo è la legge (verità), l' ectipo è l' azione che adempie la legge (vero). 5) Verità artistica . - Il tipo è la natura, o l' archetipo ideale della natura, o un capolavoro che si piglia a ricopiare (verità), ectipo è l' opera dell' artista, che ritrae tali esemplari (vero). A questa maniera di verità si può ridurre altresí la verità di traduzione d' una in altra favella, dove lo scritto originale è il tipo (verità), la traduzione è l' ectipo (vero). 6) Verità significativa . - Il tipo è la cosa segnata (verità), l' ectipo è il segno (vero). Ma se la verità ontologica è la forma ideale dell' ente, che cosa sarà il vero primitivo ed originale? Egli sarà l' ente stesso considerato nella sua relazione di ectipo all' ideale. Ora l' ectipo primitivo e originale dell' ente si porge essenzialmente in due forme diverse, e sono le altre due forme categoriche dell' ente medesimo, il reale e il morale: quindi egli è essenziale all' ente di esser vero in quanto è realità, e di esser vero in quanto è moralità, come gli è essenziale di essere verità in quanto è idea ossia manifesto. L' essere è conosciuto per sé ed amato per sé: queste sono due condizioni essenziali all' essere, le quali si trovano racchiuse nel suo stesso concetto, quand' egli si arricchisca dalla mente colla realità, e di lui cosí arricchito si mediti l' ordine intrinseco. Quindi è che l' essere è ontologicamente vero, e vero sotto due forme; vero in quanto è conosciuto; vero in quanto è amato. Questa doppia identificazione dell' essere come ectipo coll' essere come tipo è l' intrinseco ordine dell' essere assoluto o assolutamente considerato. L' essere assolutamente considerato è l' essere considerato come puro essere, non aggiungendovi altro. Questa maniera di considerare l' essere può aver luogo in un modo limitato o illimitato. Si considera l' essere assolutamente, ma in modo limitato quando si esclude qualche cosa. Ma si può considerar l' ente assolutamente senza esclusione alcuna, ed è allora che nello stesso concetto dell' ente si trova essere lui per sé inteso e per sé amato. Il che se ci vien dato dal concetto dell' ente, necessariamente si deve trovar ciò nell' ente assoluto, come quello che compie e adegua tutto quel concetto. Veniamo all' ente relativo. L' ente relativo è quello che non è ente per sé: non è ente per sé quello che non si può pensare in sé e per sé e senza ricorrere ad altra cosa che non è lui. Ora niun ente finito non può essere pensato in sé e per sé, cioè assolutamente, senza ricorrere all' essere ideale che è un diverso da lui (1). Dunque egli per se stesso non è ente, e quindi per se stesso non è ontologicamente vero. Questa è una limitazione ontologica degli enti finiti: che non siano veri enti per sé, non avendo per sé e in sé la verità che li renda per sé manifesti. Sí fatta limitazione si riduce a questo, che non hanno per sé la forma ideale, sicché l' essere di questa è diverso dall' esser loro. Ma l' ente è anche nella forma reale: anche sotto questa forma vi è tutto l' ente: quell' ente dunque che non è per sé vero, mancandogli la forma ideale, non potrebbe essere ente tuttavia compiuto nella sola forma reale? No, poiché quantunque sotto la forma reale possa essere e sia tutto l' ente, tuttavia questo non ha luogo se non a condizione che l' ente reale inesista nell' ideale, o per dir meglio, che l' ente reale sia per sé manifesto perocché il reale non è tutto l' ente se non è per sé manifesto e quindi vero, mancandogli in tal caso l' atto del conoscere che è reale, e quello dell' amare che è pur reale, i quali atti reali non potrebbe avere per sé, se egli non fosse per sé inteso e per sé amato. Onde l' ente non può esser tutto sotto la forma reale, se ad un tempo non sia anche tutto e identico sotto la forma ideale e morale. L' ente reale adunque che non è vero per sé conviene necessariamente che sia un reale finito, e per dir meglio, non ente: egli adunque non è ontologicamente vero, ma diviene vero soltanto per partecipazione, quando lo si unisce a quell' ente che è vero per sé. Dopo ciò che fu detto, non è piú difficile intendere la sentenza de' Padri della Chiesa, i quali asseriscono, che le cose finite a Dio paragonate non sono, sono nulla (1): non sono, perché non sono per sé enti. Nello stesso tempo però sono, se si considera che partecipano dell' ente che in sé e per sé non hanno. Onde S. Agostino acutamente scrisse, le cose inferiori a Dio « nec omnino esse, nec omnino non esse ». E prosegue: [...OMISSIS...] . Cioè tu sei per te stesso, e le creature non sono per se stesse. Ora allo stesso modo che le cose finite non sono e sono, cosí pure non hanno verità ontologica per sé, ma ne partecipano. Il gran vescovo d' Ippona pone questa sentenza: « Id vere est, quod incommutabiliter manet (3) ». Qui egli parla della verità ontologica, e non l' attribuisce che a Dio, perché egli solo è ente reale per sé, il che vuol dire, come abbiamo spiegato, è per sé reale nell' ideale, perocché solamente essendo per sé nell' ideale è per sé ente, vero ente, e però non ente per accidente, sempre ente « incommutabiliter manet ». Dice ancora quell' altissimo ingegno, che le cose sono per altro quando inesistono in un altro, cioè in quello che è in sé e per sé ente, e cosí noi abbiam veduto che i reali finiti allora acquistano il concetto dell' essere, quando si contemplano inesistenti nell' essere ideale, quindi nell' essere per sé manifesto, che si riduce a Dio (4), a cui il santo Dottore cosí sublimemente favella: [...OMISSIS...] . Dove vien espressa quella inesistenza di cui parlammo, per la quale egualmente, ma sotto un diverso rispetto, si può dire, che i reali sono nell' essere e che l' essere è ne' reali. In che dunque sta la falsità delle cose? Perocché altro è non essere vere, altro è essere false. La verità ontologica non ha falsità in contrario, perocché consistendo ella nell' ente, questo è o non è, ma non è mai falso. Convien dunque osservare che non si può parlare d' una falsità ontologica, la quale non esiste; ma soltanto d' una falsità logica, o se si vuole, psicologica, cioè relativa alla percezione e alla concezione dell' uomo, non di una falsità delle cose in sé. La falsità adunque non cade nelle cose, ma nell' uomo quando le piglia per enti in se stessi, laddove non sono tali, il che pure insegna S. Agostino con questa sentenza: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già altrove descritti gli errori che prende il pensare imperfetto e comune degli uomini: questi costituiscono la falsità psicologica , che noi cosí chiamiamo per indicare che la è data dalla limitazione della natura conoscitiva dell' uomo, a cui non reca danno piú che non glielo rechi la sua propria limitazione, sia perché non lo impedisce dal conoscere la verità, di cui egli abbisogna, sia perché egli può purgarsi di quella maniera di falsità che si mescola nelle prime sue operazioni, coll' uso di quella verità pura ed assoluta di cui egli partecipa. Questa maniera di falsità psicologica è piuttosto una persuasione istintiva, che un ragionamento, e però non è un giudizio analizzato; non si può dire una falsità logica, perché la logica sta propriamente nel ragionamento, ossia nel sillogismo al quale si appoggiano le proposizioni. Si dà dunque verità, e non già falsità ontologica: ciò che non è vero ontologicamente, non è per questo ontologicamente falso; ma il non vero ontologicamente occasiona nell' intelligenza finita il falso psicologico. Cosí i reali finiti non sono veri per se stessi, perché non sono enti per se stessi: or l' intelligenza finita li percepisce come enti senza piú; onde facilmente la riflessione attribuisce poi loro l' essenza di ente in proprio, e cosí cade nel falso. Ma qui nasce una difficoltà. - Noi abbiamo detto che tutto l' essere è manifesto per sé; che nell' essere ideale si contiene tutto virtualmente; e che questa virtualità non può essere che relativa a noi intelligenze finite, ma suppone che nell' essere ideale, il quale è diverso da noi, tutto sia conosciuto attualmente, il che trae la necessità d' un essere assoluto, nel quale tutto sia conosciuto per se stesso, perciò anch' esse le cose finite e contingenti. Ma se le cose finite e contingenti sono conosciute per se stesse, in tal caso non sono piú finite e contingenti. Questa gravissima difficoltà rimane sciolta nella mente di colui che abbia chiaro il concetto dell' esistenza relativa di cui abbiam favellato. Questa relatività, è inchiusa nella limitazione ontologica. Una tale relatività di esistenza non cade nell' essere assoluto, benché l' essere assoluto ne abbia la cognizione, e cosí l' esistenza relativa, costituente le cose finite, sia tale anche rispetto alla mente divina. Ma appunto perché nell' essere assoluto non cade la stessa relatività e limitazione ontologica, perciò si dice giustamente che la relatività e la limitazione ontologica costituente le cose finite è fuori di Dio, fuori dell' essere assoluto; e in questo senso le cose costituite sono fuori di Dio, da lui essenzialmente diverse, il qual vero annienta il panteismo. Si dirà: se l' essenza ideale delle cose finite è in Dio ed è diversa dall' esistenza reale delle cose, in tal caso ben si vede come le cose finite non sieno conosciute per se stesse, quindi non sieno per sé enti, e ancora si vede come Iddio conosca per sé l' essenza ideale delle cose: ma l' essenza ideale delle cose non fa conoscere che la loro possibilità, e non la loro sussistenza. Come adunque in Dio ossia nell' essere assoluto è ella cognita la sussistenza delle cose finite? Convien qui ricorrere all' azione ontologica anteriore, di cui abbiamo parlato innanzi. Le cose finite incominciano ad esistere per un' azione ontologica che precede la loro esistenza, e che non costituisce la loro esistenza relativa: cotest' azione è l' atto di Dio creante, e quest' atto è in Dio, ed è Dio, e però è noto per se stesso come tutto ciò che è essere assoluto. Tra quest' atto, e i reali finiti non v' ha nulla di mezzo; ma posto quest' atto, i reali finiti sono in quel modo, tempo e misura che determina quell' atto. Ora questo modo, tempo e misura è determinato dall' essenza ideale delle cose e dalla perfetta sapienza del creatore. Dunque l' essere assoluto essendo conscio del proprio atto creante, che è per sé noto perché è lui stesso, ed essendo conscio dell' atto della propria sapienza che lo determina, è conscio altresí della sussistenza relativa delle cose, la cui essenza ideale gli è pure nota per sé. Cosí egli conosce le cose finite aventi un' esistenza relativa in sé medesimo come in causa, dov' esse hanno la loro radice anteriore e la forza d' esistere relativamente, che è lo stesso atto creante. Quello che impedisce d' intendere che la cosa è cosí, è il non conoscersi abbastanza la dottrina della limitazione. Non si suol badare ad altra maniera di limitazione eccetto quella del piú e del meno: quella che determina i gradi accidentali che si osservano nella qualità delle cose. La limitazione qui è accidentale. Il soggetto rimane identico, rimane identico anche il suo termine essenziale, il termine non è che limitato negli accidenti. Ma la limitazione ontologica è totalmente d' altra natura. Perocché ella limita ciò che costituisce l' ente. Ma la costituzione dell' ente risulta da due parti, perocché l' ente è costituito come ente , e l' ente è costituito come ente specifico : la mente distingue ciò per cui un ente è costituito come ente, da ciò per cui un ente è costituito come ente specifico. L' ente specifico è costituito da un principio e da un termine, il qual termine è la sua forma sostanziale. Se si cangia questa forma sostanziale, è cangiato l' ente specifico. La forma sostanziale non è ente, ma soltanto una parte costitutiva dell' ente; ella perciò si concepisce dalla mente come un subietto dialettico. Quando si considerano i suoi cangiamenti e le sue limitazioni, allora questo subietto dialettico non è altro che un concetto generico, cioè il concetto del termine in genere, il concetto della forma sostanziale in genere. Certe limitazioni adunque cangiano l' ente specifico, perché limitano la sua forma sostanziale, e quindi cangiano il principio dell' ente che è il subietto reale, il quale è individuato dal suo termine sostanziale. Questa è la prima maniera di limitazione ontologica, la quale determina la specie degli enti. Veniamo ora a considerare ciò per cui un ente è costituito come ente, il che ci fa conoscere la seconda maniera di limitazione ontologica. Questa non cangia soltanto la specie, ma cangia a dirittura l' essere. L' essere è uno e semplicissimo. Quindi accade che se si concepisce l' essere in qualunque modo limitato in se stesso, non gli può piú convenire la parola essere nel significato puro e semplice, nel quale prima gli si attribuiva. Quando si parla in questo modo dell' essere, allora si parla assolutamente di lui, anzi si parla di lui come assoluto essere. Quindi l' assoluto essere non può ricevere alcuna limitazione. Tuttavia non ripugna la limitazione che non è assoluta, ma soltanto relativa; perocché questa non affetta né limita l' essere nel senso assoluto. Ma se si dà il caso di una limitazione relativa, in tal caso questa limitazione relativa, totalmente straniera all' essere assoluto, non potrà appartenere che ad un essere relativo, il quale non è essere nel senso puro e semplice della parola. Quindi una tale limitazione non solo cangia la specie dell' essere, ma cangia l' essere stesso. Laonde l' essere relativo è lo stesso essere che l' essere limitato, ma questo essere limitato appunto perché è limitato non è piú l' assoluto; né vi ha nulla di comune fra l' uno e l' altro, perocché nell' essere limitato l' essere assoluto, che è il suo contrario, è semplicemente tolto via per l' opposizione delle nozioni, giacché l' assoluto come assoluto non piú s' intende, tosto che vi si apponga una limitazione. Il supporre dunque che fra l' essere assoluto e il relativo vi abbia qualche cosa di comune è intrinsecamente assurdo. Dunque molto meno vi può avere un subietto reale comune. Questo subietto è puramente immaginato dalla mente, è l' essere ideale e iniziale, il quale dalla mente si considera per ugual modo, sia qual subietto sia qual predicato, onde accade che egli si predichi di Dio e delle creature. Ma ciò non toglie che quando si predica delle creature si attribuisca loro un' esistenza soltanto relativa. Perocché questo essere ideale non appartiene in proprio alla creatura, che soltanto lo riceve ad imprestito dalla mente; ma sí appartiene all' assoluto, è un' appartenenza di questo, è una forma primitiva in cui l' essere è. Tolto via adunque dalle creature questo subietto ideale che loro non appartiene, esse non sono piú enti: tolto via da esse per astrazione , esse non presentano altro concetto che di non enti, in via ad essere, rudimenti di enti, entità e non enti, ed entità relative; tolto poi via da esse assolutamente, non per mera astrazione, ma per vera negazione , le creature non danno piú altro concetto che quello di meri assurdi. Le creature dunque non possono essere concepite come enti se non congiungendole colla loro essenza ideale ed eterna, il che fa la mente concependole, e per questo anco si dice che sono enti per partecipazione . Di che procede che i finiti sono veri enti per partecipazione del vero ente , e questa è quella verità ontologica, che loro solo conviene. Ma in quanto i finiti sono in Dio, non hanno essi alcun' altra verità ontologica? Noi abbiamo distinto un triplice modo del loro inesistere in Dio: il modo causale, il modo eminente, e il modo tipico. Iddio contiene i reali finiti in modo causale, come la causa efficiente contiene l' effetto, non come ogni causa efficiente, ma in quel modo proprio in cui li contiene la causa creante. Or questa causa non ha nulla affatto di comune coll' effetto che prima al tutto non esisteva. Quando adunque si dice: « i finiti reali inesistono nella causa creante »s' intende dire unicamente, che in quella causa esiste quella forza che non è dessi, ma che è il loro sostegno trascendente, ed ultra sostanziale. Qui dunque non ha luogo la questione della verità ontologica de' finiti reali in Dio; perché i finiti reali nella loro causa altro non sono che la loro causa, e la verità di questa non è la verità loro, ma la verità ontologica di Dio stesso. Si dice poi che i finiti sono in Dio in un modo eminente, per significare che tutti i pregi delle creature sono in Dio come il meno è nel piú, senza divisione, senza limitazione di sorte alcuna, ben anco senza distinzione, perciò fusi quasi direbbesi nell' infinito. Ma se i pregi che sono nelle creature non hanno piú divisione, sono forse ancora quei dessi di prima? No certamente. Ora quando si dice che i pregi delle creature, e tutto ciò che hanno di positivo, esiste in Dio in un modo eminente, s' intende che que' pregi positivi esistono in Dio senza separazione, senza limitazione e senza distinzione. Ora in questo stato que' pregi non sono piú que' pregi, non è piú nulla di ciò che trovasi nelle creature, ma è tutt' altra cosa, piú eccellente certamente, piú grande, anzi cosa infinita; ma finalmente non sappiamo che cosa sia, sappiamo solo che è Dio stesso. Chi dicesse diversamente, chi dicesse per esempio, che esistono in Dio propriamente i pregi delle creature con qualche giunta, questi professerebbe il panteismo, quella specie di esso che si potrebbe denominare teosincretismo. Finalmente le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare; o, in altro modo, in Dio esistono le essenze eterne delle cose, non le cose stesse reali, il cui essere è relativo. Ora gli esemplari che stanno nella mente divina determinati dall' atto della creazione sono la stessa verità ontologica delle cose finite. Queste adunque hanno in Dio e non in se stesse la loro verità ontologica. Non si può dunque dire che i reali finiti sieno in Dio ontologicamente veri, ossia veri enti; ma si dee dire che in Dio hanno la loro verità ontologica, e che sono veri in se stessi in quanto partecipano della loro verità che è in Dio: la quale partecipazione nasce per opera della mente che li concepisce, cioè unisce i reali relativi ai loro esemplari, alle loro eterne essenze o ragioni, in una parola vede congiunto il reale finito coll' infinito ideale. Uno dei piú importanti, e nello stesso tempo dei piú difficili concetti della scienza ontologica, si è quello della relatività degli enti finiti. Ove lo studio di tale scienza sia pervenuto ad intenderlo con tutta chiarezza e pienezza, egli ha già nelle sue mani la chiave dell' ontologia intiera. Laonde noi crediamo necessario rifarci sopra questo concetto e perscrutarlo a parte a parte. Il nostro discorso deve riguardare l' ente relativo compiuto, perocché gli enti relativi incompiuti si riducono sempre a quello come parti al tutto: ciò adunque che si può dire della relatività di questi è un' appartenenza, un corollario della relatività di quello. Ora, prima di tutto qui è uopo rammentare che noi già dimostrammo due essere le condizioni dell' ente relativo compiuto: 1) che egli sia un soggetto; 2) ch' egli sia un soggetto intelligente. Dobbiamo dunque chiarire come sia vera questa tesi: il soggetto finito intelligente è un ente relativo. Piú sopra abbiamo supposto la possibilità di un' intelligenza che altro non sia che un' intuizione dell' essere ideale. Convien dunque dimandare se ciò che abbiam supposto per ragion di metodo possa essere veramente. Se possa darsi un ente relativo, che altro non sia che una pura intuizione dell' ideale, di maniera che la stessa intuizione sia anche il principio, il soggetto, l' atto primo dell' ente. Se quest' ente è possibile, non potrebbe avere atti secondi senza cangiarsi in un altro, né potrebbe avere altro sentimento che quello dell' intuizione stessa che sarebbe il suo unico atto. Ma qual è il sentimento della intuizione? A me non vien dato di concepirlo: perocché l' intuizione altro non sente, per quanto mi pare, che l' essere ideale suo termine, e questo essere ideale sentito non è altro che la luce dell' essere ideale posto in atto, perocché l' essere ideale non sarebbe ideale, non sarebbe luce se attualmente non lucesse, se non fosse per sé sentita ossia manifesta. Ora la pura luce dell' essere ideale sentita manifesta non si può distinguere dallo stesso essere ideale qualora non vi sia un altro principio da lei diverso che la sente. Ma questo principio non esiste se egli non ha alcun sentimento proprio distinto da quello che, come dicevamo, è essenziale allo stesso essere ideale. Dunque non può esistere un ente finito che non sia altro che intuizione pura dell' essere ideale, giacché un tal ente non avrebbe nulla che lo distinguesse dall' essere ideale medesimo. Acciocché dunque esista un soggetto finito intelligente, egli è uopo ch' egli si abbia oltre l' intuizione dell' essere ideale un sentimento proprio che lo distingua dall' essere ideale medesimo, e a lui lo contrapponga. Un tal essere sente adunque per necessità di sua natura due cose. Egli sente l' essere ideale termine della sua intuizione; e in quanto lo sente, l' essere ideale relativamente a lui è, è luce a lui: questo lui poi è l' altra cosa che egli sente: per dir meglio è il sentimento proprio. Or noi abbiam veduto, che dato un sentimento proprio il quale abbia l' intuizione dell' essere ideale, inesiste a se stesso nell' essere ideale, di modo che si sente oggettivamente e quindi si sente come ente. Questa è la ragione per la quale, fra gli enti relativi, quello che è intelligente si dice ente compiuto; perocché un tale finito reale ha dalla sua propria natura l' inesistere nell' ente e sentire questa sua inesistenza. Egli non è l' ente, ma si sente nell' ente per la sua propria natura; è il sentimento della sua propria esistenza oggettiva , senza la quale non si dà ente, perocché l' ente è per sé oggetto. Ma l' oggetto in cui si sente, l' essere ideale, non è lui stesso; dunque la sua esistenza oggettiva è partecipata: egli è ente per partecipazione . Ora, se il soggetto finito intelligente è ente per partecipazione, conseguentemente non è ente assoluto, ma relativo . Perocché egli è ente per la relazione che ha coll' ente, o viceversa per la relazione che l' ente ha con esso lui. Alla dottrina esposta circa la relatività degli enti finiti taluno trarrà un' obbiezione, da quelle sacre parole: « facciamo l' uomo a nostra imagine e somiglianza ». Come dunque sta scritto che l' uomo, ente relativo com' è, sia fatto ad imagine e somiglianza di Dio? E` da rammentarsi quello che hanno osservato i Padri della Chiesa, che la sacra lettera vigilantemente dice, che l' uomo fu fatto ad imagine e similitudine di Dio, e non dice che l' uomo sia l' imagine o la similitudine di Dio, e né tampoco che sia simile a Dio. Perocché, che cosa è la similitudine? La similitudine, altro non è che l' idea tipo delle cose: le cose sono simili fra loro quando si conoscono con un' idea comune: quest' idea dunque è quella che forma la loro similitudine (1). La similitudine dunque di tutte le cose, quella che rende simili fra loro tutte le cose in quanto sono enti, è l' essere ideale, il quale si riduce a Dio come una sua appartenenza. L' essere ideale e l' essere oggetto è per sé. Ora la mente inesistendo in lui partecipa dell' esistenza oggettiva. Dunque la mente è fatta alla similitudine di Dio, cioè a quella similitudine, a quell' ideale che è in Dio e che essendo in Dio è Dio. All' incontro la mente non è già questa similitudine, perché, come vedemmo, questa similitudine che è l' essere ideale è oggetto, e come tale, non soggetto, ed è eterno ed infinito; e la mente creata è un soggetto contingente e finito (2). Vi hanno adunque due proposizioni che sembrano contraddittorie e non sono: L' intelligente creato è a similitudine di Dio. Niuna cosa creata ha con Dio similitudine di sorta alcuna. La prima è vera perché l' intelligente creato partecipa dell' esistenza oggettiva dell' idea, che è per sé esemplare, o similitudine, e non si può staccare da quest' idea senza che ne perisca il concetto. La seconda è vera quando si considera l' ente creato solamente per quello che ha di suo proprio, che altro non è se non la relatività, di maniera che non ha di suo proprio nemmeno l' esser ente, dicendosi ente soltanto per la relazione che ha coll' ente, per la quale relazione l' ente s' unisce con lui. Cosí considerato il reale finito ha quella relazione con Dio, che ha il non ente coll' ente, nella quale di questo secondo si nega tutto ciò che si afferma del primo e viceversa, di maniera che neppur resta l' analogia. Ma quando lo si fa partecipare all' ente, o per l' ordine stabilito dalla creazione come accade nei reali intelligenti, ovvero per la concezione della mente, allora il creato partecipante l' ente acquista un' analogia con questo, lo imita in qualche modo, e il reale completo, ossia intelligente, con tutta proprietà si dice fatto alla similitudine dell' ente. Abbiamo detto che i reali relativi sono, come tale, termini esterni della creazione. E veramente il relativo non è fuori del relativo, e però non è nell' assoluto, il che sarebbe contraddizione: dunque il relativo non può essere un termine interno dell' atto creativo, perché se fosse tale sarebbe Dio, giacché l' atto creativo è Dio, e Dio è l' essere assoluto che esclude da sé il relativo. Ciò posto, il concetto di un tal ente è bensí eterno e però deve essere in Dio, ma la realizzazione di questo concetto dell' ente relativo non è altramente in Dio. Vi hanno dunque in Dio dei concetti senza che vi abbia la corrispondente realizzazione de' concetti puri, e questa è la ragione per la quale l' ideale apparisce separato dal reale: egli è separato in quanto rappresenta il reale finito, in quanto è l' esemplare del mondo, e come tale è separato anche in Dio dal reale che è fuori di Dio. Ora questo esemplare del mondo è l' oggetto della sapienza umana, come diremo in appresso, e però l' idea di cui l' uomo per natura è fornito è pura idea separata dalla realità. Or dunque il complesso di questi concetti si può chiamare e fu chiamata prima d' ora la sapienza creatrice (1). Non si deve già credere che questi concetti in Dio sieno realmente distinti l' uno dall' altro; ma tutti insieme costituiscono una sola sapienza creatrice e, come dicevamo, l' esemplare del mondo. E come in Dio debba essere l' esemplare sostantifico del mondo vedesi anche da questo, che l' essere è per la sua essenza manifesto, giacché l' esser manifesto è una delle tre forme primitive in cui l' essere è. Ora, se è manifesto, è manifesto tutto e non una parte. Avendosi dunque mostrato che il mondo esiste per via di creazione, cioè per una azione ontologica anteriore a lui, e però eterna, che s' identifica coll' essere stesso, forz' è che anche quest' azione sia per se stessa, per l' essenza sua, manifesta. Ma quest' azione è quella che pone gli enti relativi componenti il mondo. Or ella non sarebbe manifesta se non fosse manifesto il suo termine, il suo prodotto; dunque anche questo, cioè il mondo, è in Dio manifesto, e questo mondo manifesto è l' essenza ideale del mondo, l' esemplare sostantifico del mondo. Il quale esemplare manifesto per se stesso non può distinguersi realmente dal Verbo, se pel Verbo intendiamo l' essere, tutto l' essere per sé manifesto, appunto perché anche l' esemplare del mondo è per sé manifesto. Ma il mondo reale, l' ectipo di tale esemplare è realmente distinto e separato da Dio. Ora il mondo si riduce a un complesso di reali intelligenti, che sono gli enti finiti completi, e di altri incompleti, relativi a quei primi. Qual' è dunque la sapienza che convenga al mondo acciocché sia ente completo, cioè intellettivo? L' ente finito completo, noi abbiamo detto, si compone di due elementi, del suo elemento ideale e del reale, del tipo e dell' ectipo, dell' essenza e della realizzazione, della verità e del vero. Infatti, se vi ha il solo reale non è ancora ente completo, mancando l' essenza dell' ente; la sintesi di queste due cose, del reale colla sua essenza, completa l' ente. Dunque la sintesi del mondo e dell' esemplare del mondo fa sí che il mondo sia un ente finito completo. Ma questa sintesi si fa nella mente ed è la mente. Convien adunque che nel mondo vi sia una mente o piú menti, dove si scorga fatta o si faccia questa sintesi. Dunque era necessario che nel mondo vi avessero delle menti acciocché egli fosse completo, e la sapienza propria di queste menti doveva avere per oggetto l' esemplare del mondo. Nulla di piú si richiedeva acciocché il creato ottenesse la sua naturale perfezione di ente. Ma l' esemplare del mondo in Dio è ancor piú che esemplare del mondo, perché è ad un tempo il Verbo divino, cioè non è il solo mondo manifesto, ma è tutto l' ente manifesto. L' ente manifesto eccede adunque quella sapienza che è consentanea alla natura delle menti finite componenti il mondo. Di qui si vede chiaramente la distinzione e la separazione fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale delle intelligenze finite. La qual dottrina conviene da noi divisarsi con piú alte considerazioni. Noi abbiamo parlato del mondo in quanto è intellettivo in generale. Questo mondo intellettivo risulta da piú intelligenze. Restringendoci noi a considerare l' uomo, egli non ha tutta la sua perfezione attuale nel primo momento in cui esiste; ma piuttosto trovasi da principio costituito come una potenza che si sviluppa gradatamente, e che sviluppandosi convenevolmente attinge la sua perfezione attuale (1). Ma poiché egli da principio è una potenza reale, quindi come non ha la perfezione attuale, cosí neppure può attualmente conoscerla, ma solo potenzialmente. Di che avviene che nel primo momento della sua esistenza non gli sia dato ad intuire l' esemplare del mondo, ma gli sia dato l' esemplare del mondo in potenza. Or questo esemplare del mondo in potenza è l' idea dell' essere indeterminato costituente, come abbiam veduto, la forma oggettiva della ragione umana. Ma l' idea dell' essere indeterminato ammette due sviluppi, l' uno naturale e l' altro soprannaturale. Il naturale è quello che abbiam detto procedere a mano a mano collo stesso sviluppo naturale dell' uomo, dimodoché in lui si va ognor piú disegnando e manifestando all' uomo il mondo. Il soprannaturale è l' opera di Dio solo, il quale fa sentire all' uomo come l' essere ideale si attui in modo da rendere Dio manifesto, manifestandosi cosí l' identificazione dell' esemplare del mondo col Verbo divino. Se dunque noi pigliamo tutti i concetti, i concetti dico immediati, cavati dalla percezione intellettiva di ogni sentimento proprio; se prendiamo dico tali concetti di tutti gli enti finiti intelligenti, che furono, sono e saranno, e tutti insieme li componiamo e ordiniamo nell' ordine, di cui il loro complesso è suscettibile; noi ci avremo in tal modo composto l' eterno disegno di Dio, l' eterno esemplare del mondo. Di che si scorge che l' eterno esemplare di Dio esprime il mondo nella sua relatività, nella quale solo esiste, e però non fa già conoscere qualche cosa di assoluto, ma di relativo, quale è unicamente l' esistenza, o l' entità degli enti creati. Di che si può e si dee dire, che la verità ontologica degli enti finiti è anch' essa una verità relativa a questi, e non assoluta, altro con ciò non significandosi se non che quell' esemplare non fa conoscere già come è l' ente assoluto, ma come l' ente apparisce relativamente agli stessi reali finiti, e aventi una relativa esistenza. Né da questo si può già dedurre, che dunque quella verità ontologica per essere relativa abbia qualche cosa di falso in se stessa. Abbiamo già veduto, che la verità ontologica, non ammette falsità ontologica a lei opposta. Oltracciò abbiamo distinta la verità ontologica dalla verità logica . Questa seconda, che procede dall' essere ideale, e consiste nell' assenso dell' animo ad una proposizione, è sempre assoluta ed incondizionata, e se non è tale non è verità, ma falsità logica. Ora la verità ontologica relativa non induce necessariamente alcuna logica falsità. Falsità logica sarebbe se noi pigliassimo la verità ontologica relativa per verità ontologica assoluta, cioè se noi asserissimo, che l' esemplare del mondo fa conoscere l' essere assoluto, siccome i panteisti fanno; ma fin a tanto che il nostro sentire si risolve nella proposizione, che « il detto esemplare del mondo fa conoscere l' ente relativo », noi sentiamo il vero, e la proposizione è di una verità logica assoluta. Ora questo appunto è quello che si avvera in Dio, il quale sa che l' esemplare del mondo esprime l' ente relativo ch' egli crea con quell' esemplare. Vero assoluto non è che l' ente assoluto, perché risponde alla verità dell' ente, è l' identità del reale coll' ideale. All' incontro oggettivo è ogni vero, anche il relativo, benché il vero ossia l' ente relativo non sia vero ente per se stesso, ma perché nella mente sintesizza col vero ente, cioè coll' ideale. In questa maniera i reali finiti, divenuti oggetti, si posson dire veri oggettivi, ma ad un tempo relativi, veri oggettivi per partecipazione della verità. Riassumiamo ora le diverse maniere di verità ontologica, di cui abbiamo qua e colà fatto menzione. I primi due generi adunque di verità ontologica sono quelli dell' assoluta e della relativa . Ma la verità ontologica relativa, di cui l' uomo va partecipe, ammette poi varie specie. E le due prime sono quella degli esseri reali, e quella degli esseri mentali. Gli esseri reali si suddividono ancora in due classi, gli uni hanno un solo grado di relatività, gli altri ne hanno due, cioè sono relativi de' relativi. I primi hanno un' esistenza soggettiva, sono soggetti, sono i principŒ senzienti7intellettivi individuati; i secondi hanno un' esistenza soltanto oggettiva, sono i termini de' primi; tali sono quelli, a ragion d' esempio, che si percepiscono come esseri bruti, i corpi, e la materia. Atteso dunque questi due gradi di relatività che hanno gli esseri finiti, si dee dire che il pensar nostro, la nostra immaginazione intellettiva ha piú di verità ontologica quando pensa come ente un soggetto, un principio individuato, che quando pensa come ente un corpo bruto, a cui non si può attribuire alcuna vera e sua propria soggettività, ed ancor meno poi quando pensa come ente un astratto, di che parleremo in appresso. E qui giova distinguere un' astrazione naturale , diversa da quella che l' uomo suol fare ad arbitrio, e alla qual sola si è riserbato sin qui il nome di astrazione, benché le due operazioni non differiscano sostanzialmente, almeno in quanto al risultato. La differenza fra questa specie d' astrazione naturale che fa la mente, e quell' astrazione che chiamammo arbitraria, e che la mente s' accorge piú facilmente di fare appunto perché suol farla scientemente, si è questa. Ogni astrazione si fa sopra un pensiero complesso che precede «( Psicologia , vol. II, n. 1313 sgg.) ». Ma nell' astrazione comune e arbitraria il pensare complesso suol essere quello di un ente attualmente concepito, o almeno per addietro, dalla mente; laddove .asterisco . nell' .asterisco . astrazione naturale, che noi facciamo in percependo i sensibili esterni, il pensare complesso è soltanto quello dell' ente virtuale, perocché noi applichiamo quest' ente virtuale ai reali sensibili senza curarci punto di esaminare quale elemento manchi a tali reali sensibili acciocché sieno enti completi, bastandoci di aggiunger loro questo elemento virtualmente, cioè lasciando questo elemento immerso nella virtualità dell' ente ideale che loro aggiungiamo. E qui, temendo piú l' ambiguità del discorso, che non l' accusa, che ci possa esser data, di prolissità, stimiamo opportuno di chiamare l' attenzione del lettore a distinguere viemmeglio la limitazione ontologica dalla limitazione virtuale . La limitazione ontologica, come abbiamo detto tante volte, è quella a cui soggiace il reale, laddove la limitazione virtuale è quella a cui soggiace l' ideale. Il reale si riduce al sentimento. Quindi la limitazione ontologica non è che la limitazione del sentimento sostanziale. La limitazione virtuale all' incontro nasce dall' essere nella sua forma ideale. L' essere ideale abbraccia sempre ogni cosa, manifesta ogni cosa, ma egli non manifesta all' uomo ogni cosa attualmente , ma virtualmente . Quindi la limitazione virtuale dell' essere ideale non moltiplica lui stesso in piú enti, perocché egli rimane sempre il medesimo essere manifestante ogni cosa, benché non manifesti all' uomo ogni cosa nello stesso grado e modo: onde ella non si dice ontologica, perocché ella non moltiplica l' ente; laddove la limitazione del sentimento sostanziale si dice ontologica, perché moltiplica gli enti, giacché ogni sentimento limitato è un ente diverso ed esclusivo di un altro sentimento. E che il principio della moltiplicazione degli enti non affetti lo stesso essere ideale si vede da questo, che un tal principio è la realità sussistente . Ora questa non cade mai nel puro ideale ossia non diviene mai ideale, onde tutto ciò che è ideale è un comune, o certo una specie, l' ente relativo possibile, non la sua sussistenza. Che se non fosse cosí, si confonderebbero le due forme dell' essere, l' ideale, e la reale, le quali sono inconfusibili ed incomunicabili. Tuttavia si dirà, che quantunque l' ideale non si confonda mai col reale, pure i concetti pieni sono ideali e sono molti, e se non fossero distinti, il creatore non avrebbe potuto creare su di essi gli enti finiti. Della quale istanza la risposta può derivarsi dalla dottrina esposta poco innanzi circa l' astrazione. Non si potrebbe pensare un astratto, se virtualmente non si pensasse l' ente, di cui quell' astratto è, comecchessia, un elemento. Applicando questa dottrina a Dio, noi diciamo che tutti i reali finiti possibili si contengono virtualmente nell' essere assoluto in quanto è ideale, ossia manifesto. E il contenersi virtualmente non è imperfezione di lui, ma degli enti finiti che non hanno da se stessi alcuna realità. Ora tutti i finiti, fino a tanto che sono virtualmente contenuti nell' ideale, non formano che un ideale solo e semplicissimo, perché sono privi di tutte le loro distinzioni. Quando adunque Iddio ne trae alcuni dalla loro virtualità all' attuale esistenza per l' atto creativo, allora essi escono distinti mediante la loro realizzazione. Questo trarli dalla virtualità all' attuale esistenza, secondo la frase di San Paolo, è un « ex invisibilibus visibilia fieri (1) ». Quest' attualità de' reali contingenti e relativi è fuori di Dio, ma essi all' ideale divino in quanto è loro esemplare sostantifico sono congiunti, per l' atto divino. Cosí i concetti sono distinti, distinti per una relazione estrinseca, la quale non moltiplica punto né l' atto del pensare divino, né l' ideale che acquista tali relazioni come subietto dialettico, quando il vero subietto di esse sono le intelligenze finite, che nell' ideale altro non possono conoscere che se stesse. Possiamo ora esaminare qual verità ontologica possieda la realità pura, e il principio puro, che è quello che ci rimane, astrazion fatta dalla sua individuazione. Che cosa è dunque la realità pura? Facilmente si risponde, che il concetto di realità altro non presenta se non una delle forme originarie dell' essere. Quindi questo concetto non ci presenta attualmente un ente, ma soltanto essa forma originaria dell' ente, e l' ente rimane nel pensiero virtuale. La realità pura adunque si pensa con un pensiero che astrae dall' ente. Ma qui si deve osservare, che l' astrazione porge al pensiero umano un doppio risultato; perocché ella o diminuisce o accresce l' oggetto del pensiero: sotto un aspetto lo diminuisce, e sotto un altro lo accresce ed arricchisce. Diminuisce l' oggetto del pensiero allorquando l' astrazione lascia da parte ossia sottrae all' attenzione attuale qualche cosa che è positivo nell' ente; lo accresce ed arricchisce, quando ella lascia da parte qualche cosa che è negativo nell' ente, come sarebbe la limitazione e la relatività. Il che spiega l' apparente contraddizione che occorre nelle dispute filosofiche, nelle quali talora si parla di un astratto come di cosa nobilissima, altissima, ricchissima; talora se ne parla come di cosa assai povera e gretta. A ragion d' esempio, si dice che l' essere è ciò che v' ha di piú nobile e di piú perfetto; ed altre volte si dice che l' essere è il minimo grado di perfezione che possano avere le cose. E` vero l' uno e l' altro. L' essere per la sua potenzialità infinita è il piú grande e nobile oggetto del pensiero. Ma se si considera la sua attualità, egli non ne ha altra che quella della realità (perché parliamo sempre dell' essere reale), e quindi egli fa conoscere una attualità poverissima, la piú povera di tutte, giacché alla realità che fa conoscere non si può aggiungere cosa alcuna, ché allora la si attuerebbe maggiormente, e quindi non si penserebbe piú l' essere reale puro, contro all' ipotesi. E` altresí da considerare, che quanto piú la mente fa rientrare l' essere nella sua potenzialità, togliendogli d' attorno coll' astrazione le attuazioni limitate; tanto piú egli rimane puro essere (1). Ora l' essere assoluto è puro essere, e quindi questo che è l' essere attualissimo , e quello che è l' essere potenzialissimo , convengono in ciò, che sono entrambi puro essere. Di qui è che l' essere si predica di Dio e delle creature in senso univoco. E` vero che Iddio è l' essere assoluto, e che i reali finiti sono puramente esseri relativi; ma il concetto puro dell' essere che chiamammo potenzialissimo prescinde dalla stessa relatività, e in somma prescinde da tutte le limitazioni, e quindi da tutte le qualità limitate degli enti finiti; poiché solo in questo modo rimane innanzi al pensiero il puro essere. Che se noi estendiamo questo discorso e procuriamo di determinare tutto ciò che può appartenere all' essere puro, e quindi tutto ciò che può predicarsi univocamente tanto di Dio quanto delle creature, noi rinverremo che i concetti astrattissimi dotati di questa prerogativa sono quattro né piú né meno, cioè il concetto dell' essere e i concetti delle sue tre forme, perocché in ciascuna delle tre forme vi ha l' essere puro e scevro di ogni altra differenza. Quindi anche la realità pura, cioè tale a cui la mente non aggiunge altro che realità, come altresí la idealità pura, e la moralità pura, sono astratti coi quali pensiamo tal cosa che conviene ugualmente a Dio e alle creature; perocché tali concetti non abbracciano punto il modo onde conviene a Dio ed alle creature, il quale è diverso, dacché questo diverso modo è messo da parte per opera dell' astrazione. E quindi noi siamo in istato di dichiarare che cosa si voglia dire quando si dice che al di là del sentito si riconosce dovervi avere una realità pura. Con questo non si decide se questa cosa al di là del sentito sia l' essere infinito o un essere finito, ma solo si dice che qualche cosa vi ha di reale, qualche cosa che a noi non è nota se non quanto all' elemento astrattissimo della realità. Siamo ancora in istato d' illustrare il concetto di principio puro. Noi abbiam distinto il concetto di principio puro dal concetto di principio individuato. Il principio individuato è l' ente attuale, sia egli finito o infinito; ma il principio puro è concetto astrattissimo, pel quale il pensiero si limita a considerare solamente un principio. Questo principio non è che l' essere reale potenzialissimo. Soltanto che egli esprime altresí la condizione di principio. Ma questa condizione è comune a tutti gli enti completi, che soli si possono dire semplicemente enti, perocché il concetto di principio racchiude le tre idee elementari dell' ente, quella di attività, di unità e di esser primo, giacché il principio è uno, primo, attivo. Quindi ciò che viene espresso colla parola principio appartiene all' essere reale, e non al fenomeno; e fino che si rimane cosí puro da ogni individuazione non rappresenta nessuna creatura, ma cosa anteriore alle creature, un elemento mentale dell' essere assoluto; al quale poi s' appoggia come a sua base la relatività delle creature. Fin qui abbiamo favellato della verità ontologica di cui partecipano gli enti reali finiti. Di poi abbiam cercato qual verità ontologica spetti a quelli ultimi astratti, coi quali non pensiamo attualmente se non un elemento proprio dell' ente per essenza, come sarebbe l' ente potenzialissimo, il principio puro, la realità, o la moralità pura ecc.. Ancora abbiam detto che l' ideale illimitato è la verità ontologica stessa. Abbiam detto del pari, che quando l' ente ideale viene limitato dalla sua relazione con un reale finito, con che egli prende natura di concetto specifico o generico, quest' ideale divenuto esemplare de' reali finiti è la verità ontologica relativa di questi. L' essere mentale fu da noi distinto dall' ideale. All' essere mentale appartiene l' assurdo, ed è di questo che vogliam qui domandare, s' egli abbia alcuna verità ontologica. Facile certamente è il rispondere di no, perocché egli non è ente. Ma nasce il dubbio: se non è ente, come dunque si concepisce? Perocché se egli non si concepisse in alcun modo, non si potrebbe dire tampoco ch' egli sia un assurdo: merita dunque la questione di essere accennata. A risolverla, noi neghiamo che veramente si concepisca l' assurdo, dimodoché sarebbe un' improprietà il dire che si concepisca. L' assurdo non è che un affermare e un negare lo stesso. Ora è impossibile all' uomo affermare e negare lo stesso contemporaneamente, perocché la negazione distruggendo l' affermazione, l' atto che unisce queste due cose sarebbe nullo, cioè farebbe un atto che si farebbe e non si farebbe nello stesso tempo, il che è impossibile. Dire che non si può fare quest' atto affermante negante è lo stesso che dichiarare l' assurdo una cosa inconcepibile, un non oggetto del pensiero, e però un non pensiero. Quando si dice che l' assurdo è inconcepibile allora egli sembra che già lo si concepisca, perocché sembra che non si possa negare ciò che non si concepisce. Ma questa è un' illusione come è un' illusione il credere che si concepisca il nulla, perché si dice che il nulla è il contrario dell' ente. La mente dà ad imprestito al nulla un' entità per potergliela poi ritorre e negare. Del pari la mente dà ad imprestito un' entità fittizia all' assurdo per poter dichiarare poi che egli non ha questa entità. Questa negazione che fa la mente è puramente una verità logica. All' opposto colui che affermasse concepibile l' assurdo pronuncierebbe una falsità logica. Ora l' uomo può certamente pronunziare una falsità logica, può dire quello che non è; ma non ne viene da questo, che perciò quanto egli dice abbia qualche verità ontologica. La falsità logica è relativa all' arbitrio dell' uomo, alla facoltà dell' errore: essendo questa volontaria, l' uomo può voler asserire che sia un ente quando non è; ma quest' atto di volontaria affermazione è impotente a fare che sia l' ente affermato che non è, e quindi non produce alcun vero ontologico. Quello adunque che l' uomo pensa intorno all' assurdo appartiene interamente al pensare soggettivo e non all' oggettivo, appartiene alla facoltà di affermare e non a quella d' intuire, e l' affermazione priva di ogni intuizione non ha e non produce alcun vero oggetto, è puramente un atto del soggetto che riman privo di verità. Fra le nozioni ontologiche piú difficili a dichiarare vi ha quella della potenza, di cui pure e la filosofia e il comune linguaggio fa un uso cotanto frequente. Giova adunque che vi ci fermiamo alquanto, poiché la solidità del sapere dipende soprattutto dall' avere ben penetrata la natura di tali nozioni comunissime. Continuandoci adunque a quello che abbiam detto nella Psicologia (1), prima di tutto osserviamo che la potenza suppone un soggetto a cui ella appartenga. Il soggetto è sempre un principio che almeno deve essere sensitivo, e che non è compiuto se non sia anco intellettivo. Questo soggetto o è individuato, ente completo, o non è individuato, ente incompleto, principio senza termine. Ma la mente umana pensa anco de' subietti dialettici che non sono soggetti, ma dalla mente stessa sono assunti per necessità di conoscere e di ragionare. Quindi si trae una prima classificazione delle potenze che appartengono a veri soggetti, cioè a principŒ, sieno individuati, ovvero solamente astratti; e potenze che appartengono a subietti dialettici. I soggetti o principŒ individuati sono gli enti completi: a questi soli convengono delle potenze reali, perocché essi sono reali. Se un ente fosse tale che non potesse subire alcun cangiamento, egli non avrebbe potenza, ma solamente atto. Le potenze adunque si riferiscono a cangiamenti possibili: secondo che sono questi cangiamenti, sono anche le potenze; queste si ripartono in classi come quelli. Ora i cangiamenti di cui è suscettivo un soggetto finito, dipendono dalle variazioni accidentali de' suoi termini, e però le potenze di un soggetto sono tante, quanti i suoi termini, e le specie di cangiamenti che posson subire. Ma il cangiamento che nasce nel soggetto in conseguenza delle modificazioni del suo termine, dà luogo solamente a potenze passive. Ora lo stesso soggetto, che è il principio, quando è individuato, ha un' attività propria che tiene proporzione alla sua passività. Quindi le facoltà attive che sorgono nel seno delle passive, fra le quali di tutte principali è la libera volontà. Queste potenze attive e passive si riferiscono tutte ad atti accidentali del soggetto: questi atti non cangiano il soggetto, egli rimane in tutti identico. Tali sono le potenze del principio individuato. Non esistono realmente che principŒ individuati. Ma poiché il principio individuato è molteplice, ha un ordine intrinseco, almeno ha una dualità, risultando da principio e da termine. Quindi la mente può collocare la sua attenzione nel solo principio o nel solo termine, considerando ciascuno di questi elementi come un ente, il che ella fa, lasciando l' altro immerso nella virtualità del pensare. Tali sono gli enti incompleti. Quando la mente concepisce un principio separato dal suo termine, allora ella lo pensa in potenza all' individuazione, cioè a ricevere il termine. Ma se la mente considera il principio senza il termine, e prescinde altresí da ogni relazione di lui col termine, in tal caso ciò che le rimane non è altro che il concetto di un qualche cosa, che non è piú neppure principio, perocché il principio involge sempre una relazione al termine. Quindi la mente può considerare il principio diviso dal termine in tre modi: 1) O per una astrazione che non abbandona intieramente l' individuo, come se noi pigliassimo a considerare il principio che è proprio d' un animale o dell' uomo. 2) O per una astrazione che abbandona l' individuo specifico e generico, onde ciò che pensa è un principio puro, e in tal caso è un elemento dell' ente reale. Il principio cosí concepito è in potenza a ricevere qualsivoglia termine. 3) O con una astrazione che abbandona anche ogni relazione con qualsivoglia termine. Qui vi ha la potenzialità di esser principio. Se ora noi vogliamo rilevare il valore di questi tre oggetti della mente, troveremo: 1) Che il concetto di principio specifico o generico porge quello di una potenzialità agli individui d' una specie o d' un genere. Questa potenzialità ha un' esistenza puramente relativa ai termini che individuano il principio, e però non ha nessuna assoluta esistenza. Quindi la mente cadrebbe in errore se giudicasse che un tal principio esistesse, o potesse esistere diviso dai suoi termini. 2) Che il concetto di principio puro, essendo un elemento dell' essere reale, si può riferire tanto all' essere assoluto, quanto all' essere relativo. Che in quanto all' essere assoluto egli è lo stesso essere assoluto, e perciò è realissimo. In quanto poi all' essere relativo altro non è che la stessa potenza creativa di Dio: è un principio anteriore ad ogni genere e specie; non entra in composizione coi reali finiti, perché è ad essi ontologicamente anteriore. 3) Che il concetto di ciò che rimane nella mente quando togliam via dalla nozione di principio ogni relazione ai termini, non può darci altro che l' essere puro che virtualmente si conteneva nel concetto di principio. Qui la potenzialità appartiene all' imperfezione del nostro pensare, e oggimai trattasi di un subietto dialettico, a cui una tal potenzialità si oppone.
Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.
Non avvenne nulla; Mottel e Piotr, con il calcio dei fucili, abbatterono un tratto di recinzione praticando una breccia. I dieci prigionieri esitavano a uscire. _ Venite fuori, _ disse Gedale. _ Li abbiamo uccisi tutti, salvo quello lì. _ Chi siete? _ chiese uno di loro, alto e curvo. _ Partigiani ebrei, _ rispose Gedale, Accennò col capo alla catasta, e aggiunse: _ Siamo arrivati troppo tardi. E voi chi siete? _ Tu lo vedi, _ rispose il prigioniero alto. _ Eravamo centoventi, lavoravamo per la Luftwaffe. Ci hanno messi da parte, noi dieci, e hanno ammazzato tutti gli altri. Ci hanno messi da parte per fare questo lavoro. Mi chiamo Goldner, ero un ingegnere. Vengo da Berlino _. Gli altri prigionieri si erano avvicinati, ma stavano alle spalle di Goldner e non parlavano. _ Che cosa mi sapete dire di quel tipo laggiù? _ chiese Gedale, indicando il tedesco con le mani alzate. _ Uccidetelo subito. Non importa come. Non lasciatelo parlare. Era il capo; era lui che dava gli ordini, e sparava anche lui, dalla torretta. Gli piaceva. Uccidetelo subito. _ Vuoi ucciderlo tu? _ chiese Gedale. _ No, _ rispose Goldner. Gedale sembrava indeciso. Poi si accostò al tedesco, che stava sempre con le mani alzate, sotto il tiro di Line e Mottel, e gli tastò rapidamente le tasche e gli abiti. _ Puoi abbassare le mani. Dammi il piastrino. Il tedesco armeggiò con la catenella, ma non riuscì ad aprire il fermaglio; venne Piotr, glielo strappò dal collo con uno strattone e lo consegnò a Gedale, che lo mise in tasca. Gedale disse: _ Siamo ebrei. Non so perché te lo dico, non cambia molto, ma vogliamo che tu lo sappia. Avevo un amico che scriveva canzoni. Voi lo avete preso, e gli avete lasciato mezz' ora di tempo perché scrivesse l' ultima. Tu no, vero? Voi non scrivete canzoni. Il tedesco fece cenno di no col capo. _ È la prima volta che parlo con uno di voi, _ disse ancora Gedale. _ Se ti lasciassimo libero che cosa faresti? Il tedesco si raddrizzò sulla vita: _ Basta con queste storie. Fate presto e pulito _. Gedale arretrò di un passo ed alzò l' arma, poi la riabbassò e disse a Mottel: _ L' uniforme ci può servire. Vedi tu _. Mottel spinse il tedesco dentro la villa e provvide, presto e pulito. _ Andiamocene, _ disse Gedale, ma Line chiese: _ Non firmiamo? _ Tutti la guardarono perplessi; la ragazza insistette: _ Dobbiamo dire che siamo stati noi: altrimenti non ha senso. Piotr era contrario: _ Sarebbe una sciocchezza e un rischio inutile _. Gedale e Mendel erano incerti. _ Noi chi? _ chiese Mendel: _ Noi sei? O tutta la banda? O tutti quelli che ... _, ma Mottel troncò gli indugi. Corse alla catasta, raccolse un pezzo di carbone, e scrisse sull' intonaco bianco della villa cinque grosse lettere ebraiche: VNTNV. _ Che cosa hai scritto? _ chiese Piotr. _ "Vnatnu", "Ed essi restituiranno". Lo vedi, si legge da destra a sinistra e da sinistra a destra: vuol dire che tutti possono dare e tutti possono restituire. _ Capiranno? _ chiese ancora Piotr. _ Capiranno quanto basta, _ rispose Mottel. _ Venite con noi, _ disse Gedale a Goldner: ma la sua voce mancava di convinzione. _ Ognuno di noi farà la sua scelta, _ disse Goldner, ma io non verrò. Non siamo come voi, non stiamo bene con gli altri uomini. I dieci confabularono per un momento, poi dichiararono a Gedale che erano del parere di Goldner, tutti tranne uno. Avrebbero aspettato i russi nascosti nel bosco o nelle macerie dei villaggi distrutti. Quello che si era dichiarato disposto a seguire i gedalisti era un giovane di Budapest. Si avviò con i cinque, che, benché appesantiti dalle nuove armi, marciavano spediti, ma dopo mezz' ora di cammino crollò a sedere su un sasso. Disse che preferiva ritornare indietro con gli altri nove. Mendel non sognava da molto tempo: non ricordava più quando gli fosse accaduto per l' ultima volta, forse quando la guerra non era ancora scoppiata. Quella notte, forse perché era stanco della tensione e della marcia, fece un sogno strano. Era a Strelka, nel suo piccolo laboratorio di orologiaio, quello che lui stesso si era montato in uno sgabuzzino di casa sua: era stretto, ma nel sogno era ancora più stretto, Mendel non poteva neppure allargare i gomiti per lavorare. Tuttavia stava lavorando, aveva davanti a sé dozzine di orologi, tutti fermi e guasti, e lui stava riparandone uno, con il monocolo incastrato nell' orbita e in mano un minuscolo cacciavite. Erano venuti due uomini a cercarlo, e gli avevano ordinato di seguirli; Rivke non era d' accordo che lui andasse, era incollerita e aveva paura, ma lui li aveva seguiti ugualmente. Lo avevano condotto giù per una scala, o forse era il pozzo di una miniera, e poi per una lunga galleria: il soffitto era dipinto di nero e alle pareti erano appesi molti orologi. Questi non erano fermi: si sentiva il loro ticchettio, ma ognuno di loro segnava un' ora diversa, ed alcuni, addirittura, camminavano all' indietro; di questo, Mendel si sentiva vagamente colpevole. Gli veniva incontro, lungo la galleria, un uomo vestito in borghese, con la cravatta e un' aria sprezzante; gli chiedeva chi era, e Mendel non sapeva rispondere: non ricordava più il suo nome, né dove era nato, nulla. Lo svegliò Dov, e svegliò anche Line che gli dormiva al fianco. Come avviene dopo i sonni profondi, Mendel stentò a riconoscere dove si trovava; poi ricordò, la sera prima la banda si era rifugiata nei sotterranei di una vetreria abbandonata: il soffitto era nero come quello del suo sogno. Bella e Sissl avevano fatto cuocere una zuppa e la stavano distribuendo. Gedale era già sveglio, e stava raccontando a Dov come era andata l' impresa: _ ... insomma, i più bravi sono stati Piotr e Mottel. E Line, sì, certo. L' uniforme eccola qui, con i gradi e tutto: perfino stirata. _ Credi che ci servirà? _ chiese Dov. _ No, è un gioco troppo pericoloso. La venderemo: ci penserà Jòzek. Jòzek stava scucchiaiando la sua zuppa accanto a Pavel, a Piotr e a Ròkhele Bianca. _ ... ma era sabato, _ disse Pavel: _ Dopo che il sole è tramontato il venerdì sera, è già sabato: e ammazzare di sabato non è peccato? Ròkhele era sulle spine. _ Ammazzare è peccato sempre. _ Anche ammazzare una SS? _ chiese Pavel provocatorio. _ Anche. O forse no: una SS è come un Filisteo, e Sansone li ammazzava. È stato un eroe perché ammazzava i Filistei. _ Ma forse non li ammazzava di sabato, _ disse Jòzek. _ Insomma, io non lo so. Perché mi tormentate? Mio marito avrebbe saputo rispondervi. Era rabbino, e voi siete tutti quanti ignoranti e miscredenti. _ Che cosa ne è stato di tuo marito? _ chiese Piotr. _ Lo hanno ucciso. È stato il primo che hanno ucciso nel nostro paese. Lo hanno costretto a sputare sulla Torà e poi lo hanno ucciso. _ E non è forse stato uno delle SS ad ucciderlo? _ Certo. Aveva la testa di morto sul berretto. _ Ecco, vedi? _ concluse Piotr: _ Se Mottel lo avesse ucciso prima, tuo marito sarebbe ancora vivo _. Ròkhele non rispose e si allontanò; Piotr guardò Pavel con aria interrogativa, e Pavel alzò un poco le braccia e le lasciò ricadere. _ E di lui, nessuno parla, _ disse Mendel a Line. _ Di chi? _ Di Leonid. Nessuno pensa più a lui. Neppure Gedale: eppure è lui che lo ha voluto mandare. Guardali: è come se ieri non fosse successo niente. La distribuzione della zuppa era finita; in un angolo della cantina Isidor, munito delle forbicine di Bella, stava accorciando i capelli e la barba di chi lo desiderava. I clienti aspettavano in fila, seduti su pile di mattoni. L' ultimo della fila era Gedale; per ingannare l' attesa, aveva tirato fuori il violino, e ci strimpellava sopra una canzone, con mano leggera perché non si sentisse di fuori. Era una canzone comica che tutti conoscevano, quella del rabbino miracoloso che fa correre un cieco, vedere un sordo e sentire uno zoppo, e che nell' ultima strofa entra vestito nell' acqua per uscirne miracolosamente bagnato. Isidor, pur continuando il suo lavoro, rideva e accompagnava la musica canticchiando; cantava sommessa anche Ròkhele Nera, che aveva pregato Isidor di tagliarle i capelli corti come quelli di Line, ed in quel momento si trovava sotto i ferri. _ Gedale ha molte facce, _ disse Line. _ Per questo è difficile capirlo: perché non c' è un solo Gedale. Si butta tutto alle spalle. Il Gedale di oggi si butta alle spalle il Gedale di ieri. _ Si è buttato alle spalle anche Leonid, _ disse Mendel. _ Ma perché ha voluto a tutti i costi che andasse lui all' assalto, invece di Arié? È da ieri che me lo sto domandando. _ Forse lo ha fatto con buona intenzione. Voleva dargli una occasione; pensava che combattere gli avrebbe fatto bene, lo avrebbe aiutato a ritrovare se stesso. O voleva metterlo alla prova. _ Io penso un' altra cosa, _ disse Mendel, _ penso che Gedale non sapesse di volerlo, ma volesse un' altra cosa. Che in fondo alla sua coscienza volesse liberarsi di lui. Prima che partissimo, me lo ha quasi detto. _ Che cosa ti ha detto? _ Che per le imprese disperate ci vogliono uomini disperati. Line tacque rosicchiandosi le unghie; poi chiese: _ Gedale sapeva perché Leonid era disperato? Anche Mendel tacque a lungo, e poi disse: _ Non so se lo sapesse. Probabilmente sì, lo avrà indovinato, Gedale viene a sapere le cose fiutando l' aria, non ha bisogno di prove né di fare domande _. Era seduto su un blocco di calcinacci, e col calcagno tracciava segni sul pavimento di terra battuta. Poi aggiunse: _ Non è stato il tedesco a uccidere Leonid, e neppure Gedale. _ Chi allora? _ Noi due. Line disse: _ Andiamo a cantare anche noi. Attorno a Gedale si erano radunati altri tre o quattro, ed al suono del violino cantavano altre canzoni allegre, di nozze e di osteria. Piotr cercava di seguire il ritmo e di imitare le dure aspirazioni del jiddisch, e rideva come un bambino. _ Non ho voglia di cantare, _ disse Mendel. _ Non ho voglia di niente, non so più chi è Gedale, non so più che cosa voglio né dove sono, e forse non so più neppure chi sono io. Stanotte ho sognato che qualcuno me lo chiedeva, e io non sapevo rispondere. _ Non bisogna dare importanza ai sogni, _ disse Line asciutta. In quel momento, lungo il cono di macerie che dall' esterno scendeva nell' interrato corse giù Izu, il pescatore del Gorin' , che stava di sentinella: _ Siete impazziti? O vi siete ubriacati? Da sopra si sente tutto: volete proprio chiamarvi addosso la polizia? Gedale si scusò come uno scolaro colto in fallo, e ripose il violino. _ Venite tutti qui, _ disse. _ Dobbiamo decidere due o tre cose. A giugno vi avevo detto che non siamo più orfani né cani sciolti. Ve lo confermo; ma stiamo cambiando padrone, o se preferite stiamo cambiando padre. Facciamo parte di una famiglia sterminata, in armi contro tedeschi dalla Norvegia alla Grecia. In questa famiglia c' è qualche discordia: si discute molto su quello che si farà quando Hitler sarà stato impiccato, dove correranno i confini, di chi sarà la terra e di chi saranno le fabbriche. Nella famiglia c' è Josif Vissarionovic, sì, il cugino di Arié. Forse è il primogenito, ma non va d' accordo con Churchill sul colore da scegliere per colorare la Polonia; Stalin vorrebbe il rosso, Churchill ha in mente un altro colore, e i polacchi un altro ancora; anzi, cinque o sei colori diversi fra loro. I polacchi non sono tutti come quei pupazzi delle NSZ; sono bravi partigiani che lottano contro i tedeschi, ma diffidano dei russi, e diffidano anche di noi. _ Noi siano pochi e deboli. I russi non si interessano più molto a quello che facciamo, da quando abbiamo passato il confine. Ci lasciano andare per la nostra strada; ma è proprio di questa strada che bisogna parlare. _ Io non sono cugino di Stalin, _ disse Arié piccato. Siamo solo compaesani. E la strada per me è una sola, sparare ai tedeschi finché ce n' è uno, e andare in Terra d' Israele a piantare alberi. _ Su questo punto credo che siamo tutti d' accordo, disse Gedale. _ Tu no, Dov? Bene, scusami, ne parleremo dopo; adesso tenevo a dirvi che abbiamo un sostegno, o almeno una bussola, una freccia che ci indica la via. In questi boschi non siamo soli. Ci sono degli uomini che tutti rispettano: sono quelli che hanno combattuto nei ghetti come noi, a Varsavia, a Vilna, nel Nono Forte di Kovno, e quelli che hanno avuto la forza di ribellarsi ai nazi a Treblinka e a Sobibòr. Non sono più isolati: sono uniti nello ZOB, nella Organizzazione Ebraica di Combattimento, la prima che abbia il coraggio di chiamarsi così in faccia al mondo, dopo che Tito ha distrutto il Tempio. Sono rispettati, ma né ricchi né molti; e che siano rispettati, non vuol dire che siano forti: non hanno né fortezze né aerei né cannoni. Hanno poche armi e pochi quattrini, ma con il poco di cui dispongono ci hanno già aiutati e ancora ci aiuteranno. Conserveremo la nostra indipendenza, perché ce la siamo meritata, ma terremo conto delle indicazioni che ci daranno. La più importante è questa: la nostra strada passa per l' Italia. Quando il fronte ci avrà sorpassati, se saremo ancora vivi, e se saremo ancora una banda, cercheremo di andare in Italia, perché l' Italia è come un trampolino. Ma non è detto che avremo la vita facile. _ Quando Hitler sarà morto, tutte le vie saranno facili, _ disse Jòzek. _ Saranno più facili di adesso, ma non così facili. Gli inglesi ci intralceranno più che potranno, perché non vogliono inimicarsi gli arabi in Palestina; invece i russi ci aiuteranno, perché in Palestina ci sono gli inglesi, e Stalin cerca tutti i modi di indebolirli perché ha invidia per il loro Impero. Dall' Italia, già adesso, salpano navi clandestine per la Terra d' Israele; qualcuna passa, altre non passano, e chi le ferma non sono i tedeschi ma gli inglesi. _ E se qualcuno cercherà di fermare noi? _ chiese Line. _ È questo il punto, _ disse Gedale, _ nessuno può dire quando e come finirà la guerra, ma potrà darsi che le armi ci serviranno ancora. Potrà darsi che questa banda, e le altre bande simili alla nostra, debbano continuare a fare la guerra quando tutto il mondo sarà in pace. Per questo Dio ci ha distinti fra tutti i popoli, come dicono i nostri rabbini. Ecco quello che vi dovevo dire. Avevi chiesto la parola, Dov? Io ho finito; parla. Dov fu breve: _ Passare il fronte in piena guerra è impossibile, specie per un uomo solo, ma se fosse possibile io lo avrei già fatto. Scusatemi, amici, io ho quarantasei anni. Resterò con voi finché vi potrò essere utile, ma quando i russi ci raggiungeranno andrò con loro. Sono nato in Siberia e ritornerò in Siberia; laggiù la guerra non è passata, e la mia casa sarà ancora in piedi. Forse avrò ancora forze per lavorare, ma non mi sento più di combattere. E i siberiani non ti dicono "ebreo" e non ti obbligano a gridare "Viva Stalin". _ Farai come vuoi, Dov, _ disse Gedale; _ Hitler è ancora vivo, è troppo presto per prendere certe decisioni. E tu ci sei ancora utile. Che cosa vuoi, Piotr? Piotr, a cui Gedale aveva affidato l' azione di kommando contro il Lager, e che l' aveva condotta con intelligenza e coraggio, si alzò in piedi come uno scolaro interrogato; tutti risero, lui si risedette e disse: _ Volevo solo sapere se in questa Terra d' Israele dove voi volete andare prenderanno anche me. _ Ti prenderanno sicuro, _ disse Mottel, _ ti farò io una raccomandazione, e non avrai bisogno né di cambiarti il nome né di farti circoncidere. Gedale scherzava, quella sera nel mulino. Si udì il vocione di Pavel: _ Da' retta a me, russo: il nome non ha importanza, ma fatti circoncidere. Approfitta dell' occasione. Non è tanto questione del Patto con Dio: è piuttosto come per i meli. Se si potano al momento giusto, vengono su belli e diritti e dànno più mele _. Ròkhele Nera fece una lunga risata nervosa; Bella si alzò in piedi tutta rossa in viso e dichiarò che non aveva fatto tanti chilometri e corso tanti rischi per sentire discorsi come quelli. Piotr si guardava intorno, intimidito e confuso. Parlò Line, seria come sempre: _ Certo che ti prenderanno, anche senza la raccomandazione di Mottel. Ma dimmi: perché ci vuoi venire? _ Eh, _ cominciò Piotr, sempre più confuso, _ i motivi sono tanti .... _ Levò la mano con il mignolo alzato, come fanno i russi quando cominciano a contare. _ Prima di tutto .... _ Prima di tutto? _ lo incoraggiò Dov. _ Prima di tutto io sono un credente, _ disse Piotr con il sollievo di chi ha trovato un argomento. _ "Got, scenk mir an òysred!" _ citò Mottel in jiddisch. Tutti scoppiarono a ridere, e Piotr si guardò intorno impermalito. _ Che cosa hai detto? _ chiese a Mottel. _ È un nostro modo di dire. Significa:" Signore Iddio, mandami una buona scusa". Non vorrai farci credere che vuoi stare con noi perché credi in Cristo. Sei un partigiano e un comunista, e in Cristo non hai l' aria di crederci tanto; e poi, in Cristo non ci crediamo noi; e neppure tutti crediamo in Dio. Piotr il credente bestemmiò fervidamente in russo, e proseguì: _ Voi siete bravi a complicare le cose. Bene, io non ve lo so spiegare, ma è proprio così. Voglio stare con voi perché credo in Cristo, e andate tutti a farvi impiccare con le vostre distinzioni _. Si alzò con aria offesa, si incamminò con passo deciso verso l' uscita, come se volesse andarsene, ma poi tornò indietro: _ ... e ho altri dieci motivi di restare in questa banda di stupidi. Perché voglio vedere il mondo. Perché ho litigato con Ulybin. Perché sono un disertore, e se mi riprendono finisco male. Perché ho fottuto le vostre madri puttane, e perché .... _ A questo punto si vide Dov correre verso Piotr come se lo volesse aggredire; invece lo abbracciò, e i due si scambiarono buoni pugni sulla schiena.
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Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante. Non era che l'avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli. Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.
Il tenente e Koninson ne approfittarono per scendere sul banco e abbatterono una mezza dozzina di oche e alcune procellarie. Videro anche, a non molta distanza dalla nave, una foca, ma questa appena scorse gli uomini si cacciò nel buco che aveva scavato nel ghiaccio per venire a respirare. - Se non è oggi, ti prenderemo domani! - disse il fiociniere. - Non sarà però cosa facile, Koninson. Ora che ci ha scoperti diventerà prudente assai. - Ci nasconderemo dietro qualche "hummock" e appena uscirà dal buco le manderemo una palla nella testa. Che ci siano anche degli orsi bianchi su questo "wacke"? - Non è improbabile. Sovente, spinti dalla fame, questi feroci carnivori si imbarcano sugli "icebergs" colla speranza di sbarcare in una contrada ben fornita di selvaggina. Non sarei sorpreso se domani ne vedessi giungere qualcuno. - Niente di meglio, signor Hostrup. La carne degli orsi è eccellente. - Non dico di no, ma quelle bestiacce non temono di assalire una nave. - Bah! Siamo in molti noi, e fucili ne abbiamo in quantità. Ventre di balena! Guardate laggiù, signor Hostrup! Guardate, guardate! - Vedi un orso forse? - Le nostre balene vedo, ventre di foca! Il fiociniere non si era ingannato. Dall'altra parte del banco, undici balene, comprese tre balenottere, nuotavano verso sud aprendosi a gran colpi di coda il passo fra i ghiacci. - Si direbbe che vengono a deriderci - disse il tenente. - Eh! Vorrei essere fuori di qui col mio rampone, per insegnar loro a ridere! - esclamò il fiociniere che seguiva cogli occhi fiammeggianti quei superbi giganti. - E invece siamo qui, chiusi dappertutto, e anche colla brutta probabilità di restarvi un bel pezzo. - Puoi dire colla certezza, Koninson. - Non avete alcuna speranza voi, tenente? - Nessuna, fiociniere. - E lo dite così tranquillamente! Si direbbe che uno svernamento non vi spaventa. Il tenente alzò le spalle. - Bisogna prendere e le cose come vengono, mio caro - disse. - Torniamo a bordo, che comincia a soffiare un vento indiavolato e rigidissimo. Prevedo per domani una burrasca. - Bisognerebbe che fosse così formidabile da spezzare questo dannato "wacke". - Sarà tremenda, te lo assicuro. Guarda che brutte nubi si accavallano in cielo. - E spezzerà il banco? - È probabile, Koninson. Quando tornarono a bordo, il vento aveva cominciato già a soffiare con furia estrema, spazzando la neve che copriva il banco e sollevando a grande altezza l'acqua dell'oceano. Pareva che portasse con sè una legione di demoni; ora fischiava attraverso gli alberi e le corde della nave, ora ruggiva tremendamente sulle vette degli "icebergs", ora muggiva ancor più forte delle onde che già s'infrangevano con grande impeto contro i ghiacci, abbattendoli e frantumandoli contro il "wacke". Il capitano, temendo che la nave non resistesse a quei poderosi soffi, la fece maggiormente assicurare con altre e più grosse gomene, e ordinò che si raddoppiassero gli uomini di guardia. La notte fu spaventevole. I ghiacci dell'oceano, cacciati dalle regioni settentrionali, venivano a cozzare contro il banco a centinaia, con un fracasso indicibile, accavallandosi gli uni sugli altri, spezzandosi, frantumandosi. Ondate mostruose, spinte dal vento, si sfasciavano incessantemente contro il banco e, cacciandosi sotto di esso, malgrado il suo enorme peso e la sua grande estensione, lo facevano traballare e scricchiolare. Dei larghi crepacci si aprivano di quando in quando, ma tosto si riunivano come se avessero paura che la nave fuggisse per di là. Anche nel canale l'acqua era agitatissima e molti ghiacci, strappati alle rive o rovesciati dal ventaccio, galleggiavano correndo disordinatamente ora qua ora là. Il "Danebrog", quantunque solidamente assicurato, tre volte si spostò minacciando di urtare contro le rive del piccolo "fiord". I marinai, malgrado la profonda oscurità, furono costretti a gettare nuove funi e a portare sul banco due ancore che furono cacciate entro profonde fessure. Alle 2 del mattino, quando maggiore era la furia dell'uragano, il banco, come se fosse stato mosso dal terremoto, ondeggiò fortemente da sud a nord e una grande apertura si manifestò in quella direzione con uno scroscio così forte da poter essere udito a dieci chilometri di distanza. L'"iceberg" che chiudeva il canale fu visto un istante dopo staccarsi e oscillare. Un urlo di gioia si alzò fra l'equipaggio del "Danebrog", salito tutto in coperta. Credette di essere finalmente libero! Disgraziatamente quella gioia fu di breve durata. Il colosso, dopo essersi allontanato di poche decine di braccia, spinto dalle onde tornò a urtare contro il banco, incastrandosi ancor più fortemente di prima dentro il canale. Anche la grande fenditura manifestatasi attraverso il "wacke" si chiuse in seguito alla straordinaria pressione esercitata dai ghiacci che scendevano a migliaia dal settentrione. - Tutto è finito per noi! - disse il capitano al tenente. - Bisognerà svernare. - Forse - rispose Hostrup, che da qualche istante guardava con un cannocchiale verso sud. - Su che sperate? - Ho scorto or ora laggiù una vetta oscura che s'innalza in mezzo ad un banco di ghiaccio. - Ebbene? - Il vento ci spinge verso quella terra, capitano. - Ma siete certo che sia una terra? - Non m'inganno. - Ma è impossibile che siamo già giunti presso la costa americana. - Sono già due giorni che il vento ci spinge verso il sud, aiutando la corrente. Può essere anche, invece della costa americana, un'isola. - E cosa sperate nell'incontro di quella terra? - L'uragano ci porta con una velocità non indifferente. - Ah! Voi sperate in un urto. - Sì, capitano. - Infatti il banco potrebbe infrangersi. E non correrà pericolo il "Danebrog"? - Il canale è largo. - Lo so, ma i ghiacci potrebbero accumularvisi dentro e stritolarci. - Se ci mettessimo alla vela? - Avete ragione. Ehi, mastro Widdeack! Fa spiegare le vele e sciogliere gli ormeggi. C'era il tempo necessario, essendo la terra scoperta dal tenente assai lontana. I marinai, che avevano compreso di che si trattava e su quale speranza calcolava il capitano, in un batter d'occhio portarono in coperta le vele, le infierirono ai pennoni e le spiegarono, mentre mastro Widdeack, assieme a Koninson e ad Harwey, scesi sul banco, liberavano le ancore e scioglievano le gomene. Mezz'ora dopo il comando dato, il "Danebrog" usciva dal "fiord" infrangendo i ghiacciuoli che lo ingombravano e si portava in mezzo al canale, allontanandosi dall'"iceberg" che doveva essere il primo a sostenere l'urto. La terra segnalata non distava allora che un miglio. Era una roccia di mille metri di estensione e alta un trecento o quattrocento. Tutto intorno si estendevano grossi banchi di ghiaccio e grande numero di ghiacci galleggianti. Il "wacke", che filava con una velocità di tre o quattro nodi all'ora, in brevi istanti fu addosso all'isolotto. Si udì uno scroscio cento volte più forte di quello avvenuto poche ore prima, seguito, poco dopo, da un tonfo sordo causato dalla caduta di alcune montagne di ghiaccio. Il "wacke", fracassati i ghiacci che circondavano dal lato nord l'isolotto, andò a cozzare contro lo scoglio con tale impeto da ritornare indietro. Due larghe fessure si aprirono, le rive del canale si restrinsero e in parte diroccarono, le piramidi, le arcate, le colonne crollarono, ma il "Danebrog" rimase prigioniero. L'"iceberg", quantunque avesse sopportato quasi tutto il cozzo, non aveva ceduto. Solo la sua torre aveva oscillato e si era screpolata, ma senza cadere. Sul ponte del "Danebrog" si alzò un urlo di rabbia. Questa volta per i balenieri era proprio finita. Più non restava che svernare.