Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 12 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Giovanna la nonna del corsaro nero

204948
Metz, Vittorio 2 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
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Possibile che la nave sia abbandonata?" Fece rientrare il cannocchiale in se stesso con un colpo secco e lo ricollocò nella sua borsa, mormorando: "Una nave deserta alla deriva... E se ce ne impadronissimo?" "Mi sia consentito il dire" obiettò Battista "che questa mancanza di uomini sulla nave mi insospettisce... Potrebbe trattarsi di un tranello. Aspettiamo la notte e abbordiamo la nave di sorpresa... Così vedremo se effettivamente non c'è nessuno."

"Mi sia consentito il dire che potrebbe essere stata condotta fin qui da un regolare equipaggio e abbandonata a causa di qualche epidemia" opinò il maggiordomo Battista. "E così ci sarebbe pure il pericolo di prendersi qualche malanno" disse Nicolino. "No, no, io me ne vado..." E avvicinatosi alla murata alzò una gamba per scavalcarla. Giovanna lo avvertì severamente: "Sentite, Nicolino, se volete andarvene siete padrone, ma ve ne andrete da solo... Ho trovato questa nave abbandonata e non ho nessuna intenzione di rinunciare a questa fortuna!" "E la chiamate fortuna?" rimbeccò Nicolino. "Una nave tutta nera con le vele rosse e un equipaggio di bacilli e di microbi!" "Vi ho detto che siete padrone di fare quello che volete" disse Giovanna. Si avvicinò al quadrato e aprì delle porte guardando dentro. "Qui vi sono delle cabine" disse. "Io e Jolanda andiamo a riposare... Voi due sistematevi come meglio credete... Buonanotte." "Buonanotte" disse Jolanda. Giovanna e la nipote entrarono ognuna in due cabine diverse. Nicolino si mise a brontolare. "Eh, buonanotte... Sai che buona notte possiamo passare su una nave che sembra fatta per andare all'inferno! Per di più qui c'è un puzzo di... come di tomba..." "Allora, resti?" gli domandò Battista. "E dove vuoi che vada?" "A terra..." "Eh, caro mio, purtroppo sono troppo a terra per andare a terra..." "E allora andiamo a cercarci un posticino dove poterci stendere..." "Purché non ci restiamo, stesi... E per sempre..." brontolò Nicolino. I due si allontanarono verso l'altro ponte della nave. Una leggera nebbiolina cominciò a formarsi in un punto del tavolato, prese forma, divenne un uomo che indossava un abito del cinquecento, lacero e consunto. Soffiò in un fischietto che gli pendeva dal collo attaccato ad una catenina d'argento, ma dal fischietto non uscì alcun suono. Come non fecero alcun rumore i marinai che indossavano abiti della medesima epoca del primo e che cominciarono a muoversi silenziosamente tirando gomene, sbrogliando vele e facendo girare il verricello per levare l'ancora. Poi l'uomo che si era messo al timone parlò. "Timoniere fantasma!" disse con forte accento fiammingo che rivelava in lui l'olandese o qualcuno che per lo meno era stato olandese. Una cupa voce scaturì dal nulla. "Comandate, capitano..." "Prendete voi il timone" disse l'Olandese. "Io vado a divertirmi un po' con questa gente." "Non avete paura?" domandò la voce del timoniere. "Perché?" "È viva!" rispose la voce del timoniere fantasma con un leggero tremito. "L'Olandese Volante fa paura, non ha paura" disse lo spettro. E si allontanò scivolando senza toccarlo sul tavolato del vascello fantasma.

Pagina 173

Una famiglia di topi

205097
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
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Ma la canestra fu abbandonata dai sorci giovani quando smisero di pigliar latte. La buona contessa, che voleva tutti felici intorno a sè, uomini e animali, soleva ripetere che le bestie o si tengono bene, o non si tengono. Quell' obbligarle poi a stare in una gabbia o in una paniera le avrebbe fatto l' effetto d' aver imprigionato crudelmente dei poveri esseri, che per loro natura abbisognano d' aria e di libertà. Stabilì, dunque, che que' topini potessero girare per la casa a loro agio, purchè, se avessero fatto qualche guaio, fossero puniti con una tiratina d' orecchi: erano anch' essi bambini, nella loro specie, e i bambini, si sa, vanno educati: altrimenti farebbero un monte di male a sè medesimi e agli altri. Cosicchè i figliuoli di Ragù e della Caciotta, contenti come pasque, presero a scorazzare per tutto; ma segnatamente per due stanze che a loro dovevano sembrar delle piazze immense: il salotto da lavoro della contessa e lo studio de' ragazzi, ch' erano attigui, e nè anche divisi da un uscio, ma solo da una tenda orientale. Fu allora, che il diverso carattere dei cinque sorcetti ebbe modo di svilupparsi e manifestarsi. Dodò, uno de' maschi dal cappuccio nero e tutto il resto del corpo affatto bianco, scelse subito per suo domicilio una scansìa nella grande biblioteca della contessa Sernici. - È un topo di biblioteca! - osservò ridendo la signora; e spiegò a' suoi ragazzi che si sogliono chiamare topi di biblioteca quegli uomini studiosi i quali passano la vita fra i libri. Soggiunse poi, rivolta all' animaluccio: - Bada bene, Dodò, di non farmi dei guasti! Se hai voglia di rosicchiare, ti metto qui de' giornali vecchi; ma rispetta i libri, sai, bada bene! Dodò ascoltava, attento, battendo i dentini dalla gioia d'esser lasciato in quel luogo. Ci eran le file di libri assai belli e ben rilegati in marrocchino, in bulgaro,

Pagina 52

I ragazzi della via Pal

208271
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Tutti per una

214927
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Sua madre l'ha abbandonata, sì o no? Dunque... - Fortunata, invece. Perché il tuo Argo l'ha portata da noi e noi possiamo prenderci cura di lei. Noi possiamo anche amarla. Ti sembra una cosa da poco? - Noi? Qui? Ma cosa dici... È impossibile! - Impossibile! Impossibile... Non ti pare che dovremmo almeno almeno provarci, prima di dirlo? - Sarà difficile. E anche rischioso. - Lo so. E allora? La lasciamo qui? Avvisiamo la Maria Spia? La portiamo dritta dritta in un orfanotrofio? È questo che vuoi, professore? - No, certo che no. Tuttavia... secondo me... Virgilio Zambelli si dibatteva tra i due partiti, senza potersi risolvere. Si rivolse ad Argo, come per chiedergli sostegno, e ne ricevette in cambio uno sguardo di deluso scontento.

Quartiere Corridoni

216958
Ballario Pina 1 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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E così l'osteria è stata abbandonata. Giulietta leggeva male. Aveva sempre gli occhietti rossi, affaticati. La sua mamma lavora da sarta: ha tanto da fare e ai figli bada poco. La maestra ha consigliato la mamma di Giulietta di condurla dall'oculista. Ora la bimba porta gli occhiali, legge bene e non ha più gli occhi rossi. La maestra è una seconda mamma, la scuola una seconda famiglia.

Pagina 201

Il Plutarco femminile

217282
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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"Non dica al pari, ma molto più delle ricordate sin quì; perchè, se le donne poetesse, guerriere, pittrici e filosofo meritano ogni lode, per avere in ciò agguagliato parecchi valentuomini ed ajutate le arti, le scienze e le lettere; la nostra buona Rosa tanto è da chiamarsi più illustre di loro quanto la opera sua è più efficacemente utile alla civil compagnia, e benefica verso quella parte dell' uman genere, che più è abbandonata dalla fortuna: senza dire che tale opera è veramente la santificazione del lavoro, e promotrice di un' arte di prima necessità a tutti quanti. "La carità verso i poveri non si può negare che sia una delle più belle virtù. sociali; e non senza gran ragione fu posto il precetto evangelico che dice: Vendete quel che avete per far limosine. Ed a questo proposito mi ricordo di aver letto che un certo arcivescovo di Napoli, stando proprio alla lettera del Vangelo, vendè tutta l'argenteria del suo palazzo, e no fece tante limosine; la qual cosa venuta agli orecchi di un gran signore, ricomprò l' argenteria o la, rimandò all'arcivescovo; il quale la rivendè da capo, e da capo fece tanto limosine: o così fece anche per la terza volta. All' ultimo, non volendo l' arcivescovo esser vinto dall'amore di carità, scrisse a quel generoso signore che se non due ma cento volte gli rimandasse l'argenteria, cento volte la rivenderebbe per darla a'poveri; perchè non era di necessità che, in tempi scarsi com' erano allora, l' argento dovesse stare ozioso in casa sua." Questo racconto lo aveva fatto una delle signorine, alla quale la direttrice rivolse queste parole: "La carità del suo arcivescovo è cosa lodevole; ma non è certo per altro che fosse efficace ed operosa. Molti di questi che vivono di limosina sono gente oziosa e viziosa; nè si potrebbe chiamare benefattore della umanità chi a gente sì fatta desse anche tutto il suo: anzi gli accattoni sono una vera piaga della società, ed in paesi bene ordinati non si tollerano. Quante sieno le arti da loro usate per ingannare la dabbenaggine altrui, e per abusare l' altrui bontà, non istarò a dirlo; ma c'è un libretto che tutte le descrive, ed io ne leggerò a loro ogni tanto qualche pagina, acciocchè imparino a guardarsi da tali birbanti. I poveri veri non sono essi: sono quelli detti vergognosi, che non si attentano a chiedere, benchè siano nella miseria; sono i vecchi impotenti e malati: il fare a ',questi la limosina è opera veramente meritoria; il farla agli altri è un mantenere l' ozio ed il vizio; e spesso è un dare a chi ha più di noi, perchè si sono dati parecchi casi, di accattoni, che alla lor morte sono stati trovati ricchi e possessori di cose preziose. Chi per altro vuole acquistar titolo di benefattore dell' umanità, ed aver fama nel tempo avvenire, cerca, sì, di sollevare dalla miseria i bisognosi, ma ordinando la sua carità ad un fine santo e civile, o tal carità sposando al lavoro, che, non solo educa gli uomini al bene, ma è la cagione unica della prosperità delle nazioni, come appunto la buona Rosa Govona; e per lasciare stare altri molti, come ha fatto a' dì nostri Gaetano Magnolfi di Prato." "Anch' io, continuò la signora Nina, quando la direttrice si tacque, non mi sento muover punto a compassione per gli accattoni, specialmente da poi che lessi il fatto di un esercito di costoro, ai quali fece quella saporita celia Ezelino da Romano." "Che celia? disse la direttrice; io non l' ho a mente." E alcuna delle ragazze: "Raccontacela, Nina, raccontacela. "Che si contenta, signora direttrice? "Racconti pure, che la udrò volontieri anch'io. Allora la Nina cominciò: "Antichissimamente comandava a Padova, e in tutti quei paesi d' attorno, un gran signore chiamato Ezelino da Romano. Costui non sapeva rendersi ragione come mai ci fossero nel suo Stato un numero sbalorditojo di poveri; ed investigando venne a sapere com' essi erano gente oziosa ed avara, datasi a limosinar per mestiere, e che tutto ciò che raccoglievano il cambiavano in oro, e lo tenevano cucito dentro agli stracci che portavano addosso. Allora che ti fa il bravo Ezelino? Come se volesse ringraziare Dio per una vittoria avuta sopra i nemici, fece bandire che il tal giorno avrebbe fatto generosa limosina a tutti i poveri dello Stato: però chi fosse veramente bisognoso, venisse a mezzogiorno sulla piazza maggiore di Padova,e lì vi sarebbe stato egli stesso a farla distribuire. Venuto quel giorno, i poveri piovevano a Padova da ogni parte; e tutti erano avviati sulla piazza maggiore, che era cinta di armati; nè il numero di quei cialtroni era certo minore di duemila. Scoccato il mezzogiorno, comparve Ezelino a cavallo, seguito da un drappello di soldati a cavallo, e da una filata di carri che non finiva mai, dove erano un gran numero di vestiti di panno albagio: e postosi egli in mezzo alla piazza, e guardandosi attorno, dopo un poco di tempo parlò agli orecchi a uno dei suoi cavalieri, il quale fece bandire la carità con queste parole: "Il magnifico signore Ezelino, in rendimento di grazie a Dio per la vittoria ottenuta, vuol fare questa segnalata limosina; e sapendo come questa povera gente è mezza ignuda e tutta lacera, gli è parso che cosa più accetta a Dio non potesse fare, che rivestirla tutta quanta di nuovo in su questo avvicinarsi del verno; e però comanda a tutti che, spogliatisi i vecchi stracci, ciascuno si rivesta dei nuovi; e poi così vestiti avranno un buon pasto quì sulla piazza." Il comando fu eseguito: il pasto venne; e furono licenziati. Ma qui fu il busillis. Ciascuno aveva fatto il suo fagottino de' cenci vecchi, per portarselo dietro; ma Ezelino comandò che quegli stracci dovessero lasciarsi lì, e coloro che tentarono di infrangere il comando sentirono quanto pesavano e come ferivano le alabarde dei soldati; sicchè andarono via tutti sconsolati. Si raccolsero poi i loro stracci, che furono bruciati, e vi si trovò tanto oro e tanto argento che Ezelino se ne avvantaggiò molto bene." E la direttrice, e il maestro, e tutte le signorine, risero di cuore a questo racconto; il quale chiuse saporitamente la conversazione di quella mattina.

Pagina 185

Anche la Chiesa era afflitta e travagliata: il Papa, abbandonata Roma, teneva la corte ad Avignone, e la religione ne pativa. Di tanta jattura la Caterina era afflitta; e come di già la fama della santità� sua era grande, non temè di volgersi arditamente al Papa, con riverente libertà rimproverandolo del pensare più alle cose terrene che alle celesti; ed esortandolo a riportare la sedia papale a Roma. Venuti in discordia i Fiorentini col Papa, la Signoria di Firenze la pregò che trattasse ella di rappacificargli con lui; ed ella non curando disagi e pericoli, andò fino ad Avignone, e riuscì a comporre le differenze; benchè i Fiorentini durassero poco nel buon proposito. La Santa non si partì d'Avignone; ma volle rimanervi, per vedere di recare il Pontefice a ricondurre la sedia a Roma; e tanto fu costante il suo proposito, e tanta accesa la sua carità, che alla fine Gregorio XI riportò la sedia papale a Roma. Santa Caterina allora tornò alla quiete della sua Siena; dove per altro stette poco, dacchè papa Urbano VI, succeduto a Gregorio, la chiamò presso di sè per giovarsi del suo consiglio, e perchè la sua infiammata parola fosse più autorevole. Quando poi fu fatto ad Avignone l'antipapa Clemente VII, virilmente combattè per il papa legittimo, contro avversarj di ogni maniera. Ma tanto ardore e tanta caritàconsunsero le forze del suo fragile corpo, e morì di soli trentatrè anni. "Le sue virtù,la sublimità del suo intelletto, la sue dottrina, l'ardente sua carità, sono fedelmente ritratte nelle sue Lettere, e in altri suoi Trattati, che anche per la lingua sono cosa d'oro in oro." Gli applausi ci furono anche per la signora Sofia; ma non furono così pieni nè così vivi come le altre domeniche; solo il maestro e la direttrice dissero una o due volte brava a quella fanciulla, la quale, se aveva fatto un poco viso di dispetto nel sentirsi così freddamente applaudire dalle compagne, ringraziò per altro con atto e voce umanissima ambedue, dicendo che più le valeva l'approvazione loro, che le lodi di chi giudica senza ragione. La direttrice e le ragazze tutte compresero il veleno di queste parole, ma dissimularono; e siccome niuna osservazione vollero fare lo compagne della Sofia, salvo che una voce partita di mezzo a loro disse che certe parolacce non lo avevano intese, così il maestro ne prese materia di fare a tutte una lezioncina del modo dello scrivere in italiano; e disse così: "La signora Sofia non ha posto nel suo racconto delle parolacce; ma solo alcune voci o frasi un poco fuori d' uso, le quali, se si leggono nei classici, non sono per altro intese così bene da tutti, e rendono un poco affettata una scrittura: come sarebbero recata nel novero de' santi - di piccola nazione - non fate di me ragione di niuna spesa - con ogni possa - porgersi caritatevolmente amorosa - tanta jattura - cosa d'oro in oro, per cosa eccellente; ed alcune poche altre: ma questo è, se può dirsi così, un bel difetto, perchè nasce da assiduo studio, e può agevolmente correggersi. Lo tengano bene a mente, signorine mie: bisogna servirsi delle parole come dei denari: dei denari non si spendono so non quelli che hanno corso; delle parole solo quello s' hanno a parlare ed a scrivere che sono intese da tutti. Bisogna studiare assiduamente gli antichi, perchè nelle loro scritture vi è la semplicità, la purità e la proprietà; ma chi crede che ogni voce da loro usata sia da, usarsi ora, erra assai, perchè le parole muojono anch' esse, come tutte le cose del mondo. Lo studio dei classici deve dunque avvezzarci a far l' orecchio al bello scrivere, ed a conoscere le doti principali della favella; ma quando scriviamo dobbiamo aver sempre l' occhio all' uso presente; il quale però, come spesso diventa abuso sulle labbra del popolo, così, anche a fuggir tale abuso ci sarà ajuto efficacissimo lo studio degli antichi. Ad ogni modo, lo ripeto, è sempre più comportabile il difetto del mescolare alle voci d' uso qualche voce un po' antiquata, ma bella e propria, che il seminare, o parlando o scrivendo, voci barbare e forestiere. Non si debb' esser pedanti; ma è però molto peggio esser barbari."

Pagina 24

Il ponte della felicità

219165
Neppi Fanello 3 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Alvise continuò: - Dio mi mandò un amico a conforto della mia solitudine in quella terra abbandonata. Lo conoscerai anche tu, il mio caro Agnolo, e sono sicuro che lo amerai come lo amo io. - Certo, Alvise. - E poi, Lori, avevo il tuo leone di san Marco. Mi ha portato sempre fortuna, e nei momenti di maggior pericolo mi ha infuso forza e coraggio. - Poi a bassa voce, con grande dolcezza: - Mi pareva di averti vicina e che tu m'incitassi a proseguire. - Sei stato bravo, Alvise! - Ma tu, Lori, sei stata più brava di me. Chi avrebbe mai pensato di ritrovarti, ammirata da tutti, nella tua vecchia casa? Il babbo ed io eravamo andati a cercarti in quell'orribile stamberga. - E l'avete trovata vuota! - disse Loredana ridendo per vincere la commozione che la dominava. Nonna Bettina mi ha detto quante delicate cure le hai prodigate. Te ne sono veramente grato, Lori! - Non ho fatto che il mio dovere. Non me l'avevi forse affidata, Alvise? Ho mantenuto la mia promessa come tu hai mantenuto la tua. Un brillante avvenire ti attende, ora, Alvise. - Tutta bontà di Sebastiano Veniero che mi ha compensato più del mio merito. - Ma anch'io devo eterna gratitudine al nostro ammiraglio, perchè è stato lui che ci ha consigliato di rivolgerci al medico che ha reso la vista alla mamma! - soggiunse Loredana, mentre il suo sguardo si volgeva ai genitori beatamente seduti, insieme con nonna Bettina, vicino alla casa; poi aveva aggiunto con voce scherzosa: E ora, Alvise, tornerai a gettare l'antica asse sul rio per venire a trovarmi? - Mai più, Lori mia! Con una parte del tesoro dei corsari farò costruire un bel ponte di marmo candido e lo chiamerò il Ponte della Felicità. - Si guardarono a lungo negli occhi, e il loro sguardo era ilare e amorevole. In quegli istanti compresero che la loro antica tenerezza fraterna si era mutata nel sentimento più forte e più profondo che si chiama Amore. Fine

Pagina 167

. - Loredana baciò teneramente la mano di Lucrezia, abbandonata sulle coltri come un bianco fiore, e andò a raggiungere Alvise che nel frattempo aveva ricoperto il quadro con un panno. Afferrarono la cornice, uno da un lato, uno dall'altro, e s'incamminarono verso le fabbriche vecchie di Rialto. In una stretta calle teneva bottega un certo messer Antonio Foscarin, rivenditore di oggetti artistici: un bel vecchio, già molto avanti negli anni, con una fluente barba candida che lo faceva somigliare a un profeta biblico. Egli era conosciuto in tutto l'estuario per la bontà del suo cuore e per la generosità con la quale sovveniva ai bisogni di quanti ricorrevano a lui. Loredana e Alvise lo trovarono seduto nel suo fondaco buio e polveroso, intento a lucidare un'artistica lucerna in ottone di evidente provenienza. araba. - Buon giorno, ragazzi! - egli esclamò con la sua voce un po' tremolante di vegliardo. Si alzò e aiutò Alvise a togliere il quadro dal panno. - Vediamo che cosa mi avete portato di nuovo, - soggiunse poi, avvicinandosi alla porta per poter meglio osservare il dipinto. Era veramente bello, e in tempi normali non gli sarebbe stato difficile venderlo a qualche famiglia patrizia. Ma ora, dopo il disastro dell'arsenale e dopo i prestiti fatti alla Repubblica, nessuno spendeva più denaro in cose non strettamente necessarie. Il quadro era dunque destinato a rimanere nel fondaco insieme con qualche altro ch'egli aveva già comperato da Loredana. Il vecchio mercante sospirò. Le sue risorse, purtroppo, non erano illimitate; ma poteva rimandare quella graziosa bambina che con tanto coraggio assisteva la mamma inferma? Egli avrebbe continuato ad aiutarla; Dio, poi, aiuterebbe anche lui a tirare avanti. - Va bene, piccola Sagredo, lo acquisto molto volentieri il Corteo di San Marco. - Diede a Loredana una bella somma e soggiunse, mentre le accarezzava le trecce lucenti: - Brava piccina; cura bene la tua mamma e il Signore ti benedirà! - Usciti dal fondaco, i due ragazzi fecero un giro piuttosto lungo perchè dovevano andare in fondo alla calle dei Fabbri dove si trovava uno speziale che si diceva vendesse farmachi miracolosi per tutti i mali. E Loredana desiderava che la sua mamma guarisse. Camminavano, contenti di respirare l'aria pura del mattino e il fresco odore salso che veniva dal largo. La vita a Venezia aveva ripreso il suo ritmo tranquillamente laborioso, e solo qua e là si scorgevano ancora le rovine dell'esplosione. Buon numero di manovali, infarinati come pagliacci, lavoravano alla rimozione delle macerie annerite dal fumo degli incendi. Si capiva, data l'alacrità degli operai, che presto quel triste spettacolo non sarebbe stato più che un ricordo e che altri edifici, ben più sontuosi, avrebbero preso il posto di quelli rovinati. Attraversarono piazza San Marco, meravigliosa per marmi, ori e sole, mentre dall'alto della torre dell'orologio i «Mori» battevano le nove. Piegarono a destra, di fianco al grandioso campanile sulla cuspide del quale volteggiavano i gabbiani, e si diressero verso il molo. Lo spettacolo che si offrì ai loro sguardi riempì di gioia Alvise. Il vasto bacino di San Marco brulicava d'imbarcazioni. Navi da guerra e navi mercantili si apprestavano a salpare verso i mari lontani: le une per consolidare e difendere la potenza, marinara della Repubblica, le altre per fare acquisto di stoffe preziose e dei ricercatissimi aromi e spezie dell'Oriente. Chiatte di ogni grandezza e «bissone» variopinte trasportavano sul casserò delle navi acqua, viveri e munizioni. Di quando in quando un'elegante e sottile gondola scivolava leggera fra tutto quel brulicare di navi, portando a bordo qualche ricco mercante o qualche marinaro della Serenissima. Alvise non si. sarebbe mai stancato di osservare quanto avveniva lì intorno, ma Loredana gli tirò la manica della giubba. - Andiamo, Alvise, si fa tardi. - Eccomi, eccomi, Lori, - rispose il ragazzo incamminandosi a malincuore a fianco della fanciulla. Ma passato il ponte sul Canal Grande e giunti in campo San Trovaso, un altro spettacolo, che piacque anche a Loredana, fermò di nuovo i loro passi. Si trattava di un vecchio sonatore girovago intento a far ballare, al suono di un piffero, una scimmietta infagottata in un giubbettino vermiglio. Ed erano così leziose le contorsioni della bestiola che nessuno poteva trattenere il riso. Di fianco al sonatore stava accucciato un cane lupo, ispido e feroce come solo i cani lupo sanno essere. Finito il suo buffonesco saltellare, la scimmietta corse ad arrampicarsi sulle spalle del sonatore, il quale le offrì in premio una nocciolina che il piccolo quadrumane si affrettò a sgranocchiare. Subito dopo il cane lupo, afferrato con i denti il sudicio casco del vecchio e tenendolo a mo' di borsa, fece il giro degli astanti camminando sulle zampe posteriori. Loredana e Alvise, che non avevano mai visto una cosa simile, rimasero lì a guardare, a occhi spalancati, anche quando gli altri spettatori se ne furono andati, la maggior parte senza neppur lasciare una monetina in compenso. ....la scimmietta corse ad arrampicarsi.... Piano piano, attirati dal fascino che esercitavano su di loro l'esotica bestiola e il suo rustico padrone, i due ragazzi si erano avvicinati, incuranti del sordo brontolio del cane che evidentemente aveva assaggiato più di una volta la cattiveria umana e non si fidava più di nessuno. Loredana tolse dalla sua borsetta una bella moneta d'argento e la porse al senatore girovago; poi accarezzò il cane, ormai suo amico. Il vecchio, commosso, fece di nuovo ballare la scimmietta per l'esclusivo godimento dei due ragazzi, i quali avrebbero desiderato che quel balletto non avesse mai fine; quindi se ne andò, dopo essersi rimesso il casco in testa e il piffero sotto il braccio. Alvise e Loredana si accòrsero solo allora che il tempo era volato e che il sole era molto alto nel cielo. Messe, dunque, come si suol dire, le gambe in spalla, si diressero verso. casa con il fermo proposito di non lasciarsi sedurre da altri spettacoli. Vi giunsero tutti ansanti e in orgasmo, pronti a subire una buona ramanzina. Ma il grande cuore di nonna Bettina li aveva già scusati, sicchè i due ragazzi furono ben lieti di sentirsi accolti con la consueta, amorevole condiscendenza. - La mamma è stata tranquilla, e dorme ancora. - Grazie, nonna Bettina. - Quando si desterà, le darai la medicina che hai comprato. E ora addio, Lori. - Uscita la nonna., Loredana si sedette ai piedi del letto di Lucrezia, sopra uno sgabello. Era stanca della lunga camminata e della corsa fatta. Un leggero incarnato le coloriva le guance, e i capelli arruffati le folleggiavano intorno al visino assorto. Pensava ancora alla scimmietta danzatrice e al cane lupo che sembrava tanto feroce e che invece si era dimostrato mite come un agnellino. Quando la mamma fosse guarita, la condurrebbe a vedere lo spettacolo grazioso, e allora si divertirebbero insieme. Fuori, il venticello di marzo agitava mollemente i rami ingemmati delle acacie, e sulle zolle dell'orto e sul muretto del rio cresceva una tenera erbetta smeraldina. Loredana contemplava la pace sognante del suo orticello nel quale l'ombra violacea degli alberi, il verde delle zolle, le rosse pietre corrose del muricciolo si univano in una squisita armonia. Com'era bello il suo orto! Piccolo e quasi umile, ma tutto suo, racchiudeva per lei i sogni dei rosei tramonti e delle notti incantevoli. Anche gli uccellini, tornati lì a costruire il loro nido, sembravano appartenerle, come l'olezzo delle corolle che si mescolava nell'atmosfera con l'odore della salsedine. Si voltò per tornare a sedersi sullo sgabello ai piedi del letto e vide che la mamma era sveglia, con gli occhi bene aperti e il viso tranquillo. Le si avvicinò rapidamente. - Mamma! - le sussurrò, ansiosa. - Mamma cara! - Al suono di quella voce Lucrezia Sagredo ritrovò il gesto amorevole che da tanto tempo aveva dimenticato. Sollevò la mano scarna e accarezzò la testolina della sua bimba. - Mia piccola Lori! - Una gioia immensa invase il cuore di Loredana. Finalmente la sua mamma la riconosceva! Il triste incantesimo che da oltre due mesi l'aveva tenuta lontana dalla sua piccola era dunque cessato. - Oh, mamma! - singhiozzò Loredana affondando il viso nel guanciale, accosto a quello di Lucrezia. La scarna mano della mamma continuava ad accarezzare le trecce lucide di Lori, quasi volesse calmare quel singhiozzo che solo rompeva il tranquillo silenzio della camera. - Lori, sono stata molto malata, vero? - SI, mamma, molto. - E quanto è durata la mia malattia? - Non so.... - rispose la bambina, che non aveva pensato a tener conto del tempo trascorso. - Aspetta, ora ricordo. Mi venne male alla notizia - della caduta di Famagosta. - Sì, mamma. - Lucrezia Sagredo emise un sospiro profondo che pareva un gemito. - Il dubbio atroce che il babbo non potesse più ritornare mi abbattè. - Oh, mamma! - E Loredana continuò a singhiozzare, con il visino affondato nel guanciale. Ma non c'era desolazione in quel pianto. Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.

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La fanciulla, sussultò, e toltasi rapidamente alla sua contemplazione corse a cingere con le braccia il collo della donna abbandonata sulla sedia a braccioli ricoperta di logoro damasco verde. - Sono qui, mamma, sono qui. - Non ti sentivo più, piccola mia! - mormorò la madre, abbracciando a sua volta la fiorente giovinetta che le era corsa vicino. Madre e figlia si somigliavano moltissimo. Avevano entrambe lineamenti fini, il colorito roseo, i capelli fiammanti, il portamento eretto. Ma gli occhi della fanciulla erano fulgidi come stelle, e quelli della madre, opachi e spenti. Loredana pose con gesto carezzevole la bionda testa sulle ginocchia materne e rimase immobile, chiusa nel cerchio dei suoi mesti pensieri. Quattro anni erano ormai trascorsi da quando il babbo era partito per Famagosta condottovi da Marco Antonio Bragadin, e due anni e mezzo da quando la mamma era rimasta cieca in seguito alla sua malattia. Un velo si stendeva ora su quegli occhi, che un tempo avevano sprigionato tanta luce di amore e di dedizione. Loredana non era più la bimba spensierata che si divertiva in mille modi nella quiete del suo orto bagnato dal rio Canal; era ormai una giovinetta alta e snella, con le trecce avvolte intorno al capo come un lucido casco d'oro che la faceva sembrare una regina, benchè fosse vestita con vecchi panni della mamma, scoloriti e logori. Aveva inoltre una tale riservatezza di modi e una grazia così pudica che conquistava chiunque la vedeva. Quanto erano stati duri gli anni passati! Tutti intessuti di rinunzie silenziose e di eroici sacrifici per la giovinetta buona e coraggiosa. Piano piano, tutte le belle opere d'arte accumulate da Lorenzo Sagredo erano state vendute da Loredana, prima per assistere la madre durante la lunga malattia, poi per sovvenire ai loro quotidiani bisogni. Il bisogno le aveva anche costrette ai cedere la loro graziosa casetta nell'assolato campielo, così piena di tenero verde e di pispiglianti voli di uccelli, per rinchiudersi in quella soffitta nuda e gelida come una caverna. Eppure avevano sopportato tutto, Lucrezia e Loredana, sorrette dall'aiuto di Dio e dalla radiosa speranza che il pellegrino dei luoghi santi aveva fatto loro balenare. Intanto Lorenzo Sagredo non era più schiavo sulle galee turche, ma nella residenza di Alì pascià. Nella sontuosa dimora del potente signore mussulmano, egli poteva almeno dedicarsi al suo amato lavoro che lo avrebbe certamente consolato di tante cose e distratto dai suoi amari pensieri. Lucrezia Sagredo aveva collocato l'autoritratto del marito, uno stupendo disegno a punta d'argento, sotto il quadro della Madonna, quasi a chiedere che la Vergine sublime lo accogliesse sotto il suo manto e lo proteggesse contro ogni pericolo. Tutte le sere le due Sagredo s'inginocchiavano e pregavano a lungo; poi le labbra della sposa e della figlia sfioravano la fronte del caro assente e le mani affilate della cieca indugiavano con muta carezza, sul viso amato, come ad attingerne aiuto e conforto. Ma anche l'autoritratto del Sagredo, ultimo residuo dei beni scomparsi, doveva essere venduto tra qualche giorno. Perchè la madre non se ne accorgesse, Loredana aveva pensato di toglierlo e dalla cornice dorata e sostituirlo con una tavoletta spoglia di ogni immagine. Ma il cuore le si stringeva al pensiero di quell'inganno. Sarebbe riuscita a frenare i singhiozzi quando le bianche mani della mamma avrebbero sfiorato la nuda superficie? E che cosa avrebbe detto l'infelice donna? Dal basso continuavano a salire, ideale richiamo, le note soavi del clavicembalo di Teodora Pisani Moretta. Loredana si cullava in quei suoni armoniosi, quasi dimentica di tutto quello che la vita le aveva fatto soffrire e quasi aspettasse dalla nobile giovinetta speranza e conforto. Era un sentimento di fraternità umana che avrebbe voluto chiedere alla gentile sonatrice, quel sentimento che dovrebbe legare tra loro tutte le creature viventi e aiutarle a superare le prove, spesso amarissime, della vita. La fanciulla aveva sollevato il capo dalle ginocchia materne e i suoi begli occhi scuri guardavano intorno le squallide pareti, che sarebbero sembrate ancora più squallide, prive della virile immagine del padre. A un tratto le balenò un'idea. Se si fosse provata a ritrarre le sembianze paterne? Loredana ripensava al tempo in cui assisteva al lavoro del padre, e alle lezioni di pittura che aveva ricevuto da lui. Come si divertiva a passare le polveri per la composizione dei colori, e a mischiarle poi, in compagnia di Alvise, laggiù, sotto l'ombra delle acacie, per vedere quali altri colori avrebbero combinato! Piano piano si alzò, si avvicinò al cavalletto e lo trascinò sotto l'abbaino; staccò dal muro l'autoritratto del babbo e se lo mise davanti. - Che fai, Lori? - Mamma, voglio eseguire un piccolo disegno. - Ne sarai ancora capace? - chiese la madre con aria di dubbio. - Forse sì, mamma. - Brava Lori! Così, quando il babbo tornerà, vedrà che, la sua bimbetta è stata saggia, - mormorò Lucrezia con grande tenerezza; poi chinò la testa e s'immerse nei suoi profondi pensieri. Il silenzio regnò assoluto nella stamberga. Un Loredana lavorava.... obliquo raggio di sole si insinuava tra l'apertura dell'abbaino, accendeva, i capelli d'oro di Loredana e metteva un'aureola luminosa intorno al capo della fanciulla. Ogni tanto una nuvola nascondeva il sole e tutto si spengeva in un grigio di cenere; poi, d'improvviso, ogni cosa si riaccendeva più di prima.. Loredana lavorava senza posa. Le pareva che una mano invisibile la guidasse nella ricostruzione delle sembianze paterne. Ed ecco che a poco a poco sullo sfondo grigio della tavoletta fiorivano gli occhi imperiosi e pur dolci del babbo, il suo naso diritto, le labbra serrate tra il fluire del pizzo castano e l'ardita, piega dei baffi. A tratti la matita a punta d'argento che scorreva agile e sicura, guidata dalle sue dita, rimaneva sospesa e gli occhi di Loredana si fissavano in un punto lontano, come a ricostruire svaniti contorni; poi riprendeva febbrilmente il lavoro. La madre, nel suo angolo, si era assopita, cullata, dal profondo silenzio di quel pomeriggio di prima estate. Un calabrone di velluto era entrato nella scìa dei raggi solari e svolazzava intorno con un ronzio metallico; ma Loredana non lo vedeva e non lo sentiva. Si svegliò da quella specie d'incanto quando il sole stava per tramontare, in una gloria di luce sanguigna, salutato dalle strida gioconde delle rondini e dal dolce pigolo dei passeri, pronti a ritirarsi nei loro nidi alle prime ombre del crepuscolo. Per più di tre ore la fanciulla aveva lavorato senza interruzione e senza quasi accorgersene; e adesso si sentiva a un tratto stanca, ma di una stanchezza che le faceva bene al cuore. In punta di piedi, perchè la madre non la sentisse, tornò ad appendere il ritratto alla parete, e allora finalmente la grande angoscia che fin dalla mattina teneva chiuso il suo cuore in una morsa di ferro si dileguò, come un pipistrello che s'invola al timido spuntare dell'alba. Ormai non avrebbe più ingannato la cara cieca facendole baciare una nuda tavoletta. Lucrezia Sagredo, la sposa fedele e amorosa, avrebbe pregato sempre davanti all'effige dello sposo lontano, senza che sua figlia si sentisse salire alla fronte il rossore della vergogna e dell'ambascia.

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Al tempo dei tempi

219269
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Accanto alla cucina, giù a terreno, c'è una bottega abbandonata. Sfonda la porta marcita e troverai una stalla, e davanti alla mangiatoia un cavallo arabo, tutto bardato. - Ruggiero le ringraziò con effusione di tutto il bene di cui lo colmavano, e le Fate, ritornate civette, volaron via silenziose. Figuriamoci che folla quella mattina nel cortile, che chiacchierio e che vocìo! La sora Maruzza e la sora Leonora, quando scesero con la testa fasciata per non prender malanni, videro la gente, videro i gesti coi quali la folla accennava il terrazzino di Ruggiero, ma non capirono nulla, e neppure udirono raspare e nitrire il cavallo. Ma incuriosite da quei gesti e da quegli accenni, così presto come glielo permettevano la gobba e le gambe intirizzite dalla vecchiaia, salirono in camera di Ruggiero, spalancarono l'uscio; non potettero però fare un passo avanti e rimasero ferme sulla soglia. Chi era mai colui che se ne stava a pancia all'aria steso sul letto di Ruggiero? Chi era quel bel giovane così lungo, che con i piedi toccava il fondo del letto, con tanto di baffi e con tanto di barba? Forse qualche ladro? Forse qualche assassino? Non era certo Ruggiero, che a letto doveva stare sempre a sedere con un mucchio di guanciali e guancialini dietro la schiena. E Ruggiero dov'era? Ma in quel mentre Ruggiero aprì gli occhi, sorrise alle due donne e le chiamò: - Nonnina! Mammina! - La voce era la sua, ma più chiara, più forte. - Ruggiero! - risposero tremando le due donne. - È un secolo che non vi ho vedute. Ieri sera quando mi svegliai già dormivate e non vi potetti dare la gran notizia, ma oggi ne ho un'altra da darvene; così le saprete a coppia, come le ciliege. - E senza aggiunger altro, buttò via le coperte, balzò dal letto e si presentò alle due donne dritto, fiero, impettito e lisciandosi la barba. La nonna e la mamma non sapevano se piangere o ridere, ma subito si fecero il segno della croce e incominciarono a recitare le preghiere quando lo videro ballare in camicia, mentre lo avevano sempre veduto evitare qualsiasi movimento per non soffiare come un mantice. Esse non ebbero la forza di parlare e andarono in camera e accesero tutte le lampade a San Giuseppe, alla Bedda Matri, al Bambino e rimasero in orazione senza più pensare ad accendere il fuoco nè a pulir la casa, perchè in quel cambiamento di Ruggiero non vedevano chiaro. Il giovane intanto s'era vestito e lisciato e, aprendo l'armadio aveva trovato giustacuori bellissimi tutti trapunti d'oro e d'argento, calze fini che gli fasciavano le gambe ben tornite, scarpe all'ultima moda, fiocchi, guanti, cinturini preziosi e spade ornate di pietre di gran valore. Figuriamoci se lui, assuefatto a far ribrezzo a sè stesso, gongolasse nel vedere tanta bella roba che lo avrebbe fatto apparire più avvenente e più seducente! Scelse un giustacore di velluto color granato, con una stella d'oro ricamata sul petto, delle calze di seta color perla, un tocco nero con penne bianche, un mantello di velluto nero, e dopo aver cinto la più ricca fra le sue spade, scese giù. I nitriti e le zampate del cavallo arabo lo guidarono alla stalla. Il bell'animale, che aveva in fronte una stella bianca, era già bardato e sellato. Il giovane lo montò agilmente, lo toccò con gli sproni e via per il Cassaro al Palazzo Reale. Era l'ora della passeggiata e tutte le dame chi in lettiga, chi a cavallo, con lungo stuolo di cavalieri e dietro a questi palafrenieri in gran numero, riempivano le vie. La bellezza di Ruggiero, la sua eleganza, la ricchezza della bardatura del cavallo arabo, fremente sotto la mano del cavaliere, attrassero su questo tutti gli occhi delle dame, principesse, duchesse, marchese, contesse e baronesse, ma egli passava quasi senza vederle, finché i suoi occhi non furono attratti dalla figlia del Re, montata su una bianca giumenta. La Principessa era tutta vestita di bianco a ricami d'argento, e un velo ricamato di perle le avvolgeva la leggiadra persona come un fiocco di sottilissima nebbia. Ruggiero vide che era circondata di guardie, che i cavalieri fermarono i cavalli per lasciarla passare, che le dame si alzavano dalle lettighe per inchinarla e capì chi fosse, senza domandarlo a nessuno. Egli mise il suo cavallo dietro al corteo e l'accompagnò fino al Palazzo Reale. Ormai per lui non c'era che la figlia del Re, e voleva ad ogni costo averla in isposa. Quella sera le sette civette volarono in camera di Ruggiero e lo trovarono con la fronte appoggiata alla mano, in atteggiamento pensoso. Appena entrate, ciascuna si toccò con la propria bacchetta prima sulla testa, e la testa si convertì in quella di una bellissima giovane, poi sulle due ali che si mutarono in due braccia bianche, poi sulle gambe e finalmente sul petto e sul collo. Quelle sette giovani erano davvero le sette bellezze e non si sarebbe saputo chi scegliere. - Stanotte, - disse quella che parlava - tu devi fare fra noi la scelta di una sposa, e le altre saranno le sue serve. Guardaci bene a una a una e indica quella che più ti piace. Sono io forse? -