Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbia

Numero di risultati: 106 in 3 pagine

  • Pagina 3 di 3

Giovanna la nonna del corsaro nero

204725
Metz, Vittorio 2 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

"Non credo che tu abbia voglia di mangiare delle pere di gomma! Di quelle che servono per..." "Oh, no, no!" si affrettò ad esclamare Nicolino, spaventato."Vuol dire che mi accontenterò di quelle castagne con quel liquorino..." Si avvicinò all'Artocarpus per coglierne qualche frutto, ma indietreggiò vivamente avendo visto qualche cosa fra i cespugli. "Là!" esclamò, balbettando come gli succedeva sempre quando aveva paura."Una ti... ti... ti..." "Una tignola?" domandò Battista."Ma no... Per quanto piccolo sia non si può confondere con una tignola... È un uccello mosca o colibrì..." "Una ti... ti... ti..." "Una tinca? Impossibile, in piena foresta vergine... Forse sarà un Cuiù-cuiù, come gli indigeni chiamano un pesce della famiglia dei doralidi e che vive tanto nell'acqua quanto sulla terraferma..." "Una tigre! Là! Là!" e Nicolino indicò un'enorme belva che avanzava strisciando verso di loro. "Macché tigre!" esclamò Battista, alzando le spalle con aria di sufficienza. "Non vedi che non ha le strisce?" "Sarà una tigre à pois!" "Non esistono tigri à pois. Quello, se lo vuoi sapere, è un giaguaro, cioè una tigre americana..." "Mangia l'uomo co... come quella africana?" domandò Nicolino tremando. "Certo" rispose Battista con calma. Ci ripensò quasi subito e spiccò un enorme salto in aria perdendo completamente la sua dignità. "È vero!" esclamò. "Mangia l'uomo come quella africana! Scappiamo!" Si misero a correre disperatamente verso destra, ma si fermarono di colpo avendo sentito provenire dal folto degli alberi dei rulli di tam tam. Nel medesimo tempo, da dietro i cespugli sbucarono le facce dipinte di alcuni guerrieri indiani che vedendo i due si scagliarono contro di loro lanciando urla selvagge. Nicolino, per la paura, lasciò cadere la spada di Giovanna gridando: "Mamma mia!" "Gli indiani!" esclamò il maggiordomo. "Presto, corriamo dalla signora contessa!" Attraversarono un lembo di foresta correndo a perdifiato e piombarono sulla spiaggia, gridando: "Signora Giovanna! Signora contessa...?" "Per le trippe del diavolo, che vi succede?" domandò Giovanna, balzando in piedi. "Signora contessa," disse il maggiordomo ansimante "sono costretto ad annunciarvi..." Indicò verso la foresta vergine dalla quale provenivano sempre più vicini le grida e i colpi di tam tam degli indiani, quindi si fece forza e, come se stesse annunciando una visita: "Gli indios bravos!" disse con voce ufficiale. "Vediamo se sono così 'bravos' come si raccontas'" esclamò la vecchia fieramente. Quindi, rivolta a Nicolino: "La mia spada..." "L'ho... lasciata nella foresta..." balbettò Nicolino. "Maledizione!" ruggì la vecchia contessa. E si chinò per raccogliere un sasso, mentre gli indiani, usciti dal folto della foresta, avanzavano puntando contro di loro le zagaglie e le frecce incoccate negli archi. "È inutile, nonna, con le sassate li irriterai solamente" disse Jolanda fermando la mano della vecchia che si era sollevata in aria per scagliare il sasso contro il più vicino degli indiani. "Meglio parlamentare..." "È giusto" disse Giovanna, abbassando la mano. Quindi rivolta al maggiordomo Battista: "Digli che ci conducano dal loro capo..." Il maggiordomo Battista si rivolse all'indiano che gli stava più vicino e gli disse una lunga frase in dialetto caraibo. Il selvaggio esitò un istante poi rispose qualche cosa. "Cosa ha detto?" domandò Giovanna. "Ha detto che ci condurrà dal suo capo. Può darsi che sia una persona gentile..." "Speriamo che ci inviti a pranzo!" esclamò Nicolino. "Quando ho paura mi viene appetito..." "Infatti," disse Battista "ha detto questo qui che aspettano solo noi per mangiare..." Nel bel mezzo del villaggio dei caraibi, Giovanna, Nicolino, Jolanda e il maggiordomo Battista, legati strettamente a quattro pali sormontati da mostruosi totem, guardavano gli indigeni che danzavano intorno ad essi la cosiddetta "danza della morte". A un certo punto due donne indiane che portavano una enorme marmitta attraversarono il cerchio dei danzatori e andarono a collocarla sopra un gran fuoco che ardeva a poca distanza dai quattro prigionieri, cominciando a riempirla d'acqua che attingevano da una sorgente che scaturiva lì accanto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno" commentò Nicolino, cercando di essere ottimista ad ogni costo. "Sono gentili..." "Non sono gentili," rispose il maggiordomo Battista, amaramente, "sono semplicemente cannibali..." "Sì, mio povero Nicolino," gli spiegò Jolanda "quella marmitta serve per far cuocere il primo di noi che verrà mangiato..." "Oh, mio Dio, quanto mi dispiace!" esclamò ipocritamente Nicolino. "Povera contessa Giovanna!" "Perché pensate che comincino proprio da me, imbecille?" esclamò Giovanna, in tono irritato. "Perché bisogna dar sempre la precedenza alle signore anziane..." "La mia carne è vecchia e coriacea" disse Giovanna. "Forse questi indiani conoscono qualche polverina che ringiovanisce le carni" disse Nicolino. "In Italia la usano... Oh, mamma mia!" Questa ultima esclamazione di Nicolino era stata causata dal fatto che due indiani si erano messi a girare intorno al suo palo, indicandoselo l'uno con l'altro e scambiandosi misteriose parole nel loro dialetto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno..." 4. Giovanna "Questi" disse Nicolino, allarmatissimo "ce l'hanno con me..." "Proprio così" confermò il maggiordomo Battista. "Pe... perché?" balbettò Nicolino, impallidendo. "Che cosa hanno detto?" "'Cominciamo con questo viso pallido" disse il maggiordomo. "Conoscete anche la loro lingua?" esclamò Jolanda, ammirata. "Un perfetto cameriere deve conoscere tutte le lingue" rispose il maggiordomo. "E perché vogliono incominciare proprio con me?" piagnucolò Nicolino. "Lo hanno detto loro che sono pallido... La carne bianca non è buona per il lesso..." Quindi, indicando con un cenno della testa il maggiordomo ai due selvaggi: "Cominciate con lui, che è bello colorito" disse. "Lui sta bene... Guardate che bella faccia di salute che tiene..." E, cantilenando come un venditore napoletano che, è risaputo, mette anche le sue grida in musica, gridò: "È bianco! È rosso! Quant'è buono! Jammo, magnate, magnate!" "È inutile" disse Jolanda. "Non conoscono la vostra lingua..." "Ma Battista, che la conosce, glielo può spiegare..." "Bravo!" disse Battista. "Così mangiano prima me di te!" I due indiani si avvicinarono al palo di Nicolino e, senza parlare, cominciarono a scioglierlo dai suoi legami. Nicolino, terrorizzato, si mise a gridare: "Aiuto! Signora contessa, aiuto, mi vogliono mangiare! Mi vogliono fare lesso!" Come se fossero rimasti impressionati dalle grida che uscivano dalla gola del nostromo, gli indiani si guardarono, poi uno di essi gli disse qualche cosa nel suo dialetto. Nicolino si rivolse a Battista. "Che... Che cosa mi ha detto?" "Ti ha detto" tradusse Battista: "'Sta' tranquillo, viso pallido! I guerrieri della tribù dei Guana Guana non ti vogliono fare lesso!'..." Il povero nostromo respirò di sollievo. "Oh, meno male!" esclamò. "'Ti vogliono fare arrosto'..." concluse Battista. "Quella pila serve soltanto per sbollentarti e toglierti i peli..." "Ma io non voglio essere sbollentato e spelacchiato!" protestò Nicolino. "A me l'acqua bollente mi scotta!" Attratto dagli strilli di Nicolino che urlava come una scimmia rossa, un tipo di indiano dall'aspetto autorevole si avvicinò al gruppo composto da Nicolino e dai due indiani che stavano trascinando il malcapitato nostromo verso la pila. "Zitto, arrosto!" disse a Nicolino parlando in tono autoritario come persona abituata al comando. Quindi, rivolto ai due indiani: "Attizzate il fuoco!" "Ehi, buon uomo!" disse Giovanna, rivolgendogli la parola. L'indiano dall'aspetto autorevole, che era il Cacicco della tribù, si voltò verso Giovanna. "Cosa vuoi, vecchia pallida?" le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"

È stata una vera fortuna che la signora contessa abbia potuto uccidere con un colpo di spada quest'iguana..." "Eh, sì," disse Nicolino "poteva morderci..." "Ma no!" esclamò il maggiordomo. "È stata una fortuna perché l'iguana è squisito..." "Co... come?" balbettò Nicolino. "Vorreste mangiare questo lucertolone schifoso?" "La sua carne è molto apprezzata dagli indios bravos" interloquì Giovanna. "Essi dicono che essa, quando sia lessata, ricordi quella del pollo..." "Bisogna vedere di che razza di pollo si tratta" disse Nicolino. "Può darsi che intendano parlare del pollo andato a male... Mangiano spesso la carne marcia quelli lì!" "Comunque, possiamo provare" propose Battista. "Peccato che non ci sia una pentola per farlo lesso... Be', adesso che succede?" domandò vedendo che Nicolino con gli occhi sbarrati stava guardando verso il fuoco. "C'è la pentola, c'è!" esclamò Nicolino. "Eccola lì..." Giovanna si avvicinò e guardò nel paiolo. "È vero," disse"e dentro ci sono delle uova... Chi può averle messe a bollire?" "Io dico che sono gli spiriti..." esclamò Nicolino. "Macché!" rispose Giovanna."Sarà stato qualche viandante. In fondo quello con cui incomincia questo romanzo, non si sa dove sia andato a finire..." "Mi sia consentito il dire" suggerì Battista "che forse quel viandante spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni potrebbe essere arrivato benissimo fin qui... E che forse si sta aggirando nei pressi in cerca di qualcosa da mangiare anche lui..." "Andiamo a vedere" disse con improvvisa decisione Giovanna. "Sono curiosa di conoscere finalmente uno di questi misteriosi viandanti... Intanto quest'acqua che bolle è proprio quello che ci vuole per cuocere l'iguana... Buttatelo dentro, Battista, e andiamo a fare il giro del tempio..." Il maggiordomo obbedì e Giovanna con Jolanda si avviò verso l'uscita, Anche il maggiordomo, sistemato l'iguana nella pentola, fece per andarsene, ma Nicolino gli si appiccicò alle costole. "Un momento," supplicò "non mi lasciare qui solo..." E uscì insieme a lui sulle piste di Giovanna. Immediatamente, dalla porta che conduceva nei sotterranei entrarono Raul e il capitano. Raul aveva in mano la grossa tacchina che abbiamo già visto maneggiare dal gran sacerdote degli incas. Costui, molto probabilmente, nel sentire avvicinarsi i due, si era nascosto abbandonando la tacchina spennata dove si trovava. "Che cosa vi avevo detto?" stava dicendo Raul. "Che ci doveva essere per forza qualche tacchina da queste parti... Però, non capisco come mai sia già morta e spennata..." "Forse," opinò il capitano, allegramente, "avvilita di essere diventata completamente calva si è suicidata..." Raul lo guardò con sorpresa: "Come?" esclamò. "Non avete più paura come poco fa? Non pensate più che possa essere stato qualche spirito?" "La carne fa quasi sempre dimenticare lo spirito" sentenziò il capitano Squacqueras. "Date qua, che la metto a bollire..." Tolse la tacchina dalle mani di Raul e stava per immergerla nella pentola, quando, nel guardarci dentro, sbarrò gli occhi farfugliando: "Oh, sant'Ambrogio! Aiuto!" "Che c'è?" domandò Raul avvicinandosi... Il capitano indicò a Raul l'iguana la cui testa mostruosa sporgeva dalla pentola e sembrava lo stesse fissando con i suoi occhi bianchi che erano schizzati fuori dalle orbite. "Un drago!" strillò il capitano con tutto il fiato che aveva in corpo."Un mostro che mi guarda!" "Ma no!" esclamò Raul. "È soltanto un innocuo iguana... È inoffensivo da vivo, figuriamoci così, mezzo cotto!" "E che cosa sta facendo là dentro? Il bagnetto?" "Sarà caduto nella pentola dal soffitto del tempio che è tutto rotto... Ce ne potrebbe cadere qualcuno in testa... Facciamo una bella cosa, capitano: andiamo di là, dove c'è il tetto sano..." Il capitano Squacqueras indicò le angurie e gli ananas. "Un drago!" strillò il capitano... "Qui ci sono anche delle frutta che prima non c'erano..." "Forse erano cresciute sul tetto e l'iguana, cadendo, se le è trascinate dietro... Comunque, siano le benvenute anche loro... Prendete su tutto e andiamo di là..." I due raccolsero le frutta e impugnarono la marmitta, il capitano per un manico, Raul per l'altro, ed uscirono dalla porta che conduceva nei sotterranei. Provenienti dall'esterno entrarono gli altri quattro. "Macché!" stava dicendo Giovanna. "Fuori non c'è nessuno..." "Si vede che quel viandante, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, è andato a finire in bocca a qualche giaguaro, signora contessa..." suggerì Battista. "La pepé!" disse Nicolino. "Cosa stai dicendo?" gli domandò Battista, guardandolo malamente. "La mammà!" farfugliò ancora Nicolino. "Il papà..." "Ma che diavolo dici?" gli dette sulla voce Battista. "La pe... pentola!" riuscì finalmente a spiccicare Nicolino."La ma... marmitta... Il pa... paiolo! Non c'è più... È sparito!" "E allora" concluse Giovanna "non c'è niente da fare, vuol dire che nel tempio c'è gente..." "Potrebbero essere il Corsaro Blu e il Doppio Barbanera Illustrato" esclamò Jolanda con la voce piena di speranza. "Sono scomparsi così misteriosamente dal villaggio indiano, quella sera!" "La pepé!" disse Nicolino. "Macché!" esclamò Giovanna. "Debbono essere morti, divorati dalle fiere..." "Spero di no, nonna!" disse Jolanda. "Se sono mo... morti è peggio" balbettò Nicolino "perché potrebbero essere i loro fantasmi..." "La cosa migliore da fare" decise Giovanna "è di cercarli dappertutto... Facciamo una cosa: dividiamoci... Io e Jolanda andiamo di qua," e così dicendo indicava una specie di cunicolo che scendeva a mezzo di una scala di pietra verso il basso, "Battista va ancora a vedere fuori..." "E io?" domandò Nicolino. "Voi restate qua" ordinò Giovanna. "E ci resto di sicuro se mi lasciate qui solo... Ci resto secco..." "Non fate lo sciocco, nostromo... Dovete restare qui per bloccare l'uscita del tempio..." E Giovanna, senza più curarsi del nostromo Nicolino, cominciò a scendere la scala, mentre Battista usciva all'esterno del tempio. Nicolino cadde a sedere su una pietra asciugandosi il sudore. "Oh, mamma mia!" gemeva piano piano. "Oh, mamma mia bella... Povero me!" Era così intento a compiangersi da non avvedersi che alle sue spalle una grossa pietra stava girando su dei cardini invisibili scoprendo un passaggio segreto nel cui vano apparve una figura gigantesca alta per lo meno due metri e mezzo, ricoperta da un lungo mantello intessuto di piume e con la testa di serpente. Accanto all'orripilante figura era la sacerdotessa che sussurrò: "È solo..." "Vado" disse l'orripilante figura che parlava con la voce del gran sacerdote avanzando verso Nicolino. Con un lungo stelo che aveva in mano prese a vellicare l'orecchio di Nicolino che, credendo si trattasse di un insetto, lo scostò con un gesto della mano borbottando: "È pure pieno di zanzare, qui... Però, almeno le zanzare sono vive... Volano, ronzano, ti succhiano il sangue..." Ci ripensò... "Ti succhiano il san..." ripeté "e se si trattasse di un vampiro?" Nicolino, terrorizzato, si voltò piano piano e si trovò davanti, improvvisamente, quella specie di spettro. Aprì la bocca per gridare ma nessun suono usciva dalla sua strozza. "A... a... a..." riuscì soltanto a dire dopo un enorme sforzo. "Maledetti sacrileghi!" tuonò invece la strana figura con voce sepolcrale. «Abbandonate subito questo tempio che avete profanato e lasciate dormire in pace le anime dei nostri morti!" Così detto si voltò e se ne andò maestosamente per dove era venuto. Nicolino avrebbe voluto gridare, ma se riuscì finalmente a dire "Aiuto" lo disse così sottovoce che non si sentiva affatto. "A... a... aiuto!" sussurrò. Finalmente, non riuscendo proprio a gridare, afferrò il suo fischietto da nostromo che gli pendeva dal collo e portatolo alle labbra ne trasse due o tre sibili tremolanti. Il maggiordomo Battista arrivò di corsa. "Ma che succede?" gli domandò. "Cosa credi di essere a bordo della Tonante?" "Un fa... fa... fa..." mugolò Nicolino. "Un fagiano?" "No, un fa... fa... fa..." "Un falco?" Nicolino fece disperati cenni di diniego. "Un fa... fa... fantasma!" esplose finalmente. «Ma fammi il piacere!" scattò Battista. "Avrai avuto un'allucinazione..." "Non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tre... tre... tre..." Poiché non riusciva a vincere l'impuntatura, Nicolino muoveva vivacemente la mano in su e in giù come se stesse giocando alla morra. Il maggiordomo, lì per lì, distratto, lo assecondò: "Quattro!" gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"

I ragazzi della via Pal

208157
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

. — Signor professore, è forse giusto e bello che Barabas abbia tradifo la bandiera? diceva furioso Colnai. E Barabas si giustificava: — Sempre con me se la prende! Se non avevamo più timbro, la società era sciolta egualmente! — Silenzio! — intimò il professore, troncando la disputa — Ora vi aggiusto io. Dichiaro sciolta la società e non voglio mai più sentire che vi siete immischiati in faccende simili. Avrete tutti una nota di biasimo in condotta morale ed il Vais avrà una nota anche più grave perchè era il presidente. — Scusi — osservo con modestia Vais — Io ero presidente proprio oggi per l'ultimo giorno, perchè oggi doveva esserci l'assemblea dei soci ed era proposto candidato un altro per questo mese! — Il candidato era Colnai — disse con una smorfia di sarcasmo Barabas. — Non m'interessa — rispose il professore —. Domani resterete in classe fino alle due. Ve lo do io lo stucco! Ed ora via, filate! — Ossequi! — dissero in coro e si mossero. Vais cercò di approfittare di questo momento di confusione per allungare la mano verso la palla di stucco che era rimasta sulla tavola; ma il professore se n'era accorto. — Lo vuoi lasciar stare sì o no? Vais fece una faccia compunta. — Lo stucco non ci verrà restituito? — No. Anzi chi ne avesse ancora, deve darmelo subito. Se vengo a sapere che qualcuno non me l'ha consegnato, prendo dei provvedimenti severissimi contro di lui! A queste parole Lessi, che s'era taciuto fino allora come un pesciolino, fece un passo avanti e si cavò di bocca una pallottola di stucco che appiccicò al capitale sociale sequestrato: lo fece con un sospiro e con mano sudicia. — Ce n'è ancora? Invece di rispondere Lessi spalancò la bocca e mostrò che non ne aveva più. II professore prese il cappello. — E ch'io non senta mai più che avete fondato una società! Ora su, filate a casa! I ragazzi filarono in silenzio per la porta; uno solo disse piano: — Ossequi! Era Lessi che non aveva potuto salutare prima perchè aveva lo stucco in bocca. Il professore se n'andò e la Società dello Stucco disciolta rimase sola. I ragazzi si guardarono rattristati. Colnai raccontò a Boka, che aspettava, la scena dell'interrogatorio. Boka respirò sollevato. — Mi sono spaventato molto — disse perchè temevo che qualcuno avesse tradito il campo... Nemeciech intanto s'era messo nel centro del gruppo e sussurrò: — Guardate! Mentre vi interrogava io ero vicino alla finestra nuova e... — mostrò il pezzo di stucco che aveva grattato dalla finestra. Gli altri lo fissarono con trasporto. Gli occhi di Vais sfavillarono: — Se c'è dello stucco, la società non è morta. Sul campo terremo l'assemblea! — Sul campo! Sul campo! — gridarono anche gli altri. E tutti si misero a correre verso casa. Le scale echeggiavano dei loro gridi di guerra: — Ahò, oò! Ahò, oò! Tutti filarono via per il portone. Boka soltanto camminava solo, adagio adagio: non era allegro. Pensava a Ghereb, a Ghereb traditore, a Ghereb che aveva portato il fanalino nell'isoletta dell'Orto Botanico. E si diresse verso casa sempre rimuginando i suoi pensieri amari...

Ma non perchè abbia paura. Io non ho paura. Ma non voglio per il berretto. E te lo dimostro anche perché, se ci tieni, io ci butto volentieri il tuo berretto! Non si può dire una cosa simile a Ghereb: è quasi un'offesa. E Ghereb si risentì e disse: — Se si tratta del mio berretto, lo butto da me. Questi è uno strozzino. E se tu hai paura, scappa! — E con un gesto che in lui significava intenzioni aggressive, si tolse il berretto pronto a far schizzare in tutte le direzioni i dolciumi allineati in bell'ordine sulla panchetta del turco. Ma da dietro qualcuno gli afferrò il polso. E una voce seria, quasi d'uomo, gli chiese: — Cosa fai? Ghereb si volse. Boka era dietro a lui. — Cosa fai? Boka lo fissava serio ma mite. Ghereb brontolò come un leone quando fissa la pupilla del domatore. Diventò piccolo. Rimise il berretto in testa e scrollò le spalle. Boka gli disse: — Lascia stare quell'uomo. A me piace il coraggio; ma questa sarebbe una sciocchezza. Andiamo! E gli porse la mano, una mano sporca di macchie d'inchiostro. Il calamaio tascabile aveva fatto colare il suo sangue blu scuro e Boka aveva messo, senza sospetto, la mano in tasca! Ma nessuno se ne preoccupò: Boka sfregò la mano contro il muro, per cui anche il muro divenne sporco d'inchiostro e la mano non divenne per questo più pulita, ma la faccenda dell'inchiostro con ciò era conclusa. Boka prese Ghereb sottobraccio e s'incamminarono lasciando dietro di loro Ciele, il quale con voce strozzata, con la voce avvilita del rivoluzionario sconfitto e rassegnato, diceva al turco: — Se d'ora in poi tutto costa dieci soldi, ebbene mi dia del torrone per dieci soldi! E aperse il suo bel borsellino di pelle verde. Il turco sorrideva e pensava forse a quel che potrebbe accadere se da domani tutto costasse quindici soldi. Ma non era che un sogno, come quando uno sogna che uno scudo vale cento franchi! Spaccò dall'alto in basso il torrone e mise la scheggia spaccata su un piccolo pezzo di carta. Ciele lo guardò avvilito. — Ma questo è meno di prima! II successo commerciale aveva reso il turco insolente. Disse: — Ora è più caro appunto perchè è meno! E si volse a un nuovo cliente che, ammaestrato dall'esempio, teneva già pronti in mano i dieci soldi. E si mise ad assalire il torrone col suo coltello facendo gesti strambi come se fosse un gigantesco carnefice medievale che decapitasse uomini bianchi dalle testoline color nocciola. Compiva un eccidio nel torrone. — Vergogna! — disse Ciele al cliente sopraggiunto — Non comperate niente! E' uno strozzino! E con un sol colpo si ficcò in bocca tutt'il torrone; e la carta rimase appiccicata alle labbra. 2 — Aspettate! — gridò allora verso Boka e si mise a correre per raggiungerlo. Boka aveva quattordici anni e sul suo viso c'erano pochi tratti dell'adulto. Ma quando apriva bocca, subito aumentava di qualche anno. La sua voce era profonda, mite, seria. E quel ch'egli diceva era un po' come la sua voce. Diceva raramente delle sciocchezze e non amava le biricchinate. Non interveniva mai nelle piccole questioncelle; e se lo chiamavano a far da arbitro, non accettava. Sapeva che dopo la sentenza, una delle due parti restava insoddisfatta e conservava rancore all'arbitro. Ma quando la lite s'inaspriva e il bisticcio cominciava a diventar pericoloso tanto da richiedere l'intervento di qualche autorità, allora Boka s'intrometteva per rappacificare. E chi cerca soltanto di far rifare la pace non corre pericolo di inimicarsi i litiganti. Insomma Boka pareva un ragazzo intelligente e aveva l'aria — se anche non fosse certo che la sua carriera futura sarebbe stata brillante per questo — aveva l'aria di essere una persona per bene. La piccola strada tranquilla era riscaldata da un dolce sole di primavera e la manifattura tabacchi che si allungava da un lato rombava piano. C'erano soltanto due passanti, due ragazzi, che in mezzo alla strada aspettavano. Uno era Cionacos, il forte Cionacos, e l'altro il piccolo biondo Nemeciech. Quando Cionacos s'accorse dei tre compagni che s'avvicinavano, mise due dita fra le labbra e fischiò come una locomotiva. Era la sua specialità, fischiare! In quinta nessuno sapeva fischiare come lui, anzi in tutto il ginnasio pochi avrebbero saputo imitare questo fischio da cocchiere. Sì, c'era Scinder, il presidente del Circolo di Letteratura, che sapeva fischiare così; ma Scinder fischiava soltanto prima d'essere eletto presidente del Circolo. Da quel giorno non aveva mai più messo le dita in bocca: non era conveniente per ii Presidente di un Circolo Letterario! Cionacos fischiò dunque e i tre sopraggiunti gli si accostarono; i ragazzi formarono un gruppo in mezzo alla strada. Volgendosi verso il biondo Nemeciech, Cionacos domandò: — A loro l'hai detto? — No — rispose Nemeciech. — Che cosa? — domandarono i tre ad una voce. Invece del biondino parLò Cionacos ed annunziò: — Ieri neL giardino del museo hanno Fatto ancora «einstandt». — Chi? — I Pastor. I due fratelli Pastor. Si fece un gran silenzio. Ma per capire bisogna sapere che cosa sia einstandt. Questa è una parola tutta speciale dei ragazzi di Budapest. Se un ragazzo più forte vede uno più debole che sta giocando coi birilli o coi pennini o con i semi e vuole prendergli il gioco, dice: einstandt. Questa brutta parola tedesca significa che il ragazzo più forte dichiara il gioco bottino di guerra e chi osa resistergli dovrà subire la sua violenza.Einstandt è perciò anche dichiarazione di guerra: è la formula breve ma efficace della violenza, del diritto del più forte e del brigantaggio. Ciele fu il primo a parlare, il fine ed elegante Ciele che esclamò inorridito: — Hanno fatto einstandt? — Sì — disse il piccolo Nemeciech, prendendo coraggio al vedere che la sua comunicazione suscitava interesse. — Non si può andare avanti così! — proruppe a dire Ghereb. — E' un pezzo che io dico che bisogna fare qualcosa, ma Boka storce sempre la bocca. Se non facciamo qualcosa finiremo con l'essere picchiati! Cionacos mise ancora le dita in bocca e si preparava a fischiare d'allegria per dimostrare che approvava con entusiasmo qualunque proposta rivoluzionaria, ma Boka lo afferrò al polso. — Non assordarci! — intimò. E rivolgendosi al bambino: — Com'è andata? — chiese. — L'einstandt? — Sì. Quand'è stato? — Ieri, nel pomeriggio. — Dove? — Al museo. — Racconta com'è accaduto. Ma dì la verità, con esattezza, perchè noi dobbiamo essere informati se dobbiamo decidere qualcosa... Nemeciech era agitatissimo perchè sentiva d'essere diventato il centro dell'interesse, il che gli capitava di rado... Nemeciech era per tutti un ragazzo insignificante; nessuno si curava di lui. Si mise a parlare e i ragazzi accostarono i visi: — Ecco, — disse — è stato che dopo colazione siamo andati nel giardino del museo, Vais e io e Richter e Colnai e Barabàs. E prima volevamo giocare a palla con il tamburello, ma la palla era di quelli del liceo e non ce la volevano dare. E allora il Barabàs dice: «Andiamo a giocare alle biglie sotto il muro». E siamo andati tutti in giardino a giocare alle biglie sott'il muro. E si giocava che ognuno deve tirare una biglia e chi riesce a pigliare una di quelle che sono giù, prende tutte le biglie già giocate. E facevamo correre le biglie e ce n'erano già una quindicina per terra e due anche di vetro, quando il Richter si mette a gridare: «E' finita! Ci sono i Pastor!» E sull'angolo c'erano i Pastor con le mani in tasca e con la testa bassa che venivano avanti così adagio che tutti abbiamo avuto molta paura. Va bene che noi eravamo in cinque e loro in due, ma è come se non fossimo in cinque perchè al primo pasticcio Colnai scappa e Barabàs anche, quindi era come se fossimo in tre. E poi forse scappo anch'io, e allora era come se fossero stati in due. E se anche poi si scappa tutti e cinque, non serve, perchè i Pastor corrono di più e ci pigliano subito, e sono sempre più forti. Allora i Pastor vengono sempre più vicini e guardano le biglie. Io dico piano a Colnai: «Stanno a guardare... Arnano le biglie!» Ma il più intelligente era ancora Vais che ha subito detto: «Vedrete! Ci sarà un grande einstandt!» Ma io pensavo che non ci avrebbero fatto niente perchè noi non li abbiamo mai disturbati. E infatti non facevano nulla; stavano soltanto a guardare il gioco. E il Colnai mi dice: «Ora Basta. Andiamo via!» Ma io gli rispondo: «Bravo! Proprio adesso perchè tu hai sbagliato il colpo! Ora tocca a me! Se vinco, ce n'andiamo...» E prima di me toccava a Richter, ma gli tremava la mano dalla paura e a forza di guardare i Pastor di traverso ha preso male la mira. Ma i Pastor non si muovevano, erano lì, in piedi, con le mani in tasca. Tocca a me: piglio giusto. Vinco tutte le biglie. Faccio per raccoglierle, erano una trentina, e il più piccolo Pastor interviene e mi grida: «Einstandt!» Mi volto e vedo che Colnai e Barabàs già filano a tutta corsa, Vais è appoggiato al muro, bianco di paura, e Richter è li che ci pensa su se andarsene o no. Io ho tentato con gentilezza di dire: «Scusate. Non avete diritto di prendermele!» Ma il Pastor grande stava già mettendosi le biglie in tasca; e il piccolo mi prende per il bavero gridando: «Non hai sentito l'einstandt?» E allora, si capisce, non ho fiatato più. Vais piangeva contro il muro. Colnai e Barabàs spiavano di lontano quello che stava capitando. I Pastor presero tutte le biglie, non dissero più una parola e se ne andarono. Questo è tutto. — Inaudito! — disse indignato Ghereb. — Un vero furto! — aggiunse Ciele. Cionacos fischiò per far comprendere che c'era in aria odor di polvere. Boka stava silenzioso e rifletteva: tutti fissavano lui. Tutti erano curiosi e ansiosi di quel che avrebbe detto Boka di questa faccenda della quale tutti si lamentavano da mesi, ma che Boka non aveva mai preso sul serio. Ma questa volta, l'ingiustizia clamorosa di quel ch'era accaduto commosse anche Boka. Parlò piano: — Ora andiamo a far colazione. Nel pomeriggio ci vedremo sul campo. Discuteremo lì la questione. Dico anch'io che la cosa è inaudita! Tutti furong contenti di questa dichiarazione. Boka, in quel momento, divenne simpaticissimo a tutti. I ragazzi fissavano con affetto la sua testa intelligente, i suoi occhi neri scintillanti che mandavano lampi battaglieri. E tutti avrebbero voluto abbracciare Boka perchè anche lui si era finalmente indignato. S'avviarono verso casa. Grandi avvenimenti maturavano. In ognuno divampava l'energia e l'ansia di sapere quel che ora si sarebbe fatto di certo. Andavano, camminando adagio, lungo il viale. Cionacos rimase indietro con Nemeciech. Quando Boka si rivolse verso di loro, i due erano fermi, vicini a una finestrina della cantina della manifattura tabacchi sul cui davanzale si depositava in grossi strati gialli la fine polvere di tabacco. — Tabacco da naso! — gridò allegro Cionacos. Fischiò e si ficcò nelle narici un po' di povere. Il piccolo Nemeciech rise di cuore. Ne pigliò anche lui e di sulla punta delle sue dita sottili aspirò un poco. Attraversarono, starnutendo, la strada, ed erano tutti felici della loro scoperta. Cionacos starnutiva a gran colpi tuonanti come di cannone. II biondino sbuffava come un coniglio seccato. Soffiarono, tossirono, corsero, risero e in quel momento erano così contenti che dimenticavano anche la grande ingiustizia, quella che Boka, che lo stesso Boka, il tranquillo e serio Boka qualificava inaudita!

, ma mi duole molto che mi abbia detto «malgrado tutto sei un bravo ragazzo»... Boka sorrise: — Non è colpa mia. Ma tua. Ma non fare il permaloso, ora. Dietro front! March! Torna al tuo posto! Ghereb s'incamminò e si ficcò con gioia nella trincea: incominciò subito la fabbricazione delle bombe di sabbia umida. Dalla trincea saltò fuori Barabas, tutto sudicio, che gridò a Boka: — Gliel'hai permesso? — Sì — rispose il generalissimo. In generale non prestavano troppa fede a Ghereb: il che capita, sempre agli spergiuri. Vengono controllati anche quando dicono la verità. Ma la parola del generalissimo aveva fatto sparire i dubbi. Barabas s'arrampicò sulla fortezza d'angolo e dal basso si patè vederlo quando fece il saluto militare di lassù al comandante della fortezza; ma poi entrambi sparirono perchè s'erano messi a lavorare. Ammucchiavano in piramidi le bombe di sabbia. Così passarono alcuni minuti, minuti che ai ragazzi sembrarono ore, tanto che si sentivano frasi come queste: — Che abbiano cambiato idea? — Che si siano spaventati? — Preparano qualche sorpresa! — Non verranno! Qualche minuto dopo le quattordici l'aiutante di campo caracollò lungo le posizioni dando ordine di cessare ogni schiamazzo e di mettersi tutti sull'attenti perchè il generalissimo intendeva passare l'ultima rivista alle truppe. E mentre l'aiutante di campo faceva questo annuncio ecco in fondo comparire Boka, muto, severo. Passò davanti prima all'armata di via Maria: tutto in ordine. I due battaglioni di copertura stavano irrigiditi a destra ed a sinistra della grande porta. I comandanti si fecero avanti. — Sta bene — disse Boka —. Sapete il vostro dovere? — Sappiamo. Fingere la fuga. — E poi attaccare alle spalle! — Sì, signor generale! Visitò quindi la capanna. Aperse la porta, mise la chiave nella toppa dal di fuori: provò anche se funzionava la serratura. Poi visitò le tre fortezze della fronte. Due o tre ragazzi stavano in ciascuna fortezza. Le bombe di sabbia erano pronte, in piramide. La fortezza numero tre aveva il triplo delle bombe delle altre, perchè era la fortezza principale. Tre artiglieri si misero sull'attenti quando il generalissimo comparve. Nelle fortezze 4, 5 e 6 v'erano bombe di riserva. — Queste non le toccate — disse Boka — perchè la sabbia di riserva serve per far fuoco se faccio passare qui gli artiglieri delle altre fortezze. — Sì, signor generale. Nella fortezza 5 l'agitazione era così forte che quando il generale vi giunse l'artigliere troppo zelante gli gridò in faccia: — Va al tuo posto che qui c'è da fare! Il compagno gli diede una gomitata e Boka lo redarguì: — Non riconosci il tuo generale, asino? Ed aggiunse: — Un soldato così, sarebbe meglio fucilarlo! L'artigliere si spaventò a morte perchè non pensava che era improbabile venisse fucilato davvero. Nè ci aveva pensato Boka il quale questa volta - e gli accadeva di rado - aveva detto una sciocchezza. Continuando giunse alla trincea. Dentro la fossa erano accovacciati due battaglioni; e Ghereb era tra essi, felice. Boka si mise sullo spalto della trincea. — Ragazzi... — gridò entusiasmato — da voi dipende l'esito della battaglia. Se riuscite a trattenere il nemico fino a che sia finita l'azione di via Maria, la giornata è nostra! Pensateci bene! Un urlo rispose dalla trincea... — Silenzio! — ordinò il generalissimo. E andò nel centro del campo. Ciele lo stava aspettando con la tromba in mano. — Aiutante di campo! — Comandi! — Noi dobbiamo metterci in un punto dal quale possiamo vedere tutta la battaglia. Di solito i generali seguono i combattimenti dall'alto di una collina. Noi possiamo arrampicarci in cima alla casupola. E vi si recarono. II sole brillava sulla trombetta di Ciele e questo dava un aspetto oltremodo marziale all'aiutante di campo. Gli artiglieri delle fortezze se lo indicarono l'un l'altro: — Lo vedi? Ed allora Boka cavò di tasca il binoccolo da teatro che era già stato adoperato durante l'azione dell'Orto Botanico. Se lo appese ad armacollo con una cinghia ed in questo momento non differiva dal grande Napoleone se non per qualche particolare di secondaria importanza. Egli era un comandante d'esercito: questo è certo. Ed aspettava. Per l'esattezza storica bisogna avvertire che dopo sei minuti precisi risuonò lo squillo di una trombetta dalla parte di via Pal. A questo suono i battaglioni cominciarono ad agitarsi. - Vengono! Ma non era che una trombetta estranea. Alcuni momenti dopo le due sentinelle balzarono dallo steccato e si diressero correndo verso la casupola in cima alla quale era il generalissimo. Si soffermarono, salutarono e dissero: — II nemico! — Ai vostri posti! — gridò Boka — Ora si decide il destino del nostro regno! Le due sentinelle corsero ai loro posti, uno dentro la trincea, l'altro fra le truppe di via Maria. Boka puntò il binoccolo e disse piano a Colnai: — Pronto con la tromba! Poi Boka abbassò il binoccolo; era infiammato in volto e disse con voce tremante: — Suona! E il segnale di tromba squillò. Alle porte, alle frontiere del regno, le Camicie Rosse sostarono. Sulle punte inargentate delle loro lancie risplendeva il sole: e le camicie ed i berretti rossi li facevano sembrare diavoletti. Anche le loro trombe suonarono all'assalto e l'aria fu piena di squilli di tromba eccitanti. Colnai soffiava senza tregua, senza cessare. Boka cercò col binoccolo Franco Ats. — Eccolo! E' con quelli di via Pal. Anche Sèbeni è con lui. Ha la nostra bandiera. L'armata di via Pal dovrà sostenere un urto violento. Quei di via Maria erano capitanati dal maggiore dei Pastor. Sventolavano una bandiera rossa. E le trombe squillavano senza tregua. Le Camicie Rosse sostavano sulle porte in ordine serrato. — Preparano qualcosa — disse Boka. Di colpo le trombe delle Camicie Rosse tacquero. L'esercito di via Maria eruppe in un tremendo grido di guerra: — Uja op! Uja op! E si precipitarono attraverso la porta. I nostri fecero mostra di opporsi un istante ma subito dopo scapparono come prescriveva l'ordine di battaglia. — Bravi! — gridò Boka. Poi di colpo guardò verso via Pal. L'armata di Franco Ats non era entrata. Se ne stava immobile davanti alla porticina, aperta. — Che è questo? — Un'insidia! — disse tremante Ciele. E di nuovo guardarono a destra. I nostri correvano e i nemici li inseguivano urlando. Boka che aveva guardato finora intimidito e pensoso la passività dell'armata di Franco Ats, d'un tratto fece quello che non si ricorda avesse mai fatto: buttò per aria il suo berretto e si mise a danzare come impazzito sul tetto della capanna. — Siamo salvi! — gridava. Balzò su Ciele, lo abbracciò, lo baciò. Poi si mise a ballare con lui. L'aiutante non ne capiva nulla. Gli chiese preoccupato: — Che c'è? Che c'è? Boka indicò verso la direzione di Franco Ats. — Non vedi? — Sì. — Ebbene, non capisci? — No! — Che sciocco! Siamo salvi! Abbiamo vinto! Non capisci? — No! — Non vedi che stanno fermi? — Lo vedo! — Non entrano! Aspettano! — Lo vedo! — Ma perchè aspettano? Aspettano che l'armata di Pastor abbia sgomberato il fronte di via Pal. Ed essi attaccano dopo. L'ho capito non appena ho veduto che non attaccavano contemporaneamente! La nostra fortuna è ch'essi abbiano ideato un piano di battaglia eguale al nostro. Hanno pensato di cacciare con l'armata Pastor metà del nostro esercito fuori dalla via Maria e allora l'altra metà sarebbe stata attaccata su due fronti. Ma noi non beviamo! Vieni! E si mise a strisciare giù. — Dove? — Vieni con me. Non c'è più nulla da guardare. Quelli non si muoveranno. Andiamo ad aiutare l'armata di via Maria. L'armata di via Maria eseguiva mirabilmente i propri compiti. Correva su e giù davanti alla segheria, attorno ai gelsi. E per fare i furbi gridavano: — Ahimè! Ahimè! — Siamo perduti! — Siamo finiti! Le Camicie Rosse li inseguivano urlando. Boka stava osservando se riuscissero a farli cadere in trappola. D'un tratto i nostri erano scomparsi dietro la segheria. Metà dell'armata era corsa nella rimessa, l'altra metà nella casupola. Pastor gridò l'ordine: — Inseguiteli! Catturateli! — E i rossi corsero loro dietro. — Tromba! — ordinò Boka. E la tromba segnalò alle fortezze ch'era giunto il momento d'iniziare il bombardamento. E l'urlo di guerra dei ragazzi giunse dalla prime tre fortezze impegnate. Si udirono tonfi sordi: le bombe di sabbia volavano. Boka era rosso in viso e tremava tutto. — Aiutante! — gridò. — Presente! — Corri alla trincea e dì che aspettino. Attacchino soltanto quando io faccio suonare l'assalto. E anche le fortezze di via Pal aspettino! L'aiutante si precipitò giù, ma giunto in prossimità della trincea si mise bocconi e 14 proseguì strisciando perchè il nemico non lo potesse scorgere: comunicò l'ordine sussurrandolo al più vicino e tornò com'era venuto. — Fatto! — comunicò. Dietro la segheria l'aria fremeva di urla. Le Camicie Rosse credevano d'aver vinto. Le tre fortezze bombardavano con intensità e questo impediva loro di dare la scalata alle cataste di legname. Nella fortezza d'angolo, numero tre, Barabas in maniche di Camicia combatteva da leone. Prendeva sempre di mira il maggiore dei Pastor; ed una dopo l'altra le bombe di sabbia scoppiavano sulla sua testa. E ad ogni colpo Barabas esclamava: — Per te, figlio mio! — La sabbia si spargeva sul viso e nella bocca del Pastor che sbuffava furiosamente. — Aspetta che vengo io! — urlò fuori di sè. — Vieni pure! — rispose Barabas. Mirò e tirò. II collo della Camicia Rossa si gonfiò di sabbia. Un grande urrà rispose da tutte le fortezze! — Mangia sabbia! — gridò invasato Barabas; e gettò bombe con entrambe le mani verso il Pastor. E anche gli altri due non dormivano. La fortezza d'angolo lavorava furiosamente. La fanteria era rannicchiata silenziosamente nella rimessa in attesa dell'ordine di marciare all'assalto. Le Camicie Rosse erano già ai piedi delle fortezze e stavano combattendo una dura battaglia. Pastor rinnovò l'ordine: — Su! Scaliamo le fortezze! — Bum! — esclamò Barabas colpendo il capo sul naso. — Bum! — ripeterono le altre fortezze scaraventando una grandinata di sabbia sulla testa dei più arditi avversari. Boka afferrò il braccio di Ciele. — La sabbia comincia ad esaurirsi. Lo vedo di qui. Anche Barabas lavora con un braccio solo sebbene nella fortezza d'angolo le munizioni fossero state triplicate... Il fuoco infatti sembrava rallentare. — E che cosa accadrà? — chiese Colnai. Boka oramai era più calmo. — Vinceremo! Intanto la fortezza numero due aveva sospeso il fuoco. La sabbia doveva essere finita. — Questo è il momento! — gridò Boka — Corri alla rimessa. Bisogna marciare all'assalto! Alla casupola si recò egli stesso: spalancò la porta e gridò: — All'assalto! I due battaglioni si precipitarono fuori contemporaneamente: uno dalla rimessa, l'altro dalla capanna. Giunsero al momento giusto: Pastor stava già arrampicandosi sulla seconda fortezza. Si aggrapparono a lui, lo tirarono giù. Le Camicie Rosse cominciarono a scompligiarsi. Credevano che la truppa fuggita si fosse ritirata dietro le cataste di legname e che queste servissero ad impedire l'avanzata degli inseguitori verso i fuggitivi; ed ecco erano attaccati alle spalle da coloro che poco prima erano scappati. I corrispondenti di guerra più seri dicono che il maggior pericolo della guerra sia lo scompiglio. I generali temono meno cento bocche di cannone che non il minimo turbamento che in pochi minuti provoca un trambusto generale. E se un piccolo scompiglio turba una vera armata con fucili e cannoni, che non poteva fare di alcuni piccoli fanti vestiti di camicia rossa? Non riuscivano a capire. Dapprima non avevano nemmeno compreso che questi erano gli stessi fuggiti poco prima davanti a loro. La credettero una nuova armata di rinforzo. Soltanto dopo averne riconosciuti alcuni compresero di trovarsi di fronte agli stessi. — Da che inferno son venuti fuori? — gridò Pastor mentre due forti braccia lo afferravano per le gambe e lo tiravano giù. Ora anche Boka combatteva. Si era scelta una Camicia Rossa e combatteva. Lottando lo sospingeva verso la capanna. La Camicia Rossa vedendo di non riuscire a spuntarla contro Boka gli diede lo sgambetto. Dalle fortezze partirono grida di protesta: — Vergogna! — Ha dato lo sgambetto! Boka era caduto in seguito allo sgambetto, ma era subito rimbalzato in piedi. — Hai dato lo sgambetto! Questo non è nelle regole! Fece un cenno a Ciele ed in pochi momenti sospinsero la Camicia Rossa dentro la capanna che Boka rinchiuse a chiave. — Ha fatto lo stupido — disse —. Se avesse combattuto lealmente non sarei riuscito a vincerlo. In questo modo è stato lecito attaccarlo in due. E corse di nuovo sulla linea del fuoco dove oramai si lottava a coppie. La poca sabbia rimasta nelle fortezze 1 e 2 veniva adoperata dagli artiglieri per spargerla sul nemico impegnato. Ma le fortezze di via Pal tacevano. Aspettavano. Ciele già aveva affrontato un avversario quando Boka gli ordinò: — Non lottare! Porta l'ordine alle guarnigioni delle fortezze 1 e 2 di portarsi nelle fortezze 4 e 5. Ciele s'infiltrò tra i combattenti e corse a portare gli ordini. Presto dalle due fortezze scomparvero le bandiere perchè i ragazzi le avevano portate con sè nella nuova linea di combattimento. Un grido di vittoria seguiva all'altro. Ma il più forte risuonò quando Pastor, il terribile ed invincibile Pastor fu sollevato di peso da Cionacos e portato verso la capanna. Dopo un istante Pastor percoteva furiosamente il muro della capanna, ma dall'interno! Un urlo tremendo si levò allora: le Camicie Rosse sentivano d'essere perdute. E persero completamente la testa quando il loro capo scomparve di mezzo. Speravano soltanto in Franco Ats che riuscisse a mutare le sorti della battaglia. Una Camicia Rossa dopo l'altra veniva portata nella capanna, tra gridi di vittoria sempre rinnovati, i quali giungevano fino all'armata immobile sulla soglia della porticina di via Pal. Franco Ats che camminava su e giù davanti alla frontiera, disse con sorriso fiero: — Sentite? Presto avremo il segnale! Le Camicie Rosse erano rimaste d'accordo che quando Pastor avesse finita la propria operazione in via Maria avrebbe dato un segnale di tromba e allora Pastor e Franco Ats avrebbero attaccato contemporaneamente. Ma in quel momento il piccolo Vendauer, trombettiere del gruppo Pastor, stava bussando con tutte le forze contro la porta della capanna e la sua tromba piena di sabbia giaceva nella fortezza numero 3 tra il bottino di guerra... Mentre questo accadeva tra la segheria e la capanna, Franco Ats incoraggiava calmo i suoi uomini. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

— Perchè vuoi che abbia paura? — Potresti aver paura che io morissi proprio quando tu sei seduto sul mio letto. Ma quando devo morire, te lo dico prima. Boka sedette vicino a lui. — Che vuoi? Il malato abbracciò Boka e gli chiese all'orecchio come se gli domandasse un gran segreto: — Che è accaduto delle Camicie Rosse? — Le abbiamo vinte. — E poi? — Son tornati all'Orto Botanico ed hanno tenuto consiglio. Hanno aspettato fino a sera, ma Franco Ats non c'è andato. Allora si sono seccati d'aspettare e se ne sono tornati a casa. — Ma perchè Franco Ats non c'è andato? — Perchè aveva vergogna. E lo faranno dimettere da presidente perchè ha perduto la battaglia. Oggi dopo colazione hanno tenuto un'altra assemblea. A questa è intervenuto ùanche Franco Ats. Ieri sera l'ho visto qui, davanti a casa tua. — Qui? — E' venuto a chiedere al portinaio se stavi meglio. Di questo Nemeciech fu molto orgoglioso. Non osava credere: — Lui in persona? — In persona! — Come t'ho detto hanno tenuto consiglio sull'isola; ed hanno fatto molto baccano, perchè tutti pretendevano le dimissioni di Franco Ats e due soltanto lo difendevano, il Vendauer e Sèbeni. Ed anche i Pastor erano all'opposizione perchè il maggiore dei Pastor voleva essere presidente. Ed è finito che hanno destituito Franco Ats ed hanno eletto il maggiore dei Pastor a capo. Ma sai quel che è successo dopo? — Che è successo? — Quando finalmente si sono calmati e iI nuovo capo risultò eletto, capitò sull'isola il guardiano dell'Orto Botanico a dire che il direttore non tollerava più questo fracasso e vietava a tutti loro l'ingresso all'Orto; e l'isoletta è stata chiusa. Hanno messo una porticina sul ponte, con una serratura. Il capitano allora rise di cuore. — E tu come lo sai? — chiese. — Me l'ha raccontato Colnai. L'ho incontrato poco fa, venendo qui. Andava al campo perchè la Società dello Stucco ha un'altra assemblea. Il ragazzino fece una smorfia a queste parole. — Non mi place quella gente: ha scritto il mio nome a lettere minuscole. Boka si affrettò a calmarlo. — E' già stato corretto. Non soltanto corretto, ma il tuo nome è stato scritto sul registro tutto a lettere maiuscole. Nemeciech scosse il capo. — Non è vero. Me lo dici perchè sono malato e vuoi consolarmi! — Non te lo dico per questo; te lo dico perchè è vero. Parola d'onore che è vero! Il biondino alzò il suo dito magro e ammonì: — Ed ora impegni anche la tua parola per una bugia! — Ma... — Ssst! Gli aveva ordinato di tacere, lui, capitano, al generale! Il che, sul campo, sarebbe stato peccato capitale; ma qui non lo era. Boka sopportò sorridendo. — Va bene — disse —. Se non credi, lo vedrai presto con i tuoi occhi. Hanno compilato un diploma d'onore speciale per te e verranno presto a portartelo. Verrà tutta la società. Ma il biondino diffidava: — Crederò quando vedrò! Boka scrollò le spalle e pensava: «Meglio così. Avrà una gioia più grande quando vedrà!» Ma questo ricordo aveva turbato il malato: l'ingiustizia commessa contro di lui lo accorava profondamente. — Vedi — diceva come a sè stesso — Hanno commesso una cosa brutta! Boka non osava parlare, temendo di inquietarlo ancora di più; anzi quando gli chiese: — Vero che ho ragione io? — Hai ragione tu — rispose. — Però — disse Nemeciech; e tornò a sedere sul cuscino — io ho combattuto per essi come per tutti gli altri affinchè il campo resti anche loro, mentre so bene di non aver combattuto per me, perchè io non rivedrò mai più il campo. Tacque. Questo era il pensiero terribile che gli torturava il cervello: non poter rivedere il campo. Era un bambino. E avrebbe abbandonato tutto volentieri, su questa terra; soltanto il campo, il dolce campo gli doleva troppo abbandonare per sempre! E, cosa che non gli era mai accaduta durante tutta la malattia, a questo pensiero le lagrime gli sgorgarono dagli occhi: ma non era la tristezza che lo faceva piangere, ma il furore impotente di non poter vincere l'avversità che gli impediva di andar ancora in via Pal, sotto le fortezze, accanto alla capanna. Ricordava la segheria, la rimessa, i due gelsi dai quali coglieva le foglie per portarle a Ciele che aveva uno stabilimento di bachi-coltura ed ai bachi occorrevano le foglie dei gelsi, ma Ciele era tutto accurato ed aveva paura di sciuparsi il suo bel vestito arrampicandosi sull'albero ed allora Ciele ordinava a lui di arrampicarsi perchè egli era l'unico soldato semplice. Pensava allo snello comignolo che sbuffava vispo emettendo sull'azzurro del cielo nuvolette di fumo bianchissimo, che si scioglievano subito nel nulla. E gli pareva di sentire ancora lo stridere della sega quando intacca i legni per ridurli a tavole sottili. Il viso gli si accese; gli occhi brillarono. Esclamò: — Voglio andare sul campo! E poichè nessuno rispondeva a questa sua richiesta, si ostinò e con voce risoluta chiese: — Voglio andare sul campo! Boka gli prese la mano: — Verrai la settimana ventura, quando sarai guarito... — No, no! — ribattè — Voglio andarci ora! Adesso! Subito! Datemi il mio vestito! Metterò il berretto di via Pal! Mise la mano sotto il cuscino e ne cavò fuori, trionfante, il berretto rosso e verde dal quale non aveva voluto staccarsi neppure un minuto. Se lo mise in testa. — Il vestito! Triste il padre gli disse: — Quando sarai guarito! Ma non era possibile persuaderlo. Gridò con quanto fiato potevano i suoi polmoni malati: — Non guarirò! E poichè parlava con tono decisamente imperativo, nessuno lo contraddisse. — Non guarirò! — diceva — Voi mentite! Io so che morirò e voglio morire dove voglio! Voglio andare sul campo! Discutere non si poteva. Tutti accorsero per persuaderlo, per chetarlo, per spiegargli. — Ora non si può... — Il tempo è cattivo... — La settimana ventura... E continuavano a dirgli le parole che quasi non osavano ripetere di fronte ai suoi occhi intelligenti: — Quando sarai guarito... Tutto li smentiva. Quando accennavano al tempo cattivo, ecco il sole inondare col suo raggio il piccolo cortile, il sole di primavera forte e rigeneratore, il sole che infonde vita a tutti, meno che ad Ernesto Nemeciech. La febbre invase il ragazzo con tutto il proprio furore. Annaspava come pazzo; le narici gli si allargavano. — Il campo — disse — è tutto un regno! Voi non potete saperlo perchè non avete mai combattuto per la patria. Bussarono. La donnina uscì. — Cienechi — disse rientrando al marito — cerca te! Il sarto andò in cucina. Questo Cienechi era un impiegato municipale che si faceva fare i vestiti da Nemeciech; e gli chiese: — E il mio vestito marrone a doppio petto? Di dentro giungeva la voce che affermava: 17 — Squilla la tromba... II campo è pieno di polvere... Avanti! Avanti! — Scusi tanto — diceva il sarto —; se il signore vuole provare, ma bisogna provare qui in cucina perchè di là c'è mio figlio molto malato... — Avanti! Avanti! — ripeteva la voce rauca del bambino. Seguitemi tutti all'assalto! Ecco le Camicie Rosse con alla testa Franco Ats con la lancia inargentata... Ora mi butteranno in acqua... Il signor Cienechi porse l'orecchio. — Che c'è? — E' lui che grida! — Ma se è malato, perchè grida? Il sarto scrollò le spalle. — Non grida. Delira. E' fuori di sè... E andò a prendere la giacca marrone a doppio petto, che era cucita con un'imbastitura bianca. Quando la porta s'aperse, si udì: — Silenzio in trincea! Attenti! Ora vengono! Ci sono! Trombettiere, la tromba! Fece portavoce della mano: — Taratatà! Taratatà! E ordinò a Boka: — Suona anche tu! E Boka fu costretto a fare anch'egli delle sue mani portavoce ed ora imitavano la tromba in due: una vocina stanca, rauca, debole, ed un'altra sana ma che sonava triste anch'essa. A Boka la commozione strozzava la gola, ma resistette; sopportò da uomo e fingeva d'essere felice di potere imitare il suono della tromba. — Mi spiace — disse il signor Cienechi — ma questo vestito mi occorre subito! — Taratatà! Taratatà! — si sentiva venire dalla stanza. Il sarto lo aiutò ad infilare la giacca. E si misero a parlare sottovoce. — Mi stringe sotto le ascelle! — Sissignore! — Taratatà! Taratatà! — Questo bottone è troppo in alto. E la stiratura, mi raccomando... — Sissignore! — Assalto generale! Avanti! — Mi pare che la manica sia un po' corta! — Non credo, signore! — Ma guardi bene! Il guaio è che voi mi fate sempre le maniche un po' corte! — Non è questo il guaio, creda a me! — pensava il sarto; e segnava con il gesso le maniche della giacca. Di dentro lo schiamazzo cresceva sempre. — Ah! Ah! — gridava la voce del bambino — Sei qui? Sei di fronte a me! Finalmente ti posso afferrare. Ora vedremo chi è il più forte! — Ci metta dell'ovatta — diceva Cienechi —. Un po' sotto le spalle, un po' sul petto, a destra ed a sinistra... — Bum! Sei per terra! Il signor Cienechi si tolse la giacca marrone ed il sarto l'aiutò ad infilarsi quella di prima. — Quando sarà pronta? — Dopodomani. — Mi raccomando. Non vorrei che tardasse! Ha altro da fare? — Eh! Se non fosse malato il bambino... Il signor Cienechi scosse il capo: — E' spiacevole, ma ho proprio bisogno del vestito, d'urgenza. Si metta subito al lavoro. Il sarto sospirò: — Mi ci metto. — Buongiorno! — esclamò Cienechi; e si allontanò allegro. Ma di sulla porta si voltò un'ultima volta per ripetere: — Subito al lavoro, mi raccomando! Il sarto prese il vestito marrone e pensò a quel che gli aveva detto il dottore: che bisognava provvedere a quello che occorre in simili casi. Dunque bisognava lavorare! A che avrebbe servito il danaro che gli avrebbero dato per il vestito marrone? Forse sarebbe andato al falegname... Ed il signor Cienechi sarebbe andato a passeggiare vanitoso col suo abito nuovo sul Corso! Tornò in stanza e si mise a cucire. Non osservava nemmeno il letto, ma aveva preso ago e filo per terminare al più presto il lavoro, che in ogni modo era urgente. Cienechi ne aveva bisogno; ed il falegname anche ne aveva bisogno. Il piccolo non si calmava più. Sembrava che le forze gli fossero ritornate. Si era alzato in piedi sul letto: la camicia da notte gli giungeva fino alle calcagna. Aveva il berretto rosso e verde di traverso. Fece il saluto militare. E parlava rantolando con lo sguardo perduto nel nulla: — Signor capitano, debbo riferire che ho buttato a terra il capo delle Camicie Rosse e chiedo d'essere promosso! Guardatemi! Sono capitano! Ho combattuto per la patria e sono morto per la patria! Tromba, Ciele! Taratatà! Con una mano s'aggrappò alla spalliera del letto. — Bombardate, fortezze! Ecco Giovanni! Sarai capitano anche tu, Giovanni! E il nome con lettere minuscole, no! Siete cattivi! Vi fa rabbia che il generale voglia bene a me! La Società dello Stucco è una stupidità! Do le dimissioni! Do le dimissioni! Poi aggiunse sottovoce: — Scrivete sul registro. E il povero sarto, accanto alla tavola bassa, non vedeva, non sentiva più nulla. Le sue dita magre agucchiavano sulla stoffa: il ditale ogni tanto dava un bagliore. Egli non avrebbe guardato il letto a nessun costo. Aveva paura che, se avesse guardato, gli sarebbe mancata la voglia di lavorare, avrebbe gettato per terra il vestito di Cienechi e si sarebbe messo in ginocchio vicino al letto del suo figliuolo. Il capitano sedette sul letto e si mise a fissare taciturno la coperta. Boka gli chiese piano: — Sei stanco? Non rispose. Boka lo ricoperse. La madre gli aggiustò il guanciale sotto la testa. — Sta tranquillo! Riposa! Fissava Boka ma si capiva che il suo sguardo non vedeva. Disse: — Papà... — No, no — disse con voce strozzata il generale —. Io non sono il papà. Sono Giovanni Boka... E il malato con voce stanca e confusa ripetè: — Io sono... Giovanni Boka... Cadde un lungo silenzio. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò a lungo e profondamente come se tutti i dolori degli uomini infelici si fossero dati convegno dentro la sua piccola anima. Silenzio. — Forse s'addormenta — sussurrò la donna bionda che appena si reggeva in piedi a forza di vegliare. — Lasciamolo! — rispose con un soffio Boka. Sedettero in disparte sopra uno sdrucito divano verde. Anche il sarto aveva smesso di lavorare: aveva posato sulle ginocchia la giacca marrone ed aveva chinato il capo sopra la tavola. Nel silenzio profondo si sarebbe potuto sentir volare un moscerino. Dalla finestra filtrarono voci di ragazzi, come se fossero in molti nel cortile e parlassero tranquillamente fra di loro. Ed ecco una voce conosciuta giunse all'orecchio di Boka; ed un nome sussurrato da un'altra: — Barabas... S'alzò. Uscì dalla stanza in punta di piedi. Quando aperse la vetrata della cucina e fu in cortile, vide visi amici: uno sciame di ragazzi di via Pal se ne stava lì, accanto alla porta. — Siete voi? — Sì — sussurrò Vais —. Tutta la Società dello Stucco è qui. — Che volete? — Gli abbiamo portato un diploma d'onore sul quale abbiamo scritto in inchiostro rosso che la Società dello Stucco chiede perdono e gli annuncia che sul registro il suo nome è stato scritto tutto a lettere maiuscole. Abbiamo anche il registro. Siamo in deputazione. Boka scrollò il capo. — E non potevate venir prima? — Perchè? — Perchè ora sta dormendo. I membri della deputazione si guardarono. — Non abbiamo potuto venir prima perchè c'è stata una grande discussione per stabilire chi dovesse essere il presidente della deputazione, ed è durata mezz'ora. E poi è stato eletto Vais. La donnina comparve sulla soglia. — Non dorme — disse —. Vaneggia. I ragazzi s'irrigidirono. Erano atterriti. — Entrate, figliuoli — disse la madre —. Chissà che non torni in sè al vedervi. Ed aperse la porta. Entrarono uno alla volta, impacciati, reverenti come se passassero la porta d'una chiesa. Si tolsero i cappelli prima di varcare la soglia. E, quando, dietro l'ultimo, la porta si rinchiuse, rimasero tutti nello strombo della porta, silenziosi, rispettosi, con gli occhi sbarrati. Fissavano il sarto e il letto. Il sarto non sollevò la testa nemmeno a questo: la teneva reclinata contro il gomito, ma non piangeva. Era molto stanco. Il capitano giaceva con gli occhi spalancati nel suo letto, respirava raucamente ed a fatica: aveva la bocca spalancata. Non riconobbe nessuno. Forse i suoi occhi vedevano già cose che i nostri occhi terreni non possono vedere. La donna spinse avanti i ragazzi: — Andate da lui! S'avviarono adagio adagio verso il letto. Ma camminavano esitanti. Uno incoraggiava l'altro: — Va avanti tu! — No, tu! Barabas disse: — II presidente della deputazione sei tu! Vais s'accostò al letto: e gli altri gli eran dietro. Ma il ragazzo non li guardava nemmeno. — Parla — suggeri Barabas. E Vais con voce tremante cominciò: — Tu... Nemeciech... Ma Nemeciech non udiva. Ansava e guardava fisso la parete. — Nemeciech... — ripetè Vais; e il pianto gli serrava la gola. Barabas gli sussurrò: — Non strillare. — Non strillo — rispose Vais; ed era soddisfatto di poter dire quache parola senza piangere. Poi si riprese: — Signor capitano illustrissimo! — cominciò cavando di tasca una pagina scritta — Quando noi siamo comparsi qui... io come presidente... in rappresentanza della Società... noi... ecco ci siamo sbagliati... e tutti ti chiediamo perdono... con questo diploma d'onore... vi è scritto tutto... Si voltò. Due lagrime spuntavano nei suoi occhi. — Signor cancelliere... — sussurrò — Mi dia il registro sociale! Lesik glie lo porse premuroso. Vais lo depose timido sul canto del letto e sfogliando trovò la pagina dell'annotazione. — Guarda qui... — disse al malato — c'è questo! Ma gli occhi del malato adagio adagio si richiusero. Aspettarono. Poi Vais disse: — Guarda! Non rispose. Tutti s'avvicinarono al letto. La madre si fece strada in mezzo ai ragazzi, tremando. Si chinò sul figliuolo. — Tu! — disse poi al marito con una voce strana, nuova —. Non respira. Gli posò la testa suI petto. — Tu! — ripetè forte, gridando — Non respira più! I ragazzi si ritirarono. Si misero in un angolo della stanza, uno vicino all'altro. Il registro della Società cadde per terra aperto come l'aveva lasciato Vais. E la donna gridava: — Ha la mano gelata! E nel grande silenzio che seguì si intesero i singhiozzi del sarto che fino allora era rimasto immobile sullo sgabello, con la testa sul braccio; ma erano singhiozzi soffocati, contenuti. E le spalle gli si scotevano tutte. Ma ancora faceva attenzione alla giacca di Cienechi, la faceva scivolare di sul ginocchio perchè le lagrime non la bagnassero. La donna baciava, stringeva a sè il bambino, poi s'inginocchiò accanto al letto, affondò il viso nella coperta e si mise a piangere anche lei. Ernesto Nemeciech, segretario della Società dello Stucco, capitano per merito sul campo di via Pal, giaceva muto per sempre, pallido, gli occhi chiusi; ed era certo che oramai non vedeva nè sentiva più niente di quel che gli succedeva attorno, perchè vista e udito del capitano Nemeciech erano stati presi dagli angeli e portati là dove non si sentono che musiche soavi e non vi sono che luci divine; là dove non esistono altri esseri se non simili al capitano Nemeciech. — Sono venuti troppo tardi! — sussurrò il sarto. Boka era nel centro della stanza, ed abbassò il capo. Poco prima era riuscito a stento a trattenere il pianto; ed ora era meravigliato che le lagrime non gli sgorgassero dagli occhi, meravigliato di non poter piangere. Si guardò attorno: i ragazzi erano ammassati nell'angolo. Davanti a tutti, Vais col suo diploma d'onore in mano, il diploma che Nemeciech non aveva potuto vedere. S'accostò ad essi: — Andate a casa. E i disgraziati quasi si rallegrarono di poter lasciare quella stanza sconosciuta dove il loro compagno giaceva sul letto, morto. Strisciarono uno alla volta in cucina, e dalla cucina sulla strada piena di sole. Ultimo era rimasto Lesik. Era rimasto ultimo volontariamente. Quando tutti furono usciti, in punta di piedi s'avvicinò al letto e raccattò il registro della Società; guardò il letto e il capitano silenzioso, poi uscì anche lui, dietro gli altri; nel cortile pieno di sole, gli uccelli cinguettavano sugli alberi striminziti. I ragazzi fissavano gli uccelli e non capivano. Il loro camerata era morto, ma non ne capivano il significato. Si guardavano l'un l'altro, stupiti, come chi rimane incerto davanti a una cosa incomprensibile, strana, incontrata per la prima volta nella vita. Verso sera Boka uscì di casa: bisognava che studiasse perchè l'indomani sarebbe stata una giornata grave: esame di latino. Ed era certo che il professor Raz l'avrebbe interrogato. Ma non aveva voglia di studiare. Mise da parte libro e dizionario ed uscì. Girò per le strade senza meta; evitava le vicinanze della via Pal. Non voleva rivedere il campo in quella giornata triste. Ma dovunque andasse qualcosa gli ricordava Nemeciech. Viale Ulloi: c'erano passati in tre, con Cionacos, quando s'erano recati per la prima volta all'Orto Botanico... Via Costelech: una volta, a mezzogiorno, dopo scuola, s'erano fermati proprio lì, in mezzo alla strada, e Nemeciech aveva raccontato con gravità come i due Pastor gli avessero prese le biglie di vetro nel giardino del Museo... I dintorni del Museo... Sentiva che più egli schivava il campo e più se ne allontanava, tanto più lo attirava lì un sentimento doloroso. E quando si decise a recarcisi, senza raggiri, direttamente, coraggiosamente, allora un senso di leggerezza sollevò la sua anima. S'affrettò per arrivarci il più presto possibile. E quanto più s'avvicinava al suo «regno» tanto più nel suo cuore entrava la pacatezza. Quando, nel tramonto che scendeva, vide il grigio steccato ben noto, il suo cuore palpitò forte. Dovette fermarsi. Non c'era più da aver fretta; era arrivato. S'avvicinò con passi lenti al campo, la porticina del quale era aperta. Davanti alla porticina, con la schiena appoggiata allo steccato, Giovanni stava fumando la pipa. Appena vide Boka gli disse, festoso: — Glie le abbiamo date! — Sì — disse piano il generale. E Giovanni s'entusiasmò: — Le hanno prese. Li abbiamo spazzati via! Pulizia! Giovanni indugiò davanti allo slovacco, tacque un istante, poi disse: — Sapete, Giovanni, che cosa è accaduto? — Che cosa? — Nemeciech è morto! Lo slovacco si tolse la pipa di bocca. — Qual'era Nemeciech? — Il biondino... — Ah! — disse lo slovacco. E rimise la pipa in bocca — Poveraccio! Boka entrò dalla porticina. Si stendeva silenzioso ai suoi piedi quel gran pezzo di terra cittadina che era stato testimone di tante ore gaie. Lo attraversò adagio e giunse alla trincea. Qui si vedevano ancora i segni della battaglia. La sabbia portava ancora le orme dei combattenti. I baluardi della trincea erano un po' demoliti: erano stati i ragazzi a disfarli quando s'erano arrampicati per l'assalto. E cupe, una accanto all'altra, nereggiavano le cataste di legna. Il generalissimo si appoggiò al terrapieno, il mento contro il gomito. II campo era silenzioso. Il fumaiolo taceva ed aspettava il mattino quando mani laboriose gli avrebbero acceso sotto il fuoco. Anche la segheria riposava e la casupola tra la fiorente vigna selvatica dormiva. Di lontano, come attraverso un sogno, giungeva il fracasso della via. Le carrozze risuonano sull'asfalto, la gente vocia, e dalla finestra d'un cortile, forse dalla finestra d'una cucina dove il lume già acceso, giunge una gaia canzone. Forse una serva. Boka si alzò. Si diresse verso la casupola. Si fermò sul posto dove Nemeciech aveva atterrato Franco Ats come una volta Davide Golia. Si curvò per cercare le orme: ma la terra era smossa e non si vedevano orme. Eppure avrebbe riconosciuto l'orma del piede di Nemeciech che era tanto piccolo che anche le Camicie Rosse se n'erano stupite quando avevano trovato l'impronta delle sue scarpe sulla sabbia dell'Orto Botanico, quel giorno memorabile... Continuò sospirando. Giunse alla fortezza numero 3. II generale era stanco: l'anima ed il corpo erano estenuati dalla giornata passata. Barcollava come se avesse bevuto un vino forte. S'arrampicò a stento sulla fortezza numero 2 e vi si accoccolò. Almeno qui nessuno lo vedeva, nessuno lo disturbava, poteva riflettere, pensare ai propri ricordi, si sarebbe anche sfogato a piangere, se gli fosse riuscito. La brezza gli portò delle voci. Guardò giù dalla fortezza e vide due piccole ombre davanti alla capanna. Non poteva riconoscerli, ma prestò orecchio alle voci. I due ragazzi parlavano piano: — Eccoci, Barabas... — diceva uno — eccoci dove il povero Nemeciech ha salvato la patria. Silenzio. Poi la voce riprese: — Facciamo la pace, qui, ma sul serio e per sempre. E' stupido litigare fra di noi. — Va bene — diceva commosso Barabas —. Sono venuto per questo. Facciamo la pace. Nuovo silenzio. Stavano muti uno di fronte all'altro. Poi Colnai disse: — Allora, ciao! E Barabas rispose: — Ciao! Si strinsero le mani; e rimasero a lungo, mano in mano. E non si dissero altro, ma si abbracciarono. E' accaduto anche questo. E' accaduto anche questo miracolo. Boka li guardò dall'alto, dalla fortezza, ma non si fece vedere: egli voleva restar solo. E poi, a che scopo disturbarli? I due ragazzi s'avviarono quindi verso via Pal conversando piano. — Per domani c'è molto latino — diceva Barabas. — Sì — rispondeva Colnai. — Per te è facile — sospirò Barabas —. Sei stato interrogato ieri, ma io non sono stato chiamato da molto tempo e mi toccherà certo uno di questi giorni. — Fa attenzione. Dal verso 1al 23 del secondo capitolo c'è un taglio. L'hai segnato? — No. — Quello è inutile studiarlo! Vengo io da te e ti segno il taglio sul libro. — Grazie. Ecco: quei due già pensano alla lezione. Dimenticano presto. Se Nemeciech è morto, il professor Raz è vivo e con lui la lezione di latino. Se n'andarono, scomparvero nell'oscurità. Ed ora Boka era solo. Ma non rimase nella fortezza. E poi era tardi. Dalla chiesa veniva uno scampanio mesto... Scese e si fermò davanti alla capanna. Giovanni stava tornando: Ettore, il cane, gli scodinzolava accanto. — Ebbene... — disse lo slovacco — II signorino non rincasa? — Sì, me ne vado — rispose Boka. Lo slovacco sorrideva. — A casa, cena calda... — Cena calda... — ripeteva macchinalmente Boka e pensava che in via Racos due infelici sedevano a cena, il sarto e la moglie. E nella stanza erano accese le candele. Per caso guardò dentro la capanna; s'accorse di strani strumenti appoggiati contro la parete. Un disco tondo di latta dipinto di rosso e bianco come le targhe dei passaggi a livello quando passa il direttissimo. Pali dipinti di bianco, un cavalletto a tre piedi con un tubo d'ottone in cima. — Che c'è? — domandò. — Roba dell'ingegnere. — Di quale ingegnere? — Dell'architetto. Il cuore di Boka palpitò selvaggio. — Architetto? E che viene a fare qui? Giovanni soffiò una boccata dalla pipa, poi disse: — Costruiscono una casa. — Qui? — Sì. Lunedì vengono gli operai, scaveranno il campo, costruiranno le fondamenta... — Come? — gridò Boka — Costruiscono una casa qui? — Una casa... — disse indifferentemente lo slovacco — A tre piani. Il padrone del campo fa costruire. Ed entrò nella capanna. A Boka pareva che la terra gli mancasse sotto i piedi. Le lagrime gli spuntavano. S'incamminò verso la porticina in fretta. Fuggiva. Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.