Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220080
Storie d'amore e di dolore 4 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Li ripeteva con profonda disperazione, per isfogo dell'animo esasperato, come una bestemmia; e i compagni che s'erano avveduti della faccenda dagli sguardi feroci di lui e dal contegno sostenuto della ragazza, gli davan la baia consigliandolo a non dimagrar dell'altro, se non voleva che la «scucchia» gli si allungasse come una mestola. Allora sì, che, secco, allampanato, e con quel po' po' di viso nero, sarebbe stato più che mai un calabrone! Peppe non rispondeva; ma, a volte, sotto la guancia arsa gli si stendeva un pallor livido. In quegli istanti digrignava i denti quasi da spezzarseli, e sembrava che negli occhi, larghi e mobili, gli passassero rapide fosforescenze gialle. — Gli è un fetaccio! - aveva detto Nanni, posando, con una scrollata di testa, il bicchiere su la tavola d'un'osteria fuori porta, dove, la domenica, andavano a far uno spuntino lui e la Rachele. E ripeteva: — Gli è un fetaccio! — tanto più che quel vederselo sempre dietro, benchè a distanza, dovunque andavano, glie l'avea fatto pigliar in uggia Dio sa quanto. E una mattina che proprio non ne poteva più di quell'assiduità silenziosa e minacciosa, il maestro muratore si risolvette di dir al giovanotto, con buona maniera, che gli si levasse di torno; tanto, non c'era verso che la Rachele volesse saperne, e si faceva ciarlar la gente senza sugo di nulla. Di fatti, chiamatolo in disparte, gli dichiarò l'animo suo, e più che il suo quello della figliuola. Peppe, piantato ritto su le gambe larghe, con le mani infilate nella cinghia dei calzoni, dondolava le ànche guardando obliquamente il vecchio; e quando questi ebbe finito di parlare, gli rispose con lentezza, scandendo ogni parola con l'accento umile e risoluto del meridionale provocatore, mentre accentuava ogni sillaba col solito dondolío delle ànche: — Io ho messo il pensiero alla figlia vostra, e il pensiero mio non lo rimovo, magari tornasse Cristo al mondo. Del resto, — soggiunse, come chi vuol confortarsi con un barlume di Contessa Lara. 12 speranza — io non credo al primo rifiuto d'una femmina. Voglio che lei, proprio lei mi dica un'altra volta, ultima volta, che non mi vuole assolutamente; e allora... penserò io... — Nanni si strinse nelle spalle; era sicuro dei sentimenti della Rachele; e prese la cazzuola per rimettersi al lavoro, mentre il giovanotto, sollevando il mento prominente e saettandogli un'occhiata di sfida, diceva, con dubbio buon garbo: — A più tardi. — Il vecchio aveva quietamente terminato il suo pasto con la figliuola; Peppe non s'era visto; e piu d'un sorriso bonario e canzonatorio era venuto su la bocca rossa della ragazza. — Lasciatelo fare — consigliava ella al padre. — Quando due si vogliono, nessuno li può tenere; ma quand'uno de' due dice di no, c'è poco da ragionare... — Sonate da qualche minuto le due, Nanni riprese gli arnesi; si faceva tardi. Allora, di vicino a un ponte su cui la Rachele stava per passare tornandosene via col paniere vuoto, sorse d'improvviso il calabrese, parandosele dinanzi. - Ho da parlarvi — cominciò egli con voce triste e sicura. - Parlate — fece lei senz'altro. - Ho da dirvi che quando un uomo pari mio, voglio dire un uomo di cuore, ha messo gli occhi sopra una donna, quella donna è come se fosse sua. — Ella fece una risatina quasi fanciullesca, senza baldanza e senza civetteria. - Oh, bella, bella! Ma quando la donna non vi vuole? - Vi voglio io! — affermò l'innamorato, accostandosi a lei per modo che il suo fiato ardente le sfiorò il viso. - Tiratevi addietro! o che siete matto? — gridò ella impaurita. - Sì, vi voglio! — continuava lui senza capir più nulla. — Vi voglio perchè... vi voglio! È tanto tempo che vi guardo, che sospiro dietro a voi, che mi strazio a ogni vostro sorriso, che mi faccio animo a ogni vostro gesto di sdegno... Perchè tutto, buono o cattivo, date agli altri; mai nulla a me!... Io non esisto per voi! E pure, vedete, io mi stimo più di qualunque uomo c'è al mondo... So che passione ci ho qui dentro... — e si dava pugni su 'l petto. - Basta! — ordinò la donna, stanca, seccata. - Come, sarebbe a dire, basta ? — interrogò Peppe. - Sarebbe a dire che di chiacchiere inutili ne avete fatte anche troppe. Io, non è la prima volta che parlo chiaro, di voi non so che farmene. Sarete, non dico di no, un galantuomo, ma... che v'ho da dire? Per me non fate. Gli è meglio che ognun di noi e' tiri per la su' strada... Se no... — Ho capito - brontolò il calabrese con voce strozzata. La Rachele, riannodatesi più strettamente le cocche del fazzoletto a fiorami gialli, prese la via per andarsene; ma quando, impettita, col seno erto che il busto contadinesco le spingeva alto sotto la gola, traversò il ponte per raggiungere la scala esterna, Peppe, a pena ella si fu incamminata su l'assito, le corse dietro, e con una spinta poderosa rimosse dal suo punto d'appoggio la tavola su cui passava la fanciulla. L'infelice mise uno strillo acuto, terribile, nell'attimo che, al sentirsi sfuggir il suolo di sotto a' piedi, vide la tavola drizzarsele violentemente in contro nel rovesciarsi con lei; e mise subito un altro grido più tenue, più soffocato, a mezz'aria, precipitando giù con un tonfo sopra un mucchio di calce, di fondo a cui non estrassero che un cadavere sfracellato, bruciato, irriconoscibile.

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Fuor che nell'ora vespertina del rosario, quando un nasale, confuso mormorio di preghiere si diffondeva in torno dalla cappella della Madonna, regnava sempre in quella chiesa la solitudine più completa; e il sole a traverso Contessa Lara. 13 gli alti finestroni, vi faceva, non visto da anima viva, il suo eterno giro obliquo, sagomando con leggiere penombre i nudi altari di pietra scolpita, e i sepolcri d'abati e di cavalieri effigiati a bassorilievo, lunghi distesi su 'l suolo; proiettando diffusi chiarori su qualche quadro dello Spagnoletto, e su qualche santo d'antica terracotta tutto smagliante di turchino e di giallo. E un altro sito pure, non mai stato invaso da' villeggianti, era, dietro la chiesa, un recinto interno con un portico rozzo e basso da un unico lato: antico camposanto dei frati. Qui, a punto come esige la regola austera per ognuno di questi umili sagrati monastici, non solo non rinvenivi il minimo segno che distinguesse le tombe dal resto del terreno, ma nè pur ti capacitavi che un tempo codesto luogo avesse potuto avere il suo tradizionale quadrato di bossolo, così ravviato, nitido e regolare da sembrar un verde rilievo architettonico. Ora mucchi di piante parassite lo ingombravano; la gramigna serpeggiante vi stendeva a fior di terra le sue infinite ramificazioni; l'ortica vi raffittiva le sue scure foglie scabre; lunghi, sottilissimi fili di erba s'ergevano e si ricurvavano mollemente fra la dritta avena dalle spighe vane e pelose; la malva e la cicoria selvatica vi crescevan sempre più rigogliose, morbida l'una, stecchita l'altra, costellati gli steli di fiori dalle miti sfumature, quelli d'un pallido violaceo, questi d'un pallido azzurro, e tutte e due le tinte contrastanti pittorescamente co' rosolacci che onduleggiavano qua e là su tutto come frotte di farfalle porporine. Fra codesto serpaio, dove la natura sfogava con selvaggia fantasia l'esuberanza della propria fecondità, un punto un po' coltivato appariva in un angolo; chiuso da un piccolo, informe stecconato fatto di cannucce e di pruni, qualche cesto di cavolo arrotondava costì le sue palle sbiancate, un increspamento di prezzemolo copriva due o tre zolle, e dentro una pentola rotta, i cui cocci eran tenuti insieme da un fil di ferro, venivan su belle quanto mai le ciocche del basilico, seminato il sabato santo quando si sciolgono le campane. Questo era tutto l'orto della Rosona, la quale abitava lì dirimpetto sotto l'ultimo arco di quel porticato, in una stanza che guardata di fuori si sarebbe detta un covo anzi che un asilo umano. Quella stamberga, nessuno s'è mai raccapezzato a qual uso potesse servire a tempo dei frati. Chi la riteneva una stanza mortuaria, chi una stalla, chi un forno. In tanto, le sue pareti, a forza di sovrapporvisi strati di sudicio, s'eran ridotte d'un nero giallognolo uniforme, levigandosi in certi punti fino a lustrare, direi quasi fino a sembrar pulite, tanta era l'intensità della loro nerezza. E poi che con la Rosona non c'era via d'attaccar discorso, ne pure si sapeva da quanti anni ella avesse portato là dentro quella materassa spiaccicata e bisunta dove dormiva, una tavola lunga e stretta, zoppa da un piede, due seggiole dall'impagliatino sfondato, i cui fili spuntavano sotto, e quelle quattro o cinque stoviglie sbocconcellate, schieranti i grossolani fiorami sur un'asse poco lontana da un fornello di mattoni imbrattato di cenere e di fuscelli. Questa Rosona doveva essere un'antica contadina, che rimasta senza congiunti e per conseguenza rimandata dal podere, la cui coltivazione richiede braccia giovani e virili, era venuta col suo piccolo gruzzolo a ritirarsi in quel singolare alloggio, il quale, perchè accosto al camposanto e così squallido e sporco, non poteva certo invogliar nessun altro. Per lei, in vece, era quel che ci voleva. Pochi piccioli di pigione all' anno, la libertà d' un deserto e quel pezzetto di terra: non tanto per il bocconcino d'orto che ci avea rilevato, quanto per il comodo che faceva alle sue galline: da che bisogna sapere che questa vecchia ruvida e solitaria viveva esclusivamente in compagnia d'un branco di galline. Oramai queste bestiole eran tutta la sua famiglia, tanto più che de' suoi morti non si ricordava nè manco con un Deprofundis; le galline eran l'ultima cura della sua vita, forse l'unico piacere di cui mai avesse goduto. E quando per chiamarle sbucava di sotto al portico, soleva amorevolmente dissimular con due note in falsetto quella brusca vociona, che fin dalla sua prima giovinezza le aveva procurato dalla gente il soprannome accrescitivo di Rosona. Tranne in quelle ore che girellavano qua e là per il camposanto razzolando la terra in cerca d' insetti e di semi, le galline della Rosona non la lasciavano nè giorno nè notte. Dopo il mezzodì, finito ch'ella aveva da desinare e di risciacquar alla peggio i due cocci adoperati, la vecchia prendeva un bel pennecchio di canapa e s'inconocchiava la rocca; poi, staccato da un chiodo confitto nel muro un cappellone di paglia dal cocuzzolo basso e rotondo, dall'immensa tesa piatta, tutto lercio e slabbrato, se lo posava su la berretta nera che in casa le copriva la testa pelata. Allora il chiavistello dell'usciolino sciancato, che dal camposanto metteva su l'erta a fianco della badia, strideva; la Rosona veniva fuori, e con dietro tutto il branco delle sue galline, s'avviava verso Fontelucente, a farvi legna. Il bosco era piuttosto lontano. Su i sassi di quel sentiero che, girando a mezzo il colle fiesolano, serpeggia a traverso i campi, i vecchi piedi della Rosona, enfiati e senza calze dentro un antico paio di scarpe da uomo, andavano innanzi difficilmente e con lentezza. Ma a lei poco importava il passar del tempo; filava, inumidendo con un gesto d' automa la punta dell'indice e del medio nella bocca paonazza e cadente; e in tanto le galline, che movevano in un gruppo compatto col gallo alla testa, beccavano quel che trovavano per terra, scansandosi del pari, tutte assieme, su o giù per un argine, se s'imbatteva in esse un carro tirato da buoi. Non di meno, rasentando l'aia di qualche contadino, la Rosona si sforzava ad affrettare il passo, animata da un odio feroce contro le belle sposotte fresche e rubiconde che venivano a strillar su l'uscio per richiamare a casa i bimbi, còlte da paurosa superstizione alla vista di quel sudicio fagotto di cenci scolorati e rattoppati d'onde usciva un viso scimmiesco, nero e grinzo, i cui occhietti cisposi saettavan di sbieco cattivi sguardi, le cui labbra paonazze borbottavano misteriosamente non si sa se giaculatorie o maledizioni. Certo gli è che parecchia gente sfuggiva la Rosona perchè la sospettava una strega. Ma dietro Fontelucente (così a punto vien detta la poetica cascatella della Madonna, che zampilla tra'l capilvenere del cristallo di ròcca), il bosco, a dolce declivio su 'l Mugnone, si stendeva ampio e tranquillo, tappezzato di muschi a terra, e nell'alto silenzio della sua solitudine echeggiavano, invisibile compagnia, le canzoni a note tenute degli scarpellini là dirimpetto su'l Cupolino; e i colpi de' loro martelli sotto le cave e lungo le rupi avevano anch'essi ripercussioni larghe e sonore. Fra gli alberi, qualche uccello cinguettava; saliva dalla terra e dalle piante un odor molle e indistinto; e la solenne dolcezza di quell'ora, tutta pace di natura e pace di lavoro, avvolgeva e penetrava fin l'animo della strega, abbrutito e inaridito com'era dall'ignoranza e dagli anni. Posata sur un cespuglio la rocca, ella si metteva curva curva a far legna, mentre le galline, un po' più sparpagliate, frugavano sparnazzando tra la borraccina, golose d'un bruco o d'un granello. Così correvano le ore, che la vecchia numerava a puntino osservando l'altezza del sole; e quando le ventitrè non eran lontane, ammucchiati tutti i rami raccolti, intorno a cui la Rosona passava una fune, ella trascinava il fastello fin su qualche masso sporgente: e piegata la schiena, con un altro sforzo finiva d'assicurarsi su le spallucce il carico delle legna. Al solito, dietro di lei, ogni tanto chiamate con le due note in falsetto, quando la vecchia si fermava a ripigliar fiato, le fide galline riprendevano la strada della badia. Bisognava esserci verso le ventiquattro, l'ora di dormire, perchè in casa della Rosona non usava d'accendere il lume; ma oramai padrona e polli conoscevano il luogo, e mentre nell'antico camposanto non era anche scesa l'ombra del crepuscolo, nella stanza di sotto il portico, già invasa dal buio fitto, tanto la donna quanto le sue bestie s'erano già disposte al riposo: la Rosona su quel canile di materassa, e le galline appollaiate un po' da per tutto, su le spalliere delle seggiole, su 'l fornello spento, su l'asse delle stoviglie e fino su l'orlo delle pentole. Sembrerebbe che, per la continua dimestichezza con la solitaria padrona, coteste galline avessero dovuto morir decrepite nella pace in cui vivevano. Ma no. Con la più giusta filosofia, che non le costava nè pur l'ombra d'un ragionamento, la Rosona intuiva come nella vita ogni affetto, di qualunque genere, è sempre una concessione fatta al dolore. Così ch'ella non si creava nè affetti nè dolori; ma a mano a mano che le sue galline, secondo lei, le avevan dato a bastanza uova fresche e a bastanza pulcini, prima che diventassero dure, la vecchia se le metteva bravamente in pentola. Queste esecuzioni avevan luogo prima della gita nel bosco; a punto perchè la bestia avesse tempo a frollarsi per il domani. Con una manciata di becchime, la Rosona si faceva sotto il portico, e chiamava: — Bìri, bìri, bìri, bìri! — Subito la frotta accorreva intorno saltellante e svolazzante di mezzo all'incolto campicello, e in quel mentre che nella frettolosa avidità le galline raccoglievano e inghiottivano il granturco, la donna, occhiata quella da sacrificare, a un tratto l'acchiappava d'un gesto ratto e sicuro. Spaurite, emettendo un chioccío rauco e digradante, le altre in pari tempo si scostavano, guardando con diffidenza la scena dello strangolamento. E la loro povera compagna, con in gola un lungo e acuto singhiozzo, insistente, a tratti, sotto la mano feroce, un singhiozzo che si sarebbe detto d'un lattante, si dibatteva, starnazzava fra le unghie della vecchia: la quale, senza punto crucciarsi di quell'agonia, tirava a suo comodo il collo sottile, tra le cui penne tiepide e morbide le si affondavano con voluttà crudele le dita scarne e rugose. Poi quel singhiozzo si faceva più flebile, più raro, e finalmente cessava a fatto con un'ultima scossa del corpicciuolo convulso, con un ultimo palpito dell' ali aperte; i vivi occhietti color topazio si serravano; la cresta corallina ciondolava; si stendevano le zampine cocenti, e dal becco socchiuso stillava qualche goccia di sangue. Ma la Rosona, presa la gallina su la palma della mano, la soppesava calcolandone a un bel circa le libbre, e l'interno compiacimento le si traduceva in un'orribile smorfia ch'era il sorriso rimasto a quelle labbra paonazze.

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Una volta, da che erano parecchi giorni che nessun più vedeva la strega con dietro le sue galline, a un abitante della badia venne in mente, passando, di bussare all'usciolino del camposanto, più che altro per curiosità. Picchia, picchia, non rispose anima viva. Si che, chiamato qualche altro vicino, diedero uno spintone alla porta, che subito cedè sgangherandosi affatto. Ecco, a precipizio, le galline venir incontro a' nuovi visitatori con grida affamate. Gli uomini, con un certo senso d'esitanza, chiamavano forte: — Rosona, Rosona! — Ma, come prima, non rispondeva nessuno. Allora s'inoltrarono per il portico e penetrarono nella stamberga, dove li attendeva uno spettacolo da mettere ribrezzo. La vecchia, còlta probabilmente da un malor subitaneo, giaceva a terra supina, con le braccia aperte, come un gufo inchiodato. Nel cadere, la berretta erale scivolata dal cranio calvo, ch'ora appariva tutto giallo, nudo, orribile; sotto di esso apparivano due fondi buchi rossi nel viso tumefatto e già chiazzato di verdognolo. Le galline s'erano vendicate della morta col mangiarle gli occhi.

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Entrato, così, per caso, a quell'asta, egli aveva assistito alla gara di due o tre oggetti, curioso d'osservar un ambiente tutto nuovo per lui; e stava, a punto, per uscirne, quando la dama del cinquecento si mostrò d'improvviso, e vólta dalla parte di lui lo fissò e gli sorrise con tale amore, ch'egli, affascinato da quegli occhi bruni e da que' labbri rosati che gli si offrivano tacitamente, ma insistentemente, come avessero avuto a sdegno qualunque altra persona, còlto da un irrefrenabile desiderio che sapeva di fatalità, erasi lasciato sfuggir di bocca quella cifra: cento!... e la donna bella era divenuta sua. Quella mattina stessa, il roseo foglio del riscatto era giunto dal paese, — in mezzo a una lettera piena di raccomandazioni, di sgorbi e di baci, — destinato al mantenimento di tutto un mese. Di tutto un mese!... E che importava? Che importava?.... Ell'era così bionda, così divina!... Un po' di pazienza per quel mese; la vendita di parecchi libri e de' vestiti d'inverno; qualche digiuno.... e si rimediava a tutto. In tanto, e' non sarebbe più solo tra la nostalgia di quella camera squallida, dove aveva tante volte invocato un dolce viso di donna.... Arrivato che fu al suo quarto piano, il giovane girò la chiave nell'uscio, badando a non far rumore, ed entrato nella stanza, di nuovo richiuse a chiave. Poi, collocata dirimpetto al balcone aperto una poltroncina, unico lusso di quella dimora da studente povero, vi posò ritto il quadro. Di desinare, per quella sera, non se ne parlava; nè si parlava d'accendere il lume, perchè l'ultimo mozzicone di candela erasi spento da sè, la notte innanzi, consumandosi fino all'estremo e agonizzando vicino al guanciale dove il fanciullo dormiva con le novelle del Hoffmann su le coltri. Ma egli non sentiva nessuno stimolo d'appetito, e, per fortuna, la serata era stupenda: una di quelle sere quasi estive in cui il cielo è così terso che il crepuscolo sembra fatto d'un velo trasparente e fosforescente. Appoggiato con la schiena al tavolino, il giovane si mise a contemplar fisso il ritratto. Contessa Lara. 16 Chi era ella mai? Quali pensieri potevano aver traversato quel capo adorabile, perchè ella sapesse guardare e sorridere con tanta grazia? Era ella, da vero, come il perito aveva accennato, quell'audace duchessa di Gragnano, su la quale corre qualche storiella delle più scollacciate? O era una dama non meno saggia che bella? O una spensierata fanciulla di piacere che procacciavasi con lo stesso sorriso magnifici doni di cardinali e umili strofe di poeti?... Tutte queste domande ch'ei rivolgeva a sè stesso e alla donna, ora con un senso di compiacimento dolce e superbo, ora con un impeto di geloso rancore, si tramutavano a mano a mano in un'intima, calda improvvisazione, in un'efflorescenza di rime appassionate dov'era l'oblio d'ogni cosa umana. Limpida e colma, già la luna allagava il piccolo balcone dal parapetto basso coperto di ellera, che di giù dalla via faceva l'effetto d'un gran vaso di verzura sporgente sotto la tettoia; e una bianca striscia di luce si allungò nitida e tranquilla dentro la stanza, sfumandone armoniosamente la penombra. Ma perchè il quadro, non anche sfiorato dal raggio silenzioso, restava confuso in quella penombra, la cornice d'oro opaco non dava riflessi, come a fatto sparita: e la bella figura emergeva sola nel vapore azzurrino della camera fonda; a segno che il volto, il petto e le mani del ritratto si disegnavano fantasticamente tra il nero, come in certe sembianze d'un'apparizione di sogno. Il giovane continuava a fissarla. La bianca striscia lunare, facendo insensibilmente il suo giro, venne a poco a poco a colpire in pieno la forma femminile, che di vaga e spettrale s'animò, come se riacquistasse i sentimenti. Nel chiarore vivente, le pietre preziose, tra 'l velo verde, su 'l capo, sprizzavan bagliori; il broccato della gamurra ammorbidiva le sue curve; le roride carni del seno alto e colmo, per metà scoperto, si sollevavano in molli ondeggiamenti; gli occhi guardavano innamorati; la bocca fremeva baci, in atto di schiudersi alla parola.... ... Ma chi mai; chi mai era ella? Che voleva da lui? Perch'era venuta, lei, gran signora, nella casa di lui, così povera se non vi batteva quell'argenteo raggio di luna che or l'avvolgeva tutta d' un nimbo vaporoso?... Egli non sapeva l'amore fuor che nel canto dell'usignuolo, negli allacciamenti de' rami, nel sospiro voluttuoso del vento primaverile; non sapeva l'amore, benchè i suoi versi fossero un continuo inno d'amore!... Dov'era una donna che somigliasse a colei? Egli voleva saperlo e cercarla; cercarla e farsene amare; cercarla e sentir contro il proprio cuore palpitante il sussulto di quel candido petto che, come una coppia di gigli, sbocciava fuor dallo scollo; aver quelle dita sottili fra' capelli.... Cercarla e beverne il respiro; lasciar que' larghi occhi bruni affondarglisi fin dentro l'anima, e farsi portar via l'anima dai baci di quelle labbra odorose che sorridevano, sorridevano sempre.... Estatico, egli non batteva più palpebra. La notte era al colmo. La bianca striscia di luce insensibilmente si andava ritirando. Allora, muto, stupefatto, con le pupille sbarrate, il fanciullo poeta scorse la bionda ridente figurina scintillante di gemme, dagli sguardi, da' labbri, dai seni provocatori, lei, lei, il suo unico amore, staccarsi dalla cornice, ormai tornata nell'ombra; e come attirata nel raggio stesso della luna, lei sempre volta verso di lui, quasi invitandolo con quel sorriso a ebbrezze ignote, rasentar lenta, lenta, la parete, e lenta, lenta, allontanarsi, e lenta, lenta, scomparir dietro il terrazzo, fra l'edera.... La stanza rimase al buio. Abbarbagliato dalla fantastica iridescenza lunare, inebbriato dalla feminea visione, il giovane aprì le braccia, supplicando sommesso con voci tronche, rapide, singhiozzanti, quella misteriosa aerea creatura che non l'abbandonasse; inconscio pari a un sonnambulo, si protese tutto su 'l balcone, dietro la fuggente larva allettatrice, e dimentico d'ogni cosa, si abbandonò fuori del parapetto, ravvolto e travolto nell'onda argentea dei raggi che la luna spandeva umidi e ammalianti da mezzo il cielo alto. Forse in quell'ora, lontano lontano, nel notturno silenzio d'una piccola città dormente, nell'austera solitudine della sua casa deserta, una vecchia madre, si preparava a coricarsi; e avviando le litanie della Vergine, pensava che, mercè tanti sacrifizi, almeno lui, poverino, il suo bimbo, sarebbe, un giorno o l'altro, felice.

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D'Ambra, Lucio

220490
Il Re, le Torri, gli Alfieri 5 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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A mano a mano che rievoco le avventure del mio regale amico, mi avvedo che l'onore d'essere l'amico intimo, il confidente prediletto e il consigliere segreto d'un Principe ereditario m'è costato sovente qualche rinunzia d'amor proprio: c'era, del resto, in questa rinunzia necessaria un'evidente legge di compensazione, poichè perdevo in decoro privato quel che acquistavo in decoro pubblico. Cosi l'equilibrio del mio onore rimaneva in fondo inalterato: vuol dire che quello che si vedeva da tutti era in proporzioni molto maggiori di quello che potevo vedere io solo, con una buona lente di ingrandimento di ottimismo personale. È certo che, a poco a poco, assecondando i gusti del futuro re, lusingandone le vanità, incoraggiandone i capricci, io seguivo il mio disegno di psicologo curioso di condurre il mio personaggio sin dove poteva e doveva arrivare logicamente dato l'abbrivo che aveva preso. Ma è anche certo che nel giuoco, a furia di piccole concessioni, di facili accomodamenti e d'elegantissime transazioni, io ero arrivato a considerare naturalissime certe piccole cose curiose che Sua Attezza mi faceva fare, certe piccole cose che avrebbero fatto arrossire qualche faccia meno della mia oramai diplomaticamente abituate a non cangiar mai di colore. In fondo, Sua Altezza era giunta a non considerarmi più che come un suo amico, come un'esperta guida nell'itinerario galante che voleva percorrere la sun esuberanza di adolescente fatto appena uomo. Ero forse più per lui un signore anch'io, un diplomatico senz'avvenire ma pur sempre un diplomatico, un gentiluomo che anche se cortigiano si ricordava ad un dato punto di dover esser quello prima che questo? Non credo. Mi pare invece che a poco a poco diventai per lui una specie di cameriere amico, uno stipendiato pei più strani servizii dissimulati sotto le eleganti maschere della più stretta amicizia, un salariato da alcova retribuito da lui con sorrisi cordiali invece che con denari contanti. E la cosa mi apparve naturale, tanto naturale che non mi avvidi se non molto più tardi dove si sarebbe andati a finire se avessimo continuato ad andare avanti di buon passo su quella via spregiudicata in cui il principe non si rendeva più conto di quel che mi faceva fare e io mi rendevo conto anche meno di lui di quel che facevo per volontà sua. In rondo ero evidentemente vittima anch'io dell'illusione della sua corona futura e del suo prossimo trono. Mi sembrava che, com'egli domani con una vittoria militare avrebbe potuto allargare i confini del suo territorio e del suo regno, cosi poteva con una parola allargare per sè e per i suoi sudditi, amici o no, anche i confini della morale, e allargarli tanto da perderli addirittura di vista. Avevo già veduto su lo scacchiere mondano di quella società elegante tutt'il giuoco docilmente prestarsi al capriccio del piccolo futuro re che attraversava lo scacchiere a piacer suo, in lungo e in largo, avanti e indietro. Avevo veduto le più oneste dame diventar tante torri che crollavano appena il re faceva un passo nella loro direzione. Avevo veduto mariti ufficiali e amanti ufficiosi diventar tanti alfieri pronti a inchinarsi al passaggio del piccolo re, anche e anzi sopratutto se era diretto verso la torre cui quegli alfieri dovevano decentemente servir di presidio. Ero su lo scacchiere anch'io ed ero diventato anch'io un docile alfiere in quel giuoco galante. Andavo di qua e di là, di su e di giù, pronto a un cenno, a un sorriso, a una parola, a uno sguardo. Ero, oramai, un piccolo alfiere galoppino adibito ai servizii di camera di Sua Altezza. Adesso mi accorgo che le mie funzioni non erano molto brillanti. Allora mi sembrava di continuar le glorie dei miei avi, ed avrei giurato che il mio paese non m'aveva fatto segretario d'ambasciata che per servirlo, onorarlo e farlo rispettare a questo modo. Una sera pranzavo al Circolo quando Sua Altezza mi feee chiamare al telefono. Era il principe in persona: «Ha libera la sua serata? — Liberissima, principe. E anche se non fosse libera troverei sempre il modo di liberarla per Vostra Altezza. — Può aspettarmi allora ancora qualche minuto al Circolo? — Ai suoi ordini, Altezza. — Fra meno d'un quarto d'ora vengo a prenderla con l'automobile». E pochi minuti dopo l'automobile, infatti, correva via verso un teatro dove una celebre e bellissima attrice francese in tournée dava la sua prima rappresentazione recitando Il Re, la graziosa commedia di Robert de Flers, de Caillavet e Arène. «Ho sentito recitare Manon Manette a Parigi, mi diceva il principe. È bellissima. Son curioso di vedere che impressione le fa». L'impressione, poco dopo, al teatro, fu eccellente. Manon Manette era quanto di più parigino, di più capriccioso, di più affascinante si possa imaginare. Naturalmente Manon Manette, come si conviene ad ogni buona attrice repubblicana, quand'ebbe saputo che dal palco di proscenio a sinistra assisteva alla rappresentazione Son Altesse Royale il principe ereditario del regno di Fantasia, non recitò più che per quell'unico regale spettatore. Non lanciava le sue arguzie, non prodigava i suoi sorrisi e le sue grazie, non moltiplicava al momento delle chiamate di fine di atto i suoi inchini, che per quel palchetto di proscenio a sinistra. Non ci sono infatti oramai che le attrici repubblicane e i ministri socialisti per essere oltremodo sensibili al fascino delle monarchie, delle teste corollate e dei principi ereditarii. Al secondo alto la bellissima attrice apparve in scena con un magnifico pendentif di brillanti e smeraldi. E durante quell'atto l'attrice sorrise al principe più che mai. Non capivo perchè. Lo seppi dopo. Nell'intermezzo tra il secondo e il terzo alto il principe mi invitò a seguirlo nel salottino che precedeva il suo palco. Si mordeva le labbra, si stiracchiava i baffetti impomatati come ogni volta che aveva qualche cosa di molto difficile e di molto delicato da dirmi. Avrei voluto toglierlo sùbito d'imbarazzo dicendogli che non era proprio il caso di fare tanti complimenti e di avere tanti riguardi con me e che una volta di più io ero perfettamente disposto a lasciarmi affidare la più strana missione di galoppino galante che alla fiducia del principe fosse piaciuto di rimettermi. Ma le mie nobili parole d'incoraggiamento non furono affatto necessarie, perchè, proprio al momento in cui ero per pronunciarle, il principe si decise a bruciare i suoi vascelli e a dirmi, con quell'aria tranquilla e sicura con cui mi diceva le cose più spaventevoli e più straordinarie di questo mondo: — Avrà certo già capito, amico mio, che Manon Manette mi piace immensamente. Le ho già manifestato la mia vecchia ammirazione parigina in due modi: mandandole quel pendentif di brillanti ch'ella aveva al collo durante questo secondo alto e facendola pregare di venire domani al palazzo a vedere la mia collezione di medaglie e a prendere una tazza di tè. — Ed è mai possibile che la bella attrice non abbia sùbito accettato l'invito con lo stesso slancio con cui ha evidentemente accettato il pendentif? — interruppi io. — Vostra Altezza desidera forse che io rinnovi e che decida Manette ad accettarlo? — No — rispose Sua Allezza,— l'invito è bell'e accettato. Era già inteso infatti che il pendentif, brillando al secondo atto sul seno di Manon Manette, avrebbe significato che il tè di domani sarebbe stato ugualmente gradito. Cominciavo a non capire veramente questa volta che cosa mai Sua Altezza volesse da me. Ma Sua Altezza non perdette tempo ad illuminarmi su la singolare missione che stava per essermi affidata. — Le devo confessare, amico mio, un mio segreto. Io ho assoluto bisogno di una illusione: l'illusione di dover conquistare una donna. Lei ricorderà una delle nostre prime conversazioni di quell'epoca in cui ci ritrovammo qui a Pulquerrima, diversi anni dopo il nostro incontro in Inghilterra, quando lei era segretario all'ambasciata di Fantasia a Londra ed io studiavo ancora ad Oxford. Le dirsi il mio desiderio d'avere qualche avventura e di conquistare alcune di quelle belle signore cui lei mi aveva presentato nelle nostre mattutine passeggiate a cavallo nei viali del Parco delle Delizie. E ricordo perfettamente d'aver detto che Vostra Altezza non avrebbe avuto molte difficoltà e che un suo desiderio sarebbe stato certamente un ordine per le nostre più irreprensibili dame. — Ed è stato precisamente cosi, purtroppo! — aggiunse il Principe. — Io non ho avuto che da chiedere un dito perchè mi dessero, come suol dirsi, tutta la mano, non ho avuto che da accennare al più vago e lontano tentative d'assedio perchè tutte le piazzeforti si arrendessero senza colpo ferire. Per riprendere l'imagine ed il giuoco che le son cari, io non ho avuto che da fare un passo su la scacchiera perchè tutte le più salde torri crollassero fra le mie braccia come tanti castelli di carte. Ebbene, io sono stufo, arcistufo di facili conquiste, di rese senza combattimento, di vittorie senza gloria, di delusioni senza illusioni, di offerte senza domanda. Desidero finalmente una donna che mi resista, desidero una donna che mi faccia aspettare, desidero una donna che abbia l'aria di non volerne sapere di me, d'infischiarsene dei miei titoli e della mia futura corona, di tutt'i principi ereditarii come me e magari anche di tutt'i re come mio padre. Voglio anch'io, in nome di Dio, vincere alla fine qualche dillicoltà, quelle piccole difficoltà almeno del primo incontro, della prima ora, che lei, per esempio, incontrerà certamente... Così ho pensato a quell'attrice. Mi sembra che faccia al caso mio. È attrice: la commedia è il suo forte. È francese: dev'essere maestra di civetteria. È repubblicana: deve odiare a morte regni e regnanti. Caddi dalle nuvole. Possibile che il principe, non ostante le mie lezioni di scetticismo e di cinismo elegantissimi, fosse ancora tanto ingenuo da pensare sul serio, quando era stanco della soverchia condiscendenza galante trovata tra le più nobili e austere dame del suo mondo, da pensare sul serio ad un'attrice, e a quale attrice! per trovare quelle resistenze di cui la sua sazietà di enfant gâté della galanteria aveva tanto bisogno? Segnalai la mia meraviglia al principe, ma la sua risposta, poco dopo, mi provò che l'ingenuo non era lui, ma che ero invece proprio io. Vostra Altezza mi permetterà di osservare che la sua scelta mi sembra francamente errata. Manon è un'attrice le cui molte avventure sono note al mondo intero. È francese, e la donna francese, parigina specialmente, è, dicono, cosi cortese in amore che non fa mai fare anticamera; e molto meno poi oserebbe far fare anticamera a un figlio di re un'attrice repubblicana. Vostra Altezza ricorderà quel giorno che a bordo del suo yacht il figlio dell'imperatore Goffredo, il cui impero è minacciato da un forte partito repubblicano, raccontava che suo padre non aveva nessuna preoccupazione, sicuro com'era che il giorno in cui il suo impero sarebbe rovesciato ci sarebbe stata sempre una repubblica pronta a ridargli un trono con tutti gli onori, e un presidente disposto a cedergli il posto. — Verissimo, — rispose il principe. — Francese quanto vuole, repubblicana come vuole, ma attrice, non lo dimentichi. Attrice vuol dire recitare, essere capace di fare ogni parte in commedia. E qui si tratta appunto di recitare una parte. Capirà che non posso decentemente pregare una signora di farmi la cortesia di resistere: sarebbe farle offesa. Posso benissimo invece chiedere questa cortesia ad un'attrice. È una parte che conoscerà a meraviglia perche già tanti autori gliel'hanno fatta recitare nelle loro commedie. Solamente bisognerebbe che Manon sapesse che questa è la commedia che io desidero domani dalla sua esperta civetteria per una deliziosa, nuova, dolcissima illusione di cui io ho tanto bisogno. E bisognerebbe — ed ecco il favore che volevo chiedere al suo spirito capace di superare con grazia e con eleganza impareggiabili tutte le più scabrose difficoltà bisognerebbe che questo a Manon Manette lo facesse sapere e lo spiegasse proprio lei. La missione era molto difficile e oltremodo delicata, ma non tale da spaventarmi; e, del resto non c'era modo di declinarla. M'ero trovato, d'altra parte, in imbarazzi assai peggiori, speciamente il giorno in cui avevo dovuto persuadere un marito ad allontanare da casa il suo più stretto amico perchè il principe, che era naturalmente l'amante della signora, n'era non meno naturalmente geloso. Il giorno dopo dunque bussai alla porta del salottino che Manon Manette occupava al Suprême Hotel; ripetendomi vertiginosamente in mente, per la centesima volta, il discorsetto meticoloso e preciso che m'ero mandato a memoria. Ero sicuro con quello del mio effetto, sicuro d'aver trovato il modo più facile per dire una cosa diflicile, o, da un altro punto di vista, il modo più difficile per dire una cosa facile. Ma, sia che al momento opportuno io non ricordassi più perfettamente il discorso, sia che nel discorso a me fosse sembrato molto velato quello che invece era sfacciatamente chiaro, questo solo so di certo: che a un dato punto Manon Manette, quand'ebbe ben capito dove il mio discorso andava o almeno voleva andare a finire, si levò bruscamente slacciandosi con mano nervosa il pendentif che le era stato donato dal principe con l'invito a prendere il tè e che la sera prima avevo ammirato a teatro. I segni più manifesti della collera erano sul volto deliziosamente maquillé di Manon Manette; e credo infatti che, se la cipria e il carminio gliel'avessero permesso, ella sarebbe stata, come si conviene, o rossa in viso per la vergogna o pallidissima per l'indignazione. Rimase invece molto pallida e molta rossa nel tempo stesso, ma collera e indignazione non entravan per nulla nella responsabilità teatrale di quel vivacissimo contrasto di colori. — Sua Altezza il principe di Fantasia, — ella mi disse, — incaricandovi di tenermi questo discorso, ignora evidentemente chi io sono e che cosa sono. Egli ha ancora dell'attrice in particolare e della donna francese in generale l'opinione bugiarda e tradizionale che se ne ha nelle vecchie Corti europee, nelle famiglie bigotte e timorate di Dio e nel pubblico dei caffè-concerto. L'attrice è una donna senza pudori e la donna francese è generosa sino alla prodigalità. Ebbene, direte al principe che io sono assolutamente degoulée di osservare ch'egli m'ha scambiata per una di quelle signore eleganti che sono l'abituale appannaggio galante del giovani principi di sangue reale, ereditarii o no. L'attrice, lo sappia una volta per tutte, non ha bisogno per resistere di recitar la commedia come una donna onesta, e la donna francese oramai la sola che faccia ancora cerimonie. A differenza del popolo ardimentoso ed impetuoso di cui fa parte, essa non opera per rivoluzioni, ma per lente, meditate ed illuminate evoluzioni. Riportate dunque al principe questo suo biglietto da visita di ieri e ditegli che sono dolente di non poter oggi, al suo palazzo restituirgli, com'era inteso, il mio. E, così dicendo, mi restituì il pendentif. Invano spiegai, rettificai, corressi, supplicai. Manon Manette fu irremovibile, insensibile al fascino della mia eloquenza, impermeabile alle lacrime della mia commozione. — No, no, è inutile che insistiate, — mi disse alla fine. — II principe deve cominciare finalmente a saper distinguere fra una signora per bene e un'attrice. Quello ch'è possibile dire a una così detta signora per bene suona offesa per me e per quelle come me. Dovrebbe sapere che noi abbiamo sempre resistito. Ed è per questo che le signore per bene non ci possono vedere. Noi costringiamo anche loro a farsi pregare, ed è una cosa di cui sono, poverine, assolutamente incapaci. Non c'era più che fare e, inchinatomi, m'allontanavo portandomi via il pendentif del principe; ed ero già sulla porta, quando Manon mi raggiunse, mi prose per mano e mi trattenne: — Ma se metto alla porta, — mi disse col suo incantevole sorriso, — se metto alla porta il latore della sconvenientissima ambasceria di Sua Altezza, prego il mio cortese amico, poichè tutti sanno che ambasciatore non porta pena, di rimanere. Ed è con voi che o sarò felicissima di bere in casa mia la tazza di tè che il principe m'aveva offerto a palazzo. Saprà cosi proprio da voi che io bevo quando ho sete e che a nessuno deve essere lecito insegnarmi come io debba o non debba bere. Non ho bisogno di suggeritore. Vado benissimo a memoria. Venne il tè e bevemmo. Fu un tè squisito, offerto senza cerimonie, veramente col cuore in mano, se posso esprimermi così. Quand'andai via, ringraziandola, confuso per la sua inattesa ospitalità, Manon Manette vide tra le mie mani il gioiello del principe ch'ella mi aveva sdegnosamente restituito. Con un incantevole sorriso la graziosa attrice mi disse: — Ed è dalle vostre mani, intendiamoci bene, solo dalle vostre mani che riprendo questo gioiello, considerandolo come un dono prezioso della vostra personale amicizia e come un attestato della vostra improvvisa riconoscenza. E, ripreso il pendentif, se lo riannodò attorno al collo con un terzo incantevole sorriso. Poi, ricordando il mio infelice discorso di poco prima: — Così Sua Altezza, — disse, — fra i tanti alfieri compiacenti e le tante facili pedine del suo giuoco di scacchi ha trovato finalmente anche una torre. Ed è finita come doveva finire... — Cioè?... — Con scacco al Re!

D'un tratto, tra quella folla elegante, mentre i fanali incominciavano a punteggiare di fuoco la strada fiancheggiata da storici e sontuosi palazzi, un vocìo lontano ha dominato il brusìo sordo ed enorme della grande città in movimento. A poco a poco abbiamo potuto distinguere le voci di quegli uomini in corsa che urlavano a squarciagola l'annunzio delle edizioni speciali dei giornali della sera e la notizia della dichiarazione ufficiale della guerra. Il massiccio battaglione dei giornalai fu letteralmente preso d'assalto. Dai marciapiedi, dalle vetture, dalle automobili, dai portoni delle case, persino dai mezzanini più bassi le copie ancora umide del giornali, con le ultime notizie stampate in grassetto sotto titoli a lettere di scatola, erano strappate di mano ai rivenditori, aperte febbrilmente e lette immediatamente in gruppi e in capannelli improvvisati nella pallida luce crepuscolare. Ma le limousines continuavano a palpitare del loro ànsito pesante segnando il passo nelle quattro file di vetture in salita e in discesa tulle cariche d'eleganti signore nei priori chiari e freschi abiti di primavera, l'immensa folla continuava a muoversi, ad andare e venire lentamente sui marciapiedi, più densamente ancora assiepata d'innanzi ai grandi caffè sfavillanti di luce. Solo un gruppo di giovani, passando sotto il balcone del Circolo del Bridge che era situato di rimpetto alle finestre d'un grande, giornale, Il Conservatore, gridò ripetutamente: «Viva il Re! Viva Fantasia! Viva l'esercito!». Applaudii anch'io dal balcone e potei osservare che eravamo, in verità, pochini a provare il bisogno di fare un po' di rumore. La folla lasciò cadere le grida di quei pochi giovani come le parole di un discorso che non ci riguarda e che ancor meno c'interessa. Il gruppo di quei giovanotti, ricordando la scena finale di Nanà, cominciò allora a gridare «A Zarzuelopoli! A Zarzuelopoli!» Il nuovo grido non ebbe maggior fortuna. Evidentemente ogni cittadino, più che da quella d'andare a Zarzuelopoli, ipotesi remota, era adesso preoccupato dalla necessità, tesi immediata, d'andare a casa sua, a pranzare, a vestirsi per il teatro, per le riunioni mondane o per la solita partita. Già infatti la grande strada si sfollava. Si facevan dei vuoti nelle barricate umane d'innanzi ai caffè. Carrozze e automobili voltavano a dritta o a sinistra per le vie traverse. Le voci dei giornalai che annunziavano lo scoppio delle ostilità tra il nostro paese e Zarzuelopoli erano ormai monotone come quando, ogni sera, annunziavano i grandi tumulti, che non c'erano stati, alla seduta del Congresso dei deputati. Ognuno pensava oramai esclusivamente ai fatti suoi. La terribile notizia divulgata mezz'ora prima non aveva fatto più impressione di quella della caduta d'un aviatore e dell'arrivo al traguardo d'un intrepido ciclista. E fu così che Effemeris, capitale del regno di Fantasia, apprese tra le cinque e le sei di sera del 7 maggio dell'anno di grazia 1912 la notizia della guerra scoppiata tra il regno di Fantasia e l'impero di Silistria. Se i popoli felici non hanno storia, la felicità dei popoli risiede probabilmente nel segreto di non preoccuparsi di nulla e di dirsi che, guerra e pace, pace e guerra, tutto al mondo è vanità. Ho pranzato al Circolo, poichè il pensiero che eravamo giunti a una delle grandi tappe della storia del mondo, se pur mi preoccupava, non mi toglieva di sacrificare, come ogni sera a quella stessa ora, ad una delle mie e delle altrui più inveterate abitudini. Pranzai alla mia solita tavola, senza i miei soliti compagni di dispepsia, perchè contemporaneamente alla proclamazione della guerra c'era quella sera la prima rappresentazione molto attesa d'un celebre corpo di ballo annamita che aveva fatto furore a Parigi durante l'ultimo inverno. Mi serviva, nella sala da pranzo deserta, il mio solito cameriere che sapeva ancor meglio di me tutt'i miei gusti e tutt'i miei disgusti. Mentre mi somininistrava il mio solito pranzo sommario e versava all'ostinato bevitore d'acqua che io sono una complicata serie di acque ininerali estere e nazionali, il mio fedele cameriere mi sembrava preoccupato e come impacciato a trovare il modo di rivolgermi la parola per una domanda che doveva stargli molto a cuore. Fui allora io stesso a domandargli che cosa lo preoccupasse, poichè lo vedevo così insolitamente turbato; ed egli mi domandò se veramente la guerra era ormai dichiarata o se c'era ancora la speranza d'un accomodamento e d'una intesa tra le cancellerie di Effemeris e di Zarzuelopoli. E quand'ebbe saputo da me che gli ultimi comunicati parlavano chiaro e che già un primo corpo d'armata sarebbe partito nella notte per la frontiera occidentale, il povero vecchio asciugò una lacrima con la manica della giubba e mi raccontò che due suoi figliuoli facevano il loro servizio militare negli usseri del Dragone d'oro ed erano appunto di guarnigione in una delle città di confine che con maggiore probabilità sarebbero state teatro delle imminenti operazioni militari. «Ma non importa, aggiunse poi sorridendo. Noi tutti dobbiamo al nostro paese quello che abbiamo di più sacro. Io gli offro i miei due figliuoli, sebbene al mondo non abbia che loro. Se la Provvidenza vorrà conservarmeli, Iddio sarà benedetto. Se vorrà togliermeli, morirò anch'io, ma col conforto di sapere i miei due figliuoli morti da eroi per il loro paese e per il loro re». Queste parole un poco enfatiche erano dette con un tale accento di semplicità e di sincerità che io, tuttavia non facile alla commozione o per lo meno difficilmente pronto ad abbandonarmici non seppi rispondere al vecchio cameriere se non con una voce un po' tremante per dire tutte le sciocchezze che si dicono in queste occasioni avendo ancora l'aria di credere che cento grosse parole possano menomamente cambiare il più piccolo fatto. Dissi molte parole inutili e gli strinsi lungamente la mano. Ma la mia stretta di mano non fu inutile; fece almeno piacere a me e dandola provai una profonda ed improvvisa simpatia per quel vecchio domestico sbarbato e canuto che vedevo da anni, cosi indifferente, ogni sera, in quella stessa sala, e che ora sacrificava con tanta semplicità i suoi due figliuoli alla fortuna del suo paese mentre i miei compagni abituali di pranzo al Circolo non avevano saputo rinunziare, per sapere e osservare quello che accadeva, neppure alle prime piroette del meraviglioso mimo polacco ch'era la great attraction del corpo di ballo annamita. Sono uscito sùbito dopo pranzo per tornarmene a casa mia. Mi sembrava che in una sera siffatta non avrei avuto desiderio di veder gente, nè di parlare. Ma fuori l'aria era tiepida, quasi già calda, e la calma profonda della notte serena invitava alla marcia. Passai d'innanzi alla redazione d'un altro grande giornale che dalle sue finestre, con trasparenti luminosi, comunicava alla popolazione di Effemeris le ultime notizie della serata: l'ordine di mobilitazione era stato immediatamente trasmesso alle truppe di terra e di mare; il generale Paolo de Gonzales, capo dello Stato Maggiore, aveva preso il comando supremo delle truppe; reggimenti stavano per partire da ogni città per andarsi ad ammassare al confine occidentale. Una certa folla stazionava d'innanzi a quegli schermi luminosi, come d'innanzi al quadro bianco d'un cinematografo-réclame. Sentivo attorno a me qualche voce domandare: «E il Re? Del Re non si hanno notizie? Il Re non si muove?». E proprio in quel punto lo schema luminoso comunicò alla folla, da una delle finestre, che «le condizioni di salute di Sua Maestà il Re erano invariate». Ci fu un mormorio, un brontolio, manifestazione di poca entità, esuberanza di pochi individui isolati. Il popolo di Fantasia — lo conosco bene oramai — e specialmente quello di Effemeris, giocondissima capitate, non perde mai l'equilibrio della sua serena indifferenza, nè per esaltare nè per condannare. Gioie e sventure lo lasciano egualmente tranquillo. È da gran popolo, non scomporsi mai. E il popolo di Fantasia è un grande popolo: almeno lo dice la storia. Era veramente strano che a Sua Maestà non avessi pensato fino allora e che dopo l'annunzio della guerra dichiarata ci volessero quei commenti della folla per richiamarmelo in mente. Era certo che Sua Maestà non avrebbe potuto marciare al fuoco alla testa dei suoi eserciti. I più forti generali possono sdrucciolare su una buccia d'arancio, ed era precisamente, ammessa la metafora, quello ch'era capitato quindici giorni prima a Sua Maestà. La sua buccia d'arancio, provvida ed improvvida insieme, era stata la ripiegatura d'un tappeto mal tirato in cui giorni prima. Sua Maestà aveva malauguratamente inciampato andando a ruzzolare su lo scalino d'un caminetto ch'era lì presso e che gli aveva spezzato, come un biscottino, il femore sinistro. Già da quindici giorni almeno Sua Maestà era in letto e doveva rimanerci ancora almeno un mese, supino, con la gamba ingessata, distesa ed immobile, e con un diavolo per capello. Non che il Re dovesse essere desolato di non poter capitanare i suoi eserciti durante quella guerra in cui egli non aveva mai creduto: aveva un capo di Stato Maggiore eccellente, e lui invece, il giovane Re Rolando secondo, non ostante il bel nome eroico e cavalleresco, non aveva mai amato troppo i disagi della vita militare. La rivista passata col canocchiale alle più belle donnine del corpo di ballo lo aveva interessato sempre più di quella passata alle sue truppe, a cavallo, sotto un sole torrido d'agosto o di settembre, alla fine di tre settimane infernali di grandi manovre che aveva dovuto pur troppo conoscere quando, principe ereditario, comandava, per modo di dire, almeno nei bollettini militari e nelle cerimonie ufficiali, il corpo d'armata di Pulquerrima. Ma Rolando secondo era però coraggioso ed orgoglioso. Doveva seccargli di non poter essere alla testa delle sue truppe magari a costo di farsi ammazzare, e doveva turbarlo profondamente il pensiero che qualche giornale avesse potuto fare allusione alla comodità di certe coincidenze e al vantaggio, a prima vista misconosciuto, di non avere in casa propria i tappeti ben tirati e qualche facile possibilità d'inciampare. È vero che a questa possibile malignità dei giornali repubblicani, ch'erano poco letti ma appunto per questo motto numerosi, avrebbero fieramente risposto i giornali socialisti che nel regno di Fantasia, come in tutt'i regni di questo mondo, passato il periodo delle prime bizze infantili e messo il dente del giudizio, erano ministerialissimi e quanto, mai riguardosi per la monarchia e per le istituzioni. E infine Rolando secondo doveva anche provare un certo rimorso di non potere andare alla guerra poichè la guerra avveniva per causa sua, e di non potersi cavallerescamente battere con tutto il suo paese per ciò per cui tutt'il suo paese si batteva: voglio dire, una donna! Per una donna, precisamente. Diretto a casa avevo preso non so più come la via diametralmente opposta a quella di casa mia. Andavo, andavo diritto innanzi a me, per le grandi vie sonore e vuote dei nuovi quartieri che avevano fatto passare improvvisamente, in tre anni, l'avventurata capitale da un terribile rincaro delle pigioni a una non meno terribile crisi edilizia; andavo diritto, fumando, e, poichè non v'è antinomia tra il fumo del tabacco e quello del cervello, fumando pensavo e ricordavo fumando. E, tra tanti pensieri e tanti ricordi, un verso mi ronzava nel cervello e su le labbra, un verso italiano di Vincenzo Monti, il primo verso di Vincenzo Monti, se non per ordine cronologico o di merito, certo per ordine numerico nella traduzione dell'Iliade. Anche un lettore del tutto illetterato avrà potuto sospettare che il verso che mi accompagnava lungo la via come un ritornello era appunto:

La " scena-madre „ Ora che trascrivo scrupolosamente le memorie dei principali fatti della vita del mio regale amico ad uso e consumo dei futuri inevitabili ricercatori di documenti sul suo regno e su la società che lo costituiva, devo confessare sinceramente che anche a me una testa coronata, finchè non ne ebbi conosciuta una e molto da vicino, faceva l'effetto d'essere qualche cosa di speciale, qualche cosa di molto diverso dalle nostre povere teste vuote o piene di oscuri mortali, non consacrati re o imperatori da una fortunata toccatina di diritto divino. Ho potuto poi convincermi, invece, che quelle teste possono qualche volta essere più piene delle nostre, qualche volta più vuote, quasi sempre son più dure, ma sono in fondo perfettamente analoghe a quelle che modestamente ci appartengono. Da quando poi la democrazia ha fatto sì che la nuova politesse des rois sia quella d'imborghesirsi sempre più, noi non vediamo altro oramai che re in giacchetta i quali firmano sbadigliando i decreti preparati da un ministro in redingote. Ricordo perfettamente che un giorno Sua Maestà — poichè io gli manifestavo il mio rammarico profondo nel vedergli conservare la sua fiducia e la sua simpatia verso un presidente del Consiglio che un anno prima gli aveva mandato cento deputati socialisti al Congresso e che dopo gli aveva, tra un infuriare di liberi scioperi e di più liberi comizi, appioppato nel nuovo Ministero anche tre ministri socialisti di quelli che non fanno tanto gli schizzinosi per indossare quella redingote che, a badarci bene, è poi in fondo una livrea come la blusa — ricordo che un giorno Sua Maestà, dicevo, mi rispose col suo più impertinente sorriso: «Che vuole, amico mio? So benissimo che don Pedro de Aldana, se campa ancora abbastanza, finirà col dovermi una bella sera accompagnare alla frontiera. Ma a me poco importa. I miei capitali sono fuori di Fantasia, a Londra, a Roma, a Parigi. Con un po' di denaro, un po' di salute e un po' di buonumore si vive bene da per tutto, re o non re. Senza don Pedro dovrei lottare, aver partiti, essere con questo o con quello, vivere giorno per giorno una battagiia politica. Don Pedro invece addormenta tutto. Suggerisce dei sogni e poi fa sognare: è un ministro oppiaceo. E intanto dorme anche lui con le mani sul ventre e dormo anch'io pacificamente le notti di questi ultimi anni di regno, che, con o senza don Pedro, sarebbero sempre gli ultimi. Chè, oramai, caro d'Aprè, a uno a uno, piu presto o più tardi; siamo destinati a scomparire tutti quanti...» Poiche bisogna ricordare che non v'ha nulla di più repubblicano o almeno nulla di più anti-monarchico d'un re del secolo ventesimo. S'aggiunga che il re nell'intimità del quale ho avuto la fortuna e l'onore di vivere alcuni anni era quanto di piu apolitico si possa imaginare. Spingeva il suo disinteressamento per la politica fino a non leggere neppure, un quarto d'ora prima di recarsi al Congresso dei deputati a pronunziarlo, il discorso della Corona che i suoi ministri gli redigevano periodo per periodo all'apertura d'ogni nuova legislatura. Il discorso ch'egli leggeva ai senatori e ai deputati era cosi completamente nuovo anche per lui; e infatti, a mano a mano che leggeva, non riusciva molte volte a nascondere certi piccoli movimenti nervosi di compiacimento o di dispetto a seconda che le cose che i suoi ministri gli facevano dire e promettere gli piacevano o gli dispiacevano. La sua indifferenza giungeva a tal segno che una volta egli arrivò al Congresso coi foglietti del discorso della Corona nella tasca della sua marsina, ma senza neppure sospettare che, distrattamente, aveva preso quelli del discorso pronunziato sei mesi prima all'apertura di un'altra nuova legislatura. Era un discorso pieno di brillanti promesse e di oculate riforme, col quale sei mesi prima il governo di don Pedro de Aldana aveva tracciato il vasto programma dei lavori parlamentari ad un Congresso che, invece di mettersi a lavorare senza perdere tempo, s'era dato sùbito a far tanto chiasso che don Pedro aveva dovuto rimandarlo a riposarsi a casa dopo un semestre d'ostruzionismo, di chiassate infernali, di urne infrante, di vetri spezzati e di canzoni rivoluzionarie intonate con bellissime voci tenorili e baritonali sui banchi dell'Estrema Sinistra. Ed è d'innanzi al nuovo Congresso che aveva seguìto, tre mesi dopo, lo scioglimento di quel Congresso di sbarazzini, che Sua Maestà aveva cominciato a leggere con bella foga oratoria il vecchio discorso preso distrattamente invece del nuovo. È vero che Sua Maestà s'occupava poco di politica, ma aveva però una memoria di ferro e, detta una volta una sciocchezza, non la dimenticava più. Riconobbe quindi presto il discorso di sei mesi prima. Ebbe un breve momento di timor panico, ma poi andò avanti risolutamente sino alla fine, attendendo da un momento all'altro — mi raccontò egli dopo - che il Congresso rumoreggiasse o commentasse clamorosamente la scandalosa distrazione del sovrano. E, giunto senza inconvenienti alla fine del vecchio discorso, Sua Maestà, che aveva anche, dopo tutto, molto spirito, si credette in obbligo d'osservare che il Congresso doveva avere riconosciuto, nel discorso da lui letto pochi minuti prima, il discorso della legislatura precedente, al quale non era stata mutata neppure una virgola, e di dichiarare ai deputati che il suo Governo aveva preferito non redigere un nuovo discorso, poichè il vecchio Congresso disciolto dopo soli sei mesi di vita infeconda aveva lasciato al nuovo l'ereredità del vasto programma riformatore contenuto in quel precedente discorso. Sua Maestà, dopo questa trovata, ebbe la sorpresa di vedere che il Congresso cadeva dalle nuvole udendo le sue parole: nessuno aveva riconosciuto il discorso, poichè a Fantasia ed altrove breve è la fama delle più illustri orazioni regali. E dalle nuvole cadde anche più precipitosamente Sua Maestà il giorno dopo, quando dovette riconoscere una volta di più che se egli era un sovrano di spirito era però un monarca costituzionale che non capiva un'acca di politica e ancor meno, se possibile, di politica parlamentare. Tanto è vero che, proprio quando egli credeva d'avere accomodato con spirito una sua distrazione, commetteva una gaffe piramidale: quella di pretendere che un uomo politico al Governo mantenga fede almeno per sei mesi alle sue idee e al suo programma. Il primo discorso conteneva il programma del primo ministero Aldana; e Sua Maestà non previde il più piccolo inconveniente nel fare di quel discorso la bandiera del Ministero nuovo, poichè questo era ancora presieduto da don Pedro de Aldana, presidente inamovibile. Ma gli inconvenienti li vide invece il Congresso che il giorno dopo mandò, sotto una grandinata di palle nere, quel povero don Pedro ad imparare a casa sua quello che del resto egli sapeva benissimo: e cioè che bisogna, almeno ogni tre mesi, cambiar d'idee quando si vuole, ogni sei, cambiare partito. Sua Maestà, che voleva decisamente andare alla frontiera al più presto possibile, mandò don Pedro al Congresso per la terza volta, con un terzo Ministero. L'inevitabile presidente del Consiglio redasse un discorso à succès con le idee più fresche che avevano corso in quelle settimane su pei banchi della maggioranza. E, ringraziando Iddio che non si trattasse questa volta di un discorso della Corona, il discorso al Congresso andò a leggerselo lui stesso. Sua Maestà, commentando con me quegli avvenimenti la sera del giorno in cui al Congresso don Pedro de Aldana, scacciato come un cane il giorno prima, aveva raccolto l'unanimità più uno, concluse che decisamente. la politica non era fatta per lui e che la sua più irresistibile vocazione di re e di uomo era incontrastabilmente ed esclusivamente quella di fare all'amore. E l'amore infatti, continuava ad occupare tutte le sue ore libere che, contrariamente a quello che si crede, non sono poi molte per un povero diavolo che deve fare, almeno facendosi vedere, il duro mestiere di re. Il mio regale amico continuava come prima ad occuparsi sempre più delle dame della Regina che della Regina stessa. La povera piccola Regina, giallina, magrolina e silenziosa, si occupava della malferma salute e non compariva in pubblico se non alle cerimonie ufficiali e con un'aria di malinconia che faceva venir voglia di piangere su l'inclemenza del suo lacrimevole destino. La duchessa di Frondosa continuava ad essere l'indomabile passione di Sua Maestà, che, dopo avere avute, senza amarle, tutte le care donne che desiderava — care nel senso affettivo — non poteva logicamente innamorarsi come un pazzo se non di quella che ad ogni costo non voleva saperne di lui e che continuava tranquillamente, con la sua bella sanità morale di donna bene equilibrata e di signora veramente per bene, a infischiarsene della corte spietata e disperata del Re, come si era infischiata prima delle galanterie esuberanti del principe ereditario. Come tutti gli uomini — e come tutte le donne — che hanno qualche ora da buttar via inutilmente, il mio regale amico cercava adesso, nella lettura dei romanzi, un conforto alle sue pene di cuore. Leggeva i più romanzeschi e i più avventurosi. Continuava a considerarmi come l'indicatore ufficiale per le sue letture, e prima d'aprire un romanzo mi domandava se conteneva passioni esaltate e febbrili, storie di ratti e fughe, ogni specie insomnia di violenze d'amore. E, mentre divorava questi libri che lo eccitavano sempre di più, si teneva sempre vicina a Corte la duchessa Isabella. Aspettava con impazienza febbrile il mese in cui il duca e la duchessa di Frondosa erano di servizio. E non si contentava del servizio normale, ma studiava e trovava mille indiavolati pretesti per ridurre quella povera duchessa a fare anche degli extra. Ma la duchessa intanto, pur avendo l'aria di capire benissimo tutte quelle complicate manovre, non lasciava mai di sorridere nella sua serena invulnerabilità. Da parte sua il duca, con quella sua faccia impassibile, continuava ad aver l'aria di non vedere nè che sua moglie sorrideva, nè che il re si struggeva. E arrivammo così alla sera fatale. Durante tutta la giornata, Sua Maestà era stata più innamorata che mai. Nella mattinata aveva, avuto luogo una partita di caccia, alla quale anche la duchessa Isabella aveva assistito, più bella che mai a cavallo, più affascinante che mai in abito da caccia, più che mai sorridente e serena e tranquilla e sicura di sè. Dopo colazione avevo veduto il re parlare a lungo nervosamente; torcendosi i baffetti, muovendosi continuaniente su le gambe come se avesse l'argento vivo addosso o un esercito di formiche all'assalto su pei regali polpacci. Lo guardavo da lontano, fumando in compagnia del duca di Frondosa, il quale aveva cura di dirigere il luccichìo della sua caramella sempre dal lato opposto a quello ove passeggiavano Sua Maestà e la duchessa. Don Alvaro mi parlava di politica estera: è la sua fissazione da quando il suo carattere impetuoso ed impulsivo sollevò i tre famosi incidenti diplomatici e lo fece richiamare indisponibilmente a disposizione del Ministero. Io ero segretario alla Legazione di Lisbona quand'egli v'era ministro plenipotenziario. Io lo sostituii durante alcune settimane in cui non aveva saputo resistere ai fascini della season londinese. E poichè, a differenza da quando c'era lui, non avvenne il più insignificante incidente in quei ventun giorni — cosa veramente incredibile in quel gaio paese — il duca aveva preso a considerarmi come un diplomatico di primissimo ordine e a parlarmi di politica, ogni volta che m'incontrava, per avere da me dei lumi su la situazione internazionale che a lui sembrava sempre, invariabilmente, oltremodo oscura. Quella sera pranzavo dai Frondosa. Prima di pranzo, andai a palazzo a bere la consueta tazza di tè col mio regale amico, che trovai in uno stato di esaltazione indicibile. «Anche oggi, mi disse appena mi vide, anche oggi quella donno mi ha respinto. E la sola che mi resiste ed è la sola che adoro. Si ricorda, lei, il famoso scacchiere galante? Tutte le pedine, tutte le torri hanno ceduto al re, tutti gli alfieri si sono cortesemente fatti da parte per lasciarmi liberamente scorazzare. Ero giunto alla sazietà, lei lo sa, al disgusto di queste avventure troppo facili. Non avevo che da levare un dito.... Ma questa volta non un dito solo ho levato, ma ne ho levati dieci, e niente!... E una cosa che mi fa impazzire.... Lo sa lei, lo sa lei che io me ne infischio d'essere re se devo trovarmi davanti una torre che non posso mangiare?» E continuò a sfogarsi a lungo, in modo che mi sentivo davvero intenerire il cuore; e lo avrei una volta di più volentieri aiutato, senza tanti scrupoli, se mai fosse stato possibile di farlo. Quando mi levai per andarmi a vestire mi disse: «Ah, già, lei pranza stasera, dai Frondosa... Come le invidio di poterla vedere per tutta una serata.... Le darei la mia corona per il suo posto a tavola!» Non ebbi molta fatica a persuaderlo che questa forma di commercio delle corone regnanti non e ancora entrata nel protocollo mondano, e mi avviai con indifferenza verso quel pranzo per il quale il mio regale amico avrebbe barattato il su regno. Il che non mi sembrava, del resto, un'esagerazione. Se un suo famoso predecessore aveva offerto il suo regno per un cavallo, egli poteva benissimo offrire il suo per un pranzo, dato il deprezzamento contemporaneo del mestiere di re, e la poca solidità, oramai, della carriera. Sedendomi poco più tardi, con l'indifferenza di un uomo che vive a regime e ch'è bevitore di acqua, alla tavola da pranzo di casa Frondosa, non sospettavo neppur lontanamente di sedermi invece in una comoda poltrona per assistere alla più comica commedia che abbia mai veduta fuori di quelle del teatro le quali raccolgono, come sapete, in una sola d'un solo autore dieci commedie di altri autori perchè gli autori drammatici hanno memoria di ferro e, sentita una volta una scena, non se la dimenticano più. Era pranzo d'intimi, quella sera. Si doveva pranzare e poi accompagnare la duchessa all'Opera dove doveva aver luogo la prima rappresentazione del Boris Godounow di quel grande musicista russo che nel cognome per un paio di povere piccole vocali ha bisogno d'un mezzo squadrone di consonanti. Non eravamo che tre ospiti e i padroni di casa. Il pranzo volgeva alla fine quando il maggiordomo s'avanzò verso di noi, e rispettosamente avvertì che telefonavano da Palazzo, e che Sua Maestà desiderando di venire, a visitare la duchessa di Frondosa quella sera, voleva sapere se la duchessa poteva riceverlo. Guardai sùbito don Alvaro e, per la prima volta, vidi passare un'ombra di fastidio su quel volto impenetrabile e impassibile, mentre, tuttavia, con l'aria più naturale di questo mondo rispondeva al maggiordomo di far dire a Sua Maestà che la duchessa di Frondosa sarebbe stata felicissima di riceverla. Vidi sùbito la serata perduta. Addio, Opera! Addio, grand'uomo dalle troppe consonanti! Non mi disperai per questo, chè le commedie della vita m'interessano sempre più di quelle del teatro, e un presentimento mi avvertiva che, nella commedia dell'amor respinto recitata da Sua Maestà e dalla duchessa di Frondosa, stavamo per arrivare alla scena-madre. E anzi provai, poco più tardi, un vivo disappunto quando vidi che il re, senza tante cerimonie, proprio perchè presentiva che la scena-madre era vicina, licenziava gli spettatori. Ci levavamo infatti appena da tavola quando sentimmo sotto la vôlta del portone il rombo dell'automobile regale che entrava, quella piccola automobile dalle persianette chiuse con cui il mio regale amico s'abbandonava alle sue scappatelle notturne. Ed ecco poco dopo entrare il mio regale amico, irreprensibile nella sua marsina, col suo immancabile garofano rosso all'occhiello. Ed eccolo, appena entrato e scambiati i saluti, dirci che salendo le scale s'era ad un tratto ricordato che quella sera c'era all'Opera la prima rappresentazione del Boris Godounow, ch'era veramente desolato di questa dimenticanza, che chiedeva alla duchessa ed a noi di non privarci per questo d'una première così importante, poichè egli si sarebbe immediatamente ritirato. Vidi sùbito dove voleva andare a finire; e quello che egli desiderava avvenne infatti con la massima precisione. La duchessa, naturalmente, non volle permettere al re di ritirarsi, e questi allora ad insistere perchè al teatro andassimo almeno noi uomini! «Prego questi signori, egli disse, di non fare complimenti. E li prego vivamente di liberarmi, almeno per loro uomini, dal rimorso d'una serata perduta». Era, sotto la preghiera, un ordine, e non c'era che da inchinarsi, tanto più che già Frondosa s'era inchinato per primo ringraziando, già aveva baciato la mano di sua moglie, stretto quella del re e s'era diretto verso la porta. Noi lo seguimmo, io ultimo, con l'aria più mortificata di questo mondo. Proprio sul più bello, ahimè, mi toccava di andarmene. Un regno no perche non l'avevo, ma un anno di vita lo avrei dato certamente volentieri per poter rimanere dietro un paravento. Decisamente c'era una cattiva stella per quella première. Arrivati a teatro, la nostra automobile dovette tornarsene indietro. Il teatro era chiuso, la rappresentazione essendo rimandata per l'indisposizione d'un cantante. Vidi una seconda volta il viso di don Alvaro oscurarsi: un attimo. Eravamo all'ingresso dei palchi di Corte. Frondosa ed io eravamo scesi dall'automobile, e Frondosa domandava se quella sera Sua Maestà il Re avrebbe dovuto venire a teatro. Gli fu risposto di sì e che alle sette di sera era stato telefonato a Corte per avvertire del rinvio della rappresentazione. Mi sforzai di rimanere impassibile perchè don Alvaro non credesse che avevo rilevato la stranezza di queste circostanze. Ma vidi per la terza volta passare un'ombra sul volto del mio antico ministro. Tuttavia questi già risaliva in automobile e, ridendo del contrattempo, ordinava allo chauffeur d'andare al Circolo. Finimmo lì la serata. Cominciammo a giuocare. Frondosa a un pazzo chemin de fer, io a un tavolinetto di modesto, tranquillo e prudente écarté. Poi ci perdemmo di vista. Fui chiamato al telefono. Lessi i giornali. Alle undici già cascavo dal sonno e andai a dormire col rammarico d'uno spettatore che, dopo d'essersi annoiato ai primi due atti, trova le porte chiuse al terzo e non può rientrare in teatro mentre sente le omeriche risate degli spettatori che sono nella sala e che sono giunti finalmente al punto più bello della commedia. Questo spettatore ritardatario si farebbe, nel caso, raccontar la commedia da un amico, all'uscita dal teatro. All'uscita dal teatro io ebbi la fortuna di sentirmela raccontare dallo stesso protagonista. Dormivo già profondamente, a mezzanotte, quando sentii il mio domestico che gridava nel buio della mia stanza, cercando a tastoni la chiavetta della luce elettrica: «Signor marchese.....Sua Maestà! Sua Maestà!» Balzai sul letto, corsi all'idea d'un attentato ed ero per saltare giù, ma la luce elettrica s'era accesa, il domestico era scomparso e Sua Maestà entrava per la prima volta in casa mia, in camera mia, a mezzanotte, quand'io ero costretto a riceverla nella soverchia intimità d'un pijama. Aveva indosso la pelliccia aperta su lo sparato un po' spiegazzato e teneva la guancia sinistra coperta con un fazzoletto. E, dopo poche parole febbrili d'introduzione, mentre io cercavo di completare alla meglio la mia toilette troppo sommaria, mi raccontò quanto segue: — Amico mio, una tragedia! Una vera tragedia! Sono disonorato come re e come uomo! Ho commesso una vera pazzia, indegna d'un gentiluomo, del primo gentiluomo d'un nobile paese come il nostro. Ma la duchessa era cosi bella stasera, così indiavolatamente coquette! Per due ore ho continuato a parlarle d'amore, a dirle le mie pene, a invocare la sua pietà. Non avevo più fiato, non avevo più parole. E lei, niente, dura come un macigno. Quella donna non ha cuore! E, ad un tratto, è avvenuta la cosa terribile. Che vuole che le dica, caro d'Aprè? Ero fuori di me, ero pazzo, avevo la febbre, la volevo ad ogni costo. Mentre lei sorrideva, mentre lei si burlava di me con mezze paroline ch'erano altrettanti schiaffi per la mia vanità di uomo, io la guardavo.... Come era bella! E la mia passione, che durava oramai da tanti anni, non riusciva a piegarla. Mi sentii disperato. Mi tornarono in mente tante letture, tante scene di romanzo, tanti personaggi esaltati, le più drammatiche soluzioni dei drammi d'amore disperati come il mio. E poi, non so neppure io com'è stato. Ad un dato punto ho perduto la testa, una benda m'e caduta su gli occhi e.... Lei era su una larga dormeuse, era deliziosamente scollata, profumata squisitamente, irresistibilmente bella.... Ho sentito che quella donna che adoravo non sarebbe mai stata mia.... Il pensiero che in fondo io ero il re, il signore, il padrone, e che tuttavia quella donna mi respingeva, mi ha anche attraversato il cervello.... Insomma ho pensato cento bestialità e non so neppure più quali. Ricordo solo che a un dato punto mi sono gettato su lei, che l'ho afferrata per le braccia, che l'ho rovesciata indietro, che ho cercato affannosamente la sua bocca, la sua bocca che mi sfuggiva, senza neppure riuscire a raggiungerla.... L'avessi almeno raggiunta una volta sola!... È stata una lotta di trenta secondi, poi un grido di lei, una porta che si apre violentemente. Mi rialzo sùbito. Anche lei si solleva sui cuscini riaccomodandosi i capelli. Su la porta, pallidissimo, è don Alvaro, tornato a casa, forse insospettito dalla mia visita, in quel punto stesso. Sono rimasto al mio posto, inchiodato, esterrefatto. E Frondosa s'è avanzato verso di me. Aveva in mano una cravache presa in anticamera. Io lo guardavo avvicinarmisi, intontito, senza fare un gesto, senz'aver fiato Tier dire una parola. E, a un tratto, a due passi da me, Frondosa ha levato lo scudiscio, l'ha fatto ricadere violentemente sul mio volto, qui, su la guancia sinistra.... Guardi! E scoprì la guancia traversata dal lungo segno rosso del colpo di cravache. — E Vostra Maestà? — chiesi io febbrilmente, mentre il re ricopriva pudicamente col fazzoletto la sua ferita d'amore. — Io? E che potevo fare io? Dica lei. Reagire in casa sua?... Mettermi a fare a pugni come un facchino?... Nulla potevo fare, amico mio. Sembra strano, a prima vista, ma è cosi.... Intanto Frondosa s'era riavvicinato, sempre senza una parola, alla porta e l'aveva spalancata, rimanendo lì presso, per invitarmi ad uscire. Che potevo fare? Mi sono inchinato alla duchessa, sempre seduta, adesso pallidissima anche lei, con gli occhi chiusi, le labbra contratte, e mi sono avviato per uscire. Ho dovuto passare così, col volto segnato; d'innanzi a don Alvaro impassibile.... E avevo la ferita che mi bruciava, che mi bruciava, oh quanto mi bruciava.... Mi bruciava fuori e mi bruciava dentro!... E poi.. Poi ho ritrovata la mia automobile e sono corso da lei.... Durante il racconto Sua Maestà s'era a mano a mano calmata un poco. Adesso s'era levata, s'era tolta la pelliccia e sul mio tavolino da notte aveva preso una sigaretta. Io non sapevo che dire. Ero inebetito dall'ammirazione. La scena-madre superava decisamente ogni mia maggiore aspettativa. — Ebbene, lo crederà? — mi disse allora Sua Maestà accendendo la sigaretta. — Passando innanzi a Frondosa io non ho provato nessun sentimento d'ira o di rancore, nessun desiderio di vendetta.... E vuole che le dica tutto.... giacchè lei è lo specchio della mia coscienza?... Vuole che le dica tutto? Ho provato anzi, addirittura, un sentimento d'ammirazione. Caro d'Aprè, fra tante pedine, tante torri crollanti, tanti alfieri compiacenti, avevo trovato, finalmente, un uomo. — E dopo una pausa. — Tanto che, se non fosse stato per un sentimento di pudore, io gli avrei stretto la mano....

È, inutile, dunque, che io segua la lunga navigazione d'isola in isola dell' arcipelago galante di Pulquerrima cominciata instancabilmente da Sua Altezza da quando la sua nave da diporto aveva dovuto, almeno temporaneamente, rinunziare a gettar l'àncora nell'imprendibile isola felice della duchessa di Frondosa. Mi basterà di redigere il giornale di bordo d'una sola giornata di navigazione. Già i latini, maestri di tutti, insegnarono i vantaggi della sintesi per gli scrittori pigri: ab uno disce omnes. Venuto l'autunno Sua Altezza provò il bisogno di viaggiare. La cosa accadde così. Da varie settimane i giornali d'Europa consacravano lunghe colonne al ritorno dal Polo d'un ardito principe italiano. Vedevo Sua Altezza seguire con interesse i racconti della audacissima esplorazione. Fu prima curiosità, poi interesse, poi ammirazione, poi desiderio d'emulazione, poi manifesto tormento d'invidia, che una sera s'aprì violentemente quando il principe, dopo pranzo, mentre leggeva ancora giornali e giornali, buttò per aria un fascicolo dell'Illustration pieno di fotografie del principe italiano ed esclamò: «Ma insomma non c'è più al mondo che il duca degli Abruzzi? Non si fa più altro che parlare di lui? Di lui che non è neppure principe ereditario, ch'è terzogenito d'un ramo cadetto, mentre di me, di me che sono figlio d'un re, che son principe ereditario d'un regno come quello di Fantasia, che sarò re un giorno, di me chi si occupa?...». E venendomi davanti, quasi a piantarmi negli occhi le dita agitate: «Me lo sa dire lei chi si occupa di me? Me lo sa dire?...». E poichè non glielo seppi dire camminò a grandi passi per il fumatoio, accese una sigaretta, gettò il fiammifero ancora ardente su una portiera come avesse un'urgente necessità di mettere il fuoco al Palazzo reale, raccolse a terra i giornali europei, schiacciò uno su l'altro, bistrattandoli, su un divano di marocchino e lasciandovisi cader sopra in segno di supremo disprezzo esclamò: «I giornalisti.. Tutti emballés per il duca degli Abruzzi.... E io? Ah, io non ci sono pei signori giornalisti? Ma la vedremo, perdio, se non ci sono.,..» E, balzando di nuovo in piedi e venendomi di nuovo d'innanzi, gridò come se dovesse udirlo l'Europa intera: «Parto!». Invece di partire, si mise a scrivere; e scrisse tutta la notte, al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri, a quello dell'Interno, a quello dell'Istruzione, persino a quello dell'Agricoltura. In queste lettere chiedeva che il Consiglio dei Ministri considerasse l'opportunità, per il decoro di Fantasia, di non rimanere al di sotto dell'Italia e d'avere anche in lui un principe di sangue reale capace di commuovere, con le ardite imprese, tutta la stampa d'Europa e d'America. Non lessi quelle lettere, poichè s'egli non aveva segreti per me in materia galante non aveva per me che segreti in ogni altra occasione della sua vita. Ma dovettero, quelle lettere, essere commoventissime e veramente persuasive se due giorni dopo il Consiglio dei Ministri s'adunava d'urgenza, come avevano avvertito i giornali di Effemeris, e se tre giorni dopo Sua Altezza era chiamata alla capitale dell'autorità paterna convinta oramai della necessità di permettere che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia scoprisse finalmente qualche cosa anche lui. Tornò da Effemeris raggiante e, appena disceso dal treno alla stazione principale di Pulquerrima e appena salito con me in automobile, incastrò nell'occhio la caramella, mi guardò con un sorriso ch'era tutt'un programma ed esclamò: «Col duca degli Abruzzi, sa, faremo i conti. È andato a un Polo? S'accomodi. Ma ce ne son due. E io vado all'altro». Esagerava. Non andò al Polo. Ma nei tre o quattro giorni seguenti al suo ritorno a Pulquerrima ricevette un ragguardevole nemero d'illustri geografi che egli accoglieva coi segni della più viva ammirazione per quanto non li avesse mai sentiti neppure nominare. Ci fu un gran discutere, tra geografi, per stabilire che cosa Sua Altezza avrebbe potuto scoprire con minor disagio e con più sicurezza di riuscita. I varii specialisti contesero, durante lunghe sedute, d'innanzi al principe che ascoltava silenziosamente, curioso di vedere dove l'avrebbero finalmente mandato a coprirsi di gloria e stupito di apprendere che al mondo, dopo tanti millennii e non ostante tanti esploratori, ci fosse ancora tanta roba da scoprire. La maggior difficoltà, quindi, era di trovare per Sua Altezza una missione originale. Propose il principe che gli si affidasse la scoperta di qualche mare poichè egli aveva un bellissimo yacht ed amava molto navigare. Ma dovettero, i geografi, fargli notare che proprio in fatto di mari non c'era assolutamente più di nulla disponibile e che, dopo lunghe meditazioni, essi non potevano offrire alla scelta di Sua Altezza che deserti e foreste vergini. Sua Altezza preferì le foreste, non, come sarebbe possibile credere, per la verginità, ma per amore dell'ombra e per non bruciarsi al sole dei deserti la pelle che egli aveva assai delicata. I geografi fornirono a Sua Altezza tutti gli schiarimenti necessarii su la via da seguire per terra e per mare e sul miglior modo di coprirsi di gloria col minor disagio possibile. La foresta vergine da attraversare era di facilissimo accesso e non c'era poi bisogno di percorrerla tutta. Bastava piantare la bandiera bianca, azzurra e viola di Fantasia un po' più in là del terzo albero. In quarto ai rilievi di superficie e di vegetazione Sua Altezza, se non voleva affaticarsi, poteva contentarsi di calcoli sommarii e di dati approssimativi. La foresta era vergine e dopo la spedizione di Sua Altezza sarebbe certamente tornata più vergine che mai per molti secoli ancora. L'imaginazione del principe poteva quindi liberamente scorrazzare in quelle inesplorate contrade. Un geografo l'avrebbe del resto accompagnato per alleggerire i suoi lavori. Inutile dire che, poichè l'affetto di Sua Altezza è dispotico com'era dispotico il trono dei suoi avi, dovetti accompagnarlo anche io. Rimanemmo assenti tre mesi. Veramente l'esplorazione non occupò più di un paio di settimane. Si trattò d'una comoda traversata per mare, di cinque o sei giorni di piacevole cavalcata e d'una mezza giornata di comodissima marcia, tanto da giungere in vista della foresta vergine lasciando al geografo della spedizione l'incarico di toccarla. Lo lasciammo a raccogliere dati, rilievi, calcoli topografici, geografici, geologici, idrografici, atmosferici e via dicendo. Ma poichè era troppo presto per tornare a Pulquerrima e poichè non basta esplorare, ma occorre anche dimostrare che l'esplorazioue e stata difficile e che fu necessario a compierla gran tempo, si calcolò a tre mesi il termine minimo d'una esplorazione appena appena decente. Di questi novanta giorni n'eran passati solo quindici e ce ne rimanevano settantacinque. Andammo ad occuparli comodamente e pacificamente a Nuova-York, nel più stretto incognito naturalmente. E fu solo quando il geografo ci raggiunse, dopo avere spedito a Fantasia le comunicazioni necessarie su la nostra scoperta, che riprendemmo la via dell'amata patria. Durante là traversata Sua Altezza non trascurò di rimanere molte ore del giorno al sole, sopra coperta, per dare al suo volto quel colorito bronzeo che i restaurants di Nuova-York e le eleganze della Quinta Strada non erano riusciti a dargli, e senza il quale non v'ha evidentemente esploratore che possa chiedere e meritare d'essere preso sul serio. Avemmo al ritorno ad Effemeris e a Pulquerrima onori trionfali, che il principe sopportò con modesta dignità schivando solo lo sguardo, addormentato dietro le lenti cerchiate d'oro, del geografo della nostra compagnia. Ma proprio in quei giorni accadde che Sua Altezza Reale il duca degli Abruzzi attraversasse una volta di più i disegni ambiziosi di Sua Altezza Reale il principe di Fantasia. I giornali europei consacrarono poche righe al ritorno del mio regale amico dalla sua foresta vergine, e lunghe colonne al racconto della spedizione polare del duca degli Abruzzi, il quale, proprio in quei giorni, in due conferenze tenute a Roma, alla presenza dei Reali d'Italia e d'un parterre di principesse e d'ambasciatori, aveva raccontato le traversie del suo animoso viaggio. Mi venne davanti; una sera, il giovane Rolando, con gli occhi spiritati e le mani convulse: «Decisamente, caro mio, questo Duca comincia a seccarmi.... Ecco che adesso non gli basta di scoprire un polo, ma deve anche raccontarlo a tutti.... Crede forse che non abbia un paio di polmoni anch'io e che non possa anch'io raccontare com'ho scoperto la mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io. Fa una conferenza? Nè farò una anche io!» E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato, trovò naturalissimo che il suo intrepido figliuolo consolidasse con una conferenza il prestigio della Monarchia. Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido il figliuolo non era nella esplorazione di cui non ignorava le segrete comodità ma a bensì nel coraggio di parlarne e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi in una conferenza; poichè era tradizionale nella famiglia di Fantasia il poco culto delle discipline letterarie, e, come arte oratoria, non v'era sovrano di Fantasia che non avesse incespicato almeno dieci volte anche leggendo dieci righe d'un brindisi politico scritto dal ministro degli Esteri. Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che un imbecille, si rese conto tuttavia che si può fare una conferenza sopra un'esplorazione anche senza che l'esplorazione ci sia stata, ma che è assolutamente inconcepibile redigere una conferenza tollerabile su una esplorazione che non ha avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare le peripezie. E, col suo più bel sorriso, per questo ufficio Sua Altezza benignamente si rivolse a me, raccomandandomi di trovarne quante più potevo, un po' nella mia immaginazione e il resto in qualche libro poco noto di qualche altro meno illustre esploratore. La vita diplomatica m'aveva fortunatamente addestrato nell'arte di dire bugie senza averne l'aria, e in una settimana la conferenza fu da me redatta in modo che poteva veramente illudere il popolo di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro pugno di prodi esploratori. Mentre io lavoravo nella biblioteca reale, Sua Altezza aveva ripreso attivamente il suo galante giuoco di scacchi; un fruscìo di gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino al fruscìo delle mie carte. Finalmente una sera potetti annunziare al principe che la conferenza era pronta e invitarlo ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche per apprendergli su quale tono modesto e disinvolto gli eroi moderni devono narrare ai popoli le loro audaci avventure. E il giorno dopo, appena finito di far colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo nella biblioteca armati di sigarette e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava senza respiro e con lo stesso interesse con cui avrebbe seguito i feuilletons di un romanzo d'Eugenio Sue. A due o tre riprese manifestò la sua meraviglia nel vedere con quanta facilità io riuscivo a dar vita e colore non a quello che era stato ma a quello che avrebbe potato essere. Ma non eravamo ancora ad un terzo della conferenza che la porta s'apri e Sua Altezza fu avvertita che la duchessa di Villahermosa era nell'appartamento vicino. Il Principe mi sembrò assai lieto dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa veniva a vedere la sua collezione di medaglie, poichè la sera prima non aveva resistito all'invito di Sua Altezza quando aveva saputo che nella collezione erano alcune medaglie del Pisanello. Andava pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa! Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza. La visita non sarebbe stata lunga e, del resto, così sembrava al principe, c'era qualche cosa da alleggerire in quella prima parte che gli era apparsa eccellente ma forse un poco prolissa. E se n'andò, acceso in volto, impaziente; e sentii che, richiudendo, dava una mandata di chiave alla pesante porta che separava. Ma anche le porte pesanti non hanno soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero messo attentamente a rivedere le pagine già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo un aggettivo, là sacrificando un particolare, per seguire il principe che per dire qualche cosa — come in generale avviene di tutt'i critici aveva trovato prolisso quello che cinque minuti prima gli era apparso stringato. Ma io non sono un autore ostinato a difendere l'intregrità del suo territorio prosastico ; e non c'era del resto pericolo, sopprimendo un episodio, di snaturare il racconto della nostra spedizione ch'era già quanto mai snaturato di per sè stesso. Ma i rumori che mi giungevano dalla stanza vicina non tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro di revisione; e ad informarmi, meglio di un buco praticato nella pesante porta che ci separava, sul genere d'occupazioni cui Sua Altezza e la duchessa s'erano, dopo brevi preliminari collezionistici, assai calorosamente abbandonati. Ma la vita di Corte mi aveva già abituato a sentire ogni genere di rumori con la stessa tolleranza con cui ne vedevo di tutt'i colori. Era del resto evidente che, per quanto una dama possa andar pazza per le medaglie del Pisanello, un'ora e più è un limite di tempo veramente superiore ad ogni più esagerata e platonica ammirazione. Era trascorsa più di un'ora, infatti, quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca con l'aria più tranquilla e più innocente del mondo. Ma uno sguardo scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente la durata di quella visita ai medaglieri di Sua Altezza. Quando gli occhi si spiegano le parole sono inutili e fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò a sprofondarsi nella sua poltrona di marocchino rosso e, accesa una sigaretta, mi invitò con un cenno di mano a riprendere la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

L'epopea è la divina ingenuità del popoli fanciulli, e il popolo di Fantasia, che è molto vecchio ma non conosce nè il greco nè l'italiano, ha conoscenza dell'Iliade solamente a traverso la sua riduzione più adatta al colore del tempo: la riduzione francese negli allegri couplets della Belle Hélène, l'epopea rifatta a operetta da Meilhac e Halévy.

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Mitchell, Margaret

221490
Via col vento 28 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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VIA COL VENTO di MARGARET MITCHELL A. MONDADORI MILANO PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA UNICA TRADUZIONE AUTORIZZATA DALL'AMERICANO DI ADA SALVATORE E ENRICO PICENI 1a edizione - Dicembre 1937 2a» - Gennaio 1938 3a» - Marzo 1938 4a» - Giugno 1938 5a» - Ottobre 1938 6a» - Gennaio 1939 7a» - Agosto 1939 8a» - Dicembre 1939 Titolo dell'opera originale: GONE WITH THE WIND Copyright in U. S. A. by the MacMillan Company 1936 STAMPATO IN ITALIA - PRINTED IN ITALY - MCMXXXIX-XVIII VIA COL VENTO

A poco a poco la sofferenza cominciò a diminuire. A momenti si sentirebbe bene, e si insinuerebbe silenziosamente nello spogliatoio accanto alla camera di Lydia per allentare il busto e poi arrampicarsi su uno dei letti sdraiandosi accanto a una ragazza addormentata. Cercò di calmare il suo batticuore e di comporsi un viso piú tranquillo, poiché sentiva che doveva aver l'aspetto di una pazza. Se una delle ragazze si fosse svegliata avrebbe compreso subito che vi era qualche cosa che non andava. E nessuno doveva mai sapere che era successo qualche cosa. Attraverso l'ampia finestra del pianerottolo vide gli uomini che ancora indugiavano sotto agli alberi fronzuti. Come li invidiò! Che bella cosa essere un uomo e non aver da soffrire le pene attraverso le quali ella era passata pochi minuti fa! Mentre li guardava, con gli occhi che le ardevano e la testa che le girava, udí un veloce scalpitare di zoccoli nel viale principale, lo stridere della ghiaia e il suono di una voce eccitata che rivolgeva qualche domanda ai negri. La ghiaia scricchiolò ancora ed ella scorse la figura di un uomo a cavallo che galoppava attraversando il prato verde verso il gruppo indolente degli uomini. Un invitato ritardatario? Ma perché attraversava a cavallo il prato che era l'orgoglio di Lydia? Non lo riconobbe; ma quando egli balzò dal cavallo e afferrò il braccio di John Wilkes, distinse i suoi lineamenti eccitati. Tutti gli si affollarono intorno, abbandonando sulle tavole e a terra i bicchieri e i ventagli di palma. Malgrado la distanza, ella udí il clamore delle voci che interrogavano, chiamavano, e intuí la febbrile tensione degli uomini. Finalmente al disopra del vocio confuso si levò la voce di Stuart Tarleton in un grido esultante: - Yee-eey-y! - come se fosse a caccia. Ed ella udí per la prima volta, senza saperlo, il grido dei Ribelli. Mentre continuava a guardare, i quattro Tarleton, seguiti dai ragazzi Fontaine, uscirono dal gruppo e corsero verso le scuderie gridando: - Jeemes! Ehi, Jeemes! Sella i cavalli! «Si dev'essere incendiata la casa di qualcuno» pensò Rossella. Ma fuoco o non fuoco, lei non doveva fare altro che rientrare nella stanza da letto prima di essere scoperta. Il suo cuore batteva meno violentemente adesso; ella salí in punta di piedi i gradini, al disopra del vestibolo silenzioso. Una calda sonnolenza pesava sulla casa, come se anch'essa dormisse come le ragazze, fino al sopraggiunger della notte in tutta la sua bellezza con la musica e le candele. Pian piano aperse la porta dello spogliatoio e scivolò dentro. Aveva ancora la mano sulla gruccia quando dalla fessura della porta di fronte che metteva nella camera da letto le giunse la voce di Gioia Wilkes, sommessa come un sussurro. - Mi pare che Rossella si sia comportata come una sfacciata, oggi. La fanciulla sentí che il suo cuore ricominciava la folle danza; inconsciamente vi premette sopra la mano come per costringerlo a fermarsi. «Gli spioni ascoltano spesso cose molto istruttive» le risuonò nella memoria. Doveva uscire nuovamente? O farsi vedere e mettere in imbarazzo Gioia come meritava? Ma la voce che udí subito dopo la fece fermare. Neanche una coppia di muli avrebbe potuto trascinarla via quando riconobbe la voce di Melania. - Oh, Gioia, non esser cattiva. È soltanto vivace e spiritosa. A me è sembrata simpaticissima. «Oh» pensò Rossella ficcandosi le unghie nel corpetto. «Sentirsi difendere da quella piccola ipocrita!» Era peggio della lieve maldicenza di Gioia. Rossella non aveva mai avuto fiducia in nessuna donna e non aveva mai attribuito a nessuna - eccetto sua madre - motivi che non fossero egoistici. Melania era sicura di Ashley, perciò poteva concedersi il lusso di manifestare uno spirito cosí cristiano. Rossella pensò che in questo modo Melania faceva pompa della sua conquista e in pari tempo si procurava la nomea di essere buona e dolce. Era un trucco che anche lei aveva usato molte volte parlando di altre ragazze con gli uomini; ed era sempre riuscita in quel modo a convincerli della sua bontà e del suo altruismo. - Senti, cara - riprese Gioia aspramente, alzando un po' la voce - bisogna dire che sei cieca. - Ssst, Gioia - bisbigliò Sally Munroe - ti sentiranno in tutta la casa! Gioia abbassò la voce ma continuò. - Non hai visto che cercava di accaparrarseli tutti? Perfino Mr. Kennedy che è il corteggiatore di sua sorella. Non ho mai visto una cosa simile! E certo ha cercato di attirare anche Carlo. - Gioia ridacchiò con una certa sufficienza. - Sapete bene che io e Carlo... - Davvero? - bisbigliarono alcune voci eccitate. - Sí, ma non ditelo a nessuno, ragazze... Non ancora! Vi furono ancora delle risatine e le molle del letto cigolarono come se qualcuno avesse spinto Gioia. Melania mormorò qualche parola sulla sua felicità di avere Gioia per sorella. - Ah, io non sarei davvero felice di avere Rossella per sorella, perché è sfacciata come non ve ne sono altre - giunse la voce afflitta di Etta Tarleton. - Ma è quasi fidanzata con Stuart. Brent dice che non glie ne importa un fico; ma in verità anche lui ne è pazzo. - Se domandate a me - mormorò Gioia con misteriosa importanza - c'è solo una persona di cui a lei importi. Ed è Ashley. I bisbigli si fusero violentemente interrogando, interrompendo, e Rossella si sentí ghiacciare dal timore e dalla umiliazione. Gioia era una stupida, una cretina, una sempliciona per quanto concerneva gli uomini, ma aveva per quanto concerneva le altre donne, un istinto femminile che Rossella non aveva mai considerato. La mortificazione e l'orgoglio offeso di cui aveva sofferto nella biblioteca con Ashley e con Rhett Butler erano punture di spillo a paragone di questo. Si poteva aver fiducia che gli uomini - anche un individuo come Mr. Butler - avrebbero taciuto; ma con le chiacchiere di Gioia Wilkes che spettegolava a destra e a sinistra, prima delle sei tutta la Contea sarebbe al corrente. E Geraldo la sera prima aveva detto che non voleva che il paese ridesse di sua figlia. Come riderebbero tutti adesso! Un sudore vischioso le bagnò le costole partendo dalle ascelle. La voce di Melania, misurata e tranquilla, si levò sulle altre con lieve rimprovero. - Sai benissimo che non è cosí, Gioia, e non è gentile da parte tua... - È cosí, Melly, e se tu non fossi sempre intenta a cercare la bontà in quelli che non ne hanno, te ne accorgeresti. E io sono contenta. Le sta bene. Rossella O'Hara non ha mai fatto altro che mettere scompiglio e cercare di portar via gli spasimanti alle altre ragazze. Sai benissimo che ha portato via Stuart a Lydia, mentre non sapeva che farsene. E oggi ha cercato di attrarre Mr. Kennedy, Ashley, Carlo... «Debbo andare, a casa!» pensò Rossella. «Debbo andare a casa!» Se avesse potuto per opera di magía essere trasportata a Tara, al sicuro! Poter essere con Elena, vederla, nascondere il viso nel suo grembo, piangere e raccontarle tutto! Se avesse udito ancora una parola si sarebbe precipitata nella stanza e avrebbe afferrato a manate i pallidi capelli di Gioia e avrebbe sputato in faccia a Melania Hamilton per mostrarle ciò che pensava della sua carità. Ma si era già comportata in modo abbastanza volgare oggi, proprio come una qualsiasi miserabile stracciona bianca; e questo era il suo tormento. Si strinse le mani contro le gonnelle perché non frusciassero e indietreggiò furtivamente come un animale. «A casa» pensava nell'attraversare velocemente il vestibolo davanti alle porte chiuse e alle stanze silenziose; «debbo andare a casa.» Era già nel porticato, quando fu colpita da un nuovo pensiero: non poteva andare a casa, non poteva fuggire! Doveva assistere, sopportare tutta la malizia delle ragazze e la propria umiliazione e il crepacuore. Fuggire, significava dar loro maggiore esca. Picchiò il pugno chiuso contro la grande colonna bianca lí accanto, come se avesse desiderato essere Sansone e far crollare le Dodici Querce distruggendo tutti quelli che vi erano dentro. Li farebbe pentire, farebbe veder loro... Non sapeva ancora come, ma lo avrebbe fatto. Li offenderebbe peggio di come essi avevano offeso lei. Per il momento Ashley come Ashley era dimenticato. Non era il bel giovane sonnolento di cui ella era innamorata, ma era una parte dei Wilkes, delle Dodici Querce, della Contea; ed essa li odiava tutti perché ridevano. La vanità è piú forte dell'amore, a sedici anni, e nel suo cuore ardente non vi era posto per altro, ora, che per l'odio. «Non andrò a casa» pensò, «rimarrò qui e li farò pentire. E non lo dirò mai alla mamma. No, non lo dirò a nessuno.» Fece una sforzo per rientrare in casa, risalire le scale e andare in un'altra camera da letto. Nel voltarsi vide Carlo che rientrava dall'altra estremità del lungo vestibolo. Vedendola si affrettò verso di lei. Aveva i capelli in disordine e il viso color geranio per l'eccitazione. - Sapete che cosa è successo? - gridò anche prima di averla raggiunta. - Avete sentito? È arrivato or ora Paolo Wilson da Jonesboro con le notizie! Fece una pausa, senza fiato, essendole arrivato accanto. Ella non fece motto e lo fissò. - Lincoln chiede uomini, soldati, - volontari voglio dire - settantacinquemila! Di nuovo Mr. Lincoln! Ma possibile che gli uomini non pensassero mai a ciò che realmente accadeva? Ecco che questo idiota si aspettava che lei si eccitasse per i capricci di Mr. Lincoln, mentre aveva il cuore spezzato e la reputazione quasi rovinata. Carlo la fissò; il volto di lei era bianco come la cera e i suoi occhi verdi brillavano a guisa di smeraldi. Egli non aveva mai visto un fuoco simile nel volto di una fanciulla, un tale splendore negli occhi di nessuno. - Son troppo goffo - disse. - Avrei dovuto dirvelo piú dolcemente. Ho dimenticato che le donne sono cosí delicate. Mi dispiace di avervi turbata cosí. Non vi sentite venir meno? Posso andarvi a prendere un bicchier d'acqua? - No - rispose Rossella e cercò di sorridere convulsamente. - Vogliamo andare a sedere sul banco? - chiese il giovane prendendola per il braccio. Ella annuí ed egli la aiutò cortesemente a scendere i gradini e la condusse attraverso l'erba fino al banco di ferro sotto alla quercia piú maestosa, nel piazzale davanti alla casa. «Come sono fragili e tenere le donne» pensò; «basta nominare la guerra per vederle svenire.» Questa idea lo fece sentire molto uomo, e quindi egli raddoppiò di gentilezza. La fanciulla sembrava cosí strana, e nel suo volto bianco era una selvaggia bellezza che gli fece balzare il cuore. Possibile che ella fosse sgomenta al pensiero che egli potesse andare in guerra? No, era una presunzione eccessiva. Ma perché lo guardava cosí bizzarramente? E perché le sue mani tremavano, mentre tirava fuori il fazzolettino di trina? E le sue folte ciglia battevano come quelle delle fanciulle nei romanzi che aveva letto, per timidità ed amore. Carlo si schiarí la voce tre volte per parlare, senza riuscirvi. Abbassò gli occhi perché quelli verdi di lei erano cosí penetranti che sembrava quasi che vedessero al di là di lui. «Ha una quantità di quattrini» pensava rapidamente Rossella, mentre nel suo cervello si formava un nuovo piano. «E non ha genitori che possano darmi noia; e per di piú vive ad Atlanta. Se lo sposassi subito, farei vedere a Ashley che di lui non m'importava un fico... che volevo soltanto civettare. E per Gioia sarebbe la morte. Non troverà mai, mai un altro corteggiatore e tutti rideranno di lei. E Melania ne sarebbe addolorata, perché vuol molto bene a Carlo. E sarebbero addolorati anche Stu e Brent...» Non sapeva precisamente perché voleva dar loro un dispiacere, se non perché avevano delle sorelle dispettose. «E tutti sarebbero indispettiti quando io ritornassi qui in visita in una bella carrozza, con una quantità di bei vestiti e una casa mia. E non potrebbero mai, mai ridere di me.» - Certo, vuol dire combattere - disse Carlo dopo parecchi tentativi imbarazzati. - Ma non vi agitate, Miss Rossella; in un mese sarà tutto finito e sentiremo i loro lamenti. Sicuro, i loro lamenti! Non vorrei per nulla al mondo mancare di sentirli. Ho paura che stasera non ci sarà il ballo perché lo Squadrone deve riunirsi a Jonesboro. I ragazzi Tarleton sono andati a diffondere la notizia. So che alle signore dispiacerà. Ella fece - Oh! - non sapendo dire altro; ma questo bastò. Le stava ritornando il sangue freddo e la sua mente ricominciava a veder chiaro. Su tutte le sue emozioni si formava uno strato di ghiaccio ed ella pensò che non sentirebbe mai piú nulla di ardente. Perché non prendere quel bel ragazzo timido? Valeva come gli altri e a lei non importava nulla di nessuno. No, non avrebbe piú voluto bene a nessuno, anche se avesse vissuto fino a novant'anni. - Non posso decidere ora se andrò con Mr. Wade Hampton nella Legione della Carolina del Sud o con la Guardia di città di Atlanta. Ella disse ancora - Oh! - e i loro occhi s'incontrarono; e le ciglia che si agitarono furono la sua rovina. - Mi aspetterete, Miss Rossella? Sarà... Sarà divino sapere che voi mi aspettate finché li avremo battuti! - Attese senza respirare le parole di lei, osservando le labbra rosse che s'increspavano agli angoli e notando per la prima volta l'ombra di quegli angoli e pensando come sarebbe bello baciarli. La mano di lei, col palmo umido di traspirazione, scivolò nella sua. - Non vorrei aspettare - mormorò, e i suoi occhi si velarono. Seduto, stringendole la mano, egli la fissò a bocca aperta. Con gli occhi bassi, Rossella lo guardava attraverso le ciglia, con l'impressione che egli somigliasse a un rospo enorme. Egli fece per parlare piú volte, boccheggiò, tornò ad arrossire. - Possibile che mi amiate? Ella non rispose ma abbassò gli occhi e Carlo fu nuovamente trasportato in un'atmosfera di estasi e d'imbarazzo. Forse un uomo non dovrebbe rivolgere una simile domanda a una ragazza. E forse per lei sarebbe sconveniente rispondergli. Non avendo mai avuto il coraggio di mettersi prima d'ora in una simile situazione, Carlo non sapeva come comportarsi. Aveva voglia di urlare, di cantare e di baciarla; di far delle capriole sul prato e poi di correre a dire a tutti quanti, bianchi e negri, che essa lo amava. Ma si limitò a stringerle la mano fino a farle penetrare gli anelli nella carne. - Volete sposarmi presto, Miss Rossella? - Uhm! - rispose ella giocherellando con una piega della veste. - Dobbiamo fare un doppio matrimonio con Mel...? - No, - rispose ella rapidamente, e i suoi occhi ebbero uno splendore minaccioso. Carlo comprese di aver nuovamente commesso un errore. Era naturale che una fanciulla desiderasse una festa di nozze propria, non una gloria condivisa. Come era buona a passar sopra ai suoi rossori! Se almeno fosse buio ed egli fosse incoraggiato dalle tenebre, e riuscisse a baciarle la mano dicendole tutto ciò che anelava di dirle! - Quando posso parlare con vostro padre? - Piú presto è, meglio è - rispose ella, sperando che egli rallentasse la dolorosa pressione sui suoi anelli, senza costringerla a dirglielo. Egli balzò in piedi e per un attimo Rossella temette che facesse una capriola prima che la dignità lo trattenesse. La guardò, raggiante, con tutto il suo semplice onesto cuore negli occhi. Nessuno l'aveva mai guardata cosí, e nessuno piú la guarderebbe in quel modo; ma ella pensò soltanto che le sembrava un vitello. - Vado a cercarlo - disse col viso illuminato da un sorriso. - Non posso aspettare. Volete scusarmi... cara? - Pronunciò questa parola con sforzo, ma essendovi riuscito la ripeté con piacere. - Sí, vi aspetterò qui. È fresco e si sta bene. Egli attraversò il prato e scomparve dietro alla casa, lasciandola sola sotto la quercia le cui foglie stormivano. Dalle scuderie uscivano uomini a cavallo; i servi negri cavalcavano frettolosamente dietro ai loro padroni. I ragazzi Munroe passarono velocemente agitando i loro cappelli; i Fontaine e i Calvert percorsero la strada gridando. I quattro Tarleton attraversarono il prato e le passarono davanti, e Brent gridò: - La mamma ci darà i cavalli! Y-eey-iii! - Scomparvero lasciandola nuovamente sola. La casa bianca drizzava davanti a lei le sue grandi colonne, e sembrava che si ritraesse da lei con dignità. Oramai, non sarebbe stata mai piú la sua casa. Ashley non le farebbe mai oltrepassare quella soglia come sua sposa. Oh, Ashley! Che cosa ho fatto? Nella profondità del suo intimo, sotto l'orgoglio felice e il freddo senso pratico, qualche cosa si agitò dandole dolore. Era nata in lei un'emozione da adulta, piú forte della sua vanità e del suo egoismo volontario. Ella amava Ashley, sapeva di amarlo, e non gli aveva mai voluto tanto bene come nel momento in cui vide Carlo scomparire alla svolta del viale inghiaiato.

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Gli approvvigionamenti richiedevano tal quantità di viveri che le tavole degli abitanti di Atlanta cominciavano a mostrare una certa penuria. La farina era poca e costava cosí cara che si adoperava generalmente il grano saraceno per biscotti e focacce. Le botteghe dei macellai erano quasi prive di bue e avevano ben poco montone; e questo costava tanto che solo le persone ricche potevano permettersi il lusso di mangiarne. In compenso, erano ancora abbondanti la carne di maiale, il pollame e i legumi. Il blocco yankee era diventato piú rigoroso e alcuni articoli di lusso, come il tè, il caffè, le seterie, le stecche di balena, l'acqua di Colonia, le riviste di moda e i libri erano scarsi e carissimi. Perfino i tessuti di cotone piú ordinari erano aumentati di prezzo e le signore erano costrette, loro malgrado, a indossare gli abiti della stagione precedente. Telai, che da anni erano stati relegati in soffitta a riempirsi di polvere tornavano all'onor del giorno e quasi in ogni salotto si trovavano rotoli di stoffa tessuta a mano. Tutti, soldati, borghesi, donne, bambini, negri, cominciavano a portare di queste stoffe. Il cenere, che era il colore delle uniformi della Confederazione, era praticamente scomparso per dar luogo a questi tessuti color bruno grigio. Gli ospedali cominciavano a preoccuparsi per la mancanza di chinino, di calomelano, di oppio, cloroformio e iodio. Le bende di tela e di cotone erano diventate troppo preziose per esser gettate via dopo averle adoperate; tutte le signore che facevano servizio di infermiera in qualche ospedale portavano a casa cestini di roba insanguinata da lavare e stirare per essere rimessa in uso. Ma per Rossella, appena uscita dalla crisalide della vedovanza, la guerra non era che un periodo di gaiezza e di divertimento. Anche le piccole privazioni di cibo e di vestiario non le davano noia in quella sua felicità di esser tornata nel mondo. Quando pensava alle giornate cupe e monotone dell'anno precedente, le sembrava che la vita avesse preso oggi un ritmo velocissimo. Ogni giorno le portava una nuova avventura; nuovi uomini che chiedevano di recarsi a farle visita, che le dicevano che era bella e che combattere e forse morire per lei era un privilegio. Amava Ashley con tutte le forze del suo cuore, ma non poteva fare a meno di invogliare altri uomini a chiederle di sposarla. La guerra sempre presente nello sfondo, dava alle relazioni sociali una piacevole mancanza di cerimonie, che le persone anziane osservavano allarmate. Le mamme stupivano vedendo che uomini a loro sconosciuti venivano a far visita alle figlie; gente che giungeva senza lettere di presentazione e i cui precedenti erano ignoti. La signora Merriwether, che non aveva mai baciato suo marito prima del matrimonio, non credeva ai suoi occhi quando sorprese Maribella che baciava il piccolo zuavo. E la sua costernazione aumentò quando Maribella rifiutò di sentirsi piena di vergogna. Anche il fatto che lo zuavo chiese immediatamente la mano della fanciulla non giovò a nulla. La signora Merriwether ebbe la sensazione che il paese andasse verso una completa rovina morale e non mancò di dirlo, spalleggiata dalle altre madri. Ma coloro che si aspettavano di morire fra una settimana o fra un mese non potevano certo attendere un anno per chiedere il permesso di chiamare una ragazza per nome, magari col «Miss» davanti. Né potevano perder tempo in un corteggiamento riguardoso come quello in uso prima della guerra. Al massimo aspettavano un paio di mesi prima di chiederla in moglie; e le ragazze a cui era stato insegnato che bisognava rifiutare almeno tre volte prima di accettare, ora accettavano alla prima domanda. Tutto ciò divertiva Rossella, la quale - a parte la noia di curare gli ammalati e di preparare le bende - sarebbe stata contenta che la guerra non finisse mai. In verità, ora sopportava ottimamente anche il servizio d'ospedale, perché questo luogo era un buonissimo terreno di caccia. I deboli feriti soccombevano al suo fascino senza lotta. Bastava cambiar le fasciature, sprimacciare i guanciali e sventolarli un pochino, ed ecco che si innamoravano. Era il paradiso, a confronto dell'anno scorso! Rossella era tornata ad essere quella che era prima di sposare Carlo; come se non si fosse mai maritata, non avesse mai avuto la triste notizia della sua morte, non avesse messo al mondo Wade. Guerra, matrimonio, maternità erano passate sopra di lei senza toccare alcuna corda profonda nel suo intimo; e il bambino era cosí ben curato dagli altri nella casa rossa, che ella quasi dimenticava di averlo. Era nuovamente Rossella O'Hara, la bella della Contea. I suoi pensieri erano identici a quelli di prima, ma il campo delle sue attività si era enormemente ampliato. Incurante della disapprovazione delle amiche di zia Pitty, ella si comportava come si era comportata prima del matrimonio; andava ai ricevimenti, ballava, usciva a cavallo con ufficiali, civettava, insomma faceva tutto ciò che faceva da fanciulla; soltanto non si toglieva il lutto. Sapeva che per Pitty e Melania sarebbe stato un colpo troppo forte. Si sentiva felice quanto poche settimane prima si era sentita disgraziata; felice di avere i suoi spasimanti, di essere sicura del proprio fascino; felice quanto era possibile esserlo con Ashley marito di Melania e in pericolo. Ma era piú facile sopportare il pensiero che egli appartenesse a un'altra, quando era lontano; con le centinaia di miglia che erano fra Atlanta e la Virginia, a volte le pareva che fosse piú suo che di Melania. I mesi d'autunno del 1862 trascorsero velocemente in queste divertenti occupazioni, interrotte da qualche breve visita a Tara. Queste non le davano la gioia che ella si riprometteva quando le pregustava ad Atlanta, perché non vi era il tempo di star seduta accanto ad Elena, mentre questa cuciva, aspirando il lieve profumo di verbena delle sue vesti; ed era impossibile avere lunghe conversazioni con sua madre e sentire le dolci mani di lei sulle sue guance. Elena, smagrita e preoccupata, era in piedi dalla mattina sino alla tarda sera, molto tempo dopo che tutta la piantagione era addormentata. Le richieste del commissario della Confederazione erano sempre piú gravose; ed ella aveva il compito di far produrre a Tara il piú possibile. Perfino Geraldo era occupatissimo, per la prima volta da molti anni, perché non aveva trovato un sorvegliante che sostituisse Giona Wilkerson e quindi correva in persona attraverso la piantagione. In queste condizioni, Rossella trovava Tara noioso. Perfino le sue sorelle si occupavano delle proprie faccende. Súsele si era messa «d'accordo» con Franco Kennedy e gli cantava «Quando questa guerra crudele sarà finita» con un'intenzione maliziosa che Rossella trovava insopportabile e Carolene fantasticava pensando a Brent Tarleton, sicché non era una compagnia interessante. Benché Rossella andasse sempre volentieri a Tara, pure era ben contenta quando le inevitabili lettere di zia Pitty e di Melania la supplicavano di tornare. Elena sospirava, attristata dal pensiero che la sua maggior figliuola e l'unico nipotino dovessero lasciarla. - Ma non debbo essere egoista e trattenerti qui quando c'è bisogno di te come infermiera ad Atlanta - diceva. - Soltanto... mi pare di non avere mai il tempo di parlare con te, tesoro mio, e di sentire che sei di nuovo la mia piccina, come una volta. - Sono sempre la tua piccina - rispondeva Rossella; e nascondeva il volto nel seno di Elena, sentendo che la coscienza le faceva dei rimproveri. Non diceva a sua madre che erano i balli e gli spasimanti che la richiamavano ad Atlanta e non il servizio della Confederazione. Vi erano molte cose che ella taceva a sua madre. E soprattutto conservava il segreto sul fatto che Rhett Butler si recava sovente in visita a casa della zia Pitty.

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Durante i mesi che seguirono la vendita, Rhett andò a trovarla ogni volta che veniva ad Atlanta; e portava a passeggio Rossella nella sua carrozza, le faceva da cavaliere ai balli e alle vendite, la aspettava fuori dell'ospedale per riaccompagnarla a casa. Ella non temeva piú che egli tradisse il suo segreto; ma in fondo al suo pensiero rimaneva il tormentoso ricordo che egli l'aveva vista nella peggior luce, e che sapeva la verità riguardo ad Ashley. Era questo che la costringeva a dominarsi quando egli la infastidiva. E ciò avveniva di frequente. Butler era sui trentacinque anni, piú anziano di qualsiasi corteggiatore ch'ella avesse mai avuto, e dinanzi a lui ella si sentiva smarrita come una bimba e incapace di trattarlo come aveva trattato quelli della sua età. La stuzzicava e sembrava che nulla lo divertisse maggiormente che il vederla irritata. Ed ella si lasciava spesso trascinare dalla collera, perché aveva l'ardente temperamento di Geraldo sotto il visino dolce che aveva ereditato da Elena. E d'altronde, non si era mai presa la pena di controllarsi, eccetto in presenza di sua madre. Ora le seccava moltissimo dover ringhiottire le parole per timore di quel sorriso divertito. Se almeno avesse anche lui perduto il controllo dei propri nervi, ella non si sarebbe sentita in istato di inferiorità. Dopo qualche discussione con lui, dalla quale raramente usciva vittoriosa, ella giurava che era un uomo impossibile, sgarbato, maleducato, col quale non voleva aver mai piú nessun rapporto. Ma presto o tardi egli tornava ad Atlanta, veniva, a far visita, apparentemente, alla zia Pitty e presentava a Rossella, con esagerata galanteria, una scatola di dolci che le aveva portato da Nassau. O prenotava il posto accanto a quello di lei a un concerto o reclamava una danza; e di solito ella era cosí divertita della sua sfacciata impudenza, che rideva e dimenticava le liti precedenti, fino alla prossima occasione. Cominciò ad aspettare le sue visite. In lui era qualche cosa di eccitante che Rossella non analizzava, ma che lo rendeva diverso da tutti gli altri. «È quasi come se ne fossi innamorata!» pensò un giorno sbalordita. Ma il senso di eccitazione persisteva. Quando egli veniva a far visita, la sua completa e schietta virilità faceva sembrare la casa signorile di zia Pitty troppo piccola, incolore e quasi misera. Rossella non era la sola in casa a reagire stranamente alla sua presenza; anche zia Pitty era in un curioso stato di agitazione e di fermento. Pur sapendo che Elena avrebbe disapprovato quelle visite e pur conoscendo che la società di Charleston lo aveva messo al bando, ella non resisteva ai suoi complimenti e ai suoi baciamano piú di quanto una mosca resista a un vasetto di miele. Inoltre, egli le portava sempre da Nassau qualche regalino che le assicurava di essersi procurato espressamente per lei e di aver portato attraverso il blocco arrischiando la vita: cartine di spilli e di aghi, bottoni, rocchetti di seta e forcine per capelli. Era quasi impossibile procurarsi di questi oggetti di lusso in quell'epoca; le signore portavano delle forcine di legno curvato a mano e pezzetti di legno coperti di stoffa come bottoni; e a Pitty mancava la forza morale di rifiutarli. Del resto, aveva una passione infantile per le sorprese e non resisteva al desiderio di aprire i pacchetti contenenti i doni. E una volta aperti, non si sentiva di rifiutarli. Quindi, dopo avere accettato i doni, non aveva il coraggio di dire a Butler che la sua reputazione rendeva scorrette le visite frequenti a tre donne sole prive di un protettore. Zia Pitty sentiva il bisogno di questo protettore ogni volta che Rhett Butler era in casa. - Non so che cosa sia - sospirava sgomenta. - Ma... sí, credo che sarebbe simpatico se... se uno avesse l'impressione che nel profondo del suo cuore egli rispetta le donne. Dopo la restituzione dell'anello, Melania lo riteneva invece un gentiluomo pieno di delicatezza e si irritava a queste osservazioni. Egli era impeccabilmente cortese verso di lei, ma essa si sentiva un po' intimidita; anche perché era generalmente timida con gli uomini che non conosceva sin dall'infanzia. In fondo le faceva pena; sentimento questo che avrebbe molto divertito Butler se ne fosse stato a conoscenza. Era certa che un dispiacere di natura romantica lo aveva reso duro e amaro, e che ciò di cui egli aveva bisogno era l'amore di una donna buona. In tutta la vita ella non aveva mai conosciuto il male e stentava a credere che esistesse veramente; di guisa che quando i pettegolezzi la informarono dell'avventura di Rhett con la fanciulla di Charleston ella rimase scandalizzata e incredula. E questo, invece di renderla ostile a lui, la fece diventare anche piú timidamente gentile, a causa dell'indignazione per quella che riteneva una grande ingiustizia sociale. Rossella era silenziosamente d'accordo con la zia Pitty. Anche lei sentiva che quell'uomo non rispettava alcuna donna, eccetto, forse, Melania. E aveva la sensazione di essere svestita ogni volta che egli la guardava; era quello sguardo insolente che le dispiaceva, come se tutte le donne fossero una sua proprietà di cui egli potesse godere quando gli pareva e piaceva. Solo per Melania non aveva quello sguardo; nessuna espressione beffarda, e nella sua voce, una nota speciale di cortesia, di rispetto, di desiderio di esserle utile. - Non so perché siate piú gentile con lei che con me - disse Rossella con petulanza un giorno, mentre era sola con lui, perché Melania e Pitty si erano ritirate per il riposo pomeridiano. Aveva osservato per un'ora Rhett che reggeva a Melania una matassa di lana e aveva notato la sua espressione imperscrutabile mentre questa aveva lungamente e orgogliosamente parlato della promozione di Ashley. Rossella sapeva che Rhett non aveva una grande opinione di Ashley e che non gl'importava proprio nulla che fosse stato fatto maggiore. Eppure rispose gentilmente e mormorò ciò che imponeva la cortesia a proposito del valore del giovine ufficiale. «E se io faccio tanto da nominare Ashley» pensò irritata «egli inarca subito le sopracciglia e sorride di quell'odioso sorriso d'intesa!» - Sono molto piú bella, io - continuò; - e non capisco perché siate piú gentile con lei. - Posso osare di sperare che siate gelosa? - Oh, non vi illudete! - Un'altra speranza distrutta. Se io sono «piú gentile» con Mrs. Wilkes è perché lo merita. È una delle poche persone buone, sincere e disinteressate che ho conosciute. Forse voi non avete notato queste qualità. Inoltre, malgrado la sua giovinezza, è una delle poche gran signore che ho avuto il privilegio di avvicinare. - Vorreste dire che io non sono una gran signora? - Mi pare che siamo rimasti d'accordo che non eravate affatto signora, fin dal nostro primo incontro. - Oh, perché siete cosí odioso e scortese da riparlarne! Come potete incolparmi per un momento di collera infantile! È passato tanto tempo, e da allora sono diventata una donna; l'avrei bell'e dimenticato se voi non vi accennaste continuamente. - Non credo che sia stata collera infantile e non credo che siate mutata. Siete capace adesso come allora di scagliare un portafiori se non ottenete quello che volete. Ma di solito lo ottenete. E quindi non avete bisogno di distruggere i ninnoli. - Dio, come siete... vorrei essere un uomo! Vi metterei alla porta e... - E vi fareste ammazzare. Faccio centro a cinquanta metri. Meglio servirvi delle vostre armi: fossette, portafiori e simili. - Siete un furfante. - Vi aspettate di vedermi andare in furia per questo? Mi dispiace di darvi una delusione. Non potrete farmi infuriare dandomi dei titoli che mi spettano. Sicuro, sono un furfante; perché no? Siamo in un paese libero, e un uomo può essere un farabutto, se gli fa comodo. Sono soltanto gli ipocriti come voi, cara signora, (altrettanto neri di cuore ma che cercano di nasconderlo) che si adirano quando uno li chiama col nome adatto. Di fronte al suo calmo sorriso e alle sue parole pungenti ella rimase disorientata. Le sue consuete armi a base di scherno, freddezza e impertinenza si spuntavano nelle sue mani, perché nulla di quanto ella poteva dire riusciva a ferirlo. Sapeva per esperienza che il bugiardo è il piú ardente difensore della propria sincerità, il codardo del proprio coraggio, il villano della propria signorilità, il farabutto del proprio onore. Ma con Rhett nulla di questo. Egli ammetteva tutto e rideva incitandola a dire ancora di piú. Andò e tornò molte volte in quei mesi, giungendo senza preavviso e ripartendo senza commiato. Rossella non seppe mai con precisione quali affari lo conducessero ad Atlanta, perché pochi altri comandanti del suo genere trovavano necessario allontanarsi tanto dalla costa. Scaricavano la loro mercanzia a Charleston o a Wilmington, dove trovavano a riceverli una quantità di negozianti e di speculatori del Sud che compravano all'asta i generi importati. Le sarebbe piaciuto credere che egli faceva quei viaggi apposta per veder lei; ma perfino la sua enorme vanità si rifiutava a questa supposizione. Se le avesse fatto un po' di corte, se fosse sembrato geloso degli uomini che le si affollavano intorno, se avesse una volta cercato di trattenere la mano di lei fra le sue o le avesse chiesto un ritratto o un fazzolettino da conservare per ricordo, ella avrebbe trionfato vedendolo sedotto dalle sue grazie. Ma egli rimaneva indifferente e sembrava che non si accorgesse neppure di tutte le sue manovre per condurlo alle proprie ginocchia. Quando egli giungeva in città, fra tutte le donne era un vivo mormorio. Non solo egli interessava per l'aureola romantica che gli dava il fatto di attraversare con grave rischio il blocco yankee, ma vi era anche l'elemento attraente della sua cattiva reputazione. E ogni volta che le signore di Atlanta si radunavano a spettegolare, questa reputazione diventava peggiore, ciò che lo rendeva ancor piú affascinante per le fanciulle. Innocenti per la massima parte, esse non sapevano con precisione su che cosa si fondasse tale reputazione; ma sapevano che una ragazza non era sicura quando stava con lui. Ed era strano che, invece, egli non avesse neppur baciato la mano di una ragazza da quando era venuto ad Atlanta per la prima volta. Questo però lo rendeva ancor piú misterioso ed eccitante. Era l'uomo di cui si parlava di piú, oltre agli eroi dell'esercito. Tutti sapevano che era stato espulso da West Point per ubriachezza e per «affari di donne». Il terribile scandalo della fanciulla di Charleston compromessa e del fratello ucciso era di dominio pubblico. Lettere da Charleston informarono poi che suo padre, un simpatico vecchio signore dotato di una ferrea volontà, lo aveva messo fuori di casa senza un penny, a vent'anni, e aveva perfino cancellato il suo nome dalla Bibbia famigliare. Dopo di allora egli si era recato in California, coi cercatori d'oro, nel 1849, e poi nell'America del Sud e a Cuba; i resoconti sulla sua attività in quei diversi paesi erano fin troppo saporiti. Ferimenti per causa di donne, omicidi, contrabbando d'armi nell'America centrale e, peggio di tutto, professione di giocatore; tutto questo era nella sua carriera, secondo quanto si narrava ad Atlanta. Non esisteva famiglia in Georgia che non avesse almeno un membro giocatore, il quale perdeva sul tappeto verde denaro, case, terre e schiavi. Ma la cosa era diversa. Si poteva giocare fino a ridursi sulla paglia rimanendo un gentiluomo; ma un giocatore di professione non poteva essere che un fuoricasta. Se non vi fossero state le particolari condizioni del tempo di guerra e i suoi servigi al governo della Confederazione, Rhett Butler non sarebbe mai stato ricevuto ad Atlanta. Ma oggi, anche i piú restii comprendevano che il patriottismo richiedeva maggior larghezza di vedute. I piú sentimentali sostenevano che la pecora nera della famiglia Butler si era pentita e cercava di espiare le sue colpe. Cosí le signore ritenevano che fosse un dovere incoraggiarlo sulla buona via. Inoltre, tutti sapevano che il destino della Confederazione riposava tanto sull'abilità delle navi che eludevano l'assedio yankee quanto sui soldati che erano al fronte. Si diceva che il capitano Butler fosse uno dei migliori piloti, assolutamente padrone dei propri nervi. Cresciuto a Charleston conosceva tutte le gole, insenature, baie, recessi, bassifondi della costa della Carolina; ed era come in casa sua anche nelle acque di Wilmington. Non aveva mai perso una nave né mai era stato costretto a buttare a mare un carico. Allo scoppiar della guerra, era emerso dall'oscurità con abbastanza denaro per comprare un veloce brigantino; e ora, guadagnando su ogni carico il duemila per cento, era proprietario di quattro navi. Aveva buoni piloti e li pagava bene; essi uscivano da Charleston e da Wilmington durante le notti buie, portando cotone per Nassau, l'Inghilterra, il Canadà.. Le filande inglesi erano inoperose e gli operai morivano di fame; chiunque era capace di eludere il blocco yankee poteva poi chiedere il prezzo che voleva a Liverpool. Le navi di Rhett erano fortunate e riuscivano a portare, al loro ritorno, i materiali di cui il Sud aveva tanto bisogno. Sí, le signore sentivano che si potevano dimenticare e perdonare molte cose ad un uomo cosí abile e coraggioso. Era una figura notevole che tutti si voltavano a guardare. Spendeva con larghezza, cavalcava uno stallone nero e portava sempre abiti di ultimissima moda e di taglio perfetto. Questo sarebbe bastato ad attirare l'attenzione sopra di lui, perché le uniformi dei soldati erano adesso logore e macchiate e i borghesi, anche quelli piú accurati, mostravano nei loro vestiti abili rammendi. Rossella non aveva mai visto calzoni cosí eleganti, fulvi, a quadretti o a righe. I suoi panciotti erano una meraviglia, specialmente quello di seta bianca ricamato a fiorellini rosa. E portava questi vestiti ricercati con aria indifferente, come se non si accorgesse neppure della loro eleganza. Poche donne resistevano al suo fascino quando egli aveva voglia di esercitarlo; e finalmente anche la signora Merriwether si piegò e lo invitò al pranzo domenicale. Maribella doveva sposare il suo piccolo zuavo alla prossima licenza di questi e piangeva ogni volta che ci pensava, perché si era messa in mente di sposare vestita di raso bianco e nella Confederazione non esisteva neanche un centimetro di questo tessuto. Né poteva farsi prestare il vestito, perché quelli degli anni precedenti erano stati trasformati in bandiere di combattimento. Invano la signora Merriwether cercava di convincerla che la lana tessuta a mano era l'abito ideale per una sposa confederata. Maribella voleva il raso. Era pronta a rinunciare alle forcine, ai bottoni, alle belle scarpine, ai dolci, al tè, per amore della Causa, ma voleva l'abito nuziale di raso. Rhett, avendo saputo questo da Melania, portò dall'Inghilterra metri e metri di magnifico raso bianco e un velo di trina e li regalò a Maribella come dono di nozze. Lo fece con una tal cortesia che non fu possibile neanche tentare di pagarglieli; e Maribella fu cosí felice che mancò poco non lo baciasse. La signora Merriwether si rese conto che un dono cosí costoso - e specialmente un dono di vestiario - non era affatto corretto; ma non trovò modo di rifiutare quando Rhett le disse, in linguaggio fiorito, che nulla era troppo bello per vestire la sposa di uno dei nostri eroi. E la signora lo invitò a pranzo, convinta di pagare largamente il dono con questa concessione. Oltre ad aver portato il tessuto, egli diede a Maribella ottimi consigli per la fattura del vestito. I cerchi a Parigi erano piú larghi, quell'anno, e le gonne piú corte. Non piú ornate di crespe ma tagliate a festoni che lasciavano vedere le sottovesti ricamate. Disse pure che in istrada non aveva visto mutandine lunghe, sicché immaginava che non si portassero piú. La signora Merriwether disse poi alla signora Elsing che temeva che, incoraggiandolo, egli avrebbe addirittura raccontato che specie di calzoncini portavano le parigine. Se non fosse stato un tipo cosí schiettamente virile, la sua abilità nel ricordare i particolari degli abiti delle signore lo avrebbero fatto passare per effeminato. Le signore trovavano strano assediarlo di domande concernenti la moda, ma lo facevano ugualmente, isolate com'erano dal mondo dell'eleganza, perché ben pochi libri passavano attraverso il blocco. Perciò Rhett era un ottimo sostituto al «Godey's» per le signore; e ogni volta che arrivava era il centro di gruppi femminili a cui riferiva che le cuffie erano piú piccole e collocate piú in alto, che si ornavano di piume e non di fiori, che l'Imperatrice dei Francesi aveva abbandonato lo «chignon» per la sera, e portava i capelli raccolti in alto scoprendo tutte le orecchie, e che le scollature erano di nuovo scandalosamente profonde.

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La signora Merriwether tornò a casa nella carrozza di zia Pitty; appena le quattro signore furono sedute, esplose. - Finalmente ci siamo, Pittypat Hamilton! Spero che sarete soddisfatta! - Di che cosa? - chiese Pitty in tono apprensivo. - Del contegno di quel miserabile Butler che voi avete protetto. Pitty si agitò, troppo sconvolta dall'accusa per ricordare alla signora Merriwether che Butler era stato anche suo ospite parecchie volte. Rossella e Melania lo pensarono ma, per educazione verso persone piú anziane, si trattennero dal fare l'osservazione. Invece guardarono attentamente le proprie mani coperte dai mezzi-guanti. - Ci ha insultati tutti ed ha insultato anche la Confederazione - continuò la signora Merriwether, e il suo seno abbondante ansimava violentemente sotto la lucente guarnizione di passamanteria del suo corpetto. - Dire che combattiamo per il denaro! Che i nostri capi ci hanno mentito! Bisognerebbe metterlo in prigione. Sí; ne parlerò col dottor Meade. Se fosse vivo il signor Merriwether gliela farebbe scontare! Ora, Pitty Hamilton, state a sentire. Non dovete piú permettere che quel mascalzone venga in casa vostra! - Oh! - fece Pitty smarrita e guardando, quasi a chiedere il loro soccorso, le due ragazze che tenevano gli occhi bassi; e poi il dorso eretto dello zio Pietro. Sapeva che egli ascoltava tutto quanto si diceva e sperava che si voltasse a prender parte alla conversazione, come faceva di frequente. Ma quegli non si mosse. Pitty sapeva che il vecchio negro non aveva alcuna simpatia per Butler. Quindi sospirò e mormorò: - Mah... Se credete, Dolly... - Credo - rispose con fermezza la signora Merriwether. - Intanto non so che idea abbiate avuto fin dal principio di riceverlo. Ma dopo il pomeriggio di oggi non vi sarà in tutta la città una casa onorevole che voglia accoglierlo. Abbiate un po' di abilità e proibitegli di venire in casa vostra. Volse alle ragazze un'occhiata penetrante. - Spero che voi due farete tesoro delle mie parole - continuò - perché in parte è colpa vostra. Siete state troppo gentili con lui. Ora dovete dirgli cortesemente, ma decisamente che la sua presenza e i suoi discorsi antipatriottici sono per voi ugualmente spiacevoli. Rossella si stava agitando internamente, pronta a reagire come un cavallo che sente la propria briglia toccata da un estraneo. Ma non osò parlare per timore che la signora Merriwether scrivesse un'altra lettera a suo padre. «Vecchia bufala!» pensò rossa d'ira repressa. «Che gioia sarebbe poterti dire quello che penso di te e del tuo modo di fare!» - Non avrei mai creduto di udire simili parole contro la nostra Causa - proseguí la signora Merriwether. - E se dovessi credere che voialtre due parlerete ancora con lui... per l'amor di Dio, Melly, che hai? Melania era pallida e aveva gli occhi sbarrati. - Continuerò a parlargli - disse a bassa voce. - Non sarò scortese con lui. Non gli proibirò di venire in casa. La signora Merriwether sembrò soffocare; zia Pitty spalancò la bocca e zio Pietro si voltò a guardare. «Perché non ho avuto io il coraggio di dir questo?» pensò Rossella con un senso di gelosia mista ad ammirazione. «Come fa questo piccolo coniglio ad avere il coraggio di ergersi contro la vecchia Merriwether?» Le mani di Melania tremavano, ma ella continuò in fretta come se avesse paura che l'ardire le venisse meno. - Non sarò scortese con lui a causa di ciò che ha detto, perché... ha avuto torto a dirlo forte... è stato sconsigliato... ma... è la stessa cosa che pensa Ashley. Ed io non posso vietare la mia casa a un uomo che la pensa come mio marito. Sarebbe un'ingiustizia. La signora Merriwether aveva ripreso fiato ed esplose. - Melly Hamilton! Non ho mai udito una simile menzogna! Nessuno dei Wilkes è mai stato un codardo... - Non ho detto che Ashley è un codardo - e gli occhi di Melania cominciarono a fiammeggiare. - Ho detto che egli pensa le stesse cose che pensa il capitano Butler, soltanto le esprime con parole diverse. E non va in giro a dirle nelle riunioni, spero. Ma a me lo ha scritto. La coscienza di Rossella si scosse mentre ella cercava di ricordare che cosa aveva scritto Ashley; ma la maggior parte di ciò che aveva letto le era uscito di mente. Quindi credette che Melania avesse smarrito il cervello. - Ashley mi ha scritto che non dovremmo combattere contro gli yankees e che siamo stati ingannati dagli uomini di Stato che ci hanno raccontato una quantità di bubbole - continuò Melly rapidamente. - E ha detto che nulla al mondo vale il danno che ci produrrà questa guerra. «Ah!» pensò Rossella. «È quella la lettera...!» - Non ci credo - replicò la signora Merriwether. - Tu hai frainteso le sue parole. - Io capisco perfettamente Ashley - ribatté Melania tranquilla, benché le sue labbra tremassero. - Egli intende esattamente dire quello che dice il capitano Butler, ma detto in altro modo. - Dovresti vergognarti di paragonare un uomo come Ashley Wilkes a un farabutto come il capitano Butler! Forse anche tu pensi che la Causa non valga nulla! - Io... non so che cosa penso - cominciò Melania incerta, mentre il suo ardore l'abbandonava e una specie di panico s'impadroniva di lei. - Morirei per la Causa... ed anche Ashley. Ma... voglio dire... che questi pensieri vanno lasciati agli uomini. - Non ho mai sentito una cosa simile! Fermo, zio Pietro, siamo a casa mia! Zio Pietro occupato ad ascoltare la conversazione, stava oltrepassando la casa dei Merriwether. La signora Merriwether discese, coi nastri della sua cuffia che si agitavano come vele al vento. - Te ne pentirai - disse. Zio Pietro frustò il cavallo. - Tu, signorina, vergognarti di mettere Miss Pitty in questo stato, - sgridò. - Non sono affatto agitata - rispose Pitty con stupore di tutti, perché generalmente sveniva per molto meno di questo. - Melly, tesoro, so che hai voluto difendermi, e sono stata veramente contenta di vedere che qualcuno ha umiliato Dolly. Come ha avuto tanto coraggio? Ma credi di aver fatto bene a dire ciò cli Ashley? - Ma è vero! - esclamò Melly e cominciò a piangere piano. - E non mi vergogno di dire che egli la pensa cosí. Egli crede che la guerra sia un errore, ma è pronto a combattere e a morire, e per questo occorre assai piú coraggio di quando si combatte per qualche cosa che si crede giusto. - Zitta, Miss Melly, non piangere in Strada di Albero di Pesco - borbottò zio Pietro affrettando il passo del cavallo. - Gente subito pronta a fare chiacchiere. Aspettare di essere a casa. Rossella non parlò. Non strinse neanche la mano che Melania aveva messo nella sua per cercare conforto. Ella aveva letto le lettere di Ashley per un solo scopo; per assicurarsi che egli l'amava ancora. Ora Melania aveva dato un nuovo significato a certi punti delle lettere che Rossella aveva appena scorso. La urtava il pensare che qualcuno cosí perfetto come Ashley, potesse avere dei pensieri in comune con un reprobo come Rhett Butler. Disse fra sé: «entrambi vedono la verità in questa guerra; ma Ashley è pronto a morire e Rhett no. Mi pare che questo dimostri il buon senso di Rhett». Si fermò un attimo, colpita dall'orrore di avere avuto un simile pensiero sul conto di Ashley. «Entrambi vedono la stessa spiacevole verità; ma Rhett ama guardarla in faccia e irritare il pubblico parlandone; mentre Ashley non può sopportarne la vista.» E questo la stupiva molto.

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A volte con un lieve senso di timore si domandava: «E poi?» ma subito scacciava il pensiero. Finita la guerra tutto si aggiusterebbe. Se Ashley l'amava non avrebbe potuto continuare a vivere con Melania. Ma non era possibile pensare a un divorzio; Elena e Geraldo, cattolici rigorosi, non le avrebbero mai permesso di sposare un uomo divorziato. Sarebbe stato un'allontanarsi dalla Chiesa! Però, dopo aver riflettuto, Rossella decise che se avesse dovuto scegliere fra la Chiesa e Ashley, avrebbe scelto quest'ultimo. Che scandalo sarebbe stato! Le persone divorziate erano messe al bando non solo dalla Chiesa, ma dalla società. Ma ella era pronta a sacrificare tutto per Ashley. Fu al tempo degli acquazzoni di marzo, mentre tutti quanti erano costretti a rimanere in casa, che ella ricevette il colpo doloroso. Melania, con gli occhi brillanti di gioia e con un certo pudico imbarazzo, le disse che aspettava un bambino. - Il dottor Meade ha detto che sarà per la fine di agosto o i primi di settembre. Lo avevo immaginato... ma fino ad oggi non ero sicura. Non è una cosa magnifica, Rossella? Avevo tanta paura di non averne, io che ne desidererei una dozzina! Rossella, che si stava pettinando prima di andare a letto, si fermò col pettine a mezz'aria. «Dio mio!» pensò, senza rendersi immediatamente conto di ciò che aveva udito. E a un tratto le venne in mente la porta chiusa della camera di Melania; e un dolore acuto come una coltellata le trafisse il cuore. Un dolore cosí violento come se Ashley fosse suo marito e le fosse stato infedele. Un bambino. Un bambino di Ashley. Com'era possibile, se egli amava lei e non Melania? - So che sei sorpresa - continuò Melania un po' ansimante. - Ma come farò, Rossella, a dirlo ad Ashley? Non sarebbe imbarazzante se potessi dirglielo in un orecchio... oppure... forse non dirgli nulla e lasciarglielo indovinare a poco a poco. - Dio mio! - esclamò Rossella quasi singhiozzando, lasciando cadere il pettine e appoggiandosi al marmo della toletta per sorreggersi. - Non fare cosí, cara! Sai che non è poi tanto terribile. L'hai detto tu stessa, e non è il caso di essere cosí preoccupata. È vero che il dottor Meade ha detto che io sono... sono... - Melania arrossí - molto stretta di bacino, ma ha detto anche che forse tutto andrà bene e... Rossella, lo scrivesti tu a Carlo o glie lo scrisse tua madre? O forse tuo padre? Dio mio, se almeno avessi la mamma! Non so proprio... - Taci! - fece Rossella violentemente. - Taci! - Oh, come sono stupida, Rossella! Perdonami. È vero che tutta la gente felice è egoista. In questo momento dimenticavo Carlo. - Ma taci! - esclamò di nuovo Rossella, cercando di controllare il proprio volto e dominare l'emozione. Melania, la donna piú piena di tatto che esistesse, aveva le lagrime agli occhi per la propria crudeltà. Come aveva potuto richiamare a Rossella il terribile ricordo di Wade nato alcuni mesi dopo la morte del povero Carlo? - Ti aiuto a svestirti, cara, - disse umilmente. - E ti pettinerò io. - Lasciami sola - ordinò Rossella col viso contratto. E Melania, scoppiando in lagrime di pentimento, uscí, lasciando la cognata con l'orgoglio ferito, la delusione e la gelosia come compagni del suo letto solitario. La giovane pensò che le sarebbe impossibile vivere ancora sotto lo stesso tetto con una donna che aveva in seno un bimbo di Ashley; e pensò di tornare a Tara, a casa sua. Si alzò l'indomani mattina con l'idea di preparare il suo baule subito dopo colazione. Ma appena furono sedute a tavola, Rossella cupa e silenziosa, Pitty stupita, e Melania felice, giunse un telegramma per quest'ultima; era dell'attendente di Ashley, Mosè. «Cercato ovunque senza ritrovarlo. Debbo tornare a casa?» Nessuno comprese il significato di quelle parole; ma gli occhi delle tre donne si volsero dall'una all'altra dilatati dal terrore, e Rossella dimenticò il suo proposito di andarsene. Interrompendo la loro colazione si recarono subito in città per telegrafare al colonnello di Ashley; ma appena giunte all'ufficio, fu consegnato loro un telegramma di questi. «Dolente informarvi Maggiore Wilkes mancante dopo ricognizione compiuta tre giorni fa. Vi terrò informata.» Fu uno spaventoso ritorno a casa: Zia Pitty piangeva nel suo fazzoletto, Melania sedeva rigida e pallidissima e Rossella era istupidita, rannicchiata in un angolo della carrozza. Giunte a casa, Rossella salí barcollando nella sua camera, afferrò il Rosario che teneva sul tavolino e, piombando in ginocchio, tentò di pregare. Ma la preghiera non venne alle sue labbra, ed ella fu presa da un folle terrore che Dio avesse distolto il Suo volto da lei a causa del suo peccato. Ella aveva amato un uomo sposato e aveva tentato di toglierlo alla moglie; e Dio l'aveva punita uccidendolo. Voleva pregare ma non poté levare al cielo lo sguardo. Avrebbe voluto piangere, ma le lagrime non venivano. Le ardevano nel seno ma non sgorgavano dai suoi occhi. La porta si aperse e Melania entrò. Il suo volto era pallidissimo, incorniciato dai capelli neri; gli occhi spalancati come quelli di un bimbo impaurito sperduto nel buio. - Rossella - disse tendendo le mani. - Devi perdonarmi quello che ti ho detto ieri perché.. non ho piú altri che te. Oh, Rossella so che il mio amore è morto! Un attimo dopo era fra le braccia di Rossella ed entrambe sedevano sul letto, strettamente abbracciate, con le lagrime dell'una che bagnavano le guance dell'altra. Anche Rossella piangeva adesso di un pianto doloroso. Ma quanto era peggio non piangere! «Ashley è morto» pensava «e sono io che l'ho ucciso perché lo amavo!» I singhiozzi la sopraffecero; e Melania, trovando un certo conforto in quel pianto, si strinse maggiormente a lei. - Almeno - bisbigliò - almeno... ho il suo piccino. «Ed io» pensò Rossella, troppo colpita adesso per poter essere gelosa «non ho nulla... nulla... nulla... eccetto l'espressione del suo volto quando mi disse addio.»

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La predizione del dottor Meade fu giusta... fino a un certo punto. Johnston costituiva veramente un baluardo di ferro; e la sua resistenza fu cosí salda che gli yankees si ritirarono e tennero consiglio di guerra. Non potendo spezzare la linea dei confederati con un assalto diretto, pensarono di attraversare di nottetempo altri passi a semicerchio, sperando di giungere alle spalle dell'esercito di Johnston, tagliando la ferrovia dietro di esso, a Resaca; a quindici miglia al sud di Dalton. Visto il pericolo della preziosa linea ferroviaria, i confederati abbandonarono le trincee difese fino allora disperatamente e, alla luce delle stelle, fecero una marcia forzata sino a Resaca, per la via piú breve e diretta. Quando gli yankees, sciamando dalle alture, giunsero loro addosso, trovarono le truppe meridionali che li attendevano, trincerate dietro a parapetti improvvisati, con le batterie pronte e le baionette inastate. I primi feriti evacuati ad Atlanta portarono la notizia della ritirata del Vecchio Joe a Resaca; e la città fu sorpresa e un po' turbata. Era come se fosse apparsa una piccola nube a nord-ovest, la prima nube foriera di un temporale. Che diamine faceva il generale, permettendo che gli yankees penetrassero ancora per diciotto miglia nella Georgia? Le montagne erano una fortezza naturale, come aveva sempre detto il dottor Meade. Perché il Vecchio Joe non vi aveva trattenuto gli yankees? Johnston combatté disperatamente a Resaca e respinse di nuovo gli yankees; ma Sherman, con lo stesso movimento aggirante, formò col suo esercito un secondo semicerchio, attraversò il fiume Oostanaula e si lanciò ancora una volta sulla ferrovia alle spalle dei confederati. Le linee di questi furono nuovamente ritirate in gran fretta dai loro fossati rossi, per difendere la strada ferrata; e, indebolite dal sonno, esaurite dalla marcia e dalla battaglia e affamate, sempre affamate, esse fecero un'altra rapida ritirata a valle. Raggiunsero la cittadina di Calhoun, a sei miglia a sud di Resaca, con vantaggio sugli yankees, e si trovarono nuovamente pronti all'attacco quando quelli giunsero. Fu un attacco violento, in cui gli yankees furono respinti. Stanchi, i confederati chiesero adesso un po' di respiro e di riposo. Ma Sherman continuò ad avanzare inesorabilmente, allargando il suo esercito in una vasta curva, costringendo gli avversari a un'altra ritirata per difendere la ferrovia alle loro spalle. Marciavano dormendo, troppo stanchi per pensare; ma quando pensavano erano sempre pieni di fiducia nel Vecchio Joe. Sapevano che si ritiravano ma che non erano battuti. Soltanto, non avevano abbastanza uomini per poter contemporaneamente difendere le trincee e fronteggiare gli attacchi di fianco di Sherman. La ritirata era condotta con maestria; vi erano state poche perdite di uomini, mentre gli yankees lamentavano numerosissimi morti e feriti. I soldati grigi non avevano perduto un solo carriaggio e soltanto quattro cannoni; e Sherman non aveva potuto toccare la ferrovia alle loro spalle, malgrado i suoi attacchi frontali, lo spiegamento di cavalleria e gli attacchi di fianco. La ferrovia. Era ancora loro, quella piccola strada ferrata che attraverso la valle soleggiata giungeva ad Atlanta. I soldati si sdraiavano a dormire quando vedevano i binari scintillare debolmente alla luce delle stelle. Si sdraiavano a morire, e l'ultima cosa che i loro occhi scorgevano erano le rotaie metalliche che brillavano al sole spietato, nella calura soffocante. Mentre essi ripiegavano sulla vallata, un esercito di profughi ripiegava avanti a loro: piantatori e indiani crackers, ricchi e poveri, bianchi e negri, donne e bambini, vecchi, moribondi, paralitici, feriti, donne incinte affollavano la strada che conduceva ad Atlanta su treni, a piedi, a cavallo, in carrozze, carretti, furgoni su cui si accatastavano bauli e masserizie. I profughi precedevano di cinque miglia l'esercito in ritirata, fermandosi a Resaca, a Calhoun, a Kingston, sperando ad ogni tappa di sapere che gli yankees erano stati ricacciati sicché essi potessero tornare alle loro case. Ma non ritornavano sui loro passi per la strada piena di sole. Le truppe grige passavano dinanzi a case vuote, fattorie deserte, capanne solitarie con le porte spalancate. Qua e là qualche donna sola era rimasta con pochi schiavi spaventati; questi si recavano sulla strada a salutare le truppe, portando secchi d'acqua di pozzo per gli assetati; fasciavano i feriti e seppellivano i morti nelle loro tombe di famiglia. Ma in massima parte la valle era abbandonata e desolata e i raccolti si disseccavano sui campi lasciati nella piú assoluta incuria. Da Calhoun, Johnston indietreggiò a Adairsville, poi a Cassville e a Cartersville. Oramai il nemico aveva percorso cinquantacinque miglia dopo Dalton. A Chiesa della Nuova Speranza i grigi si fermarono per una tappa decisiva. E gli azzurri si avanzarono, senza tregua, come un serpente mostruoso che si snodava, colpiva velenosamente, ritraeva le sue spire ferite, ma colpiva di nuovo. Vi furono undici giorni di battaglia continua, disperata, a Chiesa della Nuova Speranza; gli assalti yankee vennero sanguinosamente respinti. Finché Johnston, investito ancora una volta di fianco, dové di nuovo ritirar di qualche miglio le sue linee assottigliate. I morti e feriti a Chiesa della Nuova Speranza furono numerosissimi. I feriti affluirono ad Atlanta nei treni rigurgitanti e la città fu atterrita. Mai, neanche dopo la battaglia di Chickamauga, ve n'erano stati tanti. Gli ospedali erano gremiti; si collocavano i feriti sul pavimento di magazzini vuoti, sopra balle di cotone. Negli alberghi, nelle pensioni, nelle case private i sofferenti si accalcavano. Zia Pitty ebbe la sua parte, benché protestasse contro la scorrettezza di avere degli estranei in casa quando Melania era in condizioni speciali, e certe visioni raccapriccianti potevano provocare un parto prematuro. Ma Melania tirò un po' piú su la sua crinolina per nascondere la vita ingrossata e i feriti invasero la casa di mattoni. Bisognò cucinare in continuazione, servire, far vento agli ammalati, lavare e arrotolare bende, e infinite furono le notti insonni, turbate dal parlare sconnesso di uomini in delirio. Finalmente la città fu satura, sicché i nuovi feriti furono incanalati verso Macon e Augusta. La nuvoletta all'orizzonte si era allargata rapidamente, e il temporale era ormai sulla città, con un vento pauroso e gelido. Nessuno aveva perduto la fede nell'invincibilità delle truppe; ma tutti - almeno i borghesi - avevano perso la fede nel generale. La Chiesa della Nuova Speranza era soltanto a trentacinque miglia da Atlanta! Il generale si era ritirato di sessantacinque miglia in tre settimane! Perché non resisteva, invece di ritirarsi? Era un pazzo, e peggio che un pazzo. Membri della Guardia Nazionale e della Milizia sostenevano che essi avrebbero condotto la campagna molto meglio e stendevano sulle tavole carte topografiche per dimostrare la verità di quanto asserivano. Quando le linee si assottigliarono ancora, il generale chiese disperatamente al Governatore Brown i suoi uomini; ma le truppe dello Stato erano in salvo e non vi era ragione di mandarle al macello. Combattere e ritirarsi! Per settanta miglia e venticinque giorni, i confederati avevano combattuto quasi quotidianamente. La Chiesa della Nuova Speranza era ormai un ricordo in mezzo ad altri tremendi ricordi del genere: caldo, polvere, fame, debolezza, marciare sulla strada rossa, sfangare nella mota rossastra, ritirarsi, trincerarsi, combattere... ritirarsi, trincerarsi, combattere. La Chiesa della Nuova Speranza era un incubo di vita trascorsa, e cosí Big Shanty, ove essi si rivoltarono a combattere come dèmoni. Ma anche dopo che i campi furono tutti turchini di morti yankee, sempre dei nuovi ne arrivavano, sempre di piú; sempre vi era quella sinistra curva delle linee azzurre, laggiú a sud-est, verso le retroguardie dei confederati, verso la ferrovia... verso Atlanta! Da Big Shanty le linee indebolite si ritirarono sulla strada della Montagna Kennesaw, presso la cittadina di Marietta, e quivi esse si allargarono in una curva di dieci miglia. Sui pendii delle montagne scavarono le loro trincee e stabilirono le feritoie, mentre sulle alture collocarono le loro batterie. Imprecando e sudando, gli uomini trascinarono i pesanti cannoni su per i versanti troppo ripidi perché i muli potessero arrampicarvisi. Messaggeri e feriti che giungevano ad Atlanta rassicurarono il popolo spaventato. Le alture di Kennesaw erano inespugnabili. Atlanta respirò di sollievo... Ma le montagne di Kennesaw distavano solo ventidue miglia! Il giorno in cui i primi feriti giunsero da Kennesaw, la carrozza della signora Merriwether fu dinanzi alla casa della zia Pitty alle sette di mattina; un'ora inverosimile! Il negro Zio Levi era latore di un biglietto che ingiungeva a Rossella di vestirsi immediatamente e recarsi all'ospedale. Fanny Elsing e le ragazze Bonnell, chiamate anche loro, sbadigliavano sul sedile in fondo, e la Mammy degli Elsing sedeva malinconicamente a cassetta con in grembo un cestino di materiale di medicazione appena lavato. Rossella si alzò malvolentieri, perché aveva ballato fino all'alba alla festa della Guardia Nazionale, e i piedi le dolevano. Maledisse silenziosamente l'instancabile e premurosa signora Merriwether, i feriti e tutta la Confederazione degli Stati del Sud, mentre Prissy le abbottonava il piú vecchio e sciupato dei suoi abiti di cotone, che usava per il servizio ospedaliero. Inghiottí l'amaro beveraggio di orzo e patate dolci disseccate che passava per caffè e scese a raggiungere le ragazze. Era stufa di tutto quel lavoro. Proprio quel giorno, direbbe alla signora Merriwether che Elena le aveva scritto di andare a Tara per un po' di tempo. Ma non le serví a nulla, perché la degna matrona, con le maniche rimboccate e il corpo robusto coperto da un ampio grembiale, le lanciò un'occhiata dura dicendole: - Non dite sciocchezze, Rossella Hamilton. Scriverò io oggi a vostra madre dicendole che ho bisogno di voi; e sono sicura che comprenderà e vi permetterà di restare. Svelta, mettetevi il grembiale e andate dal dottor Meade che ha bisogno di un aiuto per fare le fasciature. «Dio mio, che guaio!» pensò Rossella. «Certo la mamma mi dirà di restare; e io morirò se continuerò a sentire questo terribile odore! Vorrei esser vecchia, per poter comandare alle giovani, invece di ricevere ordini... e mandare le vecchie streghe come la Merriwether a farsi benedire!» Sí, era stanca di quella vita. Se vi era stato qualche cosa di romantico nel far l'infermiera, questo era finito da un pezzo. E poi, i feriti nella ritirata non erano simpatici come i primi. Non si curavano punto di lei e le chiedevano soltanto: - Come va la battaglia? Dov'è il Vecchio Joe? - E poi: - È bravo, sapete, il Vecchio Joe! Lei non credeva affatto alla bravura del Vecchio Joe, che aveva lasciato penetrare gli yankees nella Georgia per una profondità di ottantotto miglia. E tutti quei disgraziati che morivano, rapidamente, silenziosamente, essendo troppo indeboliti per combattere l'avvelenamento del sangue, la cancrena, il tifo e la polmonite che li avevano colpiti prima che fossero giunti ad Atlanta e avessero trovato un medico! La giornata era calda e le mosche entravano dalle finestre a sciami: grosse mosche che tormentavano gli uomini piú che non facessero le sofferenze. L'odore e i gemiti andavano aumentando. Il sudore bagnava il suo abito appena inamidato, mentre ella seguiva il dottor Meade con un catino fra le mani. Che nausea a stare accanto al dottore, cercando di non vomitare quando il suo bisturi tagliava le carni putride! E che orrore, gli urli della sala operatoria dove si facevano le amputazioni! Il cloroformio era cosí scarso che lo si adoperava soltanto per le amputazioni piú gravi e l'oppio era una cosa preziosa che serviva ad alleviare le pene dei moribondi, non quelle dei viventi. Non vi era né chinino né iodio. Rossella invidiava Melania che aveva il pretesto della gravidanza: l'unico accettato in quei momenti. A mezzogiorno si tolse il grembiale e sgusciò fuori dall'ospedale, incapace di resistere piú a lungo. Sapeva che quando fossero giunti i feriti col treno pomeridiano, vi sarebbe da fare per lei fino a sera, e probabilmente senza neanche mangiare. Si affrettò verso la Via dell'Albero di Pesco, respirando a grandi sorsate l'aria pura, per quanto glielo permetteva il busto allacciato stretto. Si fermò all'angolo, incerta sul da fare, poiché si vergognava di tornare a casa da zia Pitty, ma ben decisa a non tornare all'ospedale. In quel momento passò Rhett Butler in carrozzino. - Sembrate la figlia di un cenciaiolo - osservò, guardando con occhio critico l'abito di cotone rammendato e bagnato di sudore e d'acqua che era schizzata dal catino. Rossella fu irritatissima. Perché quell'uomo osservava sempre l'abbigliamento delle donne, e perché era cosí indelicato da rilevare la sua attuale ineleganza. - Non voglio che mi diciate nulla. Fatemi salire e conducetemi in qualche luogo dove nessuno mi veda. Non voglio tornare all'ospedale neanche se m'impiccano! Vi assicuro che non ne posso piú... - Traditrice della nostra gloriosa Causa! - Lo zoppo dà del cionco allo sciancato! Aiutatemi. Non m'importa dove stavate andando. Ora dovete condurmi a fare una passeggiata. Egli balzò a terra e Rossella pensò che era molto piacevole vedere un uomo non mutilato o pallido per la febbre o giallo per la malaria, ma di aspetto sano e ben nutrito. Era anche vestito elegantemente, e non aveva affatto l'aria preoccupata o turbata come tutti gli altri uomini. Il suo volto bruno era piacente e la sua bocca, dalle labbra rosse e ben tagliate, francamente sensuali, sorridevano distrattamente mentre egli l'aiutava a salire in carrozza. I muscoli del suo corpo robusto si disegnavano sotto l'abito fatto da un buon sarto; e, come sempre, la sensazione della sua forza fisica, la colpí, appena gli fu seduta accanto. Da lui emanava una vitalità gagliarda ed elastica, come quella di una pantera che si stirasse al sole, una pantera pronta a balzare e a colpire. - Piccola imbrogliona - disse mentre frustava il cavallo - ballate tutta la notte coi soldati, dando loro rose e nastri e dicendo che sareste pronta a morire per la Causa, e appena si tratta di fasciare quattro feriti e di togliere pochi pidocchi, tagliate la corda! - Non potreste parlare di qualche altra cosa e far correre di piú il cavallo? Non ci mancherebbe altro, che il vecchio Merriwether uscisse in questo momento dal suo negozio e poi andasse a dire alla vecc... a sua nuora che mi ha visto! Egli toccò la giumenta con la frusta e quella trottò vivamente lungo la strada dei Cinque Punti e attraversò i binari che tagliavano in due la città. Il treno carico di feriti era già arrivato e i portaferiti lavoravano attivamente a trasportare gli uomini malconci nelle ambulanze e nei carri coperti. Rossella non provò alcun rimorso vedendoli, ma solo un grande sollievo per essere riuscita a sfuggire. - Sono stanca dell'ospedale - riprese rassettandosi le gonne e legandosi meglio il nastro del cappello. - E ogni giorno ne arrivano di piú. Tutta colpa del generale Johnston. Se avesse tenuto testa agli yankees a Dalton... - Ma gli ha tenuto testa, bambina ignorante. E se avesse insistito a rimanere là, Sherman lo avrebbe aggirato e lo avrebbe schiacciato fra le due ali del suo esercito. Ed egli avrebbe perduto la ferrovia. - Insomma - fece Rossella per cui la strategia militare era arabo. - È sempre colpa sua. Avrebbe dovuto fare qualche cosa e mi pare che farebbero bene a mandarlo via. Perché non continua a combattere, invece di ritirarsi? - Anche voi, come tutti gli altri, chiedete la sua testa perché egli non può fare l'impossibile. A Dalton era Gesú il Salvatore; e alle montagne Kennesaw è Giuda il traditore. Tutto questo in sei settimane. Se riesce a respingere di nuovo gli yankees per venti miglia sarà nuovamente Gesú. Cara bambina, Sherman ha il doppio di uomini, e perciò può perderne due per ognuno dei nostri valorosi ragazzi. Invece Johnston non può perdere un solo uomo; anzi ha bisogno di rinforzi. - È vero che sarà chiamata la Milizia? e anche la Guardia Nazionale? - Cosí si dice. Sicuro, i beniamini del governatore Brown probabilmente dovranno andare a sentire l'odore della polvere e la maggior parte di essi sarà molto sorpresa. Il Governatore aveva promesso che non sarebbero andati; quindi si credevano al sicuro. Ma chi avrebbe creduto che la guerra sarebbe arrivata fin qui, e che essi avrebbero dovuto realmente difendere il loro Stato? - Come siete crudele a ridere di tutto questo! Figuratevi i vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale! Dovrà andare anche il piccolo Phil Meade e il nonno Merriwether e anche lo zio Enrico. - Ma io non parlo dei ragazzi né dei veterani della guerra messicana; alludevo ai bravi giovanotti come Guglielmo Guinan che ama portare una bella uniforme e agitare la sciabola... - E voi! - Mia cara, io non porto uniforme e non agito la sciabola; e la fortuna della Confederazione non m'interessa. Non faccio parte della Guardia Nazionale né di nessun esercito. Ne ho avuto abbastanza delle cose militari a West Point... Beh! spero che il Vecchio Joe abbia fortuna. Il generale Lee non può aiutarlo perché ha da fare nella Virginia. Perciò le truppe della Georgia sono l'unico rinforzo che può avere. Ma se fanno tanto da respingerlo dalle montagne e farlo scendere nella pianura di Atlanta ricordatevi le mie parole: sarà un macello. - La pianura di Atlanta? Ma è impossibile che gli yankees vi arrivino. - Kennesaw è soltanto a ventidue miglia, e scommetto... - Guardate lí in istrada, Rhett! Tutta quella gente! Non sono soldati! Che diamine...? Sono negri! Sulla strada si avanzava una nube di polvere rossa da cui veniva uno scalpiccio di piedi nudi; un centinaio e piú di voci negre, rauche e profonde, cantavano un inno. Rhett trasse la carrozza al di là della curva della strada e Rossella guardò curiosamente il gruppo di negri con zappe e picconi sulle spalle, guidati da un ufficiale e accompagnati da un gruppo di uomini che portavano le insegne del corpo del genio. - Che diamine...? - ricominciò. A un tratto i suoi occhi si posarono su un negro che era nella prima fila: un gigante alto quasi un metro e novanta, di un nero d'ebano, che camminava con la grazia flessuosa di una belva; i suoi denti bianchi brillavano mentre cantava «Scendi, o Mosè». Certamente sulla terra non vi era un altro negro cosí alto e con una voce cosí forte, eccettuato il grosso Sam, il capolavorante di Tara. Ma che diamine faceva qui il grosso Sam, cosí lontano da casa, specialmente ora che mancava il sorvegliante ed egli era il braccio destro di Geraldo? Mentre Rossella si sollevava a metà sul sedile della carrozza per vedere meglio, il gigante la scorse e sul suo volto nero si disegnò una smorfia di contentezza. Si fermò, lasciò cadere la sua zappa, e si avviò verso di lei, chiamando i negri piú vicini: - Dio onnipotente; Essere Miss Rossella! Guarda, Elia! Profeta! Apostolo! Vedere Miss Rossella! Vi fu confusione nei ranghi. La folla si fermò incerta, ghignando, e il grosso Sam, seguito da altri tre grandi negri, attraversò di corsa la strada verso la carrozza, seguito dall'ufficiale che gridava. - Tornate in linea! Tornate indietro vi dico, o... Oh, ma è Mrs. Hamilton! Buon giorno, signora; ed anche a voi, signore. Ma che cosa fate? Provocate l'ammutinamento e l'insubordinazione? Dio sa se mi hanno dato poco da fare stamattina, costoro! - Oh, capitano Randall, non li sgridate! Sono i nostri schiavi. Questo è il grosso Sam, il nostro capolavorante. E gli altri sono Elia, Apostolo e Profeta di Tara. È naturale che vengano a salutarmi. Come state, ragazzi? Strinse le mani a tutti; la sua bianca manina scomparve in quelle enormi dei negri, i quali furono pieni di gioia e di orgoglio, mentre spiegavano ai loro compagni che quella era la loro bella signorina. - Ma che cosa fate, cosí lontano da Tara? Scommetto che siete scappati. Essi risero compiaciuti. Poi il grosso Sam rispose: - Scappati? No, non essere scappati. Loro essere venuti a prenderci perché noi essere i piú grandi e piú forti di Tara. Avere specialmente cercato me, perché cantare cosí bene. Sí, Mist' Frank Kennedy essere venuto a prenderci. - Ma perché, grosso Sam? - Come, Miss Rossella! Non avere sentito? Noi dovere scavare trincee per signori bianchi per nascondersi dentro quando venire yankees. Il capitano Randall e i due che erano in carrozza nascosero un sorriso per questa ingenua spiegazione dell'uso delle trincee. - Mr. Geraldo non volere lasciarmi andare perché dire che non poter fare senza me, ma Mrs. Elena avere detto: «Prendere lui, Mr. Kennedy; Confederazione avere bisogno di grosso Sam piú di noi». E avere dato a me un dollaro e detto di fare tutto quello che ufficiali bianchi ordinare. E noi essere qui. - Che vuol dire tutto questo, capitano Randall? - Oh, molto semplice. Dobbiamo aggiungere alle fortificazioni di Atlanta parecchie miglia di trincee, e il generale non può occupare a questo dei combattenti. Perciò abbiamo cercato nelle campagne i tipi piú robusti per fare tutto il lavoro. - Ma... Un freddo principio di spavento strinse il petto di Rossella. Miglia di trincee! Per che cosa potevano servire? L'anno prima era stato costruito un certo numero di ridotte con piazzole per artiglieria tutto intorno ad Atlanta, a un miglio dal centro della città. Questi grandi lavori sotterranei erano collegati con fossati che circondavano completamente la città. - Ma... perché dobbiamo essere fortificati piú di quanto siamo già? Certamente il generale non lascerà che... - Le nostre fortificazioni attuali sono soltanto a un miglio dalla città - replicò brevemente il capitano Randall. - E sono troppo vicine per essere comode... o sicure. Queste nuove giungeranno assai piú lontano. Un altro ripiegamento condurrebbe i nostri uomini in Atlanta. Rimpianse immediatamente di aver detto queste parole, perché vide gli occhi di lei dilatarsi dal terrore. Ma certamente non vi sarà un altro ripiegamento - si affrettò a soggiungere. - Le linee attorno a Kennesaw sono inespugnabili. Le batterie sono piantate al sommo delle montagne e dominano le strade; quindi gli yankees non possono in nessun modo attraversarle. Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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IN quei primi giorni dell'assedio, mentre gli yankees cercavano qua e là di penetrare attraverso il cerchio di difesa, Rossella provava una tal paura ad ogni cannonata che non riusciva se non a tapparsi le orecchie con le mani, aspettandosi da un attimo all'altro di esser travolta. Quando udiva l'urlo che annunciava l'avvicinarsi del proiettile, si precipitava in camera di Melania e si gettava sul letto accanto a lei; si abbracciavano strette nascondendo il capo fra i guanciali, gridando. Prissy e Wade fuggivano in cantina, nell'oscurità piena di ragnatele; Prissy urlando con quanta voce aveva in gola, Wade singhiozzando e gemendo. Allo spavento di potere essere squarciata da un obice si aggiungeva il terrore che da un momento all'altro nascesse il bimbo di Melania. Che avrebbe fatto, in questo caso? Sapeva che avrebbe lasciato morire Melania piuttosto che arrischiarsi ad andare a cercare il dottore, con le palle di cannone che cadevano come pioggia d'aprile. E sapeva che Prissy si sarebbe lasciata ammazzare prima di uscir di casa. Che farebbe, dunque? Discuteva di questo sottovoce con Prissy che calmò i suoi timori. - Miss Rossella, non preoccuparti per dottore quando essere momento. Io sapere come fare. Mia mamma essere levatrice, e avermi abituata per fare anche me levatrice. Tu lasciar fare a me. Rossella respirò sollevata; ma nondimeno continuò a desiderare disperatamente che quella prova fosse già passata. Anelante di esser lontana dal rombo del cannone, nella tranquillità di Tara, ogni sera pregò fervidamente perché il bimbo nascesse l'indomani; ella avrebbe allora assolto la sua promessa e potrebbe lasciare Atlanta. Tara le sembrava sicura e lontana da tutti gli spaventi. Smaniava per la sua casa e per la mamma come non aveva mai smaniato per nulla nella vita. Le sembrava che vicino a Elena non avrebbe paura, qualunque cosa accadesse. E ogni sera andava a letto con l'intenzione di dire a Melania, l'indomani, che non poteva piú resistere e che voleva partire per Tara; Melania sarebbe andata in casa della signora Meade. Ma appena coricata, si rivedeva davanti il viso di Ashley mentre, torturato internamente, le diceva con un lieve sorriso: «Avrete cura di Melania, non è vero? Voi siete forte... Promettetemelo.» Ed ella aveva promesso. Ashley era certamente morto, e la vedeva, la costringeva a mantenere la promessa. Rispondendo alle lettere di Elena che la scongiuravano di tornare a casa, ella scrisse diminuendo la gravità del pericolo, spiegando le condizioni di Melania e promettendo di partire subito dopo la nascita del bimbo. Elena, sensibile ai legami di parentela, acconsentí riluttante, ma chiedendo che mandasse immediatamente a casa Wade e Prissy. Quest'idea fu completamente approvata da Prissy, che era ormai ridotta un'idiota che batteva i denti al menomo rumore. Passava tanto tempo in cantina, che le ragazze non avrebbero neanche potuto mangiare, se non vi fosse stata la vecchia Betsy a cucinare qualche cosa. Rossella era anch'essa ansiosa di mandare il piccino lontano da Atlanta, non tanto per la sua salvezza, quanto perché i suoi terrori la irritavano in sommo grado. Wade era talmente impaurito dal fragore delle esplosioni che rimaneva afferrato alle gonne della madre anche durante i momenti di calma, senza neanche poter emettere la voce. Aveva paura di andare a letto la sera, paura del buio, paura di addormentarsi perché gli yankees potevano arrivare e portarlo via; e il suo tremito lieve durante la notte la esasperava. Ella non era meno sbigottita di lui; ma il vedersi ricordata continuamente la sua paura da quel visino atterrito la irritava. Sí; Tara era il luogo adatto per Wade. Prissy ve l'avrebbe portato subito, ritornando senza indugio per trovarsi presente al momento del parto di Melania. Ma prima che Rossella li avesse messi sul treno, giunse notizia che gli yankees si erano avanzati verso il sud e che continue scaramucce si svolgevano lungo la ferrovia fra Atlanta e Jonesboro. Se il treno su cui viaggiavano Prissy e il bimbo fosse catturato... Rossella e Melania impallidirono a questo pensiero, perché le atrocità degli yankees contro i bambini erano ben note. Quindi si rinunciò a mandarlo a Tara, ed egli rimase in casa, silenzioso come lo spettro della paura, sempre attaccato alla sottana di sua madre, come se quella fosse la sola salvezza possibile. L'assedio continuò durante le soffocanti giornate di luglio e la città cominciò ad adattarvisi. Sembrava che ormai il peggio fosse passato, e che non vi fosse altro da temere. La vita poteva riprendere quasi normalmente. Tutti sapevano che si trovavano su un vulcano, ma finché questo non eruttava, non vi era nulla da fare. Perché preoccuparsi, dunque? Chi sa se avrebbe eruttato mai... Hood tratteneva il nemico e la cavalleria difendeva la ferrovia di Macon. No, la città non sarebbe invasa! A poco a poco Rossella riprese coraggio. Certo, continuava a sobbalzare ad ogni cannonata, ma non correva piú a nasconder la testa fra i guanciali di Melania. Si limitava a dire debolmente: - Questa è caduta vicina, vero? Era meno atterrita anche perché la vita ora aveva preso la consistenza di un sogno: troppo tremendo per esser vero. Non era possibile che lei, Rossella O'Hara, si trovasse in continuo pericolo di morte; non era possibile che la loro tranquilla esistenza fosse mutata completamente in cosí breve tempo. Era irreale - grottescamente irreale - che quel cielo cosí azzurro al mattino potesse esser profanato dal fumo dei cannoni che restava sospeso sulla città come nuvole dense; che i caldi meriggi pieni della penetrante dolcezza del caprifoglio e delle rose rampicanti potessero essere cosí spaventosi quando i proiettili scoppiavano nelle strade, lanciando attorno schegge che laceravano uomini e animali. Le sonnolente sieste pomeridiane erano cessate perché - nonostante vi fossero periodi di calma - la Via dell'Albero di Pesco era rumorosa a tutte le ore per lo strepito dei cannoni e delle ambulanze che passavano, il gemito dei feriti che venivano trasportati agli ospedali, il calpestío frettoloso dei reggimenti che passavano, dalle trincee stabilite in un lato della città alle fortificazioni del lato opposto piú minacciate, e la corsa precipitosa dei corrieri che si affrettavano verso il Quartier Generale come se da loro dipendesse il destino della Confederazione. Le notti portavano il silenzio; ma un silenzio sinistro e minaccioso. Era come se le rane, i grilli, i merli fossero troppo spaventati per alzar la voce nel consueto coro delle notti estive. Qua e là la quiete era interrotta dal crepitio di qualche fucilata sparata dalle ultime linee di difesa. Sovente, nelle ultime ore della notte, quando i lumi erano spenti e Melania dormiva, Rossella - che era desta - udiva cigolare il cancello d'entrata e bussare leggermente ma frettolosamente alla porta. Soldati senza volto erano nell'oscurità del porticato e voci sconosciute parlavano. A volte eran voci e modi piú signorili: - Signora, infinite scuse del disturbo: potrei avere un po' d'acqua per me e per il mio cavallo? - A volte erano le voci profonde dei montanari, altre volte quelle nasali dell'estremo Sud, piú raramente la cadenza strascicata della costa che le colpiva il cuore, perché le ricordava la voce di Elena. - Signora, c'è un mio camerata che avevo messo in groppa, ma non può piú reggersi... Potete farlo entrare? - Signora, perdonate l'indiscrezione, ma... posso passare la notte sotto al vostro porticato? Ho visto le rose e ho sentito l'odore del caprifoglio... come a casa mia!... No, quelle notti non erano reali. Erano un incubo e costoro ne facevano parte: uomini senza viso e senza corpo, voci stanche che uscivano dalle tenebre. Dar loro dell'acqua, somministrare cibo, metter guanciali nel porticato, fasciar ferite, sorregger la testa ai moribondi... No, impossibile che questo stesse accadendo a lei! Una notte fu zio Enrico che venne a bussare. Non aveva piú l'ombrello né la valigetta; e anche la sua pancia era scomparsa. La pelle del viso pendeva floscia come quella delle guance di un bull-dog e i suoi lunghi capelli bianchi erano incredibilmente sudici. Era quasi scalzo, formicolante di pidocchi e affamato; ma il suo spirito irascibile non era domo. Lo avevano utilizzato come un giovinotto; ed egli poteva effettivamente competere coi giovani, cosa impossibile al nonno Merriwether, con la sua lombaggine. Il capitano aveva voluto rimandare a casa il vecchio, ma questi si era opposto: preferiva ancora la guerra alla convivenza con la nuora, che brontolava tutto il giorno, per fargli smettere di masticar tabacco e altre cose simili. La visita di zio Enrico fu breve: aveva avuto solo ventiquattro ore di permesso; e la metà di quel tempo occorreva per venire dalle fortificazioni e ritornarvi. - Ragazze, non vi rivedrò per un pezzo - annunciò mentre immergeva voluttuosamente i piedi nel catino d'acqua fresca che Rossella gli aveva posto dinanzi, nella camera da letto di Melania. - La nostra compagnia si mette in moto domattina. - Per andar dove? - chiese Melania afferrandogli il braccio. - Non mi toccate! Sono pieno di pidocchi. La guerra sarebbe un divertimento, se non vi fossero i pidocchi e la dissenteria. Dove andiamo? Non me l'hanno detto, ma mi pare di aver capito che si va verso il Sud, verso Jonesboro. - E perché? - Perché ci sarà da combattere in quella zona, cara figliuola. Gli yankees tentano di impadronirsi della ferrovia. E se la prendono, buona notte Atlanta! - Dio, Dio, zio Enrico, credi che vi riusciranno? - Silenzio, ragazze! Come volete che la prendano, se ci sono io? - Zio Enrico sorrise del loro spavento; poi tornando serio: - Sarà una dura battaglia, figliuole. Dobbiamo vincerla. Sapete che gli yankees hanno in mano tutte le ferrovie, eccetto quella di Macon; ma oltre a questo - forse voialtre lo ignorate - sono padroni di tutte le strade, eccetto quella di McDonough. Atlanta è in un culdisacco, e i cordoni di questo sono a Jonesboro. Se gli yankees prendono quella ferrovia, possono tirare la corda e prenderci come un topo in trappola. Ecco perché non bisogna che la prendano... Vado, ragazze. Sono venuto soltanto per salutarvi e per vedere se Rossella era ancora con te, Melania. - È naturale che è con me - rispose Melania affettuosamente. - Non ti preoccupare per noi, zio, e bada a te stesso. Lo zio si asciugò i piedi; quindi, infilandosi le sue scarpe a brandelli, emise un gemito. - Bisogna che vada - disse poi. - Ho da percorrere cinque miglia. Rossella, trovami qualche cosa da mangiare, da portar via. Qualunque cosa. Dopo avere abbracciato Melania, scese in cucina dove Rossella stava avvolgendo in un tovagliolo una focaccia di granoturco e qualche mela. - Zio... è davvero una cosa tanto seria? - Seria! Sicuro, perbacco. Sono le nostre ultime difese. - E credete... che arriveranno a Tara? - Che diamine... - cominciò zio Enrico, irritato di quella mentalità femminile che pensava solo a ciò che la interessava personalmente. Quindi, vedendo il suo volto atterrito, si raddolcí. - Certo no. Tara è a cinque miglia dalla ferrovia, e gli yankees non mirano che a questa. Hai il cervello di un passerotto. - Si interruppe bruscamente. Poi riprese: - Non ho fatto tutta questa strada stasera soltanto per salutarvi. Ho delle cattive notizie da comunicare a Melania, ma quando è stato il momento di dirglielo, me n'è mancato il coraggio. Quindi lascio l'incarico a te. - Ashley... avete saputo... che è morto? - Come vuoi che sappia qualche cosa di Ashley, in fondo a una trincea? No. Si tratta di suo padre. John Wilkes è morto. Rossella sedette di colpo, tenendo in mano il fardelletto non ancora annodato. - Volevo dirlo a Melania... ma non ho potuto. Glielo dirai tu. E dàlle questi. Trasse di tasca un pesante orologio d'oro da cui pendevano dei suggelli, una piccola miniatura della defunta signora Wilkes e un paio di grossi bottoni da polso. Fu soltanto nel vedere l'orologio che tante volte aveva scorto fra le mani del vecchio Wilkes, che Rossella comprese veramente che il padre di Ashley era morto. E fu troppo colpita per piangere. Lo zio tossicchiò senza guardarla, temendo delle lagrime che lo avrebbero sconvolto. - Era un uomo coraggioso, Rossella. Dillo a Melly. E dille che lo scriva alle figlie. Ed è stato un ottimo soldato, malgrado la sua età. Una granata lo ha squarciato ed ha ferito anche il cavallo, che ho poi finito io stesso. Era una bella giumenta. Sarà bene che tu scriva anche alla signora Tarleton per informarla. Teneva moltissimo alla sua cavallina. Dammi quel fardello, bambina, debbo andare. E non prendertela tanto. Non è una bella morte, per un vecchio, finire come un giovine? - No, non doveva morire! Non doveva andare alla guerra... Doveva vivere per veder crescere il suo nipotino e poi morire tranquillamente nel suo letto. Oh, perché è andato? Non credeva alla secessione e odiava la guerra... - Molti di noi la pensano cosí, ma a che serve? Credi che mi diverta servir da bersaglio, alla mia età, ai tiratori yankee? Ma non vi è altra scelta, in questi momenti, per un gentiluomo. Abbracciami, bambina, e non stare in pensiero per me. Uscirò da questa guerra sano e salvo. Rossella lo abbracciò e ascoltò i suoi passi nel buio; udí aprirsi e richiudersi il cancello. Rimase un attimo a guardare gli oggetti che aveva in mano. Poi salí le scale per andare da Melania.

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Dopo aver mandato a Melania il vassoio della colazione, Rossella disse a Prissy di recarsi a chiamare la signora Meade; quindi sedette con Wade per mangiare a sua volta. Ma per una volta tanto non aveva appetito. L'apprensione nervosa per Melania e il terrore del cannone le toglievano l'appetito. Il suo cuore si comportava in modo strano: per qualche minuto batteva regolarmente, poi a tonfi sordi e rapidi che le facevano quasi dolere il petto. Stentava a inghiottire la pesante farinata di granoturco; e la miscela d'orzo e di patate dolci che passava come caffè non era mai stata cosí ripugnante. Senza zucchero né crema, era amara come il fiele; la graminacea che doveva addolcirla ne migliorava assai poco il sapore. Respinse la tazza dopo il primo sorso. Se non vi fosse stata altra ragione per odiare gli yankees, vi era questa privazione di caffè con zucchero e crema. Wade era un po' piú tranquillo e non protestava, secondo il suo solito, contro quella specie di pastone ripugnante. Ingoiava una dopo l'altra le cucchiaiate che sua madre gli metteva in bocca, mandandole giú con lunghe sorsate d'acqua. I suoi dolci occhi neri seguivano tutti i movimenti di lei, con uno sbalordimento che sembrava riflettere tutto il malcelato sgomento di Rossella. Quando ebbero finito, ella lo mandò a giocare nel cortile posteriore e lo guardò attraverso il prato con vero sollievo. Si alzò e rimase irresoluta ai piedi della scala. Salire da Melania? Non se ne sentí la forza. Perché Melania aveva scelto proprio quel giorno, per partorire! E tutti quei discorsi funebri! Sedette sul gradino piú basso e cercò di ricomporsi, con un gran desiderio di sapere com'era andata la battaglia ieri, come stava andando oggi. Strano che una grande battaglia si svolgesse a poche miglia di distanza senza che se ne sapesse nulla! E com'era strano anche il silenzio di quella estrema propaggine della città, in contrasto col fragore del cannoneggiamento! Come si sentiva sola! Tranne il signor Meade e i Merriwether, tutti avevano abbandonato quella zona! Rimpianse di non avere zio Pietro, il quale avrebbe potuto andare al Quartier Generale per sapere qualche cosa. Se non fosse stato per Melania, sarebbe andata lei stessa; ma non poteva lasciarla prima che venisse la signora Meade. Perché non veniva? E dove si tratteneva Prissy? Si alzò e andò a mettersi sotto il porticato per vederle arrivare. Dopo un pezzo vide spuntare Prissy sola: camminava pigramente come se avesse avuto tutta la giornata di tempo e cercava di fare ondeggiare le sue sottane, torcendo il collo per vederne l'effetto. - Come te la prendi comoda! - esclamò Rossella quando la negra aperse il cancello. - Che ha detto la signora Meade? Quando viene? - Non c'era. - E dov'è? A che ora torna? - Io dire. - Prissy parlava lentamente, come per darsi la gioia di accrescere importanza al suo messaggio. - Cuoca avere detto che Miss Meade essere uscita presto perché giovine badrone Phil essere ferito; e miss Meade avere preso carrozza con vecchio Talbot e Betsy ed essere andata a cercarlo. Cuoca dice essere ferito grave e forse miss Meade non poter venire qui. Rossella ebbe l'impulso di scrollarla. I negri erano sempre fieri quando potevano dare una cattiva notizia. - Avanti, non stare lí come un idiota. Corri dalla signora Merriwether e pregala di venire o di mandare la sua Mammy. - Non essere in casa, miss Rossella. Io essere passata da lei venendo a casa. Essere andata via. Casa tutta chiusa. Credo essere a ospedale. - Perciò sei stata tanto tempo! Per tua regola, quando ti mando in qualche posto, non devi «passare» da nessuno; capito? Ora vai... Si interruppe. Chi era rimasto in città, dei loro amici, che potesse aiutarla? Ah, la signora Elsing. Certo non aveva alcuna simpatia per Rossella, ma voleva molto bene a Melania. - Vai dalla signora Elsing e spiegale bene tutto pregandola di venire qui. E stammi a sentire. Il bimbo di miss Melly sta per arrivare: ci può essere bisogno di te da un momento all'altro. Perciò spicciati! - Sí, badrona. - Svelta, ti dico! Prissy accelerò il passo in modo quasi insensibile e Rossella rientrò in casa. Esitò ancora prima di salire. Dovrebbe spiegare a Melania perché la signora Meade non poteva venire; e la notizia che Phil era gravemente ferito le avrebbe certo fatto male. Beh, le racconterebbe una frottola. Trovò Melania coricata di lato: il vassoio della colazione era intatto. - La signora Meade è all'ospedale; ho mandato a chiamare la signora Elsing. Ti senti male? - Non molto - mentí Melania. - Dimmi, Rossella, quanto tempo ci mise Wade a venire al mondo? - Pochissimo - rispose Rossella con una tranquillità che era lontana dal provare. - Ero nel cortile e feci appena a tempo a rientrare in casa. Mammy disse che era una cosa scandalosa... proprio come se fossi stata una negra! - Spero di fare anch'io come una negra - riprese Melania accennando un sorriso che si trasformò in una smorfia di dolore. Rossella guardò le anche strette di Melania, ma disse incoraggiandola: - Oh, non è poi una cosa tanto terribile. - Lo so. Forse io sono un po' vile. E... viene subito la signora Elsing? - Subito. Ora vado giú a prendere un po' d'acqua fresca per lavarti. Fa molto caldo oggi. Impiegò molto tempo a prender l'acqua, correndo continuamente alla porta per avvistare Prissy. Ma questa non si vedeva; sicché ella si decise a salire. Passò la spugna sul corpo in sudore di Melania e le pettinò i lunghi capelli neri. Dopo un'ora udí uno scalpiccío sordo sulla strada: si affacciò e vide Prissy che veniva lentamente, come prima, prendendo degli atteggiamenti come se vi fosse stato del pubblico ad ammirarla. «Un giorno o l'altro la picchierò» pensò Rossella affrettandosi a scendere le scale per andarle incontro. - Miss Elsing essere all'ospedale. Cuoca dire che molti soldati feriti arrivare con treno. Cuoca preparare zuppa per portare a badrona. E dire... - Non m'importa niente di quello che dice - interruppe Rossella sentendosi riempire di sgomento. - Mettiti un grembiale pulito perché ora ti mando all'ospedale. Ti darò un biglietto per il dottor Meade; e se non c'è, lo darai al dottor Jones o a uno degli altri medici. E se non ti sbrighi a tornare, questa volta ti scortico viva. - Sí, badrona. - E domanda a quei signori le notizie della battaglia. Se non lo sanno, vai al deposito e domanda ai macchinisti che hanno condotto il treno. Domanda se stanno combattendo a Jonesboro o nelle vicinanze. - Dio Signore, miss Rossella! - e un subitaneo terrore invase il volto nero di Prissy. - Yankees non essere a Tara, vero? - Non lo so. Perciò ti dico di domandare. Prissy cominciò improvvisamente a singhiozzare ad alta voce, aumentando il senso di ansia di Rossella. - Smettila! Miss Melania ti sente. Vai presto a cambiarti il grembiale. Frettolosamente, Prissy corse nella parte posteriore della casa, mentre Rossella scarabocchiava due parole sul margine dell'ultima lettera di Geraldo: l'unico pezzetto di carta che fosse in casa. Nel ripiegarla, le caddero sott'occhio le parole di Geraldo «... la mamma... il tifo... a nessun patto... venire a casa...» Singhiozzò quasi. Se non vi fosse stata Melania, sarebbe partita subito; anche se avesse dovuto andare a piedi! Prissy uscí di corsa, col biglietto in mano, e Rossella andò al piano di sopra, cercando una fandonia plausibile per spiegare l'assenza della signora Elsing. Ma Melania non chiese nulla. Era coricata sul dorso, e il suo viso era tranquillo; quella vista calmò per il momento Rossella. Sedette e cercò di parlare di cose indifferenti; ma il pensiero di Tara e di una possibile disfatta per opera degli yankees la torturava. Vedeva Elena morente, gli yankees che entravano in Atlanta, che bruciavano tutto, uccidevano tutti. E il tuonare lontano intanto persisteva, penetrando nelle sue orecchie in ondate di spavento. Finalmente non riuscí piú a pronunciar parola e rimase a fissare la finestra aperta sulla strada assolata, sugli alberi le cui foglie pendevano immote coperte di polvere. Anche Melania taceva; ad intervalli, però, il suo viso si contorceva pel dolore. Dopo ogni trafittura diceva: - Non è poi tanto terribile - ma Rossella sapeva che mentiva. Avrebbe preferito degli urli a quella silenziosa sopportazione. Sentiva che avrebbe dovuto aver compassione di Melania, ma non riusciva a mostrarle una briciola di simpatia. Era troppo tormentata dalla propria angoscia. Una volta guardò quel viso contorto dalle doglie e si chiese perché proprio lei - fra tutti al mondo - doveva essere qui con Melania in quel momento; lei che non aveva con quella donna nulla di comune, che la odiava, che sarebbe felice di vederla morta. Chi sa, forse questo desiderio sarebbe appagato, magari prima di sera. A quest'idea fu presa da un terrore superstizioso. Portava disgrazia desiderare la morte di qualcuno! E anche imprecare! - Le imprecazioni ricadono su chi le lancia - diceva Mammy. Si affrettò a pregare che Melania non morisse e cominciò febbrilmente a parlare, senza neanche sapere quel che diceva. Finalmente Melania le posò una mano ardente sul polso. - Non sforzarti a discorrere, cara. So quanto sei preoccupata. E sono desolata di darti anch'io tanto pensiero. Rossella tacque, ma fu incapace di rimaner tranquilla. Che farebbe se né il dottore né Prissy tornavano in tempo? Andò alla finestra, guardò in istrada e tornò a sedere. Passò un'ora. E poi ne passò un'altra. Giunse il mezzogiorno; il sole era alto e scottante e non un soffio agitava le foglie polverose. Le doglie di Melania erano piú forti adesso. I suoi lunghi capelli erano bagnati di sudore e la camicia da notte le si incollava al corpo. Rossella le asciugò il viso senza parlare; ma si sentiva invadere dal timore. Dio mio, se il bimbo si presentasse prima dell'arrivo del dottore! Che fare? Non aveva la piú piccola nozione di ostetricia. Aveva contato, nell'eventualità, su Prissy, la quale sapeva tutto; almeno cosí aveva detto piú volte. Ma dov'era Prissy? Perché non tornava? Perché non veniva il dottore? Andò di nuovo alla finestra e in quel momento le sembrò che il rombo del cannone fosse cessato. Se si allontanava, poteva significare che la battaglia era piú vicina a Jonesboro oppure che... Vide Prissy che si avvicinava correndo e che, scorgendola alla finestra, aperse la bocca per un grido. Ma vedendo il panico scritto su quel volto nero e comprendendo che Melania si sarebbe spaventata udendo gridare una cattiva notizia, Rossella posò rapidamente il dito sulle labbra e lasciò la finestra. - Vado a prendere un po' d'acqua fresca - disse cercando di sorridere. Poi uscí chiudendo accuratamente l'uscio. Prissy era seduta sui gradini della scala, ansimando. - Stare combattendo a Jonesboro, miss Rossella! Dire che nostri stare perdendo. O Dio, miss Rossella! Che cosa succedere di mamma e di Pork? Oh Dio! Cosa succedere se yankees venire qui? Oh Dio... - Per l'amor di Dio, taci! - E Rossella le pose una mano sulla bocca. Che cosa succederebbe qui... e a Tara? Scacciò questo pensiero per preoccuparsi dell'urgenza immediata. - Dov'è il dottor Meade? Viene? - Non averlo visto, miss Rossella. - Come? - Non essere all'ospedale. Nemmeno miss Merriwether e miss Elsing. Un uomo aver detto che dottore essere sotto tettoia dei carri con feriti di Jonesboro, ma io avere avuto paura di andare sotto tettoia... esservi tanti moribondi. Io aver paura di morti... - E gli altri dottori? - Miss Rossella, non aver potuto trovare uno per far leggere tuo biglietto. Tutti correre per l'ospedale come matti. Un dottore aver detto a me di non seccare con bambini che nascere quando esserci tanti uomini che morire. Trovare donna per aiutarti. E allora io essere andata a chiedere notizie di battaglia perché tu avermi detto di domandare e tutti dire che si combatte a Jonesboro e... - Hai detto che il dottor Meade è al deposito? - Sí, badrona. - Stammi a sentire. Io vado a cercare il dottore e tu vai disopra, da miss Melania e farai tutto quello che ti dirà di fare. Ma se ti sfugge una parola sulla località della battaglia, ti mando subito nel Sud, quanto è vero Dio. E non dirle neanche che gli altri medici non possono venire. Hai capito? - Sí, badrona. - Asciúgati gli occhi, prendi una brocca d'acqua fresca e vai su. Rinfresca miss Melania con la spugna. E dille che io sono andata a chiamare il dottore. - Essere arrivato momento, miss Rossella? - Non lo so. Ho paura che sia, ma non me ne intendo. Tu devi saperlo. Vai su. Rossella prese sulla tavola dell'anticamera il suo largo cappello di paglia e se lo mise sulla testa. Si guardò nello specchio e automaticamente respinse qualche ciocca di capelli, ma senza vedersi. Piccoli brividi irradiavano dal suo stomaco per tutto il corpo, benché si sentisse tutta sudata. Uscí in fretta nella strada assolata; nel calore soffocante sentiva le tempie batterle con violenza. Da lontano udí levarsi e poi diminuire un vocío confuso. Dopo un poco cominciò ad ansimare, perché il busto era allacciato molto stretto, ma non rallentò il passo. Il vocío diventava piú forte. Verso la casa dei Leyden, in prossimità dei Cinque Punti, vi era un gran movimento; il movimento di un formicaio distrutto. Si vedevano negri correre col panico dipinto sul viso; sotto ai porticati alcuni bambini bianchi piangevano senza che nessuno se ne curasse. La strada era affollata di carri e di ambulanze rigurgitanti di feriti, e di carrozze su cui si accatastavano bauli, valige, mobili. Uomini a cavallo venivano dalle strade laterali e correvano verso il quartier generale. Dinanzi alla casa dei Bonnell vide il vecchio Amos che teneva le redini del cavallo e che la salutò con gli occhi spalancati. - Tu non andare ancora, miss Rossella? Noi andare adesso. Vecchia miss stare facendo valigia. - Andar dove? - Dio lo sa, miss. In qualche posto. Yankees stare venendo. Si affrettò senza neanche salutarlo. Gli yankees stavano venendo! Si fermò un attimo per riprender fiato e calmare il batticuore, appoggiandosi a un lampione per non svenire; in quel momento vide giungere a spron battuto un ufficiale. Istintivamente si pose in mezzo alla strada e gli fece cenno. - Fermate, per carità! Fermatevi! Egli trattenne il cavallo cosí improvvisamente che questi si drizzò sulle zampe posteriori. Il volto dell'ufficiale era segnato di stanchezza, ma egli si tolse ugualmente il cappello grigio. - Signora? - Ditemi, è vero? Gli yankees stanno venendo? - Temo di sí. - Non siete certo? - Sì, signora, sono certo. Mezz'ora fa è arrivato al Quartier Generale un dispaccio dei combattenti di Jonesboro. - Di Jonesboro? Siete sicuro? - Sicuro. Inutili le menzogne pietose, signora. Il dispaccio era del generale Hardee e diceva: «Ho perduto la battaglia e sono in piena ritirata». - Oh Dio! Il volto abbronzato dell'uomo non mostrò commozione. Egli raccolse le redini e si rimise il cappello. - Un momento, signore, vi prego... Che dobbiamo fare? - Non saprei, signora. L'esercito sta evacuando Atlanta. - E ci lascia in balia degli yankees? - Pare di sí. Spronò il cavallo e Rossella rimase in mezzo alla strada coi piedi affondati nella polvere rossa. Gli yankees stavano venendo. L'esercito partiva. Che fare? Dove fuggire? No, non poteva fuggire. C'era Melania a letto, che aspettava il bambino. Ma perché le donne partorivano? Se non ci fosse Melania, lei prenderebbe Wade e Prissy e si nasconderebbe nei boschi dove gli yankees non potrebbero trovarla. Ma era impossibile portare Melania nei boschi. No, bisognava trovare il dottor Meade. Forse potrebbe affrettare il parto. Raccolse le gonne e riprese la corsa ritmando il passo sul ritornello: «Arrivano gli yankees! Arrivano gli yankees!» Cinque Punti era formicolante di gente, di carri, di ambulanze, di carrozze cariche di feriti. Da quella folla giungeva un fragore simile a quello di un mare in burrasca. Allora uno strano spettacolo colpí i suoi occhi. Frotte di donne venivano dalla parte della ferrovia portando sulle spalle prosciutti, sacchi di patate. Accanto a loro trotterellavano bambini che inciampavano sotto fasci di canne da zucchero; ragazzi piú grandicelli trascinavano sacchi di granturco e di farina gialla. Donne, uomini, bambini, bianchi e negri si affrettavano, con visi sconvolti, trasportando involti e sacchi di viveri; piú viveri di quanti ella ne avesse visti in un anno. A un tratto la folla si aperse per dare il passo a una carrozza nella quale era la fragile ed elegante signora Elsing, con le redini in una mano e la frusta nell'altra. Pallidissima e senza cappello, coi capelli grigi che le ciondolavano sul d'orso, ella frustava il cavallo come una furia. Sul sedile posteriore della carrozza era la sua mammy negra, Melissy, che stringeva al petto con una mano un pezzo di lardo, mentre con l'altra e coi piedi cercava di trattenere le valige e le scatole ammonticchiate attorno a lei. Un sacco di piselli secchi si era aperto e il contenuto si andava disseminando lungo la strada. Rossella gridò per chiamarla, ma il vocío della folla coperse la sua voce e la carrozza continuò la sua pazza corsa. Per un istante non comprese il significato di quel movimento; ma poi, ricordando che i magazzini del commissariato erano accanto alla ferrovia, capí che erano stati spalancati al popolo perché potesse salvare quanto poteva, prima dell'arrivo degli yankees. Si aperse un varco attraverso la calca, oltrepassò la folla isterica che si agglomerava ai Cinque Punti, e si diresse con la maggior velocità possibile verso il deposito. Attraverso il groviglio dei carri e delle ambulanze e una nuvola di polvere, scorse dottori, infermieri e portatori che fasciavano frettolosamente, si chinavano, sollevavano dei corpi. Meno male; almeno troverebbe subito il dottor Meade. Quando svoltò l'angolo dell'Albergo Atlanta e giunse completamente in vista del deposito e delle rotaie, si fermò sbigottita. Sotto il sole spietato, a spalla a spalla, teste contro piedi, giacevano centinaia di feriti, sulle rotaie, sui marciapiedi, sotto le tettoie dove usualmente si ricoveravano i vagoni. Alcuni erano rigidi e tranquilli, altri si torcevano gemendo. Dovunque, sciami di mosche si avventavano ronzando sui volti degli uomini; dovunque sangue, bende sudice, gemiti, imprecazioni. Sentore di sangue, di sudore di corpi non lavati, di escrementi si levava in ondate nauseabonde. Indietreggiò portandosi le mani alla bocca, sentendo che stava per rigettare. Non poteva andare avanti. Aveva visto feriti nell'ospedale, nel prato di zia Pitty, ma mai nulla di simile. Nulla che somigliasse a quest'inferno di spasimi, di fetore, di lamentazioni e... Presto, presto, presto!... Gli yankees stavano arrivando! Fece uno sforzo su se stessa e si avanzò, cercando di distinguere fra le figure di coloro che erano in piedi il dottor Meade. Ma si accorse che se non guardava dove metteva i piedi correva rischio di calpestare qualche soldato. Sollevò le gonne e cercò di dirigersi verso un gruppo di uomini che davano degli ordini ai portantini. Mani febbrili le afferravano gli abiti e voci rauche supplicavano: - Signora... acqua! Per pietà, signora, acqua! In nome di Cristo, acqua! Il sudore le rigava il volto mentre strappava il suo abito da quelle mani convulse. Se avesse calpestato uno di quegli uomini, avrebbe urlato e sarebbe svenuta. Calpestò dei morti, uomini che avevano gli occhi spalancati e le mani rattrappite sul petto dove il sangue coagulato era appiccicato alle uniformi lacere, uomini che avevano la barba indurita dal sangue rappreso e dalle cui mascelle frantumate usciva un gemito che voleva dire: «Acqua! Acqua!» Se non trovava il dottor Meade, comincerebbe a urlare anche lei, come una pazza. Guardò verso il gruppo degli uomini e gridò con tutta la sua voce: - Dottor Meade! C'è il dottor Meade? Un uomo si staccò dal gruppo e guardò verso di lei. Era il dottore. Senza giacca e con le maniche rimboccate sino alle spalle. La camicia e i calzoni erano rossi come quelli di un macellaio, e perfino l'estremità della sua barba grigia era insanguinata. Aveva il viso di un uomo ubriaco di stanchezza, di ira impotente e di ardente pietà. Ma la sua voce era calma e decisa. - Meno male che siete venuta. Ho bisogno di tutti quanti. Per un attimo ella lo fissò sbalordita, lasciando ricadere le sue gonne che andarono a sbattere sul viso di un ferito che cercò di voltare la testa per evitare quelle pieghe soffocanti. Che voleva dire il dottore? - Presto, figliuola! Venite qui. Ella raccolse nuovamente le gonne e lo raggiunse il piú presto che poté attraverso le file di corpi. Gli mise una mano sul braccio e sentí che tremava di stanchezza; ma il suo volto non aveva traccia di debolezza. - Dottore! - esclamò. - Dovete venire. Melania sta per avere il bambino. Il dottore la guardò come se non capisse. Ella ripeté: - Melania. Il bambino. Dovete venire. Le... Come fare a dire certe cose con tanti uomini che sentivano? Ma non si poteva fare altrimenti. - Le doglie stanno aumentando. Vi prego, dottore! - Un bambino! Santo Dio! - tuonò il dottore. E a un tratto il suo volto si contrasse di odio e di rabbia verso un mondo nel quale potevano accadere simili cose. - Siete pazza? Io non posso lasciare questi uomini. Muoiono a centinaia. Non posso lasciarli. Trovate una donna che vi aiuti. Chiamate mia moglie. Aperse la bocca per dirgli la ragione per cui la signora Meade non poteva venire, ma si trattenne. Egli ignorava che suo figlio fosse ferito! Chi sa se sapendolo sarebbe rimasto lí... Qualche cosa nel suo intimo le disse che anche se Phil fosse moribondo, egli sarebbe rimasto al suo posto, dando il suo aiuto a centinaia di uomini anziché a uno solo. - Dovete venire, dottore. Voi stesso avete detto che sarà un parto difficile... - Era proprio lei, Rossella, che diceva quelle cose indelicate ad alta voce, in quell'inferno di spasimi e di lamenti? - Morrà se non venite! Meade si liberò sgarbatamente dalla mano che posava sul suo braccio e parlò come se non la udisse. - Morire? Sí, muoiono tutti quanti... tutti questi uomini. Mancano le bende, i medicinali... chinino, cloroformio. Dio, Dio, un po' di morfina! Solo un po' di morfina per i piú gravi. Solo un po' di cloroformio. Maledizione agli yankees! Maledizione agli yankees! Rossella cominciò a tremare; i suoi occhi si riempirono di lacrime di spavento. Il dottore non poteva venire. Melania morrebbe... e lei aveva desiderato che morisse. Il dottore non veniva. - In nome di Dio, dottore! Vi scongiuro! Il dottor Meade si morse le labbra; la sua mascella si irrigidí, il suo volto ridiventò freddo. - Tenterò, figliuola. Non posso promettere. Gli yankees stanno per arrivare e le truppe abbandonano la città. Non so che cosa faranno dei feriti. Non vi sono piú treni. La linea di Macon è in mano loro... Ma tenterò. Correte a casa adesso. Del resto, non ci vuol molto a raccogliere un bambino. Tagliate il cordone... Si voltò perché un sergente era venuto a parlargli, e ricominciò a dare ordini indicando questo e quel ferito. L'uomo che era ai suoi piedi guardò Rossella con compassione. Ella si volse altrove: il dottore l'aveva dimenticata. Si fece nuovamente strada in mezzo ai feriti e tornò alla Via dell'Albero di Pesco. Il dottore non veniva. Doveva cavarsela da sola. Meno male che Prissy se ne intendeva... Le doleva il capo e sentiva che il corpetto dell'abito le si incollava alla pelle per il sudore. Le gambe sembrava che non volessero piú portarla, e la strada le parve interminabile. Ma il ritornello «arrivano gli yankees!» ricominciò ad ossessionarla. Il cuore riprese a batterle con furia e le gambe ritrovarono un po' di forza. Attraversò nuovamente la folla ai Cinque Punti, tanto densa che non si poteva camminare sui marciapiedi. Passavano lunghe file di soldati coperti di polvere, disfatti dalla stanchezza. Sembravano migliaia, sudici, con la barba lunga, i fucili appesi alle spalle. Dietro a loro erano i carri d'artiglieria; i conducenti frustavano le mule macilente con rozzi staffili di pelle. Non aveva mai visto tanti soldati insieme. Ritirata! Ritirata! La soldatesca la respinse contro il marciapiedi affollato, ed ella sentí un acre odore di whisky di grano. Nella calca presso Via Decatur erano donne in abiti vistosi, i cui volti dipinti davano una nota di festa stranamente discordante. In gran parte erano ubriache, e i soldati a cui davano braccio erano piú ubriachi di loro. Ella scorse fuggevolmente una massa di riccioli rossi e vide Bella Wading; udí il suo riso stridente e avvinazzato, mentre si aggrappava a un soldato mutilato di un braccio che barcollava. Dopo avere oltrepassato i Cinque Punti, trovò la folla meno densa; raccolse allora le gonne e riprese a correre. Dinanzi alla Chiesa wesleyana si fermò: ansimava, aveva un tremendo mal di stomaco e il busto troppo stretto le segava la vita. Piombò sui gradini della chiesa e si nascose il capo fra le mani, cercando di respirare profondamente. Non aveva mai dovuto agire di sua iniziativa, in tutta la vita. Vi era sempre stato qualcuno che aveva fatto le cose per lei, che l'aveva aiutata e protetta. Le sembrava impossibile di trovarsi cosí sola, senza un vicino, senza un amico. Aveva sempre avuto amici, conoscenti e schiavi volenterosi. E in quest'ora di necessità, nessuno. Era completamente sola, atterrita, lontana da casa sua. La sua casa! Se almeno fosse laggiú, a Tara... Anche con gli yankees. Anche se Elena era ammalata. Anelava al dolce viso di Elena, alle forti braccia di Mammy attorno al suo corpo. Si alzò a fatica e riprese a camminare. Giungendo in vista della casa scorse Wade che usciva dal cancello per correrle incontro, e che, vedendola, cominciò a frignare mostrandole un ditino scorticato. - Bibi! - gridava. - Fatto bibi! - Zitto! Zitto! Altrimenti ti batto. Vai nel cortile dietro alla casa a giocare. E non ti muovere. - Wade ha fame... - piagnucolò il bimbo ficcandosi in bocca il dito ferito. - Non me n'importa. Vai nel cortile e... Guardò in alto e vide Prissy alla finestra, con lo sguardo e la preoccupazione dipinti sul viso. Rossella le accennò di scendere ed entrò in casa. Che bel fresco in anticamera! Si sciolse i nastri del cappello e lo gettò sulla tavola, passandosi il braccio sulla fronte madida di sudore. Prissy scese i gradini a tre per volta. - Essere venuto dottore? - No. Non viene. - Dio, miss Rossella! Miss Melania star male. - Il dottore non può venire. Siamo sole. Bisogna che tu prenda il bambino; io ti aiuterò. Prissy spalancò la bocca agitando la lingua senza riuscire a spiccicar parola. Guardò Rossella di sbieco, agitò i piedi, inquieta, Si contorse tutta. - Non fare la sciocca! - gridò Rossella infuriata da quell'espressione idiota. - Che c'è adesso? Prissy indietreggiò verso la scala. - Per carità, miss Rossella... - I suoi occhi erano pieni di vergogna e di spavento. - Ebbene? - Per carità... Bisogna avere dottore. Io... io... miss Rossella, io non saper niente di nascite di bambini. Mamma non aver mai voluto che io stare presente quando partorivano. Rossella si sentí mancare il respiro in un brivido di orrore, prima di essere invasa dall'ira. Prissy tentò di prender la fuga, ma Rossella l'afferrò. - Brutta negra bugiarda... che vuoi dire? Mi hai detto che sapevi tutto quello che bisogna fare... Qual è la verità? Parla! - La scrollò furiosamente. - Aver detto bugia! Non sapere come aver mentito... Io aver visto solo un bambino, dopo essere nato, perché Mamma avermi mandata via per non farmi guardare. Rossella la fissò; Prissy indietreggiò nuovamente. Per un attimo la mente della giovine donna si rifiutò ad accogliere la verità; ma quando comprese che Prissy non ne sapeva di ostetricia piú di quanto ne sapesse lei, si sentí infiammare dalla collera. Non aveva mai battuto uno schiavo in tutta la sua vita; ma ora percosse quella guancia nera con tutta la forza del suo braccio stanco. Prissy urlò, piú per paura che per dolore e cominciò ad agitarsi per liberarsi dalla stretta di Rossella. Mentre quella gridava, il gemito al secondo piano cessò e la voce di Melania, debole e tremante, chiamò: - Sei tu, Rossella? Vieni, ti prego! Rossella lasciò il braccio di Prissy, la quale cadde a terra piagnucolando, e per un attimo rimase immobile, ascoltando il gemito che era ricominciato. Ebbe l'impressione di sentirsi schiacciare da un giogo; un peso che le gravava sulla nuca e che avrebbe sentito piú greve appena avesse mosso un passo. Cercò di ricordarsi tutto quello che Elena e Mammy avevano fatto per lei quando era nato Wade; ma quasi tutto si perdeva in una nebbia confusa. Comunque, ricordando qualche cosa, parlò rapidamente e con autorità a Prissy. - Accendi il fuoco e metti a bollire dell'acqua nella caldaia. E porta su tutti gli asciugamani che trovi e quella balla di cotone. Portami anche le forbici. Non venirmi a dire che non le trovi. Cercale e portamele. Svelta. Rimise in piedi Prissy e la mandò in cucina con una spinta. Poi si irrigidí e cominciò a salire le scale. Sarebbe difficile dire a Melania che solo lei e Prissy avrebbero dovuto aiutare il bimbo a venire al mondo.

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Esse non cessavano dall'infastidire Melania, benché Rossella agitasse continuamente il ventaglio di palma; appena le aveva scacciate dal viso andavano a posarsi sulle gambe e sui piedi; ed ella gemeva: - Per carità! Sui piedi! Rossella aveva le braccia indolenzite. Aveva chiuso le persiane, di guisa che la camera era nella semioscurità; solo qualche puntino luminoso passava attraverso le fessure e ai lati. Gli abiti, in quel calore di stufa, diventavano sempre piú bagnati di sudore a misura che le ore passavano. Prissy era accoccolata in un angolo e la sua traspirazione aveva un fetore cosí insopportabile che Rossella l'avrebbe mandata in cucina, se non avesse temuto che quella, appena fuori di vista, se la desse a gambe. Melania si torceva sul letto, senza tregua. A volte cercava di sollevarsi a sedere, ma ricadeva subito indietro e riprendeva a torcersi. Dapprima aveva cercato di trattenersi dal gridare, mordendosi le labbra; ma Rossella, i cui nervi erano tesi fino all'inverosimile, le aveva detto: - Non sforzarti ad essere coraggiosa, per carità. Urla, se ne hai bisogno. Non c'è nessuno che senta, all'infuori di noi. Con l'avanzarsi del pomeriggio, i gemiti di Melania aumentarono; qualche volta erano addirittura urli. In quei momenti Rossella si nascondeva la testa fra le mani coprendosi le orecchie e si contorceva augurandosi di morire. Tutto era preferibile all'essere incapace di alleviare quel martirio. Tutto era preferibile a rimanere ad attendere un bambino che impiegava troppo tempo a venire al mondo. Attendere, mentre sapeva che gli yankees erano ai Cinque Punti. Febbrilmente si pentiva di non aver prestato piú attenzione ai discorsi delle donne maritate quando parlavano di maternità e di parti. Almeno ora saprebbe se Melania aveva un parto lungo o no. Ricordava vagamente che Zia Pitty raccontava di una sua amica che aveva avuto le doglie per due giorni ed era morta senza che il bimbo fosse nato. Se Melania dovesse continuare per due giorni! Ma era troppo delicata: non avrebbe potuto resistere a 48 ore di doglie. Se il bimbo non si sbrigava, morirebbe... E come potrebbe lei alzare piú gli occhi in faccia ad Ashley, se questi era ancora vivo, e dirgli che Melania era morta... dopo avergli promesso di aver cura di lei? Da principio Melania aveva voluto tenere la mano di Rossella quando le doglie erano piú forti; ma la stringeva talmente da stritolarle quasi le ossa. Dopo un'ora le mani di Rossella erano cosí indolenzite che non poteva neanche piú muoverle. Quindi annodò insieme due lunghi asciugamani di cui legò le estremità alla spalliera del letto; poi diede a Melania la parte annodata. E quella vi si attaccò come attingendone forza, tirandola, torcendola, lacerandola. La sua voce ora somigliava a quella di un animale preso in trappola e moribondo. Ogni tanto lasciava ricadere l'asciugamani e guardava Rossella con gli occhi dilatati dalla sofferenza. - Parla, ti prego, parla! E Rossella diceva la prima cosa che le passava per la mente, finché Melania afferrava nuovamente l'asciugamani e ricominciava a torcersi. L'atmosfera era annebbiata dal caldo, dalla sofferenza, dalle mosche ronzanti e il tempo passava con una lentezza spaventosa. A Rossella sembrava di trovarsi lí da un'eternità: aveva voglia di urlare insieme a Melania e riusciva a vincersi soltanto mordendosi le labbra. Una volta Wade venne fino alla porta in punta di piedi e si fermò sulla soglia frignando. - Wade ha fame! - Rossella si alzò per andare da lui, ma Melania sussurrò: - Non mi lasciare! Se tu sei qui, posso resistere! Allora Rossella mandò Prissy a riscaldare la farinata della colazione per dar da mangiare al bambino. Quanto a lei, pensò che non avrebbe mai piú potuto inghiottire un boccone. L'orologio sul caminetto si era fermato e Rossella non aveva alcun modo di sapere l'ora; ma poiché il caldo soffocante era un po' scemato e i puntini luminosi si erano oscurati, ella aperse la persiana. Con sua sorpresa vide che il sole, come un'enorme palla vermiglia, era basso sull'orizzonte. Chi sa perché, aveva immaginato che non dovesse tramontare mai piú. Chi sa che cosa era avvenuto in città? Chi sa se tutte le truppe avevano sgombrato? Se gli yankees erano arrivati? Se i Confederati avrebbero abbandonato il posto senza combattere? I Confederati... com'erano pochi! E Sherman aveva tanti uomini e tutti ben nutriti! Sherman! Quel nome la sgomentava come quello di Satana. Ma non vi era tempo di pensarci adesso, perché Melania chiamava per avere un po' d'acqua, un asciugamani asciutto sulla testa e perché le scacciasse le mosche dal viso. Al crepuscolo, mentre Prissy, sgambettando come un piccolo fantasma nero, accendeva la lampada, Melania si sentí piú debole. Cominciò a chiamare Ashley, con una insistenza che sembrava delirio, finché Rossella provò il desiderio di soffocare quella voce monotona con un guanciale. Forse il dottore avrebbe finito col venire. Con un barlume di speranza, alzò la testa e ordinò a Prissy di correre alla casa del dottor Meade a vedere se lui, o la signora, fossero tornati. - E se non c'è, chiedi alla signora Meade o alla cuoca che cosa bisogna fare. Pregale di venire! Prissy uscí di corsa e Rossella la vide allontanarsi con una velocità di cui non l'avrebbe creduta capace. Dopo un certo tempo tornò, sola. - Dottore non essere venuto a casa tutto il giorno. Forse essere andato via con soldati. Miss Rossella, Mist' Phil essere finito. - Morto? - Sí, badrona. Talbot, il cocchiere avere detto che essere stato... - Non importa. - Non avere visto miss Meade. Cuoca aver detto che miss Meade voler lavarlo e seppellirlo prima che arrivare yankees. Cuoca dice che se doglie essere troppo forti, tu mettere un coltello sotto il letto e questo tagliare doglie in due. Rossella provò il desiderio di batterla ancora; ma Melania aveva spalancato gli occhi terrorizzata e stava bisbigliando... - Dio mio... stanno venendo gli yankees? - No - rispose Rossella risoluta. - Prissy è una bugiarda. - Sí, badrona - annuí Prissy con calore. - Stanno arrivando - sussurrò Melania senza lasciarsi ingannare; e nascose il viso tra i guanciali. La sua voce giunse alle orecchie di Rossella come un soffio. - Il mio povero piccino... Il mio povero piccino... - E, dopo un lungo intervallo: - Tu non devi restare qui, Rossella. Devi prendere Wade e andar via. Era ciò che Rossella pensava; ma udirlo da Melania la irritò, e le diede un senso di vergogna, come se la sua vigliaccheria fosse scritta a chiare lettere sul suo viso. - Non dire sciocchezze. Non ho paura. E sai che non ti lascerò. - Potresti anche andare... Tanto, io sto per morire... - E riprese a mugolare.

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Rhett volse il cavallo a ovest dell'Albero di Pesco, e il carro traballante sobbalzò cosí violentemente sulla strada piena di buche, da strappare un gemito a Melania. Gli alberi oscuri s'intrecciavano al di sopra dei loro capi e ai due lati della strada le case buie e silenziose si distinguevano chiaramente, e le bianche palizzate delle barriere spiccavano come una fila di pietre sepolcrali. La strada stretta sembrava una oscura galleria, ma attraverso il denso fogliame rosseggiava l'orrendo bagliore del cielo, e le ombre si avvicendavano sulla strada nera come una danza di spettri. L'odore del fumo si faceva sempre piú intenso e, sulle ali della brezza ardente, giunse un pandemonio di suoni dal centro della città; erano urla ed era il cupo rombo dei pesanti carri dell'esercito e il calpestío degli innumerevoli piedi che marciavano. Quando Rhett fece voltare il cavallo in una strada laterale un'altra esplosione assordante lacerò l'aria, ed un razzo mostruoso fatto di vampe e di fumo si proiettò verso il cielo a occidente. - Deve essere l'ultimo treno di munizioni - fece Rhett, calmo. - Non so perché non le hanno portate via stamattina, quegli sciocchi! C'era tutto il tempo. Beh, peggio per loro. Credevo che girando attorno al centro della città, avremmo evitato il fuoco e la folla ubriaca, raggiungendo senza pericolo la parte meridionale. Ma dobbiamo attraversare in un punto qualsiasi la via Marietta, e quest'esplosione, se non mi sbaglio, è avvenuta proprio in quei paraggi. - Dobbiamo... dobbiamo attraversare il fuoco? Chiese Rossella balbettando. - Se facciamo presto, no - rispose Rhett; e balzando giú dal carretto, scomparve nell'oscurità di un cortile. Quando tornò aveva tra le mani un ramo di albero che batté senza pietà sul dorso piagato del cavallo. L'animale prese un trotto pesante, ansimando e stentando; e il carro balzò in avanti con una scossa che li gettò uno sull'altro. Il bimbo emise un vagito, e Prissy e Wade gridarono; solo da Melania non si udí lamento. Avvicinandosi a via Marietta, gli alberi erano piú radi e le enormi fiamme che salivano dagli edifici illuminavano la strada e le case come se fosse di pieno giorno creando ombre mostruose che si torcevano come vele lacerate di una nave che sta per affondare. Rossella batteva i denti; aveva freddo e tremava benché il calore delle fiamme fosse quasi contro il loro volto. Questo era l'inferno, ed essa vi si trovava; se ne avesse avuto la forza sarebbe balzata giú dal carro e sarebbe corsa nuovamente verso la strada buja da cui erano venuti, verso il rifugio della casa di Pittypat. Si strinse di piú a Rhett, afferrò il suo braccio con dita tremanti, e lo guardò cercando una parola, un conforto, qualche cosa che la rassicurasse. Nel bagliore vermiglio che li avvolgeva, il suo profilo bruno si disegnava come un'antica medaglia; bello, crudele e decadente. Al suo contatto egli si volse verso di lei con gli occhi pieni di una luce che la spaventò come quella dell'incendio. - Guardate, - le disse, posando una mano sull'impugnatura di una delle pistole che aveva alla cintura - se chiunque, bianco o negro, si avvicina al carro dalla vostra parte e cerca di mettere una mano sul cavallo, sparate; lo interrogheremo dopo. Ma per carità non sparate sul cavallo. - Ho... ho una pistola - sussurrò Rossella stringendo convulsamente l'arma che aveva in grembo, sicura che se la morte l'avesse guardata in faccia, ella avrebbe avuto troppa paura per far scattare il grilletto. - Davvero? E dove l'avete presa? - È quella di Carlo. - Carlo? - Sí... mio marito. - Ma avete mai avuto veramente un marito, mia cara? mormorò egli e rise dolcemente. Ma perché non aveva serietà, neanche in quel momento? Perché non correva? - E come pensate che io abbia avuto un bambino? - esclamò irritata. - Oh, c'è mezzo anche senza marito... - Volete tacere e affrettarvi? Ma egli tirò le redini bruscamente fermandosi nell'ombra di una casa, presso via Marietta, non toccata dalle fiamme. - Presto! - era la sola parola che ella potesse pensare. - Presto! Presto! - Soldati - disse Rhett. I soldati del distaccamento scendevano da via Marietta, fra gli edifici in fiamme, con passo stanco, i fucili tenuti alla meglio, le teste basse, troppo affaticati per affrettarsi, per preoccuparsi delle travi che crollavano a destra e a sinistra e del fumo che li investiva. Erano tutti laceri, al punto che non vi era differenza tra ufficiali e soldati; soltanto qua e là, su qualche cappello, era appuntato un logoro distintivo con la scritta: «C. S. A.» «Confederated States of America.». Molti erano scalzi; qua e là una fasciatura sudicia bendava un braccio o una testa. Passarono, senza guardare né a destra né a sinistra, cosí silenziosi che se non fosse stato per il calpestío, si sarebbe potuto credere che fossero fantasmi. - Guardateli bene - disse la voce schernevole di Rhett - cosí potrete dire ai vostri nipotini, un giorno, che avete visto la retroguardia della Gloriosa Causa in ritirata. Rossella, a un tratto, sentí di odiarlo, con una forza che in quel momento superò il suo sgomento e lo fece apparire meschino e insignificante. Sapeva che la sua salvezza e quella di coloro che erano nel carro dietro a lei dipendevano da lui, da lui solo; ma lo detestò ugualmente perché scherniva quelle file cenciose. Pensò a Carlo morto, ad Ashley forse morto egli pure, e a tutti gli allegri e valorosi giovani sepolti alla meglio chi sa dove; e dimenticò che anche lei, una volta, li aveva considerati degli sciocchi. Non riuscí a spiccicar parola, ma gli occhi che fissò sopra di lui ardevano di odio e di disgusto. Al passaggio delle ultime file, una figura piccola che trascinava il fucile nella polvere, barcollò, si fermò, guardò gli altri con volto istupidito di un sonnambulo. Era piccolo come Rossella; il suo fucile era quasi piú grande di lui e il viso sudicio era imberbe. «Al massimo sedici anni» pensò Rossella; «sarà uno della Guardia Nazionale o un ragazzo fuggito dalla scuola.» Mentre ella lo guardava, le ginocchia del ragazzo si piegarono lentamente ed egli cadde nella polvere. Un altro, un uomo alto e barbuto, si chinò; porse il proprio fucile e quello del ragazzo a un compagno, poi sollevò il corpo sottile e se lo pose sulle spalle, ricominciando a camminare, appena curvo sotto il peso, mentre il ragazzo, infuriato come un bimbo preso in giro, gridava disperatamente: - Mettimi a terra! Posso camminare! Mettimi a terra, ti dico! L'uomo barbuto non rispose e scomparve col suo peso all'angolo della strada. Rhett, con le redini abbandonate, taceva: sul suo volto era una strana espressione di tristezza. In quel momento vi fu a pochi passi da loro uno scroscio di travi che crollavano e Rossella vide una lunga e sottile lingua di fiamma levarsi dal tetto del magazzino accanto al quale si erano riparati. Quindi larghi drappi sanguigni rischiararono il cielo; il fumo li investí e Wade e Prissy cominciarono a tossire. - In nome di Dio, Rhett! Siete pazzo? Presto, presto. Rhett non rispose ma percosse crudelmente col ramo d'albero il dorso del cavallo che fece un balzo in avanti. Con tutta la velocità che fu possibile ottenere attraversarono traballando e rimbalzando la via Marietta. Dinanzi a loro, ai due lati della strada corta e stretta, era una doppia cortina di fuoco; una luce accecante li abbagliava, un calore intenso ardeva la loro pelle e un muggito continuo percuoteva le loro orecchie, accompagnato da crolli e scricchiolii. Attraversarono quell'inferno in un minuto che sembrò loro un secolo; e quindi, improvvisamente, si ritrovarono nella semioscurità. Mentre percorreva la strada e poi traballando sulle rotaie della ferrovia, Rhett adoperava la frusta automaticamente. Il suo volto era irrigidito e sembrava assente, quasi egli avesse dimenticato dove si trovava. Aveva le braccia strette al corpo e il mento proteso in avanti, come se fosse immerso in pensieri spiacevoli. Il calore gli faceva gocciolare la fronte e le guance, ma egli non si asciugava. Voltarono in una strada stretta, quindi in un'altra, e poi in altre ancora, finché Rossella perse completamente l'orientamento, mentre sentiva diminuire il ruggito delle fiamme. Rhett continuava a tacere. Soltanto frustava il cavallo con regolarità. Il riflesso sanguigno nel cielo andava sfumando, e la strada si faceva cosí spaventosamente buia, che Rossella avrebbe voluto udire una parola, magari un insulto, un'ingiuria, purché fosse una parola. Ma egli taceva. - Rhett - mormorò a un certo momento afferrandogli il braccio. - Che cosa avremmo fatto senza di voi? Come sono contenta che non siate nell'esercito! Egli volse il capo e le diede un'occhiata che la fece indietreggiare abbandonando il suo braccio. Non vi era sarcasmo, ora, nei suoi occhi; ma piuttosto un'espressione di collera e anche di stupore. Torse le labbra volgendo nuovamente il capo. Per un pezzo proseguirono in un silenzio interrotto soltanto dai lievi vagiti del bimbo e da qualche gemito di Prissy. Finalmente Rhett voltò il cavallo ad angolo retto e dopo un poco si trovarono su una strada larga e soffice. Le forme incerte delle case diventavano sempre piú rare e ai due lati si stendevano folte boscaglie. - Siamo fuori città, adesso - disse Rhett brevemente tirando le redini; - e sulla strada principale per McDonough. - Presto. Non vi fermate! - Lasciate respirare un momento questa bestia. - Poi volgendosi a lei, le chiese lentamente: - Siete ancora decisa, Rossella, a commettere questa follia? - Quale? - Volete ancora tentare di arrivare a Tara? È un suicidio. Fra voi e Tara vi è la cavalleria di Lee e l'esercito yankee. Dio mio! Avrebbe ora rifiutato di condurla a casa, dopo ciò che ella aveva sopportato in quella tremenda giornata? - Oh, sí, sí! Vi prego, Rhett, sbrighiamoci. Il cavallo non è stanco. - Un momento. Non potete andare a Jonesboro seguendo la linea ferroviaria. Si è combattuto qui tutto il giorno. Conoscete altre strade, carrozzabili o sentieri, che non attraversino Jonesboro? - Oh, sí! - esclamò Rossella sollevata. - Conosco una strada carrozzabile che lascia Jonesboro di fianco e fa il giro di diverse miglia. Papà ed io la percorrevamo a cavallo. Sbuca vicino alla proprietà di Maclntosh ed è soltanto a un miglio da Tara. - Bene! Allora può darsi che riusciate. Il generale Steve Lee è stato da quella parte durante il pomeriggio di oggi per coprire la ritirata. Forse gli yankees non vi sono ancora. Quindi potete arrivate se gli uomini di Lee non vi prendono il cavallo. - lo... posso arrivare? - Sí, voi. - La sua voce era aspra. - Ma Rhett... voi... non ci accompagnate? - No. Vi lascio qui. Ella si guardò attorno con uno sguardo folle; guardò il cielo livido, gli alberi neri che sembravano le pareti di una prigione, le figure spaventate nel carro, e finalmente lui. Era impazzita? O non aveva udito bene? - Ci lasciate? E dove... dove andate? - Cara figliola, vado con l'esercito. Ella sospirò, sollevata e irritata. Perché scherzava in questo momento? Rhett nell'esercito! Dopo tutto quello che aveva sempre detto... - Che gusto spaventarmi cosí! Andiamo! - Non sto scherzando, mia cara. E sono dolente che voi non accettiate con spirito migliore il mio sacrificio. Dov'è il vostro patriottismo, il vostro amore per la Nostra Causa Gloriosa? Ora sarebbe il momento di dirmi che debbo tornare vittorioso o morto. Ma fate presto, perché a me occorre un po' di tempo per farvi un bel discorsetto prima di partire per la guerra. Era la solita voce beffarda. Egli la scherniva e in certo modo, scherniva anche se stesso. Non era possibile che parlasse sul serio. E non era credibile che pensasse di lasciarla su quella strada buia con una donna che poteva essere moribonda, un neonato, una piccola imbecille negra e un bimbo atterrito; non poteva lasciarle il compito di portarli attraverso miglia e miglia di campi di battaglia, in preda a mille pericoli. - Scherzate, Rhett! Gli afferrò il braccio e lagrime di terrore le sgorgarono dagli occhi. Egli sollevò la sua mano e glie la baciò leggermente. - Egoista sino alla fine, non è vero, mia cara? Pensate soltanto alla vostra preziosa salvezza e non alla valorosa Confederazione. Immaginate invece, come saranno rincorate le nostre truppe da questa mia comparsa all' ultima ora! - Nella sua voce era una maliziosa tenerezza. - Oh, Rhett, come potete farmi questo? Perché mi volete abbandonare? - Perché? - egli rise gaiamente. - Forse a causa di quella stupida sentimentalità che è appiattata in fondo a tutti noi meridionali. Forse... Forse perché mi vergogno. Chi Io sa? - Vergognarvi? Dovreste morire di vergogna a lasciarci qui, sole, senza aiuto... - Cara Rossella! Voi non siete senza aiuto. Quando si è egoisti e risoluti come voi, non si è mai abbandonati. Dio deve aiutare piuttosto gli yankees, se per caso capitate fra loro! - Scese bruscamente dal carro, e poiché ella lo guardava sbalordita, girò dalla sua parte e le ordinò: - Scendete. Ella lo fissò. Rhett la prese alla vita senza complimenti e la depose a terra accanto a lui. Tenendola leggermente alla cintura, la trasse a parecchi passi di distanza. Ella sentiva la polvere e i sassi penetrare nelle sue scarpine. Le tenebre calde l'avvolgevano come un sogno. - Non vi chiedo di comprendere o di perdonare. Io stesso non mi comprendo, e non mi perdonerò mai questa idiozia. In fondo, mi secca di trovare in me ancora tanto donchisciottismo. Ma i nostri bei Paesi del Sud hanno bisogno di ogni uomo. Non lo ha detto anche il nostro bravo governatore Brown? Ma non importa. Vado alla guerra. Rise improvvisamente, un riso squillante che destò gli echi nel bosco nero. - «Non ho potuto amarti, cara, piú di quanto amassi l'onore.» Un bel discorso, no? Certo migliore di quel che sarei capace di fare io in questo momento. Perché vi amo, Rossella, malgrado quel che vi ho detto quella sera sotto il porticato, un mese fa. La sua voce era carezzevole e le sue mani calde e robuste, le lisciavano le braccia nude. - Vi amo, Rossella, perché ci somigliamo tanto; rinnegati, tutti e due, e profondamente egoisti. A nessuno di noi due importa che il mondo vada in rovina, purché noi ci salviamo. Ella udiva le parole, ma non ne capiva il senso. Cercava di rendersi conto della tremenda verità: egli la lasciava sola, ad affrontare gli yankees. Il suo cervello le diceva: «Mi lascia, mi lascia.» Ma non provava emozione. Allora le braccia di lui le circondarono la vita e le spalle, ed ella sentí i suoi muscoli saldi, e i bottoni della sua giacca che le premevano contro il petto. Un senso di calore, di stupore, e di sgomento la invase offuscando in lei ogni cognizione di tempo e di luogo. Si sentiva come una bambola di stracci debole e rilassata; e le piaceva sentirsi sorretta da quelle braccia vigorose. - Non volete cambiare idea a proposito di ciò che vi dissi quella sera? Non vi è nulla di meglio del pericolo e della morte per dare una spinta. Siate patriottica, Rossella. Pensate che manderete un soldato alla morte con un bel ricordo. Ora la baciava. E i suoi baffetti le sfioravano la bocca; la baciava con le labbra ardenti, lentamente, come se avesse avuto a sua disposizione tutta la notte. Carlo non l'aveva mai baciata cosí. E nemmeno i baci dei Tarleton e di Calvert le avevano dato quella sensazione di caldo e di freddo e l'avevano fatta tremare cosí. Le riversò il corpo all'indietro e le sue labbra le accarezzavano la gola, fin dove il cammeo le chiudeva la scollatura. - Tesoro - mormorò egli - tesoro... Ella scorgeva vagamente il carro nell'oscurità. A un tratto udí la vocetta acuta di Wade. - Mamma! Wade ha paúla! Alla sua mente confusa tornò improvvisamente la realtà ed ella ricordò ciò che aveva dimenticato per un attimo: che aveva paura e che Rhett, quel maledetto mascalzone, stava per lasciarla. E per colmo aveva la sfacciataggine d'insultarla con le sue infami proposte. Ira e odio s'impadronirono di lei; con uno sforzo ella si strappò alle sue braccia. - Mascalzone! - esclamò; e cercò di ricordarsi i peggiori insulti, quelli che aveva udito adoperare da Geraldo contro Lincoln, contro McIntosh e contro i muli testardi: ma le parole non vennero. - Abbietto, vigliacco, odioso! - E non riuscendo a trovare altre parole abbastanza sferzanti, alzò un braccio e lo colpí sulla bocca con tutta la forza che le rimaneva. Egli indietreggiò portandosi la mano al viso. - Ah! - fece soltanto; e per un attimo rimasero a fissarsi nell'oscurità. Rossella udiva il suo respiro pesante; ed ella pure ansimava come se avesse corso. - Avevano ragione; tutti avevano ragione! Non siete un gentiluomo! - Cara ragazza, come siete inopportuna! - Andatevene! Andatevene subito! Non voglio vedervi mai piú! Spero che una palla di cannone vi colpisca, che vi faccia a pezzi. Che... - Il resto non importa. Accetto la vostra idea. Ma quando sarò morto sull'altare della patria, spero che la vostra coscienza vi rimprovererà. Lo udí ridere, mentre, voltava le spalle, si avviava verso il carro. Lo vide fermarsi e lo udí parlare con la voce rispettosa che usava sempre quando parlava a Melania. - Mrs. Wilkes? La voce spaventata di Prissy rispose: - Madre di Dio, capitano Butler! Miss Melly essere svenuta rovesciata indietro. - Non è morta? Respira? - Sí, signore. Respirare. - Allora, è meglio cosí. Se fosse cosciente, forse non potrebbe sopravvivere a tutto questo. Abbi cura di lei, Prissy. Questo è per te - e le diede una banconota.... Cerca di non essere piú stupida di quello che sei. - Sí, signore. Grazie, signore. - Addio, Rossella. Si era voltato a guardarla, ma ella non parlò. L'odio l'aveva ammutolita. Udí il suo passo sui ciottoli della strada e per un attimo vide le sue larghe spalle disegnarsi nel buio. E dopo un momento, era scomparso. Udí allontanarsi il rumore dei passi, fino a cessare completamente. Allora tornò lentamente verso il carretto, con le ginocchia che le tremavano. Perché se n'era andato cosí, nel buio, a mescolarsi alla guerra, a una Causa che sapeva perduta, a un mondo impazzito? Perché era andato, Rhett che amava il piacere, le donne, i liquori, il buon vino e i letti comodi, i bei vestiti e le belle scarpe, che detestava gli Stati del Sud e derideva gl'imbecilli che combattevano per essi? Ora le sue scarpe verniciate lo portavano su una strada dolorosa, su cui la fame camminava con passo instancabile, e che le ferite, la debolezza, l'angoscia percorrevano come un branco di iene urlanti. E all'estremità di quella strada era la morte. Non doveva andare, lui che era ricco e tranquillo. Ed era andato, invece, lasciandola sola in una notte nera come la fuliggine, con l'esercito yankee fra lei e la sua casa. Ora si ricordò tutti gli insulti che avrebbe voluto lanciargli, ma era troppo tardi. Appoggiò il capo sul collo curvo del cavallo e pianse.

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Si trasse a sedere e si guardò attorno. Grazie a Dio, nessun yankees in vista! Il loro nascondiglio non era stato scoperto durante la notte. Ricordò tutto; il viaggio tormentoso come un incubo, dopo che l'eco dei passi di Rhett si era spenta, la notte interminabile, la strada nera piena di radici e di buche sulle quali si trabalzava, i solchi profondi in cui il carretto scivolava, la forza quintuplicata dal terrore con la quale lei e Prissy erano riuscite a trarre le ruote da quei solchi. Ricordò con un brivido quante volte aveva spinto il cavallo nolente attraverso campi e boschi, quando sentiva avvicinarsi dei soldati, non sapendo se erano amici o nemici... ricordò anche la paura che un colpo di tosse, uno sternuto, i singulti di Wade rivelassero la loro presenza agli uomini in marcia. Oh, quella strada nera su cui gli uomini sembravano fantasmi senza voce; solo il calpestio nella polvere soffice, e il debole ticchettio delle briglie! E il momento terribile in cui il cavallo aveva rifiutato di entrare nel bosco, e soldati di cavalleria e carri di artiglieria leggera erano passati oltre, nel buio che le nascondeva, cosí vicini che ella avrebbe potuto quasi toccarli e che l'odore del loro sudore giungeva alle sue nari! Finalmente, quando era giunta in prossimità di un crocevia, aveva visto ardere dei fuochi da campo; erano gli ultimi resti della retroguardia di Steve Lee che aspettavano l'ordine di ritirarsi. Si era allora messa per un campo arato finché gli ultimi riflessi dei fuochi erano scomparsi. Ma aveva perduto l'orientamento nell'oscurità e aveva singhiozzato non potendo ritrovare la piccola strada carreggiabile che conosceva cosí bene. Quando finalmente era riuscita a trovarla, il cavallo era caduto a terra e aveva rifiutato di muoversi, di rialzarsi, anche quando lei e Prissy l'avevano percosso. Lo aveva staccato; quindi, disfatta dalla stanchezza, si era trascinata fino alla parte posteriore del carretto dove si era arrampicata a fatica. Ricordava vagamente di avere udito prima di chiudere gli occhi, una debole voce che anche quando pregava, si scusava: - Rossella, per favore, posso avere un po' d'acqua? - Non ce n'è - aveva risposto; e si era addormentata di colpo. Ora era mattina; e il mondo era calmo e sereno, verde e oro sotto i raggi del sole. Nessun soldato in vista. Aveva fame e sete; era indolenzita e piena di sudore per il fatto che lei, Rossella O'Hara, che non poteva dormire se non fra lenzuola di lino e su materasso di piume, aveva dormito sulle tavole come una misera schiava. Volse gli occhi abbacinati dal sole su Melania e sussultò inorridita. La povera donna era cosí pallida e immobile che Rossella credette che fosse morta. Sembrava una vecchia, coi lineamenti stirati, su cui le ciocche di capelli neri cadevano in disordine. Ma con un respiro di sollievo vide il lievissimo sollevarsi e abbassarsi del seno: Melania respirava ancora. Rossella si fece visiera con la mano e si guardò attorno. Evidentemente avevano trascorso la notte sotto gli alberi del cortile di accesso di qualche casa perché dinanzi a lei era un viale inghiaiato fiancheggiato da cedri. «Ma è la piantagione di Mallory» pensò; e il suo cuore balzò di gioia all'idea di trovare amici e aiuto. Ma nella piantagione era un silenzio di tomba. L'erba e gli arbusti del prato erano strappati e calpestati, come se zoccoli, ruote, piedi, avessero camminato freneticamente avanti e indietro finché il suolo non era stato completamente sconvolto. Guardò verso la casa, e invece del vecchio edificio bianco col tetto coperto di latta che conosceva cosí bene, scorse un lungo rettangolo di pietre di granito annerite; quelle delle fondamenta; e in mezzo agli alberi due grossi mucchi di mattoni fumiganti. Si sentí stringere il cuore. Troverebbe cosí anche Tara, rasa al suolo, silenziosa come la morte? - Non devo pensare a questo adesso - si disse in fretta. - Non devo. Altrimenti sarò ripresa dal terrore. - Ma suo malgrado il cuore ricominciò a batterle precipitosamente e ogni battito sembrava dirlo: - A casa! Presto! A casa! Presto! Bisognava muoversi. Ma prima occorreva trovare qualche cosa da mangiare e dell'acqua; specialmente acqua. Svegliò Prissy la quale si guardò attorno con gli occhi spaventati. - Oh Dio, miss Rossella. Io credere di non svegliarmi mai piú se non nella Terra Promessa. - C'è tempo, per quella, - rispose Rossella cercando di respingersi indietro i capelli, scarmigliati. Si sentiva sudicia e già bagnata di sudore. Gli abiti erano sgualciti; non si era mai sentita cosí poco pulita - le sembrava quasi di emanare cattivo odore! - e cosí stanca. Muscoli che ignorava di possedere le dolevano per l'insolito esercizio a cui li aveva sottoposti la notte prima; ed ogni movimento acutizzava le sue sofferenze. Guardò Melania e vide che i suoi occhi neri erano aperti. Erano brillanti di febbre e cerchiati da occhiaie profonde. Le labbra aride si socchiusero e bisbigliarono: - Acqua. - Alzati, Prissy - ordinò Rossella. - Andiamo al pozzo a prendere un po' d'acqua. - Ma, miss Rossella, forse esserci qualche morto e... - Scendi subito, ti ho detto; altrimenti... - E Rossella, che non era in vena di discutere, discese faticosamente a terra. Pensò allora al cavallo. Dio! Se fosse morto durante la notte! Sembrava prossimo a dare l'ultimo respiro quando lei gli aveva tolto i finimenti. Girò attorno al carretto e lo vide sdraiato. Se fosse morto, lei maledirebbe Dio e morrebbe. Era successo a qualcuno nella Bibbia, che aveva maledetto Dio ed era morto. Ne comprendeva perfettamente i sentimenti, ora. Ma il cavallo era vivo. Respirava con fatica, ma era vivo. Un po' d'acqua farebbe bene anche a lui. Prissy discese riluttante dal carretto e con molti gemiti seguí timorosamente Rossella per il viale. Dietro alle rovine le file delle capanne degli schiavi imbiancate a calce erano mute e deserte sotto gli alberi. Fra il quartiere degli schiavi e le fondamenta fumiganti, trovarono il pozzo; sospeso alla sua tettoia era ancora il secchio. Svolsero la fune e quando il secchio tornò in alto pieno di acqua fredda, Rossella lo portò alle labbra e bevve lungamente rumorosamente, spruzzandosi d'acqua dappertutto. Bevve finché la voce petulante di Prissy: - Anche io avere sete, miss Rossella! - le ricordò che anche gli altri avevano bisogno di bere. - Sciogli la corda, porta il secchio al carretto e dài da bere a miss Melania e a Wade; il resto dàllo al cavallo. Non credi che miss Melania dovrebbe allattare il piccolo? Morirà di fame. - Oh, miss Rossella, miss Melania non avere latte e non potere neanche avere! - Come lo sai? - Avere visto troppe donne come lei. - Non darti delle arie con me. Lo abbiamo visto ieri, come te ne intendi di bambini! Sbrigati. Io vado a cercare qualche cosa da mangiare. La ricerca fu vana, finché nell'orto trovò alcune mele. I soldati erano passati prima di lei e sugli alberi non vi era piú nulla. Quelle che trovò a terra erano per la maggior parte marce. Sollevando la gonna, si riempí il grembo delle migliori e tornò verso il carretto, sentendo che nelle scarpine le penetravano terriccio e sassolini. Perché non aveva pensato a mettere delle scarpe piú pesanti, iersera? Perché non aveva preso il cappello da sole? Perché non aveva portato qualche cosa da mangiare? Si era comportata come una stupida. Ma aveva creduto che a tutte quelle cose pensasse Rhett. Rhett! Sputò a terra, per il disgusto di quel nome. Come lo odiava! Com'era stato spregevole! E lei si era lasciata baciare... i suoi baci le erano quasi piaciuti. Doveva essere pazza... Che individuo abbietto! Giunta al carretto, divise le mele e gettò quelle che avanzavano nella parte posteriore del veicolo. Il cavallo ora era in piedi, ma pareva che l'acqua non lo avesse ravvivato molto. Di giorno sembrava anche piú miserevole che di notte. Aveva tutte le ossa fuori e il dorso era ridotto una sola piaga. Nel mettergli i finimenti, Rossella si ritraeva per non toccarlo e quando gli mise il morso in bocca vide che era completamente sdentato. Cosí vecchio? Non avrebbe potuto, Rhett, dal momento che rubava un cavallo, rubarne uno migliore? Salí sulla cassetta e lo frustò col ramo di noce americano. La bestia si avviò, respirando con difficoltà; ma cosí lentamente che Rossella si disse che certo avrebbe progredito piú velocemente a piedi. Se non avesse dovuto occuparsi di Melania e di Wade, di Prissy e del pupo! Avrebbe percorso a passo veloce la distanza che la separava da Tara e dalla mamma. Non potevano esservi piú di quindici miglia; ma col passo di quella rozza sfiancata ci vorrebbe tutto il giorno, perché sarebbe necessario fermarsi ogni tanto per farla riposare. Tutto il giorno! Guardò la strada rossigna e i solchi profondi prodotti dalle ruote dei carriaggi e delle ambulanze. Passerebbero delle ore prima di sapere se Tara esisteva ancora e se Elena vi era. Lunghe ore prima di terminare quel viaggio sotto il sole ardente. Guardò Melania che giaceva con gli occhi chiusi sotto quel sole; sciolse i nastri del suo cappello e lo porse a Prissy. - Mettiglielo sul viso. Almeno le riparerà gli occhi. - E sentendo il calore violento sul capo scoperto pensò: «Prima di sera sarò piena di lentiggini come un uovo di faraona». Non era mai stata al sole senza cappello o velo, non aveva mai tenuto le redini senza guanti, per proteggere la candida pelle delle sue mani. Eppure adesso era esposta al sole in un carretto sconquassato, con un cavallo bolso; assetata, affamata, lorda di polvere e di sudore, incapace di fare altro se non di procedere a passo lento per quella landa deserta. E dire che poche settimane prima era cosí sicura e tranquilla, nella certezza che Atlanta non sarebbe mai caduta e la Georgia non sarebbe mai invasa! Chi sa se Tara era ancora in piedi? O se anch'essa era stata spazzata via dal vento che si era scatenato sulla Georgia? Percosse con la frusta il dorso del cavallo e cercò di fargli affrettare il passo, mentre le ruote sconnesse sbalzavano lei e gli altri da un lato all'altro del carretto.

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ROSSELLA era a casa da due settimane, quando la vescica piú grande del suo piede cominciò a suppurare facendole gonfiare l'estremità in modo che le era impossibile mettere la scarpa e che riusciva a camminare solo appoggiandosi al calcagno. La disperazione s'impadroní di lei. Se l'arto fosse andato in cancrena come le ferite dei soldati, ed ella dovesse morire cosí, senza un medico? Per quanto la vita fosse amara, ella non desiderava lasciarla. E poi, chi si occuperebbe di Tara se ella moriva? In un primo tempo aveva sperato che Geraldo tornasse in sé e prendesse la direzione della casa; ma in quelle due settimane la speranza era svanita. Oramai la piantagione e i suoi abitanti erano affidati alle sue mani inesperte, poiché Geraldo rimaneva lunghe ore seduto, come assente dalla vita; e quando ella gli chiedeva qualche consiglio rispondeva: - Fai come ti sembra meglio, figliola. - O, peggio ancora: - Domanda alla mamma, gattina. Senza dubbio egli non muterebbe piú; e Rossella comprendeva che fino alla morte Geraldo continuerebbe ad attendere Elena, convinto che ella fosse in un'altra stanza. Quella mattina la casa era tranquilla perché tutti, eccetto Rossella, Wade, e le tre inferme, erano andati nella palude alla caccia della scrofa. Perfino Geraldo si era avviato attraverso i campi malconci, appoggiando una mano sul braccio di Pork e tenendo nell'altra un pezzo di fune. Súsele e Carolene avevano tanto pianto che si erano addormentate, come facevano almeno due volte al giorno, quando pensavano ad Elena e le lagrime inondavano le loro guance smunte. Melania, che si era alquanto sollevata sui guanciali per la prima volta in quel giorno, aveva i due pargoli uno su ogni braccio. Wade sedeva ai piedi del letto, ascoltando una fiaba. Per Rossella il silenzio di Tara era insopportabile, perché le ricordava troppo acutamente la quiete mortale della desolata campagna attraversata nel venire da Atlanta. La mucca e il vitello non si facevano sentire da qualche ora. Non vi erano uccelli che cinguettassero fuori dalla finestra, e perfino la rumorosa famiglia dei merli, che da tanti anni viveva nella magnolia, quel giorno era taciturna. Ella aveva trascinato una sedia bassa accanto alla finestra aperta della sua stanza, e guardava il viale d'accesso col mento appoggiato sulle braccia posate sul davanzale. Accanto a lei, sul pavimento, era un secchio d'acqua nel quale ella immergeva ogni tanto il piede ammalato. Era di pessimo umore. Proprio quando aveva bisogno di tutte le sue forze, quel piede si metteva a suppurare! Era sicura che quegli stupidi negri non riuscirebbero a catturare la scrofa. Avevano impiegato una settimana a prendere i porcellini, uno ad uno, e la madre era ancora in libertà. Se fosse andata lei nella palude, insieme a loro, si sarebbe alzata le gonne fino alle ginocchia e avrebbe lanciato il nodo scorsoio in men che non si dica... Ma anche dopo aver preso quella bestia... se si prendeva... Che fare dopo aver mangiato quella e i porcellini? La vita continuerebbe e l'appetito pure. L'inverno si avvicinava e non c'era piú nulla da mangiare; anche i poveri rimasugli dei legumi dei vicini stavano per finire. Occorrevano piselli secchi, orzo, farina, riso,... tante, tante cose! E poi grano e semi di cotone per la semina della primavera e anche nuovi abiti. Dove prendere tutto questo, e come pagarlo? Aveva frugato nelle tasche di Geraldo e nella sua cassa, e tutto ciò che aveva trovato erano pacchetti di titoli della Confederazione e tremila dollari in banconote della Confederazione stessa. Bastavano giusto per un pasto completo per tutti, pensò ironicamente, ora che il denaro della Confederazione valeva quasi meno che nulla. Ma anche se avesse del denaro e potesse comprare delle provviste, come potrebbe portarle a Tara? Perché Dio aveva fatto morire il vecchio cavallo? Perfino quell'animale malandato sarebbe stato prezioso per loro. Oh, i bei muli muscolosi, e i bei cavalli, e la sua piccola giumenta, i ponies delle ragazze e lo stallone di Geraldo... Oh, avere solo una di quelle bestie, magari il piú caparbio dei muli! Comunque, quando il piede sarà guarito, andrà a Jonesboro. Sarà la piú lunga passeggiata della sua vita, ma la farà. Anche se gli yankees hanno bruciato completamente la città, vi sarà qualcuno nel vicinato che potrà dirle dove è possibile procurarsi dei viveri. In quel momento ebbe la visione di Wade piagnucoloso. Non gli piacevano le patate dolci, ripeteva; voleva del riso col sugo e poi voleva anche un bastone per il tamburo. La luce del sole improvvisamente si oscurò. Rossella lasciò ricadere la testa sulle braccia e lottò contro le lagrime. Piangere era inutile; il solo momento in cui le lagrime potevano servire, era quando un corteggiatore chiedeva qualche cosa. In quel momento fu colpita da uno scalpitio di zoccoli; ma non alzò la testa. Troppo spesso le era parso di udire quel rumore, nello stesso modo in cui aveva immaginato di udire il fruscio delle gonne di Elena. Sentí battere il cuore piú velocemente, come sempre, prima di avere il tempo di dire a se stessa: «Non essere stupida». Ma il rumor di zoccoli rallentò assumendo il ritmo di una passeggiata; si sentí la ghiaia scricchiolare. Un cavallo... i Tarleton, i Fontaine! Alzò gli occhi. Era un soldato di cavalleria yankee. Automaticamente si trasse dietro la tenda e lo guardò affascinata, e cosí sgomenta, che le mancò il respiro. L'uomo, grosso, rozzo, con una barba nera incolta che gli scendeva sulla tunica sbottonata, cavalcava piegato in avanti. Gli occhi piccoli e socchiusi per il sole abbagliante, osservavano tranquillamente la casa, da sotto la visiera del berretto azzurro. Scese lentamente e attorcigliò le redini sul pomo della sella; frattanto Rossella sentí che il respiro le ritornava, improvviso e doloroso come dopo aver ricevuto un colpo nello stomaco. Uno yankee, uno yankee con una lunga pistola al fianco! E lei era sola in casa con tre ammalate e due lattanti! Mentre egli percorreva il viale con la mano sulla pistola e guardando vivamente a destra e a sinistra, un caleidoscopio di immagini spaventose le passò dinanzi agli occhi: storie raccontate da zia Pittypat di attacchi a donne indifese, di gole tagliate, di case incendiate, di bambini sventrati; tutti gli indicibili orrori inseparabili dal nome di «yankee». Il suo primo impulso fu di nascondersi nel gabinetto, di scivolare sotto al letto, di fuggire per la scala posteriore e correre urlando verso la palude; qualunque cosa pur di sfuggirgli. Ma udí il suo passo guardingo sui gradini dell'ingresso, e la sua andatura pesante nel vestibolo; e comprese che ogni via di scampo era ormai preclusa. Irrigidita dallo spavento, lo udí passare di camera in camera a pianterreno, con passo che diventava sempre piú sicuro a misura che si accorgeva che la casa era deserta. Ora si trovava nella sala da pranzo; fra poco andrebbe in cucina. Al pensiero della cucina una rabbia subitanea invase Rossella. E lo spavento diede luogo a un furore strapotente. La cucina! Quivi, sul fornello, erano due casseruole: una piena di mele al forno e l'altra di minestrone fatto coi legumi portati faticosamente dalle Dodici Querce e dall'orto di Maclntosh; un pranzo che doveva servire per nove persone affamate ed era appena sufficiente per due. Rossella dominava il suo appetito da qualche ora, aspettando il ritorno degli altri; e il pensiero che lo yankee potesse divorare il loro magro pasto la fece tremare di collera. Dio li maledica tutti! Erano discesi come delle cavallette, distruggendo tutto, ed ora tornavano ancora per rubare i miseri rimasugli. Ah no, per Dio, ecco uno yankee che non ruberebbe piú nulla a nessuno! Si tolse l'altra scarpa e, a piedi scalzi, andò velocemente al cassettone senza neanche piú sentire il dolore della sua ferita. Aperse senza far rumore il cassetto superiore e afferrò la pesante pistola che aveva recata da Atlanta: l'arme che Carlo aveva portata, ma con la quale non aveva mai sparato. Frugò nella borsa di cuoio sospesa alla parete sotto la sua sciabola e trasse una cartuccia che insinuò nell'arme con mano che non tremava. Rapidamente e silenziosamente corse fuori dalla stanza e scese le scale reggendosi alla ringhiera con una mano e tenendo con l'altra la pistola fra le pieghe della gonna. - Chi va là? - chiese una voce nasale. Ed ella si fermò a metà delle scale, col sangue che le ronzava nelle orecchie in modo cosí violento che quasi non le faceva udire la voce dell'uomo. - Fermi, o sparo! - gridò ancora la voce. Era fermo sulla soglia della stanza da pranzo, con la pistola in una mano e nell'altra la cassettina da lavoro di legno rosa in cui erano il ditale d'oro, le forbicine e l'agoraio d'oro. Rossella sentí agghiacciarsi le gambe, ma l'ira le fece avvampare il volto. La scatola da lavoro di Elena in quelle mani! Volle gridare: «Posatela subito! Posatela subito, brutto...» ma le parole non uscirono. Rimase a guardarlo al di sopra della ringhiera e vide il suo volto mutare la sua espressione di turbamento e di tensione in un sorriso fra sprezzante e grazioso. - Dunque c'è qualcuno in casa - disse rimettendo la pistola nel fodero e attraversando il vestibolo fino a trovarsi proprio sotto a lei. - Tutta sola, bella signorina? Con la rapidità del lampo ella sollevó l'arme al di sopra della ringhiera in direzione del viso barbuto. Prima che egli potesse portare la mano alla cintura, Rossella fece scattare il grilletto. Il rinculo della pistola la fece indietreggiare, mentre il fragore dell'esplosione le riempiva le orecchie, e il fumo acre le penetrava nelle narici. L'uomo cadde all'indietro con una violenza che fece tremare il mobilio. La scatola gli sfuggí dalle mani spargendo attorno il contenuto. Senza neanche accorgersi di ciò che faceva, Rossella scese le scale di corsa e fu accanto a lui, guardando ciò che era rimasto di quel volto al di sopra della barba; un buco sanguinoso al posto del naso, gli occhi bruciati dalla polvere. Due rivoli di sangue cominciarono a scorrere sul pavimento, uno proveniente dal viso, l'altro dal capo. Era morto. Senza alcun dubbio. Aveva ucciso un uomo. Il fumo saliva in lente volute al soffitto e il rigagnolo rosso si allargava. Per un tempo incalcolabile ella restò immobile, e nel calore della mattina d'estate ogni minimo rumore e profumo sembrò ingigantire: il battito del suo cuore, il fruscio delle foglie di magnolia, il lontano lamento di un uccello di palude, la lieve fragranza dei fiori fuori della finestra. Aveva ucciso un uomo, lei che non era mai rimasta sino al termine di una caccia, che non sopportava le stride dei maiali al macello, il guaito di un coniglio in trappola. «Ucciso!» pensò stupidamente. «Ho commesso un assassinio. È impossibile.» I suoi occhi corsero alla mano tozza e vellosa che posava sul pavimento, vicino alla scatola da lavoro, e improvvisamente ebbe la sensazione di essere nuovamente viva, viva gioiosamente, di una fredda gioia da figlie. Avrebbe affondato con piacere il tallone nella larga ferita che era al posto del naso di quell'uomo, e il sangue caldo sul piede nudo le avrebbe dato piacere. Aveva colpito per vendicare Tara... ed Elena. Sul pianerottolo superiore udí un calpestio affrettato e incerto; poi una pausa; quindi nuovi passi, lenti e strascicati, accompagnati da un rumore metallico. Riprendendo coscienza del momento e del luogo, Rossella alzò gli occhi e vide in cima alla scala Melania vestita solo dell'accappatoio cencioso che funzionava da camicia da notte; il suo debole braccio era tirato in basso dal peso della sciabola di Carlo. Gli occhi di Melania afferrarono la scena nel suo insieme; il corpo vestito di azzurro nella pozza di sangue, la scatola da lavoro, Rossella scalza e pallida con la pistola stretta nella mano convulsa. I suoi occhi incontrarono quelli di Rossella. Un raggio di orgoglio feroce illuminava il suo volto generalmente dolce; nel suo sorriso era un'approvazione e una gioia che uguagliavano il tumulto che agitava il seno della giovine temeraria. «È come me!» pensò Rossella. «Comprende i miei sentimenti! Avrebbe fatto lo stesso!» Con un brivido, guardò la fragile donna per la quale non aveva mai provato che disprezzo e antipatia. Ora, lottando contro l'odio per la moglie di Ashley, nasceva in lei un sentimento di ammirazione e di camerateria. In un lampo, si accorgeva che sotto la voce gentile e gli occhi di colomba di Melania si celava una lama d'acciaio infrangibile; e sentí pure che nel sangue tranquillo di Melania erano squilli e fanfare di intrepido ardimento. - Rossella! Rossella! - gridarono le voci sgomente di Carolene e di Súsele, soffocate dall'uscio chiuso; e la vocetta di Wade urlò: - Zietta! Zietta! - Melania pose rapidamente un indice sulle labbra e posando la sciabola sul primo gradino, attraversò faticosamente il pianerottolo e aperse la porta delle ammalate. - Non abbiate paura, bambine! - La sua voce era scherzosa. - Vostra sorella ha voluto pulire la pistola di Carlo e involontariamente ha fatto partire un colpo che le ha fatto una paura terribile!... Pensa, Wade, che la mamma ha sparato con la pistola del tuo papà! Quando sarai grande, sparerai anche tu. «Con che freddezza sa mentire!» pensò Rossella con ammirazione. «Io non avrei avuto l'idea... Ma perché mentire? Bisogna che sappiano quello che ho fatto.» Guardò nuovamente il corpo; ora la sua ira e il suo terrore svanivano e la reazione le faceva vacillare le ginocchia. Melania si trascinò nuovamente sino alla sommità della scala e cominciò a scendere reggendosi alla ringhiera, mordendosi il pallido labbro inferiore. - Torna a letto, sciocca; ti ammazzerai! - esclamò Rossella; ma Melania la raggiunse nel vestibolo. - Rossella - bisbigliò - dobbiamo portarlo fuori e seppellirlo. Non può essere che sia solo; e se lo trovano qui... - Dev'essere solo - replicò Rossella. - Non ho visto nessun altro dalla finestra. Sarà uno sbandato. - Anche se è solo, bisogna che nessuno sappia... I negri potrebbero parlare, e tu potresti essere arrestata. Dobbiamo nasconderlo prima che gli altri tornino dalla palude. Spinta ad agire dall'insistenza di Melania, Rossella rifletteva. - Potrei seppellirlo nell'angolo del giardino, sotto il noce... Il terreno dev'essere morbido, perché Pork ha scavato per dissotterrare il bariletto di whisky. Ma come portarlo fin là? - Prendiamo una gamba per ciascuna e trasciniamolo - disse Melania con fermezza. L'ammirazione di Rossella aumentò. - Tu non puoi - riprese. - Lo trascinerò io. Torna a letto. Ti ammazzerai. Non tentare di aiutarmi, altrimenti ti porto su in braccio. Il volto pallido di Melania abbozzò un sorriso di comprensione. - Sei molto buona, Rossella - e le sfiorò la guancia con le labbra. Poi, prima che Rossella si fosse riavuta dalla sorpresa, proseguí - Se tu puoi trascinarlo da sola, io pulirò intanto il... sí, il pavimento prima che gli altri tornino a casa; e... senti... - Di'? - Credi che sarebbe... disonesto frugare nella sua giberna? Potrebbe esservi qualcosa da mangiare. - Hai ragione - rispose Rossella, seccata di non avere avuto lei stessa quell'idea. - Tu guarda nella giberna; io esaminerò le tasche. Chinandosi sul morto con disgusto, finí di sbottonargli la tunica e cominciò sistematicamente a frugare nelle tasche. - Dio mio! - mormorò tirando fuori una saccoccia rigonfia avvolta in uno straccio. - Melania... Melly, questa è piena di denaro! Melania non rispose, ma sedette a un tratto sul pavimento e si appoggiò alla parete. - Non badarci - mormorò - mi sento un po' debole. Rossella tolse il cencio e allargò le pieghe del cuoio con mano tremante. - Guarda, Melly... guarda! Melania guardò e i suoi occhi si dilatarono. Ficcate dentro alla rinfusa erano una quantità di banconote degli Stati Uniti, insieme a denaro della Confederazione, e in mezzo a quelle erano una moneta d'oro di dieci dollari e due da cinque. - Non metterti a contare adesso - riprese Melania mentre Rossella cominciava a sfogliare i biglietti di banca. - Non abbiamo il tempo... - Capisci, Melania, che questo denaro significa che potremo mangiare? - Sí, cara. Lo so; ma ora non abbiamo tempo. Guarda nelle altre tasche mentre io frugo nella giberna. Le tasche dei calzoni contenevano soltanto un mozzicone di candela, un temperino, una borsa da tabacco e un pezzo di spago. Melania trasse dalla giberna un pacchetto di caffè che annusò come se fosse il piú soave dei profumi, un rimasuglio di galletta e la miniatura di una bambina in una cornicetta d'oro ornata di perline, una spilla di granati, due larghi braccialetti d'oro, due catenelle e un ditale anche d'oro, una tazza d'argento da bambino, un anello con un solitario, un paio di forbici d'oro e un paio di pendenti di brillanti a forma di pera che anche ai loro occhi inesperti sembrarono essere non meno di un carato ciascuno. - Un ladro! - mormorò Melania ritraendosi con ribrezzo. - Deve aver rubato tutto questo! - Senza dubbio. Ed era venuto qui sperando di rubare ancora qualche altra cosa. - Hai fatto bene a ucciderlo - e i dolci occhi di Melania s'indurirono. - Ma ora bisogna sbrigarsi. Rossella si chinò e afferrò i piedi del morto. Ma com'era pesante e come si sentí improvvisamente debole! E se non riuscisse a smuoverlo? Si volse di spalle e mettendosi sotto le braccia quei piedi, cominciò a tirare. Il suo piede ammalato che nell'eccitazione aveva dimenticato, ora le dava una sofferenza che le faceva stringere i denti, costringendola a portare tutto il proprio peso sul calcagno. Sforzandosi e sudando riuscí a trascinarlo per tutto il vestibolo, lasciandosi dietro una traccia rossa. - Se fa sangue nel cortile, non potremo nasconderlo - disse rabbrividendo. - Dammi il tuo accappatoio, Melania, glie lo avvolgerò intorno alla testa. Il volto pallido di Melania divenne vermiglio. - Non fare la sciocca, nessuno ti guarda. Se io avessi una sottoveste o delle mutandine, le adoprerei. Accoccolandosi presso la parete, Melania si sfilò l'accappatoio cencioso e lo porse a Rossella, cercando di coprirsi il seno alla meglio con le braccia. «Meno male che io non ho tanto pudore» pensò Rossella sentendo piú che vedere, l'imbarazzo di Melania, mentre ella avvolgeva la tela attorno al viso in poltiglia. Riuscí a trascinare il corpo fino al porticato posteriore e, fermandosi per asciugarsi la fronte col dorso della mano, diede un'occhiata verso Melania che era rannicchiata contro la parete con le ginocchia piegate contro il petto nudo. «Era proprio il momento di stare a pensare al pudore!» disse fra sé Rossella; ma subito dopo si vergognò. Dopo tutto... dopo tutto Melania si era trascinata fuori dal letto per venire in suo aiuto con un'arme troppo pesante per lei. C'era voluto del coraggio, quella specie di coraggio che Rossella riconosceva lealmente di non possedere; quel coraggio tutto d'un pezzo che aveva caratterizzato Melania nella terribile notte della resa di Atlanta e durante il lungo viaggio verso casa. Era l'intangibile, incrollabile coraggio dei Wilkes, qualità che Rossella non possedeva, ma a cui rendeva omaggio. - Torna a letto - le disse voltandosi. - In questo modo arrischi la vita. Pulirò io dopo averlo sepolto. - Ma no; strofinerò con uno di quei tappeti vecchi - sussurrò Melania guardando la pozza di sangue col viso sconvolto. - Ah, be', se vuoi proprio star male, io poi non verrò a curarti! Piuttosto, se qualcuno ritorna prima che io abbia finito, trattienilo in casa e digli che il cavallo è venuto qui non si sa da dove. Melania rimase rannicchiata contro la parete e si coperse le orecchie per non udire la serie di colpi prodotti dalla testa del morto che batteva contro i gradini. Nessuno domandò da dove era venuto il cavallo; era ovvio che fosse un superstite della recente battaglia e tutti furono troppo contenti di averlo. Nessuno spettro si levò dalla tomba scavata da Rossella per spaventarla durante le lunghe notti in cui la stanchezza le impediva di dormire. Nessun sentimento di orrore o di rimorso l'assaliva; e ciò la stupiva perché ella sapeva che fino a un mese prima sarebbe stata incapace di quel gesto. La graziosa e giovane signora Hamilton, con le sue fossette e i suoi pendenti sempre in moto, che riduceva in poltiglia il viso di un uomo e poi lo seppelliva in una fossa scavata frettolosamente! Rossella sogghignò pensando alla costernazione che una simile idea avrebbe dato a coloro che la conoscevano. - Non voglio piú ricordarmene - decise. - Oramai la cosa è fatta e sarei stata molto stupida se non l'avessi ammazzato. Ma credo di essere cambiata parecchio da quando sono tornata a casa, altrimenti non avrei potuto. Era effettivamente cambiata piú di quanto non immaginasse, e la corazza che aveva cominciato a formarsi attorno al suo cuore quel giorno in cui ella giaceva nell'orto degli schiavi alle Dodici Querce, si andava a poco a poco indurendo. Ora che aveva un cavallo, Rossella poteva pensare a informarsi di quel che fosse accaduto ai vicini. Da quando era arrivata a casa si era chiesta disperatamente mille volte: «Ma siamo proprio i soli rimasti nella Contea? Tutto è stato incendiato, tutti si sono rifugiati a Macon?» Con la memoria fresca della rovina delle Dodici Querce e delle abitazioni dei MacIntosh e degli Slattery, aveva paura, quasi, di apprendere la verità. Ma era meglio sapere il peggio che ignorarlo. Decise quindi recarsi prima alla casa dei Fontaine, non perché fossero i piú vicini, ma perché poteva esservi il vecchio dottor Fontaine; e Melania aveva bisogno di un medico. Non si andava rimettendo come avrebbe dovuto e Rossella era spaventata del suo pallore e della sua debolezza. Non appena il suo piede le permise d'infilare una scarpina, ella montò quindi il cavallo dello yankee. Con un piede in una staffa accorciata e l'altra gamba di traverso sul pomo della sella, ella si avviò attraverso i campi, verso Mimosa. Con sua sorpresa e piacere vide che la casa giallo-pallido era ancora ritta fra gli alberi di mimosa. Una felicità che le fece quasi venire le lagrime la invase quando vide uscire dalla casa le tre signore Fontaine che le diedero il benvenuto con baci ed esclamazioni di gioia. Ma quando i primi saluti affettuosi furono scambiati, e tutte si riunirono nella sala da pranzo, Rossella ebbe un brivido. Gli yankees non erano arrivati a Mimosa, perché questa era lontana dalla strada principale; perciò i Fontaine avevano ancora la loro casa e le loro provviste. Ma a Mimosa regnava lo stesso strano silenzio che opprimeva Tara e tutta la regione. Tutti gli schiavi, ad eccezione di quattro serve, erano fuggiti, spaventati dall'avvicinarsi degli yankees. Non un uomo in casa a meno che non si volesse calcolare come tale il bambino di Sally, il piccolo Joe appena fuori dalle fasce. Nella grande casa erano sole la nonna Fontaine, ormai settantenne, sua nuora che era sempre stata chiamata la signora giovane, benché avesse compiuto i cinquant'anni, e Sally che ne aveva appena compiuto venti. Quantunque isolate e prive di qualsiasi protezione, non mostravano terrore; probabilmente, - pensò Rossella - perché Sally e la signora giovane troppo temevano l'indomabile nonna che aveva sempre avuto occhi e lingua ugualmente acuti, per osare lamentarsi. Fra le tre donne non esisteva parentela di sangue, ed esse erano di età assai diversa; ma pure erano unite da un legame di spirito e di esperienza. Tutte portavano abiti neri tinti in casa, tutte erano tristi, preoccupate e amareggiate; ma questi sentimenti non trapelavano dai loro sorrisi e dalle loro parole. I loro schiavi erano fuggiti, il loro denaro non valeva nulla, il marito di Sally era morto a Gettysburg e anche la signora giovane era vedova, essendo il giovane dottor Fontaine morto di dissenteria a Vicksburg. Gli altri due ragazzi, Alex e Toni, erano nella Virginia; e nessuno sapeva se erano vivi o morti; il vecchio dottor Fontaine era rimasto con la cavalleria di Wheeler. - E quel vecchio pazzo, a settantatré anni cerca di fare il giovinotto benché sia pieno di reumatismi - disse la nonna, fiera di suo marito, con gli occhi che smentivano le parole aspre. - Sapete nulla di ciò che sta succedendo ad Atlanta? - chiese Rossella dopo che si furono messi a sedere. - Noi a Tara siamo completamente privi di ogni notizia. - Qui siamo nella stessa condizione, figliola - rispose la vecchia. - Sappiamo soltanto che Sherman si è finalmente impadronito della città. - Ed ora che sta facendo? Dove sta combattendo? - Come vuoi che tre povere donne isolate in campagna sappiano qualche cosa della guerra, quando da settimane non abbiamo visto né una lettera né un giornale? - replicò la vecchia aspramente. - Uno dei nostri negri ha parlato con un altro che ne aveva visto un terzo che era stato a Jonesboro. Hanno detto che gli yankees si erano acquartierati ad Atlanta per far riposare uomini e cavalli; ma non so se sia vero. - Pensare che eravate a Tara e non lo sapevamo! - esclamò la signora giovane. - Come mi rimprovero di non essere mai venuta a vedere! Ma qui c'è tanto da fare dopo che i negri sono andati via, che non mi sono mai potuta muovere. Avrei pur dovuto trovare il tempo; era un dovere. In verità credevamo che gli yankees avessero bruciato Tara, come hanno fatto per le Dodici Querce e per la casa di MacIntosh, e che i vostri si fossero rifugiati a Macon. Non immaginavamo mai che voi, Rossella, foste tornata. - E come potevamo pensare diversamente, se i negri del signor O'Hara, quando passarono di qui, erano tutti spaventati e ci dissero che gli yankees stavano per incendiare Tara? Una sera, poi, vedemmo i riflessi del fuoco da quella parte, e durarono per delle ore; e i nostri stupidi schiavi si spaventarono tanto che fuggirono. Che cosa fu bruciato? - Tutto il nostro cotone: un valore di centocinquantamila dollari - rispose Rossella amaramente. - Ringrazia Dio che non abbiano bruciato la tua casa - replicò la nonna, appoggiando il mento al suo bastone. - Il cotone si può coltivare ancora, mentre la casa non si ricostruisce. A proposito, avete cominciato a raccogliere il cotone, voialtri? - No, - rispose Rossella; - ma è quasi tutto rovinato. Non credo che ve ne sia piú di tre balle. E poi, tutti i nostri negri-contadini se ne sono andati e non c'è nessuno per raccoglierlo. - Dio mio, tutti i contadini andati via e nessuno per raccoglierlo! - scimmiottò la nonna, lanciando a Rossella uno sguardo satirico. - E le tue belle manine, e quelle delle tue sorelle? - Io raccogliere il cotone? - esclamò Rossella inorridita, come se la nonna avesse suggerito un delitto. - Come una contadina? Come una stracciona? Come le donne di Slattery? - Straccioni! Dio mio, com'è delicata e signorile questa generazione! Ti dirò che quando io ero una bambina, mio padre perse tutto il suo patrimonio, e io non ebbi paura di lavorare con le mie mani, anche nei campi, finché papà non mise assieme abbastanza denaro per comprare degli altri schiavi. Ho zappato la terra, ed ho raccolto il cotone, e se sarà necessario, lo farò ancora. - Ma allora - esclamò la nuora lanciando sguardi imploranti alle due ragazze perché la aiutassero a lisciare le penne rabbuffate della vecchia, - erano altri tempi, e adesso tutto è cambiato! - I tempi non cambiano mai quando c'è bisogno di lavorare - affermò la vecchia senza lasciarsi addolcire. - Ed io mi vergogno per te, Rossella, di sentirti parlare come se il lavoro onesto fosse una cosa indegna. Per cambiare argomento Rossella si affrettò a chiedere: - E che notizie dei Tarleton e dei Calvert? Si sono rifugiati a Macon? Hanno avuto la casa incendiata? - Gli yankees non sono arrivati a casa Tarleton, perché come la nostra, è lontana dalla strada maestra; ma sono andati dai Calvert e hanno rubato tutte le provviste e il pollame, e hanno fatto fuggire tutti i negri. Era Sally che aveva cominciato a parlare, ma la nonna l'interruppe. - Sicuro! Promisero a tutte le negre abiti di seta e orecchini d'oro! E Catina Calvert ha raccontato che alcuni soldati son partiti portando in groppa delle stupide negre. I risultati saranno dei bambini gialli, e non credo che il sangue yankee migliorerà. - Oh, mamma! - Non fare quella faccia scandalizzata, Giovanna. Siamo tutte maritate, no? E Dio sa che abbiamo visto dei bambini mulatti anche prima di ora! - Come mai non hanno bruciato la casa dei Calvert? - La casa è stata salvata per gli sforzi combinati della seconda signora Calvert e di quel suo sorvegliante yankee, Hilton - rispose la vecchia signora, la quale parlava sempre della ex- governante come della o seconda signora Calvert» benché la prima fosse oramai morta da venti anni. «Noi siamo simpatizzanti con l'Unione» - continuò con voce nasale e strascicata rifacendo l'accento yankee. Ed affermò che tutti i Calvert erano yankees. Pensare che il signor Calvert è morto nel Wilderness! E Raiford a Gettysburg e Cade è nella Virginia, con l'esercito! Catina era cosí mortificata che avrebbe preferito che la casa fosse incendiata! Disse che Cade diventerebbe idrofobo il giorno in cui, tornando a casa, venisse a saperlo. Ma questo è ciò che accade quando un uomo sposa una yankee: né orgoglio né dignità; non pensano che alla loro pelle... Ma come mai non hanno incendiato Tara, Rossella? Per un attimo Rossella tacque. Sapeva che la domanda seguente sarebbe: «E come state tutti? Come sta la cara mamma?» E non poteva, no, non poteva dire che Elena era morta. Sapeva che se avesse pronunciato quella parola dinanzi a quelle donne simpatiche sarebbe scoppiata in lagrime; e non doveva piangere. Non aveva pianto da quando era arrivata a casa; ed era certa che se aprisse la via alle lagrime, tutto il suo coraggio svanirebbe. Ma capiva anche che se taceva, le Fontaine non le perdonerebbero mai di aver loro nascosto quella notizia. - Suvvia, parla - proseguí con asprezza la vecchia. - Non lo sai? - Ecco: io sono arrivata a casa l'indomani della battaglia - rispose in fretta - e gli yankees erano andati via. Il babbo mi disse che... non avevano bruciato la casa perché Súsele e Carolene stavano tanto male che non si poteva trasportarle altrove. - È, la prima volta che sento dire che uno yankee si è comportato come si deve. - La vecchia signora sembrava si rammaricasse di dovere riconoscere un sentimento umano negli invasori. - E ora come stanno le ragazze? - Molto meglio; ma sono debolissime. - Poi, vedendo la domanda sulle labbra della vecchia signora, si affrettò a cambiare conversazione. - Volevo appunto... volevo chiedervi se potete prestarci qualche cosa da mangiare. Gli yankees hanno distrutto tutto, come uno stormo di cavallette. Ma se siete poco provviste, ditemelo francamente e... - Manda Pork con un carretto e ti daremo la metà di quello che abbiamo: riso, farina, prosciutto, qualche pollo. - No, questo è troppo! Io... - Non una parola! Non voglio sentirla. Altrimenti, perché si sarebbe vicini? - Siete cosí buona che non so... Ma ora debbo andare. A casa saranno preoccupati di non vedermi ancora tornare. La nonna si alzò bruscamente e prese Rossella per un braccio. - Voi due rimanete qui - disse alle altre. - Debbo dire una parola a Rossella. Aiutami a scendere gli scalini, Rossella. La signora giovane e Sally salutarono Rossella, promettendo di andare presto a trovarla. Erano divorate dalla curiosità di sapere di che cosa dovesse parlare la nonna; ma sapevano che questa non lo avrebbe mai detto. Con la mano sulla briglia del cavallo, Rossella attendeva, col cuore angosciato. - Ora dimmi: - cominciò la vecchia - che cosa c'è che non va bene a Tara? Che cosa ci nascondi? Rossella fissò gli occhi acuti che la guardavano e comprese che potrebbe parlare senza piangere. Nessuno piangeva dinanzi alla nonna Fontaine, a meno che non ne avesse il permesso da lei. La mamma è morta - disse piano. La mano appoggiata al suo braccio si strinse e le palpebre grinzose ebbero un battito. - L'hanno uccisa gli yankees? - È morta di tifo. Il giorno prima del mio arrivo. - Non ci pensare. - La voce era severa; e Rossella vide che la nonna inghiottiva con sforzo. - E tuo padre? - Il babbo è... il babbo non è piú lo stesso. - Che vuoi dire? È ammalato? - Il colpo... è cosí stranito... non è... - Non dirmi che non è piú in sé. Il colpo gli ha toccato il cervello? Fu un sollievo per lei udire enunciare cosí schiettamente la verità. Com'era buona la vecchia a non dirle parole di simpatia che l'avrebbero fatta piangere! - Sí - rispose con tristezza - ha perduto il senno. Sembra come addormentato e a volte non si ricorda che la mamma è morta. Rimane delle ore ad aspettarla pazientemente, lui che era cosí impaziente! Ma è peggio quando si ricorda... Improvvisamente balza in piedi e corre fuori di casa, fino al nostro cimitero. Ritorna trascinandosi, con gli occhi pieni di lagrime e dice: «Caterina Rossella, la mamma è morta. La mamma è morta». E lo ripete all'infinito, tanto che mi par di impazzire. Di notte, qualche volta, sento che la chiama; allora scendo dal letto e vado a dirgli che è andata a trovare uno schiavo ammalato. E lui brontola perché dice che si strapazza sempre per curare gli altri. È difficile farlo tornare a letto: è come un bambino. Come vorrei che il dottor Fontaine fosse qui! So che farebbe qualche cosa per il babbo. E anche Melania ha bisogno del medico. Non si è rimessa come dovrebbe dopo il parto e... - Melly... un bambino? Ed è con te? - Sí. - E perché non è a Macon con sua zia e i suoi parenti? Non mi pareva che tu avessi gran simpatia per lei, benché fosse sorella di Carlo. Andiamo, via, raccontami. - È un po' lungo, nonna Fontaine. Non volete rientrare in casa e mettervi a sedere? - Posso stare in piedi - fu la breve risposta. - E se racconti la storia dinanzi alle altre, si mettono a piangere e ti fanno commuovere e dopo ti senti male. Avanti, racconta. Rossella cominciò semplicemente a narrare l'assedio e lo stato di Melania; e mentre andava avanti, trovava negli occhi che la fissavano le parole di sgomento e di orrore che da principio le erano mancate. Tutto le tornò in mente: il calore estenuante della giornata in cui era nato il bimbo, il terrore, la fuga, l'abbandono di Rhett. Parlò dell'oscurità della notte, dei fuochi che potevano essere di amici o di nemici, degli uomini e dei cavalli morti che aveva incontrato lungo la strada, delle rovine fumiganti, della fame, della desolazione, della paura che anche Tara fosse bruciata. - Credevo che arrivando a casa avrei deposto il tremendo fardello. Credevo che mi fosse già accaduto quanto di peggio poteva accadere; ma quando seppi che era morta, compresi che cosa era veramente il peggio. Abbassò gli occhi e attese che la nonna dicesse una parola. Il silenzio era cosí prolungato che temette di non essere stata compresa. Finalmente udí la voce; parlava con un tono di bontà assolutamente nuovo. - Figliuola, è male per una donna trovarsi di fronte al peggio che le può accadere, perché dopo di questo non ha piú paura di nulla. Ed è male, per una donna, non aver paura di nulla. Credi che non capisca tutto quello attraverso cui sei passata? Ho capito benissimo. Avevo circa la tua età quando avvenne la rivolta degli indiani, dopo il massacro del Forte Mims... - la sua voce era stranamente lontana - e riuscii a nascondermi fra i boschi e vidi la nostra casa incendiata e i miei fratelli e sorelle scotennati dagli indiani. E io non potevo fare altro che supplicare il Cielo perché la luce delle fiamme non rivelasse il mio nascondiglio. Trascinarono fuori mia madre e la uccisero a pochi metri dal luogo dove io ero sdraiata nel sottobosco. E anche a lei tolsero il cuoio capelluto; e ogni indiano le ficcava il suo tomahawk nel cranio. Io ero la beniamina della mamma... e vidi tutto questo. La mattina mi avviai all'accampamento piú vicino, che era a circa trenta miglia. Mi ci vollero tre giorni, attraverso le paludi e gli indiani; i nostri, quando li trovai, mi credettero pazza... Là conobbi il dottor Fontaine, che si occupò di me. Sono passati cinquant'anni; e da allora non ho mai piú avuto paura di nulla, perché sapevo che nulla di peggio potrebbe ormai accadermi. Dio vuole che le donne siano creature timide; in una donna che non ha paura è qualche cosa di innaturale... Rossella, cerca che ti rimanga sempre qualche cosa di cui temere... e cerca che ti rimanga qualche cosa da amare... Tacque e rimase con gli occhi fissi, come se rivedesse il giorno in cui aveva avuto paura, mezzo secolo prima. Rossella si mosse impaziente. Aveva creduto che la nonna l'avrebbe compresa e forse l'avrebbe aiutata a risolvere i suoi problemi. Ma, come tutti i vecchi, si era messa a parlare di cose avvenute tanto e tanto tempo prima; cose che non interessavano nessuno. Si pentí di essersi confidata a lei. - Ora vai, bambina; altrimenti a casa staranno in pensiero - riprese a un tratto la vecchia signora. - Manda Pork col carretto oggi nel pomeriggio... E non credere di poter deporre il tuo fardello, perché non lo puoi. Lo so.

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Parlava poco, non dimostrava energia, non aveva l'aria d'interessarsi a nulla, ma sapeva tutto ciò che accadeva a Tara e faceva un'infinità di cose silenziosamente, con pazienza e abilità. Benché avesse una sola gamba lavorava piú veloce di Pork. E, cosa che sembrava miracolosa a Rossella, riusciva perfino a far lavorare Pork. Quando la mucca ebbe la colica e il cavallo si ammalò di un male misterioso che minacciava di ucciderlo, Will rimase intere notti a vegliarli e li salvò. Aveva conquistato il rispetto di Rossella, mostrandosi abile commerciante: infatti usciva la mattina con uno o due cestini di mele, patate dolci ed altri legumi e tornava con sementi, stoffe, farina, ed altre cose che ella non sarebbe mai stata capace di procurarsi, per quanto fosse brava. A poco a poco era diventato un membro della famiglia, e dormiva su una branda nel piccolo spogliatoio che precedeva la camera di Geraldo. Non parlava di lasciare Tara; e Rossella si guardava bene dall'accennarne, per timore di sentirsi rispondere che presto sarebbe partito. Ed era talmente comodo avere un uomo in casa! Se Carolene avesse avuto un filo di cervello, si sarebbe accorta che Will s'interessava a lei. Rossella sarebbe stata eternamente grata a Will, se egli le avesse chiesto la mano della sua sorellina. Senza dubbio, prima della guerra, Will non sarebbe stato un partito desiderabile. Era un semplice fattore, di educazione mediocre, con scarsa grammatica e ignorante di molte delle finezze che gli O'Hara erano abituati a trovare in un gentiluomo. Rossella si chiese infatti se si poteva chiamarlo un gentiluomo; e decise di no. Melania lo difendeva ardentemente, dicendo che chiunque aveva la bontà di cuore di Will e la sua generosità verso gli altri non poteva che essere di buona famiglia. Certo Elena sarebbe svenuta al pensiero che una sua figliuola sposasse un uomo simile; ma la necessità aveva allontanato Rossella da molti degli insegnamenti di sua madre. Gli uomini erano scarsi, le ragazze si dovevano maritare e Tara aveva bisogno di un uomo. Ma Carolene, sempre piú sprofondata nel suo libro di preghiere, trattava Will come un fratello e non gli badava piú che tanto. «Se Carolene avesse un po' di gratitudine per ciò che ho fatto per lei, lo sposerebbe per non farlo andar via» pensava Rossella indignata. «Ma no; deve invece passare il tempo a piangere uno stupido ragazzo che probabilmente non ha mai pensato seriamente a lei.» Will rimase dunque a Tara senza che ella sapesse perché; egli si rivolgeva con deferenza a Geraldo, ma considerava Rossella come il vero capo della casa. Ella approvò l'idea di noleggiare il cavallo, benché questo per la famiglia volesse dire rimaner temporaneamente privi di un mezzo di trasporto. Súsele ne sarebbe particolarmente irritata, perché la sua grande gioia consisteva nell'andare a Jonesboro o a Fayetteville con Will, quando questi vi si recava per affari. Approfittava dell'occasione per far visita ai vecchi amici, e ascoltare tutti i pettegolezzi della Contea; e si sentiva nuovamente la signorina O'Hara di Tara. Afferrava con gioia ogni opportunità di lasciare la piantagione, e di darsi delle arie con le persone che ignoravano che essa rastrellava e preparava i riquadri dei legumi nell'orto. Melania li raggiunse sulla veranda col bimbo in braccio; e allargando sul pavimento una vecchia coperta vi posò sopra il piccolo Beau. Benché felice, nell'attesa di Ashley, Melania era sempre eccessivamente magra e pallida. Il vecchio dottor Fontaine aveva detto che si trattava di disturbi femminili; e si trovò d'accordo col dottor Meade nell'affermare che essa non avrebbe mai dovuto aver figli; un secondo parto, poi, la ucciderebbe. - Oggi a Fayetteville - disse Will - ho trovato una cosa curiosa che ho pensato vi possa interessare, e l'ho portata a casa. - Frugò nella tasca dei calzoni e ne trasse un biglietto di banca della Confederazione. - Ve ne sono per tremila dollari nel baule del babbo - sospirò Rossella. - E Mammy mi scongiura di darglieli per chiudere le fessure delle finestre e non lasciar passare il vento. Credo che finirò per farlo; almeno serviranno a qualche cosa. - No, Rossella. - fece Melania - Conservali per Wade. Un giorno, forse, ne sarà fiero. - Oh, io spero che quando Wade sarà grande, avrò delle banconote di valore da dargli, invece di questi stracci. Will che si era messo a giocare col piccolo Beau sulla coperta, alzò gli occhi e facendosi schermo con una mano, guardò verso il cancello. - Arriva gente - disse strizzando le palpebre. - Un altro soldato. Rossella seguí il suo sguardo e vide uno dei soliti soldati barbuti, che si avanzava lentamente sotto i cedri; un uomo coperto da una lacera uniforme mista di grigio e di turchino, con la testa china e i piedi che si trascinavano stanchi. - Speravo che avessimo finito coi soldati - disse Rossella - Auguriamoci che questo non sia troppo affamato. - Avrà fame di certo - disse Will brevemente. Melania si alzò. - Dirò a Dilcey di aggiungere un piatto, e pregherò Mammy che non faccia svestire quel disgraziato troppo bruscamente, secondo il suo solito, e... Si fermò cosí improvvisamente che Rossella si volse a guardarla. Melania si era portata la mano alla gola come se si sentisse soffocare. E Rossella vide che il suo volto era pallidissimo e gli occhi neri si erano dilatati enormemente. «Ora sviene» pensò Rossella balzando in piedi e afferrandola per un braccio. Ma in un attimo Melania si era svincolata e aveva disceso i gradini. Volò per il viale inghiaiato lieve come un uccello, con le gonne ondeggianti e le braccia protese. E Rossella comprese la verità, con la rapidità della folgore. Indietreggiò per appoggiarsi alla parete della veranda, mentre l'uomo alzava il volto coperto di una sudicia barba bionda e si fermava guardando verso la casa, come se fosse troppo stanco per muovere ancora un passo. Il suo cuore balzò, si fermò, riprese a battere, mentre Melly si gettava fra le braccia del soldato gridando in modo incoerente. Rossella fece due passi in avanti, come rapita, ma fu trattenuta dalla mano di Will che le aveva afferrato la sottana. - Non li turbate - disse calmo. - Lasciatemi, sciocco! Lasciatemi, è Ashley! Egli non rallentò la stretta. - Dopo tutto, è il marito di lei, non è vero? - chiese con calma; e abbassando lo sguardo su di lui in un misto di gioia e di furia impotente, Rossella vide nella tranquilla profondità dei suoi occhi, comprensione e pietà.

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A cena, sulla tavola di zia Pitty, apparve l'inevitabile farinata di granturco e i piselli secchi; mangiandoli Rossella giurò a se stessa che queste due pietanze non apparirebbero mai piú sulla sua tavola quando ella avesse nuovamente denaro. E qualunque prezzo dovesse pagare, il denaro lo avrebbe; piú di quanto le occorreva per le tasse di Tara. Anche se dovesse commettere un delitto. Alla luce gialla della lampada, chiese a zia Pitty notizie delle sue finanze, nell'assurda speranza che la famiglia di Carlo potesse prestarle ciò che le occorreva. Pitty s'immerse nei particolari delle sue disgrazie, piangendo a calde lagrime. Non sapeva che fine avevano fatto le sue fattorie, le proprietà in città, e il denaro liquido; ma certo tutto era sparito. Questo almeno le aveva detto suo fratello Enrico. Non vi era piú altro che la casa dove abitava; e Pitty non si fermò neanche a pensare che quella casa non era mai stata sua, ma era proprietà di Melania e Rossella. Zio Enrico riusciva a stento a pagare le imposte di quella casa. Inoltre le dava ogni mese qualche cosa per vivere; e benché ciò la umiliasse, ella era costretta ad accettare. - Enrico dice che non sa come fare, ma probabilmente mentisce, e ha del denaro; soltanto non vuole darmene. Rossella sapeva che zio Enrico non mentiva. Le poche lettere scambiate con lui a proposito della proprietà di Carlo, l'avevano confermato. Il vecchio avvocato si batteva coraggiosamente per salvare la casa e il terreno su cui un tempo sorgeva il magazzino, perché Wade e lei recuperassero ancora qualche cosa dopo il naufragio. «No, non ha denaro» pensò cupamente Rossella. «Bisogna cancellare lui e zia Pitty dalla mia lista. È inutile, non rimane che Rhett. Ma bisogna che non vi pensi ora... Debbo fare in modo che Pitty ne parli, sicché io possa suggerirle d'invitarlo per domani.» Sorrise e strinse le mani grassocce di zia Pitty tra le sue. - Cara zietta, non parliamo di cose spiacevoli come il denaro. Raccontami invece le notizie dei vecchi amici. Come stanno la signora Merriwether e Maribella? Ho saputo che il marito di Maribella è tornato a casa. E gli Elsing, e i Meade? Pittypatt fu felice di mutare argomento e smise subito di piangere. Diede notizie particolareggiate sui vecchi vicini: che cosa facevano, che cosa mangiavano e come si vestivano. Raccontò con orrore che prima del ritorno di Renato Picard, la signora Merriwether e la figlia vivevano cuocendo delle focacce e vendendole ai soldati yankee. Figurarsi! A volte vi erano due dozzine di yankees nel cortile dei Merriwether ad aspettare che le focacce uscissero dal forno. Ora che Renato era a casa, tutti i giorni andava con un vecchio carretto al campo yankee e vendeva focacce e biscotti ai soldati. La signora Merriwether diceva che appena avesse un po' piú di denaro, aprirebbe una pasticceria in città. Pitty non voleva criticarla, ma... - Quanto a me, preferirei morir di fame piuttosto che avere un simile commercio con gli yankees. La signora Meade e il dottore avevano trovato la loro villetta distrutta dall'incendio e non avevano né il denaro né la voglia di ricostruirla, ora che i figliuoli erano morti. La signora Meade diceva che ne avrebbe fatto a meno; a che prò avere una casa quando non si avevano figli né nipotini? Erano dunque andati ad abitare con gli Elsing, che avevano rifabbricato la parte della casa che era crollata. Anche la coppia Whiting aveva là una camera; e la signora Bonnell parlava di andarvi lei pure, se riusciva ad affittare la sua casetta a un ufficiale yankee con la famiglia. - Ma come fanno a entrarci tutti? - trasecolò Rossella. - La signora Elsing e Fanny dormono in salotto - spiegò Pitty la quale conosceva a menadito la sistemazione di tutti i suoi amici - e Ugo in soffitta. La signora Elsing li chiama «ospiti paganti»; ma - e qui Pitty abbassò la voce - in realtà non sono che dei pensionanti. Pensa: la signora Elsing ridotta a dirigere una pensione! Non è orribile? - Trovo che è ammirevole - rispose brevemente Rossella. - Vorrei soltanto aver avuto degli ospiti paganti a Tara in tutto quest'anno, invece di tanti invitati. Forse ora non saremmo cosí mal ridotti! - Come puoi dire una cosa simile? Chi sa che cosa direbbe la tua povera mamma all'idea di far pagare l'ospitalità di Tara! La signora Elsing è stata costretta a farlo, perché non riusciva a tirare avanti coi suoi lavori di cucito, le pitture di Fanny su porcellana e Ugo che andava in giro vendendo legna da ardere. Figurati: Ugo che aveva studiato da avvocato! Mi viene da piangere, vedendo che i nostri ragazzi sono costretti a questo. Rossella pensò ai suoi lavori agricoli, all'aratro fra le sue mani incallite, e trovò che Ugo Elsing non meritava uno speciale compatimento. Che vecchia ingenua era rimasta Pitty! - Perché non fa l'avvocato? Non è piú possibile ad Atlanta? - Oh, sí! Anzi c'è tanto da fare. Una quantità di citazioni perché nessuno sa piú dove cominciano e dove finiscono le proprietà. Ma non si ricevono compensi facendo questo, perché nessuno ha denaro per pagare... Ah, a momenti dimenticavo! Te l'ho scritto che Fanny Elsing si sposa domani sera? Naturalmente bisognerà andare. Spero che tu abbia un altro vestito. Non è brutto questo, ma è un po' sciupato. Sí?... hai un bel vestito? Sono contenta, perché sarà il primo matrimonio elegante dopo la caduta di Atlanta; con dolci, vino e ballo. Non so come faranno gli Elsing a fare tante spese! - E chi sposa Fanny? Credevo che dopo la morte di Dallas McLure... - Non devi criticarla. Certo non tutte rimangono fedeli al ricordo come sei tu a quello del povero Carlo. Aspetta... Come si chiama? Non mi ricordo... Conosco sua madre perché siamo state a scuola insieme. Forse... Perkins? Parkison... Sí, sí, Parkison. Di Sparta. Una buona famiglia, ma... Ecco, non so come fa Fanny a sposarlo! - Perché? Forse beve o... - Dio mio, no. È un ottimo figliuolo; ma è stato ferito... non so, lo scoppio di una granata... lo ha ferito alle gambe... Insomma, cammina tutto sciancato e questo gli dà un aspetto molto volgare. - Le ragazze devono bene sposare qualcuno. - No davvero - ribatté Pitty drizzando la cresta. - Io non ne ho sentito affatto il bisogno. - Ma chi parla di te, tesoro! Tutti sanno come eri circondata e come lo sei ancora! Mi ricordo il giudice Carlton che ti faceva gli occhi dolci... - Smettila, Rossella; quel vecchio stupido! - rise Pitty, tornando di buon umore. - Ma certo Fanny poteva fare una scelta migliore. Non credo che abbia dimenticato il povero Dallas, ma davvero non è come te, tesoro. Tu avresti potuto rimaritarti dieci volte, e sei rimasta fedele al povero Carlo. Lo abbiamo detto tante volte, Melly ed io, mentre tutti quanti affermavano che eri una civetta senza cuore. Rossella passò sopra alla mancanza di tatto di questa confidenza; e abilmente condusse Pitty a parlare dell'uno o dell'altro, attendendo con impazienza di poter giungere a parlare di Rhett. Zia Pitty chiacchierava, felice di avere qualcuno che l'ascoltasse. Le cose ad Atlanta andavano malissimo, diceva; tutto a causa dei sistemi usati dai repubblicani. - Figurati, vogliono accordare il voto ai negri! Hai mai sentito una cosa simile? Quantunque... non so... Ora che ci penso, mi pare che zio Pietro abbia molto piú buon senso di tutti i repubblicani che ho conosciuto ed è molto piú educato. Ma quest'idea ha messo sottosopra tutti i negri. Alcuni di loro sono terribilmente insolenti. In istrada, perfino di pieno giorno, spingono le signore giú dal marciapiedi nel fango. E se un gentiluomo osa protestare lo arrestano e... A proposito, ti ho detto che il capitano Butler è in prigione? - Rhett Butler? Rossella fu grata a zia Pitty di averle risparmiato di essere la prima a pronunciare quel nome. - Ma sicuro! - L'eccitazione coloriva le guance di Pitty. - È in prigione per aver ucciso un negro; e vogliono impiccarlo! Pensa, il capitano Butler impiccato! Per un attimo Rossella sentí che il respiro le mancava, e non poté fare altro che fissare la vecchia e grassa signora che era evidentemente soddisfatta dell'effetto prodotto. - Non sono ancora riusciti a provarlo, ma certo qualcheduno ha ucciso il negro che aveva insultato una donna bianca. E gli yankees sono sottosopra, perché recentemente sono stati uccisi parecchi negri. Non hanno prove contro il capitano Butler; ma desiderano dare un esempio; cosí dice il dottor Meade. E dice anche che se lo impiccano, sarà la prima buona azione degli yankees; ma veramente io non so... Pensare che il capitano Butler era stato qui una settimana fa e mi ha portato la piú bella quaglia del mondo! Mi ha anche chiesto di te, dicendo che temeva di averti offesa durante l'assedio e che tu non gli avresti mai perdonato. - E quanto tempo starà in prigione? - Chi lo sa? Forse finché lo impiccheranno; ma può darsi che non riescano a provare che è colpevole d'omicidio. Però gli yankees non si preoccupano molto se una persona è colpevole o no, quando si tratta d'impiccarla. Sono molto in pensiero... - Pitty abbassò la voce misteriosamente - per il Ku Klux Klan. L'avete anche voialtri in campagna? Sono sicura di sí; ma Ashley non ve ne avrà parlato. Vanno in giro la notte vestiti come fantasmi e vanno dai «carpetbaggers» che hanno rubato del denaro o dai negri che si sono mostrati sfacciati. A volte si limitano a spaventarli e ad imporre loro di lasciare Atlanta. Ma quando non si comportano come essi vogliono, li frustano e magari li uccidono. E li lasciano in un luogo dove possono essere trovati facilmente col biglietto del Ku Klux appuntato addosso... Gli yankees sono molto irritati di questo e vogliono dare un esempio... Ma Ugo Elsing mi ha detto che non crede che impiccheranno il capitano Butler, perché sono convinti che egli sappia dov'è il denaro e non voglia dirlo; e cercano di farlo parlare. - Che denaro? - Non lo sai? Non te l'ho scritto? Figúrati che quando il capitano Butler è tornato qui con le tasche piene di quattrini, mentre nessuno di noi sapeva come fare per mangiare, tutti quanti cominciarono a mormorare. Erano furibondi perché quello speculatore che aveva sparlato della Confederazione era cosí ricco, mentre tutti quanti erano poveri. Nessuno osava chiedergli come aveva fatto per mettere a parte quel denaro; soltanto io osai accennargliene. Egli rise e mi rispose: «Certo non in un modo onesto!» Sai che non si può mai farlo parlare ragionevolmente! - Ma era notorio che guadagnava molto col contrabbando... - Senza dubbio, tesoro. Ma è una miseria, a confronto di quello che possiede realmente! Tutti, compresi gli yankees, sono convinti che egli abbia nascosto chi sa dove dei milioni in oro, appartenenti al governo della Confederazione. - Milioni... in oro? - Diamine, tesoro, dove vuoi che sia andato tutto l'oro del nostro paese? Qualcuno deve averlo avuto; e il capitano Butler è uno di costoro. Gli yankees credevano che lo avesse portato via il presidente Davis quando lasciò Richmond; ma quando lo catturarono, il pover'uomo non aveva neanche un quattrino. E a guerra finita, si è detto che i contrabbandieri del blocco dovevano averlo portato via, e si guardavano bene dal parlare. - Milioni... in oro! Ma come... - Non portò forse il capitano Butler migliaia di balle di cotone a Nassau e in Inghilterra per venderle per conto del governo? - chiese Pitty trionfante. - Non solo cotone suo, ma anche cotone del governo? E ti ricordi a che prezzi arrivò il cotone in Inghilterra in quel periodo! Pare che Butler fosse agente del governo; che dovesse vendere il cotone ed acquistare armi per noi. In breve: quando il blocco si fece troppo stretto, egli non poté piú portare dentro armi; e siccome non poteva avere speso neanche la centesima parte del denaro riscosso per il cotone, sono semplicemente milioni di dollari depositati nelle banche inglesi da Butler e da altri come lui, in attesa che il blocco si allentasse. E certamente il denaro non è stato depositato a nome del governo ma in proprio... Tutti ne hanno parlato, dopo la resa, criticando severamente questa gente che allora faceva il contrabbando attraverso il blocco; e quando gli yankees hanno arrestato Butler sotto l'imputazione di avere ucciso il negro, le voci debbono essere giunte anche al loro orecchio; infatti hanno chiesto a Butler dov'è il denaro. Perché, sai, gli yankees dicono che tutti i fondi della Confederazione ora appartengono a loro. Ma il capitano Butler dice che non sa nulla... E il dottor Meade dice che finiranno con l'impiccarlo; ma che l'impiccagione è una pena troppo mite per un ladro e un profittatore... Dio, cara, che faccia! Ti senti male? Ti ha fatto impressione sentire questa storia? Sapevo che era un tuo spasimante, ma credevo che la cosa fosse finita da un pezzo. Personalmente non mi piaceva che ti facesse la corte, perché è un tale furfante... - Non è mio amico - profferí Rossella con sforzo. - Anzi ebbi una disputa con lui durante l'assedio, dopo che tu eri andata a Macon. E... dov'è? Nel deposito degli attrezzi dei pompieri vicino alla piazza. - Nel deposito...? Zia Pitty rise. - Sí; gli yankees lo usano come carcere militare. I soldati sono accampati nelle tende che hanno collocato intorno alla piazza; e siccome il deposito è a una delle estremità, hanno stabilito lí le prigioni. A proposito: devo raccontarti una cosa buffa riguardo al capitano Butler... non so piú chi me l'ha detta. Dunque: ti ricordi com'era elegante e accurato? Nel deposito non gli hanno permesso di fare il bagno. E siccome lui insisteva ogni giorno, finalmente lo hanno condotto fuori dalla cella nel cortile, e c'era un abbeveratoio per i cavalli dove tutto il reggimento si era lavato nella stessa acqua! E volevano che si bagnasse lí dentro; allora lui rispose che preferiva il proprio sudiciume meridionale al sudiciume yankee! E... Rossella udiva la voce continuare gaiamente; ma non distingueva piú le parole. Non riusciva a pensare che due cose: Rhett aveva piú denaro di quanto lei credesse, ed era in prigione. Il fatto che quell'uomo fosse in carcere e forse in procinto di essere impiccato mutava alquanto la prospettiva, rendendola anche piú brillante. A lei, in verità, non importava nulla che Rhett andasse a penzolare all'estremità di una forca. Condivideva, in fondo, l'opinione del dottor Meade... Ma se riusciva a sposarlo mentre era in carcere, tutti i milioni diventerebbero suoi il giorno in cui egli fosse impiccato. E se il matrimonio non era possibile, forse ella riuscirebbe ad ottenere un prestito con la promessa di sposarlo quando fosse liberato, o promettendogli... sí, promettendogli qualunque cosa! E se lo impiccavano, il giorno della restituzione non verrebbe mai. Per un momento inorridí al pensiero di diventar vedova per il benigno intervento del governo yankee. Milioni in oro! Poter riparare Tara, ingaggiare degli agricoltori, piantare miglia e miglia di cotone... E avrebbe dei bei vestiti, e tutto quello che le faceva piacere, e mangerebbe a volontà; e cosí anche Súsele e Carolene. E Wade avrebbe dei buoni cibi e ingrasserebbe un pochino; avrebbe dei vestiti caldi e una governante, e piú tardi andrebbe all'università... invece di crescere scalzo e ignorante come un boscaiolo! E potrebbe far curare il babbo da un buon medico; e per Ashley... Dio, quante cose potrebbe fare per Ashley! Il monologo di zia Pitty si interruppe bruscamente con un: - Ebbene, Mammy?, e destandosi dai suoi sogni Rossella vide Mammy sulla soglia, con le mani sotto al grembiule, che la fissava col suo sguardo penetrante. Chi sa da quanto tempo si trovava lì, e chi sa quante cose aveva udite e osservate! - Miss Rossella sembrare stanca. Essere meglio che andare a letto. - Sí, sono stanca - e Rossella si alzò e guardò Mammy con uno sguardo infantile e un po' smarrito - e temo che mi stia anche venendo un raffreddore. Zia Pitty, ti dispiace se domani rimango a letto e non ti accompagno a fare le tue visite? Vorrei proprio andare al matrimonio di Fanny domani sera; e se il mio raffreddore peggiora, non potrò uscire. Invece, con una giornata di letto me la caverò. L'espressione di Mammy mutò; ella apparve preoccupata quando prese le mani di Rossella e la guardò in faccia. Era pallida e disfatta; tutta la sua eccitazione era caduta. - Avere mani di ghiaccio, tesoro. Venire subito a letto. Io preparare tè di sassifraga e portare mattone caldo per farti sudare. - Dio, come sono sciocca! - esclamò la vecchia signorina balzando in piedi e accarezzando il braccio di Rossella. - Ho chiacchierato senza pensare alla tua stanchezza... Domani resterai a letto a riposarti e io verrò a farti compagnia... Oh Dio, no; non posso! Ho promesso alla signora Bonnell di andare da lei. Ha la grippe, e anche la sua cuoca sta poco bene. Mammy, sono felice che tu sia qui; cosí domattina verrai con me ad aiutarmi. Mammy accompagnò Rossella su per le scale, borbottando contro il raffreddore e le scarpine troppo sottili e altre osservazioni del genere. Rossella fu molto contenta pensando che forse la mattina dopo potrebbe liberarsi di Mammy e andare alla prigione yankee per vedere Rhett. Mentre saliva le scale sentì in distanza il brontolio del tuono che le ricordò il rombo lontano delle cannonate. Rabbrividì. Per tutta la vita il tuono le ricorderebbe ormai il cannone e la guerra.

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Mammy era dinanzi al porticato quando Franco aiutò Rossella a scendere dal carrozzino. Evidentemente era lí da qualche tempo, perché il suo turbante era umido e lo scialle che si stringeva alle spalle era macchiato di pioggia. Il suo volto grinzoso era pieno di collera e di apprensione e il labbro inferiore piú sporgente di quanto Rossella ricordasse di averlo mai visto. Ella si affrettò a scrutare Franco; ma quando vide chi era, il suo viso mutò espressione: piacere, sorpresa e un lieve senso di colpevolezza. Andò incontro a Franco con sorrisi e inchini, compiaciuta quando egli le strinse la mano. - Essere molto bello vedere persone conoscenti. Come stare, mist' Franco? Avere ottimo aspetto! Se io sapere che miss Rossella essere con voi, non avere avuto tanto pensiero. Quando essere tornata a casa e aver visto che essere uscita, avere grande preoccupazione di saperla sola in giro per questa città piena di miserabili negri liberati. Perché non avermi detto che uscire, tesoro? Con tuo raffreddore! Rossella ammiccò timidamente a Franco, il quale, malgrado la cattiva notizia ricevuta pochi minuti prima, sorrise comprendendo che ella gli chiedeva il silenzio e lo ammetteva in una graziosa cospirazione. - Corri a prepararmi degli abiti asciutti, Mammy. E un tè caldo. - Tuo vestito nuovo tutto rovinato! - brontolò Mammy. - Adesso io asciugarlo e spazzolarlo perché tu potere mettere stasera per il matrimonio. Rientrò in casa e Rossella si appoggiò a Franco mormorando: - Venite a cena, stasera. Siamo tanto sole. E poiché dobbiamo andare al matrimonio, ci farete da cavaliere! E vi prego, non dite nulla a zia Pitty di... di Súsele. Le dareste un grande dolore; ed io non posso sopportare l'idea che mia sorella... - No, no! State tranquilla! - Siete stato cosí buono con me, oggi, e mi avete fatto tanto bene. Sento che mi è tornato il coraggio. - Gli strinse la mano e lo lasciò, non senza aver fatto manovrare tutta l'artiglieria dei suoi occhi. Mammy, che aspettava dietro alla porta, le lanciò un'occhiata indefinibile e la seguí ansimando per le scale. Le tolse senza parlare gli abiti che pose ad asciugare sulle sedie e la mise a letto rincalzandole le coperte. Dopo averle portato una tazza di tè bollente e un mattone caldo avvolto in un pezzo di flanella, la guardò e poi cominciò, con una sfumatura di scusa che la giovine non aveva mai udito nella sua voce: - Perché, agnellino mio, non avere detto a tua Mammy cosa voler fare? Io non avrei fatto tutta questa strada fino ad Atlanta. Io essere troppo vecchia e troppo grassa per andare in giro. - Che vuoi dire? - Tesoro, tu non potermi ingannare perché io ti conoscere. Io vedere viso di mist' Franco e tuo viso e leggere come parroco leggere Bibbia. E io avere sentito che tu avere parlato piano a lui di miss Súsele. Se io avere saputo che tu avere da fare con mist' Franco, io essere rimasta a casa dove stare meglio! - Insomma - e Rossella si avvolse meglio nelle coperte, comprendendo che era inutile tentare di distogliere Mammy dalla traccia - che cosa credi che sia successo? - Io non sapere, ma io aver visto tuo viso ieri. E ricordare che miss Pitty avere scritto a miss Melly che quel farabutto Butler avere tanto denaro e io non dimenticare quello che sento. Ma mist' Franco essere gentiluomo anche se non essere tanto bello. Rossella le lanciò uno sguardo aspro che Mammy ricambiò con calma onniscienza. - E ora che farai? Andrai a raccontarlo a Súsele? - Io aiutare te per mist' Franco se farti piacere, in tutti i modi che potere. Rossella rimase tranquilla, mentre Mammy si muoveva per la stanza, ben contenta che fra loro non occorressero troppe parole. Né domande né spiegazioni né rimproveri. Mammy aveva compreso e taceva. I suoi occhi variegati vedevano sino in fondo, con la buona fede dei selvaggi e dei bambini, non turbata da questioni di coscienza quando un pericolo minacciava la sua beniamina. Rossella era la sua piccina; e se la sua piccina voleva qualche cosa, anche se questa apparteneva ad un'altra persona, Mammy l'aiuterebbe ad ottenerla. Rossella era la figlia di miss Elena; quindi Mammy diventava sua alleata senza ombra di esitazione. Il mattone ardente aveva riscaldato i piedi impietriti di Rossella, la quale sentí ora infiammarsi la speranza che le era appena apparsa durante il suo ritorno a casa. La forza le ritornava insieme al calore e a una nuova eccitazione che le diede il desiderio di ridere forte. «Non sono ancora sconfitta» pensò esultante. Poi disse: - Dammi lo specchio, Mammy. - Tenere spalle sotto coperte - ordinò la negra porgendole lo specchio con un sorriso sulle labbra tumide. Rossella si guardò. - Sembro uno spettro; e ho i capelli ispidi come la coda in un cavallo. - Essere sempre bella. - Hum... Piove forte? - A catinelle. - Mi dispiace, ma bisogna che tu vada in città per me. - Piovere troppo. - Se non vai tu, vi andrò io. Ho bisogno di una bottiglia d'acqua di Colonia. Per lavarmi i capelli. E poi un vasetto di gelatina di cotogne per lisciarli. - Io non lavare tuoi capelli con questo tempo umido e tu non mettere acqua di Colonia come quelle donne... Io non lasciarti fare questo. - Oh sí; lo farò. Guarda nel mio portamonete: c'è quella moneta d'oro da cinque dollari. E... giacché sei in città, Mammy, mi prenderai anche... hm... un vasetto di «rouge». - Che cosa? - chiese Mammy sospettosa. Rossella la guardò con una freddezza che era ben lungi dal provare. Non si poteva mai sapere qual era il sistema migliore per turlupinare Mammy. - Non ci pensare. Domanda cosí. - Io non comprare quello che non sapere cosa essere. - Dio, come sei curiosa! È belletto. Per il viso. Non stare lí come una mummia e sbrigati. Vai. - Belletto! - proferí Mammy. - Per il viso! Ah, tu non essere tanto grande che io non poterti picchiare! Non essere mai stata cosí scandalizzata in vita mia! Tu essere impazzita! Miss Elena rivoltarsi nella sua tomba in questo momento! Dipingere tuo viso come una... - Sai benissimo che la nonna Robillard si è sempre imbellettata e... - Sissignora; e portare solo una sottoveste e quando essere bagnata restare appiccicata e far vedere forma di sue gambe; ma questo non voler dire che tu fare lo stesso! Quando vecchia padrona essere giovine tempi erano scandalosi; ma tempi cambiare e oggi non... - In nome di Dio! - esclamò Rossella perdendo la pazienza e respingendo le coperte. - Ora ti rimando subito a Tara! - Tu non potermi mandare a Tara se io non volere andare. Io essere libera - ansimò Mammy con ardore. - E io volere rimanere qui. Tu non muoverti! Voler prenderti polmonite proprio adesso? Posare subito quel busto! No, tesoro, tu non andare in nessun posto con questo tempo. Dio mio! Essere come tuo padre! Tornare subito a letto! Io non andare a comprare pittura! Morire di vergogna se gente pensare che essere per mia bambina! Tu cosí carina che non avere bisogno di pitture. Gioia mia, solo donne cattive adoperare quella roba. - E ottengono i risultati che vogliono, no? - Gesummio, sentila! Agnellino, non dire queste cose cattive! Posare subito quelle calze bagnate. Tu non potere andare a comprare quella roba. Miss Elena non mi perdonare se io lasciarti andare. Torna a letto. Io andare. Forse io trovare una bottega dove non ci conoscere.

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Sapeva che lei e Franco erano già nel libro nero degli yankees a causa di Toni; e che il disastro poteva piombare sopra di loro da un momento all'altro. E proprio adesso l'idea di essere respinta ai suoi inizi la atterriva: ora che attendeva un bimbo, che lo stabilimento cominciava a rendere e a Tara vi era bisogno di denaro per arrivare fino al raccolto del cotone. Se perdesse tutto e dovesse trovarsi a combattere contro quel mondo impazzito soltanto con le sue armi deboli e spuntate! No; meglio uccidersi piuttosto che ricominciare! Nella rovina e nel caos di quella primavera del 1866 ella volse ogni sua energia soltanto a far sí che lo stabilimento producesse. Vi era denaro ad Atlanta; e l'ondata di riedificazione le dava la possibilità di guadagnare; cosa che le era possibile solo rimanendo fuori di prigione. Ma - continuava a ripetersi - bisognava essere indifferente, sopportare con dolcezza gli insulti, cedere alle ingiustizie, non offendere nessuno, bianco o nero, che potesse farle del male. Ella detestava gli impudenti negri emancipati e si sentiva ribollire il sangue ogni volta che udiva, al suo passaggio, le loro osservazioni impertinenti e le loro risate stridule. Ma non lanciava mai loro un'occhiata di disprezzo. Odiava i «carpetbaggers» e i rinnegati che si arricchivano con facilità mentre lei lottava; ma non diceva una sillaba contro di loro. Nessuno avrebbe maledetto gli yankees con maggiore entusiasmo di lei; ma anche nell'intimità della sua famiglia ella si guardava bene dal parlarne. «Non voglio rovinarmi per non saper tacere» pensava torva. «Vadano pure in prigione gli altri che fanno delle chiacchiere, e si facciano impiccare quelli che appartengono al Ku Klux Klan. (Che nome terribile; quasi tanto spaventoso per Rossella come per i negri!) Grazie a Dio, Franco non si è mai immischiato in queste storie! E stiano pure a complottare e a lamentarsi di ciò a cui non possono rimediare. Che cos'era il passato a paragone del terribile presente e del dubbio futuro? E che importava il voto quando il pane, il tetto e il rimaner fuori di prigione erano i veri problemi? Oh, se Dio mi aiutasse a rimaner tranquilla fino a giugno!» Solo fino a giugno! Rossella sapeva che in quell'epoca sarebbe costretta a rinchiudersi in casa di zia Pitty e a rimanervi fino alla nascita del bambino. Vi era già chi la criticava perché si mostrava ancora in pubblico; nessuna signora andava in giro quando era incinta. Franco e Pitty la pregavano di non esporsi - e di non esporli - a seccature; ed ella aveva promesso di smettere di lavorare a giugno. Solo fino a giugno! Per quell'epoca ella avrebbe messo lo stabilimento in condizione di poter procedere anche senza di lei. E in giugno avrebbe abbastanza denaro da potersi difendere contro un'eventuale sfortuna. Vi era tanto da fare e il tempo era cosí breve! Avrebbe voluto che le giornate fossero piú lunghe, e contava i minuti, sforzandosi febbrilmente nella sua caccia al denaro. Sotto la spinta, la bottega andava meglio e Franco si stava facendo perfino pagare alcuni vecchi conti. Ma tutte le sue speranze erano sulla segheria. La richiesta per il materiale da costruzione era assai maggiore della possibilità di fornirne; i prezzi del legname, dei mattoni, della pietra aumentavano ogni giorno, e Rossella teneva in attività lo stabilimento dall'alba finché vi era un barlume di luce. Ogni giorno passava parecchie ore laggiú, occupandosi di tutto e facendo del suo meglio per combattere i ladronecci che, ne era sicura, si compivano ai suoi danni. Ma la maggior parte del suo tempo passava in corse attraverso la città, presso costruttori, appaltatori e carpentieri; a volte si recava anche presso stranieri, dei quali aveva sentito dire che avrebbero intrapreso costruzioni in avvenire, per farsi promettere che avrebbero comprato solo da lei. Ben presto divenne cosa frequentissima vederla per le strade di Atlanta, seduta nel suo carrozzino accanto al vecchio e dignitoso negro che aveva un'aria di disapprovazione; indossava un abito a pieghe e teneva le manine coi mezzi guanti incrociate nel grembo. Zia Pitty le aveva fatto un bel mantello verde che le nascondeva tutta la persona e un cappello verde che armonizzava coi suoi occhi; ed ella indossava sempre quel grazioso abbigliamento quando si recava in giro per affari. Un debole accenno di rossetto sulle guance e un lieve profumo di acqua di Colonia ne faceva una personcina seducente finché non le accadeva di scendere dal carrozzino, mostrando cosí il suo corpo. Ma ciò avveniva di rado, perché ella sorrideva agli uomini che si precipitavano per parlare con lei accanto al suo veicolo, e rimanevano magari col capo nudo sotto la pioggia a discorrere di affari. Non era la sola che aveva visto la possibilità di guadagnare nel commercio del legname; ma non temeva i concorrenti. Orgogliosamente cosciente della propria scaltrezza, sapeva di non esser da meno di nessuno di loro. Era figlia di Geraldo O'Hara; e l'istinto commerciale che aveva ereditato era stato ancora acuito dalla necessità. Dapprima gli altri commercianti avevano riso di lei; riso dell'idea di una donna che si occupava di affari. Ma ora non ridevano piú. Bestemmiavano in silenzio quando la vedevano passare. L'essere donna spesso agiva in suo favore, perché - quando ne era il caso - ella sapeva sembrar debole e fare appello alla bontà del suo interlocutore. Dava l'impressione di essere una signora timida e coraggiosa, trascinata dalle circostanze in una posizione sgradevole; una povera donnina che probabilmente sarebbe morta di fame se i clienti non avessero comperato il suo legname. Ma quando le arie signorili non erano efficaci, ella sapeva diventare una fredda commerciante, capace di vendere a prezzo minore dei suoi concorrenti pur di procurarsi un nuovo cliente. E non aveva alcun scrupolo nel denigrare la merce dei suoi rivali. Come se le dispiacesse dover dire delle verità dolorose, sospirava mormorando ai possibili compratori che il legname di quegli altri era molto caro e di cattiva qualità; pieno di buchi lasciati dai nodi e probabilmente di poca durata. La prima volta che aveva mentito in quel modo si era sentita sconcertata e colpevole; sconcertata per la facilità con cui la menzogna le era venuta alle labbra, colpevole perché come un lampo era stata attraversata dal pensiero: «Che cosa direbbe la mamma?» Certo Elena sarebbe stupita e incredula e parlerebbe di onore, di onestà, di verità, di doveri verso il prossimo. Per un attimo Rossella chinò il capo, figurandosi il volto di sua madre. Ma il quadro scomparve subito, cancellato da un impulso avide e privo di scrupoli, sorto nei giorni miserabili di Tara e rinsaldato dalle attuali difficoltà di vita. Superò dunque questa specie di piccolo rimorso come ne aveva superato altri, con un lieve sospiro di rimpianto per non essere come Elena la avrebbe voluta; e ripetendo, con una scrollata di spalle, la sua solita frase: - Penserò a tutto piú tardi. Ma non pensò mai piú ad Elena in rapporto al proprio commercio, né ebbe mai piú occasione di rimpiangere i mezzi adoperati per togliere gli affari ai concorrenti. Sapeva che anche se mentiva sul loro conto, non le sarebbe accaduto nulla. La cavalleria dei meridionali la proteggeva. Una signora meridionale poteva mentire, ma nessun gentiluomo degli stessi paesi l'avrebbe mai accusata di menzogna. Gli altri commercianti in legname non potevano fare altro che rodersi internamente e sfogarsi nel seno delle loro famiglie, dicendo che avrebbero voluto che la signora Kennedy fosse un uomo per cinque minuti. Un proletario bianco che gestiva una segheria sulla strada di Decatur cercò di combattere Rossella con le sue stesse armi, accusandola apertamente di essere bugiarda e imbrogliona. Ma questo lo danneggiò piú che giovargli, perché tutti rimasero inorriditi che uno «straccione bianco» osasse dire simili cose contro una signora di buona famiglia, anche se questa si comportava in modo cosí poco femminile. Rossella sopportò tali maldicenze con silenziosa dignità; ma dopo un po' di tempo cominciò ad offrire la propria merce alla clientela di lui a prezzi notevolmente inferiori; e forní legname di prima scelta a fine di dimostrare la propria probità. Sicché il concorrente fu in breve ridotto al fallimento e - con grande scandalo di Franco - Rossella riscattò trionfalmente il piccolo stabilimento di Decatur a prezzo irrisorio. Sorse allora il problema di trovare una persona di fiducia per la gestione. Non voleva un altro come il signor Johnson, di cui sapeva che, malgrado la sua sorveglianza, continuava a vendere il suo legname per conto proprio. Ma pensava che non doveva essere difficile trovare un uomo adatto, dato che le strade erano piene di disoccupati alcuni dei quali erano anche persone che un tempo erano state ricche. Non passava giorno che Franco non desse del denaro a qualche ex-soldato affamato e che Pitty e la cuoca non rifornissero di cibo qualche mendicante vagabondo. Ma Rossella per ragioni di cui ella stessa non si rendeva conto, non desiderava nessuno di costoro. «Non voglio uomini che dopo un anno non hanno trovato nulla da fare» pensava. «Se non si sono ancora adattati alla pace, non si adatteranno a me. E poi hanno tutti un'aria cosí depressa. Io voglio una persona energica come Tommy Welburn oppure Kells Whiting o uno dei ragazzi Simmons, oppure... qualcheduno come loro. Nessuno di loro ha quell'aspetto "non m'importa di nulla" che i soldati avevano dopo la sconfitta. Sembrano invece persone a cui importi di tutti.» Ma con sua sorpresa i ragazzi Simmons, che avevano impiantato una fornace, e Kells Whiting, il quale vendeva un preparato fatto da sua madre che garantiva di lisciare i capelli piú crespi in sei applicazioni, la ringraziarono cortesemente e rifiutarono. Lo stesso fu con un'altra decina di uomini che interrogò. Disperata, aumentò lo stipendio che offriva, ma senza miglior risultato. Uno dei nipoti della signora Merriwether le fece notare con impertinenza che, pur non avendo una particolare soddisfazione a fare il carrettiere, tuttavia preferiva farlo col proprio carretto, anziché lavorare agli ordini di Rossella. Un giorno Rossella si avvicinò col suo calessino al carretto delle focacce di Renato Picard e chiamò l'ex-zuavo che aveva accolto nel suo veicolo lo sciancato Tommy Welburn per riaccompagnarlo a casa. - Sentite un po', Renato: perché non venite a lavorare con me? Dirigere uno stabilimento mi sembra piú onorevole che andare attorno a vendere focacce. Vi dovreste vergognare. - Infatti muoio di vergogna, - rise Renato. - Ma che volete che m'importi del rispetto umano? Sono stato rispettabile finché la guerra mi ha privato di tutto lasciandomi libero come un negro. Mai piú avrò della dignità. Libero come un uccello! Mi piace il mio carretto di focacce, mi piace la mia mula. Mi piacciono questi cari yankees che comprano con tanto garbo le focacce di mia suocera. No, cara Rossella, io aspiro ad essere il Re delle Focacce! Questo è il mio destino. Come Napoleone, seguo la mia stella! - E fece schioccare la frusta drammaticamente. - Ma voi non siete nato per vendere focacce, come Tommy non era nato per discutere con una squadra di rozzi muratori. Il mio genere di lavoro è piú... - Evidentemente voi eravate nata proprio per dirigere un'industria di legname - disse Tommy sorridendo. - Sicuro; mi pare di vedere la piccola Rossella sulle ginocchia di sua madre a imparare la lezione: «Non vendere mai del buon legname finché riesci a farti pagar bene quello cattivo». Renato rise, picchiando amichevolmente con una mano sul dorso di Tommy; i suoi occhietti di scimmia brillavano gaiamente. - Non fate l'impertinente - rispose freddamente Rossella, che trovò poco spiritosa l'osservazione di Tommy. - Si capisce che non ero nata per dirigere una segheria! - Non ho affatto l'intenzione di essere impertinente. Ma quel che è certo, è che voi la dirigete la segheria, e molto bene. Del resto nessuno di noi fa quello che avrebbe creduto di dover fare nella vita; però mi pare che ce la caviamo lo stesso. Ma perché non chiamate qualche intraprendente «Carpetbagger» a lavorare per voi? Ce ne sono tanti! - Neanche per sogno. I Carpetbaggers rubano tutto quello che non è ferro rovente o che non è saldamente inchiodato. Se fossero capaci di qualche cosa di buono, sarebbero rimasti dov'erano, invece di venir qui a mangiarci vivi. Io voglio una brava persona, di buona famiglia, abile, onesta ed energica... - Non chiedete molto. Ma non lo troverete con lo stipendio che offrite. Tutti gli uomini che corrispondono ai vostri «desiderata» sono già occupati; magari aderiscono alla loro occupazione come un cavicchio rotondo ad un buco quadrato, ma qualche cosa da fare l'hanno trovato. Qualche cosa per conto loro; e preferiscono questo al dover lavorare per una donna. - Mi pare che gli uomini non abbiano molto buon senso, quando hanno bisogno di lavorare per vivere! - Può darsi, ma hanno una certa dose di orgoglio. - Orgoglio? Ma l'orgoglio non porta in tavola né panini né bistecche. I due uomini risero, un po' involontariamente, e a Rossella sembrò che essi fossero solidali in una disapprovazione tutta maschile. Evidentemente ciò che Tommy aveva detto era la verità: tutti gli uomini che ella aveva avvicinato o che voleva avvicinare, lavoravano duramente, combattendo una nuova battaglia, piú aspra della precedente. - Rossella, - riprese Tommy un po' impacciato - mi dispiace di chiedervi un favore, dopo essere stato impertinente; ma ve lo chiedo lo stesso. Può darsi anche che la cosa possa farvi comodo. Mio cognato, Ugo Elsing, non fa molti affari andando in giro a piazzare legna da ardere. Io faccio quello che posso, ma... debbo pensare a Fanny e poi ho anche mia madre e due sorelle vedove a Sparta. Ugo è un bravo ragazzo e voi avete bisogno di un brav'uomo; è anche di buona famiglia ed è onesto. - Ma... mi pare che Ugo non abbia molta scaltrezza; altrimenti, anche nel suo piccolo commercio, avrebbe successo! Tommy si strinse nelle spalle. - Voi giudicate le cose con una certa severità, Rossella. Comunque, pensateci sopra. Vi potrebbe capitare di peggio. Credo che la sua onestà e il suo buon volere possano compensare la sua mancanza di scaltrezza. Rossella non rispose per non essere scortese. Ma secondo lei vi erano poche qualità - se pure ve n'erano - che potessero supplire la mancanza di scaltrezza. Dopo avere inutilmente interrogato parecchie persone e avere respinto le importune richieste di alcuni «Carpetbaggers», finalmente si decise ad accettare il suggerimento di Tommy. Ugo Elsing era stato durante la guerra un ardito e abile ufficiale; ma due gravi ferite e quattro anni di continue battaglie sembravano avergli tolto ogni abilità, lasciandolo di fronte alle difficoltà della pace sgomento e sbalordito come un bambino. «È uno stupido» pensò Rossella «e non capisce nulla di affari; scommetto che non è neanche capace di sommare le dita di una mano con quelle dell'altra. E temo che non imparerà mai! Ma almeno è onesto e non mi deruberà.» Rossella non faceva molto spreco, personalmente, di onestà; ma appunto perché la valutava poco in se stessa, la apprezzava negli altri. «Peccato che Gianni Gallegher sia legato con Tommy Wellburn» pensò ancora. «Quello è proprio l'uomo di cui avrei bisogno. Duro come il ferro e agile come un serpente; ma se io lo pagassi bene sarebbe anche onesto. Ci comprendiamo benissimo a vicenda e potremmo fare ottimi affari insieme. Forse quando la costruzione dell'albergo sarà finita potrò averlo; fino allora dovrò contentarmi di Ugo e di Johnson. Se metto Ugo nel nuovo stabilimento e lascio Johnson nel vecchio, potrò rimanere in città ad occuparmi delle vendite mentre loro si occupano della parte industriale della faccenda. Se almeno Johnson non rubasse! Potrei mettere un deposito di legname sulla metà del terreno che mi lasciò Carlo. Se Franco mi lasciasse fabbricare una bettola sull'altra metà! Oh, ma la costruirò lo stesso, non appena avrò abbastanza denaro di mio; non m'importa come la prenderà! Se non fosse cosí scrupoloso! Dio mio, se non dovessi avere un bimbo proprio in questi momenti! Fra poco sarò cosí grossa che non potrò piú uscire. Dio, se non aspettassi questo bimbo! E se questi maledetti yankees mi lasciassero tranquilla! Se...» Se...! Se...! Se...! Vi erano tanti «se» nella sua vita; nessuna sicurezza, sempre la minaccia di perder tutto, e aver nuovamente freddo e fame. Senza dubbio, Franco guadagnava un po' di piú adesso; ma era sempre in lotta coi raffreddori e spesso costretto a rimanere parecchi giorni a letto. Che disastro sarebbe se diventasse invalido! No; non poteva fare troppo assegnamento sopra di lui. Non poteva contare che su se stessa. E quello che guadagnava le sembrava tanto poco! Che farebbe se gli yankees venissero a confiscarle tutto? Se...! Se...! Se...! Metà dei suoi guadagni la spediva mensilmente a Will, a Tara; una parte andava a Rhett per scalare il debito e il resto lo metteva da parte. Nessun avaro aveva mai contato il suo oro piú spesso di lei, nessun avaro aveva maggior timore di perderlo. Non metteva il denaro alla banca per paura che questa potesse fallire o che gli yankees glielo confiscassero. Portava con sé il piú che poteva, nascosto nel busto; e celava pacchetti di banconote sotto qualche mattone sconnesso, nel sacchetto degli stracci, fra le pagine della Bibbia. E la sua preoccupazione cresceva col passare delle settimane, perché ogni dollaro che metteva da parte era un dollaro di piú che sarebbe perduto se venisse il disastro. Franco, Pitty e la servitú sopportavano le sue esplosioni con bontà irritante, attribuendo il suo umore disuguale allo stato di gravidanza. Franco sapeva che bisogna tollerare molte cose dalle donne incinte; quindi rinfoderava il proprio orgoglio e non protestava piú contro il fatto che sua moglie dirigeva i due stabilimenti e andava in città a qualunque ora, come nessuna signora avrebbe fatto. La condotta di lei lo imbarazzava; ma egli era sicuro che dopo la nascita del bimbo essa sarebbe stata nuovamente la creatura dolce e femminile che egli aveva corteggiato. Ma nonostante la docilità di suo marito, Rossella continuava ad essere di cattiv'umore e spesso a Franco sembrava che ella agisse come una ossessa. Nessuno sembrava comprendere che cosa veramente la faceva agire come una pazza. Era la smania di riuscire a mettere tutto in ordine prima di doversi rinchiudere, di avere abbastanza denaro da parte per il caso che l'uragano la travolgesse nuovamente: il denaro era l'ossessione del suo cervello in quel periodo. Quando pensava al bambino, era con una specie di collera per la sua intempestività. «La morte, le risse, i dolori del parto! Non vi è mai un momento adatto per nessuna di queste cose!»

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All'alba, quando il sole cominciò a illuminare i pini sulle colline a oriente, si levò dal letto scomposto e sedette accanto alla finestra; posò sul braccio il capo stanco e guardò, al di là del frutteto, verso i campi di cotone. Tutto era fresco, rugiadoso, silenzioso e verde; e la vista della campagna portò balsamo e conforto al suo cuore dolente. Tara aveva l'aspetto sereno e tranquillo, all'alba, benché il suo padrone fosse morto. Il pollaio tozzo, ben chiuso per difendere le galline dai topi e dalle faine, era accuratamente imbiancato a calce; cosí pure il porcile. L'orto coi suoi piccoli filari di grano saraceno, di piselli gialli, di fave, di rape, era ben sarchiato ed aveva come difesa una palizzata di paletti di quercia. Il frutteto era ripulito dagli arbusti parassiti; sotto agli alberi crescevano soltanto le margherite. Il sole accendeva di colore le mele e le pesche che si scorgevano tra il fogliame. E al di là erano le lunghe file di piante di cotone, verdi e immote; verso di esse si avviavano ondeggiando le anatre e i polli, perché in quella terra morbida si trovavano i vermi e le larve migliori. Rossella si sentí struggere il cuore di gratitudine verso Will che aveva fatto tutto questo. Malgrado il suo affetto per Ashley, non poté renderlo meritevole di quel benessere: la rifioritura di Tara non era dovuta al piantatore-aristocratico, ma all'instancabile e piccolo fattore» che amava la terra. Certo era una piccola fattoria che non si poteva paragonare alla piantagione di altri tempi, coi suoi pascoli affollati di mule e di cavalli di razza e i campi di grano e di cotone che si stendevano a perdita d'occhio. Ma quello che c'era, era in ottimo stato; e il giorno in cui le condizioni migliorassero si potrebbe ricominciare a coltivare la terra ora incolta, che sarebbe piú fertile, del resto. Will non si era limitato a impiantare una fattoria di pochi jugeri. Egli era riuscito a difenderla contro i due nemici dei piantatori georgiani: il pinastro e il rovo. Questi non si erano furtivamente insinuati nell'orto, nei pascoli, nei campi di cotone, né si installavano insolentemente accanto al porticato di Tara come facevano in moltissime piantagioni della regione. Rossella sentí arrestarsi i battiti del suo cuore quando ripensò com'era stata vicina, Tara, a tornare allo stato selvaggio. Fra lei e Will avevano fatto veramente una gran cosa: avevano tenuto lontano gli yankees, i «Carpetbaggers» e i parassiti naturali. E, meglio di tutto, Will le aveva detto che dopo il raccolto del cotone non sarebbe piú stato necessario che ella mandasse denaro; a meno che qualche altro «Carpetbagger» non agognasse a impadronirsi di Tara e quindi non facesse imporre altre tasse sbalorditive. Rossella sapeva che Will avrebbe un arduo lavoro da compiere, se voleva fare a meno del suo aiuto; ma ammirava e rispettava il suo sentimento di indipendenza. Finché era stato in posizione di inferiorità, egli aveva potuto accettare il suo denaro; ma ora che diventava suo cognato ed era il solo uomo in casa, intendeva sussistere coi propri sforzi. Sí: veramente Will era stato mandato da Dio.

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Tornando a casa con Baldo nel crepuscolo freddo, Rossella vide un assembramento di cavalli sellati, di carrozzini e di carri dinanzi alla bettola della «Ragazza del Giorno». Vi era Ashley a cavallo con una strana espressione di attesa; i ragazzi Simmons si sporgevano dal loro carrozzino facendo dei gesti enfatici; Ugo Elsing, con la sua ciocca di capelli neri ricadente sugli occhi, agitava le mani. Nel centro dell'assembramento era il carrettino delle focacce del nonno Merriwether; e nell'avvicinarsi, Rossella vide che Tommy Wellburn e lo zio Enrico Hamilton erano rannicchiati a cassetta accanto a lui. «Preferirei» pensò Rossella irritata «che lo zio Enrico non tornasse a casa in quell'equipaggio. Dovrebbe vergognarsi. Come se non avesse un cavallo proprio. Ma fa cosí per poter andare tutte le sere alla bettola col nonno.» Nell'avvicinarsi alla folla ebbe la sensazione che vi fosse qualche cosa: malgrado la sua insensibilità si sentí stringere il cuore. «Oh!» pensò. «Speriamo che non vi sia stato qualche altro ratto. Se il Ku Klux lincia ancora un negro, gli yankees ci massacreranno!» E disse a Baldo: - Fermatevi. È successo qualche cosa. - Non vorrete fermarvi davanti a una bettola?! - si oppose Baldo. - Vi ho detto di fermare... Buona sera a tutti! Ashley... zio Enrico... È successa una disgrazia? Sembrate tutti cosí... Si volsero a lei salutando e sorridendo; ma nei loro volti era una strana eccitazione. - Disgrazia o fortuna secondo il punto di vista - rispose zio Enrico. - A me pare che il Parlamento non avrebbe potuto agire in modo diverso. - Il Parlamento? - E Rossella pensò che la cosa non la interessava e respirò di sollievo. - Che diamine ha fatto? - Ha semplicemente rifiutato di ratificare l'emendamento - disse con orgoglio il nonno Merriwether. - Cosí la vedranno, gli yankees! - Oh, ma ce la faranno scontare! - esclamò Ashley. - L'emendamento? - chiese Rossella cercando di sembrare intelligente. Non aveva mai capito nulla di politica e non perdeva neanche il tempo a riflettere. Sapeva che poco tempo prima era stato ratificato il XIII emendamento (o era il sedicesimo?) ma ignorava il significato della parola «ratifica». Il suo volto mostrò la sua mancanza di comprensione e Ashley sorrise. - È l'emendamento che permette il voto ai negri - spiegò. - È stato sottoposto al Parlamento che non ha voluto ratificarlo. - Bella sciocchezza! Sapete che gli yankees ce lo faranno inghiottire per forza! - Perciò ho detto che ce lo faranno scontare. - Io sono fiero del Parlamento, fiero della loro audacia! - gridò zio Enrico. - Gli yankees non possono costringerci a inghiottirlo se non vogliamo. - Lo possono e lo faranno. - La voce di Ashley era calma, ma i suoi occhi erano turbati. - E la nostra situazione diventerà anche peggiore. - È impossibile, Ashley! Le cose non possono peggiorare. - Sicuro che lo possono. Supponete che ci diano un Parlamento negro? Un governatore negro? E se avessimo una legge militare anche piú dura di quella che abbiamo oggi? Gli occhi di Rossella si spalancarono dal terrore, mentre ella cominciava a comprendere qualche cosa. - Sto cercando di capire che cosa sarebbe meglio per la Georgia. - Il volto di Ashley aveva un'espressione irresoluta. - Se è piú saggio combattere questa cosa come ha fatto il Parlamento, sollevando il nord contro di noi, e mettendo contro di noi tutto l'esercito yankee per costringerci ad accordare il voto ai negri. Oppure... reingoiare la nostra dignità meglio che possiamo, sottometterci e accettare l'emendamento senza proteste. Il risultato è lo stesso. Non possiamo far nulla. Dobbiamo prendere la medicina che hanno deciso di darci. Forse sarebbe meglio per noi prenderla senza recalcitrare. Rossella udí a malapena queste parole, e certo la loro importanza le sfuggí. Come sempre, Ashley vedeva i due lati della questione. Ella ne vedeva uno solo: fino a che punto questo schiaffo dato agli yankees poteva interessarla. - Allora. secondo voi bisognerebbe diventare radicali e votare per i repubblicani? - scherní con voce rauca il nonno Merriwether. Vi fu un silenzio pieno di tensione. Rossella vide la mano di Baldo fare un rapido movimento verso la pistola e poi fermarsi. Baldo riteneva, e lo diceva spesso, che il nonno era un vecchio pallone gonfiato; e certo egli non avrebbe permesso che colui insultasse il marito di miss Melania, anche se questi parlava come un imbecille. La perplessità scomparve dagli occhi di Ashley, che arsero di collera. Ma prima che egli avesse aperto bocca, lo zio Enrico aveva investito il nonno. - Perdio... Oh, scusa, Rossella!... Pezzo d'imbecille, come potete dire questo ad Ashley? - Ashley non ha bisogno di voi per prendere le sue difese - ribatté il vecchio freddamente. - E sta parlando come un rinnegato... Sottomettersi, eh? Per l'inferno! (Scusate, vero, Rossella?) - lo non credo nella secessione - riprese con voce tremante di collera Ashley. - Ma quando la Georgia si è separata, io sono andato con lei. Non credevo nella guerra, ma ho combattuto. E non credo che si debba rendere gli yankees piú furenti di quanto sono. Ma se il Parlamento ha deciso di farlo, io sono con lui. E... - Baldo - disse bruscamente zio Enrico - conducete miss Rossella a casa. Questo non è posto per lei. La politica non è per le donne. E qui a momenti vi sarà questione. Andate, Baldo. Buona notte, Rossella. Mentre si avviavano verso la Via dell'Albero di Pesco, il cuore di Rossella batteva per il nuovo spavento. Che effetto avrebbe sulla sua sicurezza quel pazzo gesto del Parlamento? Vi sarebbe pericolo che gli yankees, irritati, le portassero via gli stabilimenti? - Beh! - borbottò Baldo. - Ho sentito parlare di conigli che sputano in faccia ai bulldogs, ma fino ad ora non ne avevo mai visti. Il Parlamento avrebbe potuto addirittura mettersi a urlare: «Viva Jeff Davis e la Confederazione!» e avrebbe avuto lo stesso risultato. Questi yankees che amano i negri si sono messi in mente di farli nostri padroni. Ma bisogna ammirare il coraggio del Parlamento! - Ammirarlo? Sono degli imbecilli! Spararli, bisognerebbe! Renderanno furibondi gli yankees. Non era meglio se radi... rati... come si dice? E tranquillizzare gli yankees invece di eccitarli maggiormente? Tanto, riusciranno lo stesso a sottometterci; e allora tanto vale arrenderci adesso. Baldo la fissò col suo occhio gelido. - Arrendersi senza combattere? Le donne non hanno piú dignità di quanto ne abbia una capra.

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Rossella, con la bimba in braccio, uscí nel porticato e si sdraiò su di una sedia a dondolo. Indossava un abito nuovo di lanetta verde guarnito di metri e metri di trina nera; sul capo aveva una cuffietta di pizzo nero che le aveva regalato zia Pitty. Abito e cuffia le stavano molto bene ed ella lo sapeva e ne era lieta. Che piacere essere nuovamente graziosa dopo essere stata brutta per tanti mesi! Sedeva cullando la bimba e cantarellando a bocca chiusa, quando udí rumor di zoccoli giungere dalla strada; guardando curiosamente attraverso i rampicanti che ornavano il porticato, scorse Rhett Butler che cavalcava verso la casa. Da parecchi mesi era assente da Atlanta; era partito subito dopo la morte di Geraldo. Rossella ne aveva sentito la mancanza; ma ora avrebbe ardentemente desiderato di non vederlo. La vista del suo volto bruno le dava un senso di colpevolezza che la faceva tremare. Aveva sulla coscienza qualche cosa che concerneva Ashley e non voleva parlarne con Rhett; ma era sicura che egli l'avrebbe costretta alla discussione, anche contro la sua volontà. Si fermò dinanzi al cancello e balzò a terra leggermente; guardandolo, già nervosa, ella pensò che assomigliava a un'illustrazione di un libro di cui Wade voleva sempre sentir la lettura. «Gli mancano soltanto gli orecchini e un coltellaccio fra i denti. Ma pirata o no, oggi non mi taglierà la gola, se posso evitarlo!» Quando lo vide nel viale d'accesso, lo salutò col piú dolce dei sorrisi. Che fortuna avere indossato il bel vestito e quella cuffietta che le stava cosí bene! Il suo sguardo le disse che anch'egli la trovava graziosa. - Un nuovo pupo! Che sorpresa, Rossella! - rise; e si chinò a scostare la coperta che nascondeva il brutto visino di Ella Lorena. - Non fate lo sciocco! - esclamò la donna arrossendo. - Come state, Rhett? Siete stato via un pezzo! - Sí. Lasciatemi tenere il piccino, Rossella. So tenerlo benissimo; ho le piú strane abilità! Somiglia tale e quale a Franco. Quando avrà i baffi... - Spero bene di no. È una bambina. - Una bimba? Tanto meglio. I maschietti sono guai. Cercate di non averne altri, Rossella! Stava per rispondergli duramente che non voleva piú né maschi né femmine, ma si trattenne e sorrise, cercando rapidamente un argomento di conversazione che tenesse il piú possibile lontana la temuta discussione. - Avete fatto buon viaggio, Rhett? Dove siete stato? - Oh... a Cuba... Nuova Orléans... in altri luoghi. Tenete, Rossella, riprendete la pupa. Comincia a sbavare e non riesco a prendere il fazzoletto... Senza dubbio è carina, ma mi sta bagnando il davanti della camicia. Ella riprese la bimba e Rhett si appoggiò negligentemente alla balaustra tirando fuori un sigaro da un astuccio d'argento. - Andate sempre a Nuova Orléans. - riprese Rossella con un po' di broncio. - E non mi dite mai che cosa vi andate a fare! - Sono un lavoratore, Rossella; e forse il mio lavoro mi chiama in quella città. - Voi, un lavoratore! - Rise con impertinenza. - Non avete mai lavorato in vita vostra. Siete troppo indolente. Tutta la vostra attività consiste nel finanziare i «Carpetbaggers» nei loro ladrocini, prendendo la metà dei profitti, e corrompere gli ufficiali yankee perché vi lascino mettere in opera i vostri piani per derubare i poveri contribuenti. Egli gettò indietro la testa e rise. - Come sareste contenta di avere abbastanza denaro per poter fare altrettanto. - Solo a pensarlo mi sento... - e cominciò ad arruffare il pelo. - Ma forse riuscirete un giorno o l'altro ad essere in condizione da potervi dare alla corruzione su vasta scala. Forse diventerete ricca, facendo lavorare i galeotti! Ella rimase un po' sconcertata. - Come avete fatto ad essere già al corrente di quanto riguarda le mie maestranze? - Sono arrivato ieri e ho passato la serata alla bettola della «Ragazza del Giorno», dove si apprendono tutte le notizie della città. Come pettegolezzi, vale la migliore riunione di dame. Mi è stato detto che avete assunto dei galeotti e avete incaricato quel piccolo aguzzino di Gallegher di ammazzarli di lavoro. - Non è vero - ribatté Rossella adirata. - Non li ammazzerà. Sorveglierò io. - Davvero? - Senza dubbio! Come potete insinuare una cosa simile? - Vi chiedo scusa, signora Kennedy! So che le vostre ragioni sono sempre al disopra di qualsiasi rimprovero. Ma Johnnie Gallegher è il piú gelido sgherro che io abbia mai visto. Farete bene a sorvegliarlo davvero, altrimenti correte rischio di aver delle noie quando un ispettore capiterà da queste parti. - Occupatevi dei vostri affari e lasciatemi tranquilla - rispose indignata. - E non parliamo piú dei galeotti. Tutti quanti si sono scagliati contro di me per questa faccenda. La mia maestranza riguarda me sola... Ma non mi avete ancora raccontato che cosa avete fatto a Nuova Orléans. Vi andate tanto spesso che tutti dicono... - Si interruppe. Non aveva avuto l'intenzione di parlar tanto. - Che cosa dicono? - Che... insomma, che avete un amore laggiú. E che state per sposarvi. È vero, Rhett? Aveva da tanto tempo questa curiosità, che non si era potuta trattenere dal chiederglielo. E l'idea che Rhett prendesse moglie le diede una lieve puntura di gelosia incosciente. Egli la fissò, immediatamente all'erta, facendola arrossire alquanto. - Ve ne importerebbe molto? - Oh Dio, mi dispiacerebbe perdere la vostra amicizia - rispose ella con affettazione; e cercando di avere l'aria indifferente, si chinò ad aggiustare meglio la copertina di Ella Lorena. Egli rise; poi disse brevemente: - Guardatemi, Rossella. Rossella alzò gli occhi involontariamente; il suo rossore divenne piú intenso. - Dite pure alle vostre curiose amiche che quando mi sposerò sarà perché non ho potuto avere in altro modo la donna che desideravo. E non ho mai desiderato una donna tanto da sposarla. Rossella si sentí confusa e imbarazzata ricordando quella notte, durante l'assedio, quando egli le aveva detto: «Non sono un uomo che prende moglie»; e poi le aveva chiesto di diventare la sua amante; ricordò anche la terribile giornata in cui era andata a fargli visita in prigione, e questo ricordo le diede un intollerabile senso di vergogna. Sul volto di lui apparve lentamente un sorriso malizioso, mentre egli leggeva nei suoi occhi ciò che ella stava pensando. - Ma soddisferò la vostra volgare curiosità - riprese. - Non è una donna che mi attira a Nuova Orléans, ma un bambino. Un maschietto. - Un bambino! - Questa inattesa informazione le fece dimenticare il suo imbarazzo di poco prima. - Sí; è sotto la mia tutela ed io ho la responsabilità legale di lui. È in collegio a Nuova Orléans ed io vado spesso a vederlo. - E a portargli dei regali? - «Ecco» pensò «perché capisce cosí bene che cosa può far piacere a Wade!» - Sí. - Ma guarda! Ed è carino? - Anche troppo. - Buono? - Affatto. È insopportabile. Sarebbe meglio che non fosse mai nato. I ragazzi sono creature fastidiose. Volete sapere altro? Sembrava irritato, come se gli seccasse di aver parlato di questa faccenda. - No, se non avete voglia di parlarne - replicò Rossella con alterigia, benché ardesse di curiosità. - Ma non riesco a vedervi nella parte di tutore. - E rise, sperando di sconcertarlo. - Lo credo. Avete delle vedute troppo ristrette. Non disse altro e continuò a fumare in silenzio. Ella avrebbe voluto lanciargli qualche cosa di offensivo, ma non le venne in mente nulla. - Vi sarei grata se non ne parlaste - riprese Rhett dopo un poco. - Benché chiedere a una donna di tacere è chiedere l'impossibile. - So conservare un segreto - ribatté Rossella con dignità offesa. - Davvero? Non lo avrei mai creduto. Ora smettete codesto broncio, Rossella. Mi dispiace di essere stato sgarbato; ma ve lo siete meritato perché avete voluto ficcare il naso nelle cose che non vi riguardano. Fatemi un bel sorriso e siate carina per qualche minuto, prima che io abbordi un argomento spiacevole. «Oh Dio! Adesso parlerà di Ashley e dello stabilimento!» pensò. Si affrettò a sorridere facendo le fossette. - Dove altro siete stato, Rhett? Non sarete rimasto tutto questo tempo a Nuova Orléans? - No. Quest'ultimo mese sono stato a Charleston. Mio padre è morto. - Oh, mi dispiace... - È inutile. Sono certo che a lui non è dispiaciuto morire e a me non dispiace che sia morto. - Dite delle cose atroci, Rhett! - Sarebbe piú atroce se io fingessi di essere addolorato; non vi pare? Fra noi non vi è mai stato affetto. Io somigliavo troppo a suo padre che egli biasimava. Piú tardi il suo biasimo per me divenne antipatia; ammetto che io non feci nulla per farlo mutare. Tutto ciò che egli pretendeva da me mi annoiava terribilmente. E finalmente mi mandò fuori di casa senza un centesimo e senza alcuna capacità. Ero semplicemente un signore di Charleston, buon tiratore di pistola e ottimo giocatore di poker. E per lui fu un'offesa personale il fatto che io non morii di fame ma misi a profitto la mia abilità di giocatore, sicché il poker mi diede da vivere. L'affronto di un Butler diventato giocatore fu cosí grave che la prima volta che tornai a Charleston egli proibí a mia madre di vedermi. E durante la guerra, quando le circostanze mi portavano a Charleston, mia madre era costretta a mentire e veniva a vedermi di nascosto. Questo non accrebbe il mio affetto per lui. - Oh, non sapevo tutto questo! - Era quello che si dice un gentiluomo di vecchia scuola, cioè ignorante, testardo, intollerante e incapace di pensare diversamente dagli altri gentiluomini di vecchia scuola. Tutti i suoi amici lo ammiravano perché mi aveva scacciato e mi considerava come morto. «Se il tuo occhio destro ti offende, strappalo.» Io ero il suo occhio destro, il suo figlio primogenito ed egli mi strappò da sé. Sorrise un poco, quasi divertito. - Avrei potuto perdonare tutto questo; ma non posso perdonare ciò che fece a mia madre e a mia sorella dopo la fine della guerra. Rimasero completamente prive di mezzi: la casa incendiata e i campi di riso ridiventati terre paludose. La casa di città andò all'asta perché non avevano da pagare le tasse e loro si ridussero a vivere in due stanzucce che non sarebbero state adatte neanche per dei, negri. Mandai alla mamma un po' di denaro, ma il babbo lo rimandò indietro - denaro corrotto, capirete! - quindi andai parecchie volte a Charleston e diedi nascostamente del denaro a mia sorella. Ma il babbo lo trovava sempre e faceva l'inferno, sicché la vita era diventata insopportabile per quella povera figliuola. E il denaro mi veniva restituito. Non so come hanno vissuto... Cioè, lo so. Mio fratello dava quello che poteva, benché ne avesse pochi e neppure lui volesse accettar nulla da me. Il denaro degli speculatori è denaro maledetto! Hanno dunque vissuto della carità degli amici. Vostra zia Eulalia è stata molto buona. È una delle migliori amiche di mia madre. Le ha dato da vestire e... Dio mio! Mia madre vivere di carità! Era una delle rare volte in cui lo vedeva senza maschera, col volto indurito da un giusto odio verso suo padre e pieno di dolore per sua madre. - Zia Eulalia! Ma non credo che abbia molto piú di quanto le mando io! - Ah, è questa la provenienza! Siete poco delicata, mia cara, a dirmi questo aumentando la mia umiliazione! Permetterete che vi rimborsi! - Con piacere - rispose Rossella sorridendo; ed egli sorrise a sua volta. - Come brillano i vostri occhi, Rossella, all'idea di un dollaro! Siete sicura di non avere nelle vene del sangue scozzese o ebraico, oltre al vostro buon sangue irlandese? - Non siate odioso! Non ho avuto affatto l'intenzione di rinfacciarvi quello che passa attraverso zia Eulalia. Ma veramente, quella zia crede che io il denaro lo fabbrichi. Mi scrive sempre per averne di piú; e davvero io non sono in condizione di mantenere mezza Charleston! Di che cosa è morto vostro padre? - Di nobile inedia, credo... e spero. Gli sta bene. Voleva far morir di fame la mamma e Rosa Maria. Ora che è morto, potrò aiutarle. Ho comprato una casa per loro presso la Batteria e avranno delle persone di servizio; ma non dovranno far sapere che il denaro viene da me. - Perché no? - Voi non conoscete Charleston, mia cara! Vi siete stata soltanto in visita. La mia famiglia può esser povera, ma ha una posizione da salvaguardare. E non potrebbe conservarla se si sapesse che dietro ad essa è denaro che proviene dal gioco, dalla speculazione, dai «Carpetbaggers». No; hanno già raccontato che mio padre aveva fatto una forte assicurazione sulla vita e si è privato ed ha privato loro perfino del necessario per poter continuare nei pagamenti, in modo che dopo la sua morte esse fossero al sicuro. Cosí egli fa anche una bellissima figura... Martire della sua famiglia. Spero che si rivolterà nella sua tomba sapendo che la mamma e Rosa Maria vivono comodamente malgrado i suoi sforzi... E mi dispiace un poco che sia morto, perché so che desiderava di morire... - Perché? - In verità, egli morí il giorno in cui Lee si arrese. Non si è mai potuto adattare ai nuovi tempi ed ha passato questi ultimi anni a parlare dei tempi andati. - Ma ditemi, Rhett, sono tutti cosí i vecchi? - Pensava a Geraldo e a quello che aveva detto di lui Will. - Dio mio, no! Guardate vostro zio Enrico e quel vecchio gatto selvatico del signor Merriwether, per non nominare altri. Hanno cominciato una vita nuova il giorno in cui sono partiti con la Guardia Nazionale e mi pare che siano tornati a casa ringiovaniti e vadano diventando sempre piú vivaci. Ho incontrato il nonno Merriwether col carretto delle focacce; frustava il cavallo bestemmiando come un vecchio soldataccio. E mi ha detto che si sente ringiovanito di dieci anni da quando non è piú sotto gli artigli della nuora e va in giro col carretto. E zio Enrico si diverte a combattere gli yankees in tribunale, difendendo la vedova - credo gratuitamente - contro i «Carpetbaggers». Se non vi fosse stata la guerra, si sarebbero ritirati da un pezzo a curarsi i reumatismi. Sono nuovamente giovani perché sono utili e sentono che sono necessari. E amano quest'epoca che dà nuove possibilità ai vecchi. Ma vi sono tante persone, anche giovani, che sentono come mio padre e vostro padre. Non sanno e non vogliono adattarsi; e questo mi conduce all'argomento spiacevole che voglio discutere con voi, Rossella. - Dio mio! - fece Rossella fra se, a quell'attacco cosí improvviso. - Ci siamo. Come farò a cavarmela? - Conoscendovi come vi conosco, non mi sarei dovuto aspettare da voi né lealtà né onestà. Ma, come uno sciocco, mi sono fidato di voi. - Non vi capisco. - Può darsi. Ad ogni modo, avete l'aria molto imbarazzata. Poco fa, mentre percorrevo Via dell'Edera per venire da voi, mi sento chiamare da dietro una siepe: era la signora Melania Wilkes! Naturalmente mi sono fermato e abbiamo chiacchierato. - Davvero? - Sí; abbiamo avuto una piacevole conversazione. Mi ha detto che aveva sempre desiderato esprimermi la sua ammirazione pel fatto che anch'io mi sono unito a combattenti, sia pure nell'ultima ora. - Che stupidaggine! Melly è una sciocca. Quella notte c'è mancato poco che morisse, a causa della vostra eroica condotta. - Probabilmente avrebbe pensato che sacrificava la sua vita per la buona causa. Quando le ho chiesto che cosa faceva ad Atlanta, è rimasta sorpresa della mia ignoranza e mi ha raccontato che adesso abita qui e che voi siete stata tanto buona da associarvi il signor Wilkes nella vostra azienda. - Ebbene? - Quando vi prestai il denaro per acquistare la segheria feci un patto espresso che voi accettaste; e cioè che lo stabilimento non doveva servire per mantenere Ashley Wilkes. - State diventando insolente. Vi ho restituito il denaro; lo stabilimento è mio e ne faccio quello che mi pare. - Vorreste dirmi come avete guadagnato il denaro che mi avete restituito? - Vendendo il legname, naturalmente. - Col denaro che vi ho prestato io perché poteste cominciare. Dunque il mio denaro è stato adoperato per il mantenimento di Ashley. Siete una donna senza onore e se non mi aveste restituito quello che vi prestai, sarebbe per me una gioia richiedervelo adesso e mettere il vostro stabilimento all'asta se non poteste pagarmi. Parlava leggermente ma i suoi occhi ardevano di collera. Rossella si affrettò a portare le ostilità nel territorio nemico. -Perché odiate tanto Ashley? Siete geloso di lui? Si sarebbe morsa la lingua dopo queste parole, perché egli gettò indietro la testa e rise clamorosamente facendola arrossire di mortificazione. - Aggiungete la presunzione alla disonestà - disse poi. - Non la finirete mai di sentirvi la bella della Contea? Crederete sempre di essere la piú graziosa delle birichine, e che tutti gli uomini muoiono d'amore per voi. - Neanche per sogno! - ella esclamò con calore. - Ma non capisco perché odiate tanto Ashley; e questa è la sola spiegazione a cui posso pensare. - Bene; pensate qualche altra cosa, deliziosa incantatrice, perché questa è una spiegazione sbagliata. Quanto a odiare Ashley... non lo odio come non lo amo. Il mio solo sentimento verso di lui e verso quelli che sono come lui è la pietà. - Pietà? - Sí; e anche un po' di disprezzo. Suvvia, gonfiatevi di rabbia come un tacchino e ditemi che egli vale mille mascalzoni come me, e che io non dovrei essere presuntuoso da provare per lui pietà o disprezzo. E quando avrete finito di bollire, vi dirò il mio pensiero, se vi interessa. - Non mi interessa affatto. - Ve lo dirò lo stesso, perché non posso permettere che voi continuiate ad alimentare la vostra buffa illusione sulla mia gelosia. Ho pietà di lui perché avrebbe dovuto morire e non è morto. E lo disprezzo perché non sa che cosa fare di se stesso ora che il suo mondo è crollato. Nell'idea che egli esprimeva era qualche cosa che non le riusciva nuovo. Ricordava confusamente di aver udito delle parole simili, ma non sapeva né dove né quando. Ma la collera le impedí di fermarsi a riflettere. - Se aveste libertà d'azione, tutte le persone per bene negli Stati del Sud sarebbero morte. - E se avessero loro libertà d'azione, credo che tutti quelli come Ashley preferirebbero essere morti. Morti e collocati sotto una bella pietra su cui è scritto: "Qui giace un soldato della Confederazione morto per il suo paese" oppure "Dulce et decorum est" o qualche altro epitaffio del genere. - Non vedo il perché! - Voi non vedete mai nulla se non è scritto a lettere di scatola e a distanza del vostro naso! Se fossero morti non avrebbero pensieri, e non vi sarebbero per loro problemi insolubili. E le loro famiglie sarebbero fiere di loro per molte generazioni. Per soprappiú, ho sempre sentito dire che i morti sono felici. Voi credete che Ashley Wilkes sia felice? - Ma, certamente... - Ricordò l'espressione degli occhi di Ashley e s'interruppe. - E Ugo Elsing o il dottor Meade sono felici? Come erano felici mio padre e vostro padre? - Forse non son felici come potrebbero perché hanno perduto tutto il loro denaro. Egli rise. - Non si tratta del denaro, mia cara. Vi dico che hanno perduto il loro mondo, il mondo in cui erano cresciuti, e sono come pesci fuor d'acqua o gatti con le ali. Avrebbero dovuto fare certe date cose, occupare certe date posizioni, e cosí via. Cose, posizioni e tutto scomparvero per sempre quando il generale Lee giunse ad Appomattox. Oh, non abbiate quell'aria stupida, Rossella. Che cosa volete che faccia Ashley Wilkes, ora che la sua casa è scomparsa, la sua piantagione è stata sequestrata per via delle tasse e i gentiluomini vanno a venti per un penny? Può forse lavorare con la testa o con le mani? Scommetto che avete perduto una quantità di denaro da quando egli gestisce l'azienda. - Non è vero. - Siete molto carina. Posso venire a vedere i vostri libri qualche domenica sera quando non avete da fare? - Potete andare al diavolo. E anche adesso, per far piú presto. - Tesoro, sono stato dal diavolo ed è un compagno malinconico. Non ho affatto l'intenzione di tornarvi, neanche per voi... Dunque: voi avete preso il mio denaro perché ne avevate disperatamente bisogno. Abbiamo fatto un accordo per lo scopo a cui doveva servirvi e voi non avete mantenuto questo accordo. Ricordatevi, deliziosa creatura, che verrà il tempo in cui avrete ancora bisogno di farvi prestare da me del denaro. Mi chiederete di finanziarvi, ad interesse incredibilmente basso, per poter comprare altre aziende ed altre mule. E potete contarci poco su quei quattrini. - Quando avrò bisogno di denaro me lo farò prestare dalla banca, - ribatté Rossella freddamente, mentre dentro di sé ardeva di collera. - Davvero? Provateci. Io ho molti capitali in banca. - Proprio? - Sí; sono cointeressato in parecchie imprese. - Vi sono delle altre banche... - Oh, una quantità. E se vi riesco, farò in modo che non possiate avere un centesimo da nessuno. Se avete bisogno di denaro potrete andare dagli usurai «Carpetbaggers». - Vi andrò con piacere. - Vi andrete, ma con poco piacere quando sentirete il loro tasso d'interesse. Tesoro mio, nel mondo degli affari si paga il fio delle azioni poco oneste. Avreste dovuto giocare con me a carte scoperte. - Siete proprio un gentiluomo! Cosí ricco e potente andate a stuzzicare dei poveri diavoli come siamo Ashley ed io! - Non mettetevi al suo livello. Voi non siete ancora vinta. Nessuno può vincervi. Ma lui è completamente a terra e vi resterà finché non avrà dietro di sé una persona energica che lo guidi e lo protegga. E io non intendo che il mio denaro vada a beneficio di un simile individuo. - Eppure avete aiutato me, mentre anch'io ero a terra. - Ma voi, mia cara, eravate un rischio interessante. Perché non vi appoggiavate ai vostri parenti maschi singhiozzando nel rimpianto degli antichi tempi. Vi siete drizzata e vi siete fatta avanti a gomitate; la vostra fortuna è stata solidamente fondata sul denaro rubato dal portamonete di un morto e quello rubato alla Confederazione. Avete al vostro attivo un omicidio, il furto di un marito, un tentativo di prostituzione, e poi menzogne e durezze e altre cose che richiederebbero esame piú accurato. Tutto ciò mostra che voi siete una persona energica e risoluta; valeva la pena di arrischiare del denaro per voi, perché è divertente aiutare chi si aiuta. Presterei diecimila dollari senza neanche una ricevuta, a quella vecchia matrona romana che è la signora Merriwether. Ha cominciato con un cestello di focaccine, e guardatela adesso! Ha una pasticceria che dà lavoro a mezza dozzina di persone; il vecchio nonno è felice col suo carretto delle consegne e quel piccolo creolo indolente, Renato, lavora indefesso e con piacere... Guardate anche quel povero Tommy Wellburn, che fa il lavoro di due uomini, avendo il corpo di mezzo uomo e lo fa bene; oppure... ma non voglio continuare ad annoiarvi. - Sí, mi annoiate. Ma mi distraete - disse Rossella freddamente, sperando di irritarlo e di sviarlo dall'argomento di Ashley. Ma egli rise brevemente e rifiutò di raccogliere il guanto. - Gente come quella merita di essere aiutata. Ma Ashley Wilkes... Bah! La sua razza non ha utilità né valore in un mondo sconvolto come il nostro. In un mondo rinnovato, quelli come lui sarebbero i primi a morire. È gente che non merita di sopravvivere perché incapace di lottare. Questa non è la prima volta che il mondo è stato messo a soqquadro e non sarà l'ultima. E quando accadrà nuovamente, ciascuno perderà ogni cosa, e tutti saranno uguali: allora tutti ricominceranno dal principio senza aver nulla se non la loro scaltrezza e la forza delle loro mani. Ma vi sono di quelli, come Ashley, che non posseggono né astuzia né forza, o, se ne posseggono, hanno scrupolo ad adoperarla. E cosí vanno a fondo e meritano di andarvi. È una legge naturale e il mondo cammina meglio senza di loro. Ma vi sono sempre quei pochi che si salvano e col tempo ritornano ad essere ciò che erano prima che il mondo andasse sottosopra. - Anche voi siete stato povero; avete detto voi stesso che vostro padre vi ha messo fuori casa senza un centesimo! - disse Rossella furibonda. - Dovreste dunque comprendere Ashley e simpatizzare con lui! - Comprendo ma non simpatizzo. Dopo la resa, Ashley aveva molto di piú di quanto avevo io quando sono stato scacciato di casa. Per lo meno ha avuto molti amici che lo hanno aiutato, mentre io ero «Ismaele». Ma che cosa ha fatto Ashley? - E osate paragonarvi a lui, presuntuoso che non siete altro! Grazie a Dio, egli non vi somiglia! Non s'insudicerebbe le mani come voi, guadagnando denaro coi «Carpetbaggers» e con gli yankees! È scrupoloso e onesto. - Ma non tanto scrupoloso e onesto da non accettare denaro e aiuto da una donna. - Che altro avrebbe potuto fare? - Debbo dirlo io? Io so soltanto ciò. che ho fatto io, tanto quando sono stato scacciato da mio padre, quanto oggi. E so ciò che hanno fatto altri uomini. Nella rovina di una civiltà abbiamo visto l'opportunità di fare qualche cosa e ne abbiamo approfittato: alcuni onestamente, altri sott'acqua; e lo stiamo ancora facendo. Ma gli Ashley hanno avuto le stesse possibilità e non ne hanno approfittato. Non sono abili, Rossella, e solo chi è abile merita di sopravvivere. Ella udiva vagamente le sue parole perché ora le stava tornando preciso il ricordo che le era appena balenato, quando egli aveva cominciato a parlare. Rivide il frutteto di Tara battuto dal freddo vento invernale, e Ashley dinanzi a un mucchio di legna con lo sguardo fisso lontano. Aveva detto... che cosa? Qualche parola straniera che poi aveva spiegato e aveva parlato della fine del mondo. Allora non aveva compreso ciò che egli aveva voluto dire, ma ora cominciava a vederlo chiaramente, con un senso di sbalordimento e di stanchezza. - Eppure Ashley disse... - Che cosa? - Sí, una volta a Tara disse qualche cosa di... non so... tramonto di dèi e della fine del mondo e altre sciocchezze di questo genere. - Ah, il «Götterdämmerung!!» Gli occhi di Rhett brillarono d'interessamento. «E che altro?» - Oh, non ricordo bene. Non stavo molto attenta. Ma... sí, qualche cosa a proposito dei forti che rimangono in piedi e dei deboli che vengono stroncati. - Ah, dunque lo sa! Quindi la cosa è ancor piú penosa per lui. Molti di loro non lo sanno e non lo sapranno mai. E per tutta la vita si chiederanno come mai l'antico incanto è svanito. Lui invece sa di essere stato stroncato. - No, non lo è! E non lo sarà finché io avrò respiro! Rhett la guardò tranquillamente; il suo volto bruno era raddolcito. - Come avete fatto, Rossella, a fargli acconsentire a venire ad Atlanta a impiegarsi nella vostra azienda? Ha resistito molto? Come in un lampo ella rivide la scena dopo i funerali di Geraldo ma la ricacciò dalla sua mente. - No davvero - rispose indignata. - Gli spiegai che avevo bisogno del suo aiuto perché non mi fidavo di quel furfante che gestiva la segheria e Franco era troppo occupato... e io aspettavo Ella Lorena... Fu ben contento di venire in mio soccorso. - Com'è comoda la maternità! Vi siete dunque servita di questo... E cosí siete riuscita a condurlo, povero diavolo, dove volevate; ed eccolo lí legato a voi dalla gratitudine come i galeotti lo sono dalle loro catene. Tanti auguri a tutti e due. Ma, come vi ho detto al principio di questa discussione, non avrete mai piú un centesimo da me per nessuno dei vostri progettini cosí poco signorili, mia piccola ingannatrice. Ella si sentiva punta dalla collera e dalla delusione. Infatti, da qualche tempo. meditava di farsi prestare ancora del denaro da Rhett per comprare un terreno in città e installarvi un deposito di legname. - Non ho bisogno del vostro denaro - esclamò; - ne guadagno abbastanza con lo stabilimento gestito da Johnnie Gallegher, ora che non mi servo piú di operai negri. E poi ho dato del denaro contro ipoteche e anche il negozio rende bene, adesso. - Sicuro, l'ho sentito dire. Avete una bell'abilità nell'imbrogliare l'innocente, la vedova e l'orfano, e l'ignorante! Ma dal momento che dovete rubare, perché non derubate il ricco e forte anziché il povero e debole? Da Robin Hood in poi, questo è stato considerato altamente morale! - Perché è molto piú facile e sicuro derubare, come dite voi, i poveri. Egli rise silenziosamente, stringendosi nelle spalle. - Siete un'elegante delinquente, Rossella! Una delinquente! Strano che quel termine la offendesse. Non era una delinquente, disse fra sé con ira. Almeno, non aveva l'intenzione di esserlo. Voleva essere una gran signora. Per un attimo la sua mente tornò indietro negli anni ed ella rivide la madre col suo lieve ondeggiar di gonne e il soave profumo di verbena, le sue manine instancabili sempre occupate al servizio degli altri, amata e rispettata. E a un tratto sentí male al cuore. - È inutile che cerchiate di tormentarmi - disse stancamente. - So che non sono... scrupolosa come dovrei. E non sono buona e dolce come mi è stato insegnato ad essere. Ma non posso farne a meno, Rhett. Sinceramente, non posso. Che altro avrei potuto fare? Che sarebbe avvenuto di me, di Wade, di Tara, di tutti noi se io fossi stata... gentile quando quello yankee venne in casa? Avrei dovuto... non voglio neanche pensarlo! E se io fossi stata buona e scrupolosa quando... quando Giona Wilkerson voleva metterci in mezzo alla strada? Dove saremmo adesso? E se fossi stata semplice e tranquilla e non avessi tormentato Franco a proposito di tutti quei debitori... Beh, lasciamo andare. Può darsi che io sia una delinquente; però non lo sarò sempre, Rhett. Ma in questi ultimi anni... che avrei dovuto e potuto fare? Ho cercato di dirigere attraverso la burrasca un battello con un carico pesante. E ho avuto tanto da fare per tenerlo a galla che non potevo preoccuparmi di molte cose che non erano importanti, come buone maniere, signorilità e... sí, insomma cose di questo genere. Ho avuto troppa paura che la mia navicella andasse a fondo; quindi ho gettato a mare quello che mi sembrava peso inutile. - Cioè orgoglio, onorabilità, onestà, virtú e bontà - enumerò egli. - Avete ragione, Rossella. Non sono cose importanti quando una nave sta per affondare. Ma guardatevi attorno; osservate i vostri amici. O riescono a portare i loro battelli in porto col carico intatto, oppure preferiscono affondare con le bandiere al vento. - Sono una massa di imbecilli - replicò ella brevemente. - C'è tempo per tutto. Quando avrò messo assieme molto denaro, sarò gentile e dolce quanto vorrete. Allora me lo potrò permettere. - Vorrete permettervelo, ma non vi riuscirete. È difficile ripescare un carico gettato a mare; e quando vi si riesce, di solito lo si ritrova irreparabilmente danneggiato. E temo che quando potrete darvi il lusso di ripescare l'onore, la virtú e la bontà che avete gettato a mare, troverete che si sono mutati non precisamente in qualche cosa di bello e di strano... Si alzò improvvisamente e prese il suo cappello. - Ve ne andate? - Sí. Non siete contenta? Vi lascio coi rimasugli della vostra coscienza. Fece una pausa e guardò la bimba, tendendole un dito perché lo afferrasse. - Immagino che Franco sia gonfio di orgoglio. - Oh, senza dubbio! - Ed ha un sacco di progetti per la piccina, no? - Sapete bene come sono sciocchi gli uomini quando si tratta dei loro bimbi... - E allora ditegli... - Si interruppe bruscamente, con una strana espressione sul volto. -... ditegli che se vuole realizzare i suoi progetti per la bambina, farà bene a rimanere piú spesso a casa la sera. - Che volete dire? - Quello che ho detto. Ditegli di restare in casa. - Oh, infame creatura!... Vorreste insinuare che il povero Franco... - Oh Dio! - Rhett scoppiò in una risata clamorosa. - Non ho affatto voluto dire che va in giro con delle donne! Franco! Oh Dio! E scese i gradini continuando a ridere.

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Il Nord era deciso ad ottenere il voto per i negri, e a questo scopo la Georgia era stata dichiarata ribelle e posta sotto la legge marziale. L'esistenza della Georgia come Stato non era piú riconosciuta; come la Florida e l'Alabama essa era diventata «Distretto Militare n. 3», sotto il comando di un generale federale. Se fino allora la vita era stata incerta e piena di apprensioni, ora lo era doppiamente. I regolamenti militari che erano sembrati cosí severi un anno prima, erano dolci in confronto di quelli emessi dal generale Pope. Con la prospettiva di un governo negro, l'avvenire appariva oscuro e senza speranza. Quanto ai negri, la loro nuova importanza li ubriacava; comprendendo di essere spalleggiati dall'esercito yankee, essi diventavano sempre piú insultanti. Nessuno si poteva salvare dai loro oltraggi. In un periodo cosí spaventoso, Rossella era terrorizzata ma risoluta; andava ancora in giro sola, con la pistola di Franco nascosta sotto i cuscini del carrozzino. Ella malediva silenziosamente il Parlamento perché aveva attirato sul loro capo questo nuovo disastro. Che vantaggio aveva avuto questo gesto che tutti chiamavano spavaldo? Non aveva fatto che peggiorare le cose. Avvicinandosi al viale che, attraverso gli alberi nudi, conduceva al fondo valle dove sorgeva l'accampamento di Shantytown, Rossella diede voce al cavallo per farlo andare piú presto. Si sentiva sempre a disagio quando doveva passare dinanzi a quel sordido e sudicio gruppo di vecchie tende dell'esercito e di casupole di fango. Era il luogo che aveva la peggiore reputazione nelle vicinanze di Atlanta, perché vi abitavano in una sozza promiscuità negri, prostitute negre e un gruppo di straccioni bianchi di infimo ordine. Si diceva che fosse il rifugio dei criminali negri e bianchi, ed era il primo luogo che i soldati yankee andavano a frugare quando cercavano un delinquente. Sparatorie e risse erano cosí frequenti che le autorità si prendevano raramente il fastidio d'investigare, e di solito lasciavano che quella gente regolasse da sé le proprie losche questioni. Nel bosco retrostante era nascosta una fabbrichetta clandestina di whisky di infima qualità; la sera le capanne risuonavano di urla briache e di bestemmie. Perfino gli yankees riconoscevano che quella era una plaga pestifera che si sarebbe dovuto sgombrare; ma non facevano alcun passo in questo senso. Gli abitanti di Atlanta e di Decatur, che erano costretti a passare per quella strada, erano indignati. Gli uomini portavano le pistole alla cintola, le donne non transitavano volentieri di là, neanche sotto la protezione dei loro mariti, perché di solito vi erano file di negri ubriachi seduti lungo la via, che urlavano insulti e bestemmie contro di loro. Finché aveva avuto la scorta di Baldo, Rossella non si era preoccupata di nulla, perché neanche la negra piú impudente osava ridere in sua presenza. Ma da quando ella era stata costretta ad andar sola, si erano verificati parecchi incidenti noiosi e irritanti. Le prostitute negre sembrava facessero il possibile per cimentarla ovunque ella si recasse. Non vi era da fare altro che fingere di non accorgersene. Non poteva nemmeno sfogarsi con la propria famiglia o con gli amici perché era sicura di sentirsi dire: - Che altro volevi che ti capitasse? - E avrebbero ancora tentato di impedirle queste gite a cui ella non voleva rinunciare. Grazie a Dio, oggi non vi era nessuna donna sui margini della strada! Nel passare dinanzi al viottolo che conduceva all'accampamento, ella guardò con disgusto il gruppo di abitazioni agglomerate nel piccolo avvallamento, sotto ai raggi obliqui del sole pomeridiano. Soffiava un vento freddo che portò alle sue nari un odore misto di fumo di legna, di grasso di porco e di latrine. Percosse con le redini il dorso del cavallo e si affrettò verso la svolta della strada. Proprio mentre cominciava a trarre un respiro di sollievo, si sentí balzare il cuore in gola dallo spavento, vedendo scivolare silenziosamente da dietro a una grossa quercia un negro enorme. Fu terrorizzata ma non tanto da perdere la presenza di spirito. In un attimo il negro affrontò il cavallo, mentre ella afferrava la pistola. - Che vuoi? - gridò Rossella con tutta l'energia di cui era capace. Il grosso negro si rifugiò dietro la quercia e la voce che le rispose era piena di spavento. - Per carità, miss Rossella, non uccidere grosso Sam! Il grosso Sam! Per un attimo rimase ammutolita. Il grosso Sam, il capoccia di Tara, che ella aveva visto per l'ultima volta durante l'assedio... Che diamine... - Vieni fuori e fammi vedere se sei davvero Sam. Egli uscí riluttante dal suo nascondiglio: era una figura gigantesca; aveva i piedi nudi, i calzoni di cotonina rossa e una giacchetta azzurra di uniforme, troppo corta e troppo stretta per lui. Vedendo che era veramente il grosso Sam ella rimise la pistola sotto ai cuscini e sorrise. - Oh, Sam! Che piacere di vederti! Sam galoppò verso il carrozzino, roteando gli occhi dalla gioia e facendo brillare i suoi denti bianchi; con due zampone nere grosse come prosciutti afferrò la mano che ella gli tendeva. La sua lingua rosa si agitava come quella di un cane assetato; era tutto vibrante, e le sue allegre contorsioni erano comiche come le capriole di un mastino. - Mio Dio, essere troppo bello vedere qualcuno della famiglia! - esclamò stringendole la mano in modo da stritolarle le ossa. - E come mai tu andare in giro con pistola, miss Rossella? - Non posso farne a meno, Sam, con tutta la gentaglia che c'è in giro. Ma che diamine fai in un posto cosí ignobile come Shantytown, tu che sei un negro rispettabile? E perché non sei venuto in città a vedermi? - Per fortuna, miss Rossella, io non abitare a Shantytown. Essere qui solo di passaggio. Per niente al mondo io vivere in questo posto. Non aver mai visto simile gentaglia negra. E non sapere che tu essere a 'Tlanta. Credere che tu essere a Tara. E volere andare a Tara appena possibile. - Sei rimasto ad Atlanta dall'epoca dell'assedio? - No, badrona! Io aver viaggiato! - Le lasciò la mano e Rossella agitò a stento le dita per vedere se le ossa erano intatte. - Tu ricordare quando avere visto me l'ultima volta? Rossella ricordò la giornata ardente prima dell'assedio, quando essendo in carrozzino con Rhett aveva incontrato la squadra di negri che marciava verso le fortificazioni cantando «Discendi, Mosè!». Accennò di sí. - Bene. Allora io avere lavorato come una bestia per scavare trincee e riempire sacchi di terra finché Confederati lasciare 'Tlanta. Il capitano che comandare me essere stato ammazzato e non essere piú nessuno per dire a grosso Sam cosa dover fare; e allora io rimanere sdraiato fra cespugli. E poi pensare di andare a casa, a Tara, ma sentir dire che tutto paese intorno a Tara essere bruciato. E poi non saper come fare per tornare perché avere paura che pattuglie prendermi perché io non avere passaporto. Allora arrivare yankees; e un militare colonnello, avere visto me e avermi preso per badare a sua casa e pulire sue scarpe. Sí, badrona! E io diventare domestico come Pork, mentre io essere soltanto negro contadino. Io dire a colonnello che io essere negro contadino e lui... Oh, miss Rossella, yankees essere gente molto ignorante! Lui non sapere differenza! E io restare con lui e andare a Savannah insieme quando generale Sherman conquistare e, Dio mio, miss Rossella, io non avere mai visto cose cosí orribili! Rubare e incendiare e... Avere bruciato Tara, miss Rossella? - Vi avevano dato fuoco, ma noi riuscimmo a spegnerlo. - Bene; io essere molto contento di sapere questo. Tara essere mia casa e io voler tornare. E quando guerra essere finita, colonnello dire: «Tu, Sam, tornare al Nord con me. Io pagare buon salario». Come tutti negri, badrona, io volere provare questa famosa libertà prima di tornare a casa, e io andare nel Nord con colonnello. Sissignora, noi andare a Washington e Nuova York e Boston e dove colonnello abitare. Io essere negro viaggiatore! Essere tante case e tante carrozze nelle strade di yankees che tu non potere immaginare! Io avere sempre paura di essere investito! - Ti piaceva il Nord, Sam? Sam si grattò la testa lanosa. - No... non piacere. Colonnello essere molto brav'uomo e capire negri. Ma sua moglie essere diversa. Sua moglie prima volta che vedere me, avermi chiamato «mister». Sí, davvero e io credere di cadere all'indietro quando lei avere detto cosí. Poi colonnello dire a lei di chiamarmi «Sam» e lei chiamarmi cosí. Ma tutti yankees prima volta che mi vedere, chiamare me «mist' O'Hara». E dirmi di sedere con loro come se io essere come loro. Ma io non essermi mai seduto con bianchi ed essere troppo vecchio per imparare. E trattare me come loro, ma dentro loro cuore, miss Rossella, non avere simpatia; loro non amare negri. E avere paura perché io essere cosí grande. E tutti chiedere come essere cani sanguinari e domandare particolari di battiture che io avere ricevute. E io, miss Rossella, non essere mai stato battuto, se Dio vuole! tu sapere che «mist» Geraldo non avere mai permesso di battere negro costoso come me! Quando io avere detto questo e avere raccontato come era buona miss Elena e che avermi curato per una settimana quando io avere polmonite, loro non credere. E io avere tanto desiderio di rivedere miss Elena e Tara, finché non potere piú resistere e una notte scappare e chiedere a tutti i carri che passare la strada per 'Tlanta. Finché arrivare qui; e se tu essere tanto buona di comprarmi biglietto ferrovia, io essere tanto contento di tornare a casa. E rivedere miss Elena e mist' Geraldo! Io avere abbastanza di libertà. Avere bisogno di qualcuno che pensare darmi da mangiare tutti giorni, e dirmi cosa dovere fare e non fare e curarmi quando essere ammalato. Se mi tornasse polmonite, come fare? No, badrona! Loro chiamare me «mist' O'Hara», ma non essere capaci curarmi. E miss Elena curarmi se io essere ammalato e... Che cosa avere, miss Rossella? - Il babbo e la mamma sono morti, Sam. - Morti? Tu non dire la verità, miss Rossella?! Questo non essere modo di trattare povero Sam! - È la verità. La mamma morí quando gli uomini di Sherman vennero a Tara, e il babbo... è finito nel giugno scorso. Non piangere, Sam! Ti prego, altrimenti piango anch'io! No, non piangere! Non posso sopportarlo. Non parliamo di questo adesso. Ti racconterò un'altra volta... Miss Súsele è a Tara e ha sposato un brav'uomo, il signor Will Benteen. E miss Carolene è in un... - Rossella fece una pausa. Non avrebbe mai potuto spiegare a quel gigante piangente che cos'era un convento. - È andata ad abitare a Charleston. Ma Pork e Prissy sono a Tara... Andiamo, Sam, soffiati il naso. Hai proprio desiderio di andare a casa? - Sí; ma non essere come credevo, con miss Elena e... - E non ti piacerebbe restare ad Atlanta e lavorare per me? A me occorre un cocchiere e bisogna che sia uno che possa incutere timore a tutti i mascalzoni che vi sono in giro. - Sí, badrona. Questo essere vero. E io dire a te che non fare bene ad andare in giro sola. Tu non sapere che canaglie essere negri in questi tempi, specialmente quelli che stare qui a Shantytown. Non essere sicuro per te. Io essere qui da due giorni, ma avere sentito loro parlare di te. E ieri, quando tu essere passata e quelle donnacce negre averti detto brutte parole, io avere riconosciuta te, ma tu andare troppo presto e io non potere raggiungerti. Ma io pensare a questa gente! Sicuro! Avere visto che oggi non essere qui attorno nessuno di loro? - L'ho notato; e certo debbo esserne grata a te, Sam. Dunque, che ne dici dell'idea di venire a farmi da cocchiere? - Miss Rossella, grazie, badrona. Ma credere che essere meglio io andare a Tara. Il grosso Sam chinò gli occhi; il suo alluce nudo tracciò inutili segni nella polvere della strada. Sembrava inquieto. - Perché? Ti darò un buon salario. Devi rimanere con me. Il grosso e stupido viso nero sul quale si poteva leggere come su quello di un bimbo, si rialzò a guardarla; vi era un'espressione di timore scritta su quei lineamenti. Si avvicinò e appoggiandosi a un lato del carrozzino, sussurrò: - Miss Rossella, io dovere andare via da 'Tlanta. Dovere andare a Tara dove non potermi trovare. Io... io avere ucciso un uomo. - Un negro? - No, badrona. Un bianco. Un soldato yankee; e loro stare cercando me. Perciò io essere qui a Shantytown. - Com'è stato? - Lui essere ubriaco e avere detto qualche cosa che io non poter sentire e io avergli messo mani sul collo... Non avere avuto intenzione di ammazzarlo, miss Rossella, ma mia mano essere molto forte e prima che io essermi accorto, lui già morto. E io avere tanta paura che non sapere cosa fare! Allora essere venuto a nascondermi qui e quando ieri averti visto passare, avere detto: «Mio Dio! Quella miss Rossella! Lei pensare a me. Non farmi prendere dagli yankees. Lei rimandare me a Tara». - Dici che ti cercano? Sanno che sei stato tu? - Sí, badrona. Io essere cosí alto che non potere essere scambiato con altro. Credo che essere il negro piú alto di 'Tlanta. Essere già venuti a cercarmi qui ieri sera, ma una donna negra avermi nascosto in una capanna nei boschi finché loro essere andati via. Rossella aggrottò le ciglia riflettendo. Non era affatto spaventata o spiacente che Sam avesse commesso un delitto; soltanto era delusa di non poterlo avere come cocchiere. Un negro grande come Sam sarebbe stato una guardia del corpo non meno sicura di Baldo. Pazienza; bisognava trovar modo di farlo andare a Tara, perché non cadesse in mano delle autorità. Valeva troppo per lasciarlo impiccare! Era stato il miglior capoccia che Tara avesse mai avuto! Rossella non riusciva a concepire che adesso era libero. Apparteneva ancora a lei, come Pork, Mammy, Pietro, la cuoca e Prissy. Era ancora «uno della famiglia»; e come tale doveva essere protetto. - Ti manderò a Tara stasera - disse finalmente. - Ora, Sam, io devo andare ancora avanti un tratto; ma sarò di ritorno prima del calar del sole. Tu mi aspetterai qui. Non dire a nessuno dove vai; e cerca se puoi procurarti un cappello per nasconderti il viso. - Io non avere cappello. - Tieni, eccoti un quarto di dollaro. Compra un cappello da uno di questi luridi negri e aspettami qui. - Sí, badrona. - Il suo viso brillava per il sollievo di avere qualcuno che gli diceva che cosa doveva fare. Rossella proseguí pensierosa. Certamente per Will un buon coltivatore sarebbe il benvenuto a Tara. Pork non era mai stato un grande aiuto, come contadino, e non lo sarebbe mai. Con l'andata di Sam a casa, Pork potrebbe venire a raggiungere Dilcey ad Atlanta, come gli era stato promesso alla morte di Geraldo. Raggiunse lo stabilimento che il sole era già al tramonto; piú tardi di quanto aveva creduto. Johnnie Gallegher era sulla soglia della miserabile baracca che serviva da cucina per il piccolo accampamento. Su un tronco dinanzi alla casupola di pietra che serviva da dormitorio sedevano quattro dei cinque galeotti che rappresentavano il personale dello stabilimento. Le loro uniformi erano sporche e bagnate di sudore; ad ogni movimento si udiva il tintinnare delle loro catene, ed essi avevano un'aria di apatia e di disperazione. «Come sono macilenti e malsani» pensò Rossella guardandoli duramente; eppure quando li aveva presi, poco tempo prima, erano in migliori condizioni! Non alzarono neanche gli occhi quando ella scese dal carrozzino, ma Johnnie si volse verso di lei sollevando incurantemente il cappello. Il suo piccolo viso bruno era duro come una noce. - Non mi piace l'aspetto di quegli uomini - disse Rossella bruscamente. - Sembra che stiano poco bene. Dov'è l'altro? - Dice che è ammalato - rispose laconicamente Johnnie. - È nella sua amaca. - Che cos'ha? - Soprattutto pigrizia. - Vado a vederlo. - Non ci andate. Probabilmente è nudo. Ci penso io. Domani tornerà al lavoro. Rossella esitò; in quel momento vide uno dei forzati alzare stancamente il capo e lanciare a Johnnie un'occhiata carica d'odio prima di riabbassarlo. - Li avete frustati? - Scusate, signora Kennedy, chi è che dirige lo stabilimento? Voi mi avete messo a questo posto e mi avete affidato la direzione. Mi avete dato libertà d'azione. Avete da lamentarvi di me? Non ho fatto per voi il doppio di quello che faceva il signor Elsing? - Sí, questo è vero. - Ma un brivido percorse Rossella da capo a piedi. Vi era qualche cosa di sinistro in quel baraccamento; qualche cosa che ai tempi di Ugo Elsing non vi era. Un senso di solitudine, di abbandono che la fece raccapricciare. Quei forzati erano lontani da tutto e da tutti, e cosí completamente alla mercé di Johnnie Gallegher, che se egli li avesse frustati o comunque mal trattati, probabilmente lei non lo avrebbe mai saputo. E coloro non oserebbero lagnarsi con lei, per timore di peggiori punizioni dopo la sua partenza. - Sono sparuti. Date loro abbastanza da mangiare? Eppure Dio sa che per il loro vitto spendo tanto che potrebbero essere grassi come porcelli. Soltanto la farina e la carne di maiale sono costate trenta dollari il mese scorso. Che cosa date loro per cena stasera? Si avvicinò alla baracca e guardò dentro. Una grassa mulatta, che era curva su un vecchio fornello arrugginito, si volse abbozzando un saluto e continuò a mescolare in una casseruola dove cuocevano dei fagioli. Rossella sapeva che Johnnie Gallegher viveva con quella donna; ma ritenne che fosse meglio fingere di ignorarlo. Vide che eccettuato i fagioli e un pane di granturco non vi erano altri preparativi per la cena. - Non fate altro per questi uomini? - No, signora. - C'è della carne a cuocere insieme a quei fagioli? - No, signora. - Non c'è lardo? Ma i fagioli non valgono nulla senza lardo. Non nutrono abbastanza. Perché non c'è lardo? - Mist' Johnnie dice che è inutile. - Dovete mettercelo. Dove tenete le provviste? La negra volse gli occhi spaventati verso un piccolo armadio a muro che serviva da dispensa e che Rossella spalancò. Vi era a terra un bariletto aperto di farina di granturco, un sacchetto di farina di frumento, una libbra di caffè, un poco di zucchero, un barattolo di sorgo e due prosciutti. Uno di questi, posato sulla scansia, era stato cotto da poco e ne erano state tagliate un paio di fettine. Rossella si voltò verso Johnnie come una furia e incontrò il suo sguardo incollerito. - Dove sono i cinque sacchi di farina di frumento che vi ho mandato la settimana scorsa? E il sacco di zucchero e quello di caffè? Ho mandato cinque prosciutti e dieci libbre di lardo e non so quanti sacchi di ignami e di patate... Dove sono? Non potete averle consumate in una settimana, anche dando agli uomini cinque pasti al giorno. Avete venduto tutto, ladro che siete! Venduto i miei viveri e vi siete messo in tasca il denaro; e a questi uomini date fagioli e pane di granturco! Sfido che sono cosí magri! Levatevi di lí. Gli passò davanti impetuosamente e andò alla porta. - Ehi, voi lí in fondo! Sí, voi...! Venite qui! L'uomo si alzò e andò goffamente verso di lei, facendo tintinnare le catene; ella vide che i suoi malleoli nudi erano rossi e irritati per lo strofinare del ferro. - Quando avete avuto del prosciutto l'ultima volta? L'uomo guardò a terra. - Parlate! L'uomo continuò a tacere, avvilito. Finalmente alzò gli occhi, guardò Rossella implorando e li riabbassò. - Paura di parlare, eh? Bene, andate in dispensa e prendete quel prosciutto sulla scansia. Rebecca, dàgli il tuo coltello. Voi, portate il prosciutto a quegli uomini e dividetelo con loro. E tu, Rebecca, prepara delle focacce e del caffè per costoro. E dàgli del sorgo in abbondanza. Subito, cosí vedo mentre glielo dai. - Questo essere caffè privato e farina di mist' Johnnie - azzardò Rebecca sgomentata. - Di mister Johnnie, proprio?! Suppongo che anche il prosciutto sia suo. Fai quello che ti dico. Sbrigati. Johnnie Gallegher, venite con me fino al carrozzino. Attraversò lo spiazzo in disordine e si arrampicò nel veicolo, osservando con cupa soddisfazione che gli uomini strappavano il prosciutto a brandelli che ficcavano voracemente in bocca. Sembrava che temessero che qualcuno potesse da un momento all'altro rapir loro quel cibo. - Siete un vero furfante! - gridò furibonda a Johnnie che era accanto alla ruota, col cappello ricacciato indietro sulla fronte aggrottata. - E mi consegnerete il prezzo dei miei viveri. Per l'avvenire vi porterò le provviste giorno per giorno invece di mandarvi il necessario per un mese. Cosí non potrete truffarmi. - Per l'avvenire io non ci sarò. - Vi licenziate?! Ebbe l'impulso di gridare: «Tanto meglio!» ma la fredda mano della prudenza la trattenne. Che farebbe, se Johnnie se ne andasse? Con lui, era stato prodotto il doppio di legname di quanto se ne produceva sotto la gestione di Ugo. E proprio adesso ella aveva ricevuto una grande ordinazione, la piú grossa che avesse mai avuta; ed era urgente. Se Johnnie se ne andava, chi provvederebbe alla gestione dello stabilimento? - Sí, mi licenzio. Voi mi avete dato qui pieni poteri, e mi avete detto che da me non volevate altro se non la maggior quantità possibile di legname. Non mi avete detto allora che sistemi dovevo usare; e non intendo che veniate a dirmelo adesso. Non potete lagnarvi che io non abbia rispettato il contratto. Come ottengo il risultato, è cosa che non vi riguarda. Vi ho fatto guadagnare del denaro e ho ben guadagnato il mio salario... e quello che ho potuto arrangiare in piú. E adesso voi venite qui a immischiarvi, a rivolgere delle domande agli uomini, a distruggere la mia autorità. Come volete che, dopo questo, io possa conservare la disciplina? Che vi importa se occasionalmente qualcuno riceve un colpo di frusta? Sono degli indolenti che meritano anche di peggio. E se anche non sono rimpinzati?... Non meritano di meglio. O vi occupate degli affari vostri e lasciate che io mi occupi dei miei, o me ne vado stasera stessa. Il suo viso duro era piú spietato che mai; e Rossella si sentí incerta sul da farsi. «Che farò, se se ne va stasera? Non posso rimanere tutta la notte a guardia dei galeotti!» Evidentemente il suo volto rivelò il suo pensiero, perché l'espressione di Johnnie mutò alquanto e i suoi occhi sembravano meno crudeli. Anche la sua voce suonò meno aspra. - Si fa tardi, signora Kennedy; è meglio che andiate a casa. Non ci guasteremo per una piccola cosa come questa; vi pare? Potete trattenere dieci dollari sul mio stipendio del mese prossimo e siamo pari. Gli sguardi di Rossella andarono involontariamente al miserabile gruppo che stava divorando il prosciutto; poi pensò al malato. Avrebbe dovuto liberarsi di Johnnie Gallegher che era un ladro e un aguzzino. Chi sa che cosa faceva a quei disgraziati quando lei non c'era... Ma, d'altra parte era abile; e lei aveva bisogno di un uomo che sapesse il fatto suo. Inutile: ora non poteva mandarlo via. Soltanto, in avvenire sorveglierebbe che i forzati avessero le giuste razioni di vitto. - Vi tratterrò venti dollari - disse brevemente - e tornerò a discutere su questa faccenda di mattina. Raccolse le redini. Ma sapeva che non se ne sarebbe piú parlato. Era un affar finito; e anche Johnnie lo sapeva. Mentre percorreva il viottolo verso la strada di Decatur, la sua coscienza e il suo desiderio di guadagno combatterono un'aspra battaglia. Non vi era scopo ad esporre delle vite umane alla brutalità di quel piccolo uomo. Se uno di quei disgraziati moriva, ella sarebbe colpevole quanto lui, perché lo aveva lasciato a quel posto conoscendo i suoi mali trattamenti. Ma d'altra parte... d'altra parte, quegli uomini avevano il torto di essere dei forzati. Se avevano commesso dei delitti ed erano stati arrestati, meritavano ciò che loro capitava. Ciò in parte sollevò la sua coscienza; ma mentre percorreva la strada, i visi smunti dei forzati le tornarono dinanzi agli occhi. - Oh, vi penserò dopo! - si disse; e ricacciando il pensiero nel fondo piú recondito della sua mente, richiuse la porta del ripostiglio in cui nascondeva le immagini piú segrete.

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Il sole era completamente scomparso quando ella raggiunse la curva della strada poco prima di Shantytown; i boschi dietro a lei erano oscuri. Con la caduta dell'ultimo raggio, una brezza fredda si era messa a soffiare tra i rami, facendo scricchiolare i tronchi nudi e frusciare le foglie secche. Non si era mai trovata fuori a quell'ora sola; era un po' inquieta e avrebbe voluto essere a casa. Non vide il grosso Sam; e nel fermare il cavallo per attenderlo si sentí preoccupata della sua assenza, temendo che gli yankees lo avessero già raggiunto. Udí un passo che veniva dal sentiero che conduceva all'accampamento ed emise un sospiro di sollievo. Sgriderebbe ben bene Sam perché l'aveva fatta aspettare. Ma non era lui. Alla curva apparve un bianco alto e cencioso, accompagnato da un negro tozzo e tarchiato che aveva le spalle e il petto di un gorilla. Ella percosse rapidamente il dorso del cavallo con le briglie e afferrò la pistola. La bestia si mosse per prendere il trotto, ma improvvisamente scartò vedendo il bianco che tendeva la mano. - Signora, potete darmi qualche cosa? Ho fame. - Lèvati davanti - rispose cercando di parlare con voce ferma. - Non ho denaro. Ehi là! - fece poi al cavallo. Con un movimento subitaneo la mano dell'uomo fu sulla briglia. - Affèrrala - gridò al negro. - Probabilmente ha il denaro. nascosto in seno. Ciò che avvenne dopo fu per Rossella come un incubo rapidissimo. Ella sollevò la pistola ma l'istinto le disse di non sparare contro il bianco, per timore di colpire il cavallo. Quando il negro fece per balzare sul carrozzino, con un sogghigno lascivo che gli spalancava la bocca sino alle orecchie, ella sparò a bruciapelo. Non seppe mai se lo aveva colpito o no, perché nell'attimo seguente la pistola le fu strappata di mano con una stretta che quasi le spezzò il polso. Il negro era accanto a lei, tanto che se ne sentiva il fetore, e cercava di trarla giú dal veicolo. Con la mano libera ella si difese ferocemente, graffiandogli il viso; quindi sentí la grossa mano di lui sulla gola e, con un rumore di stoffa lacerata, il suo corpetto fu aperto dal collo alla cintura. Quindi la mano nera frugò tra i suoi seni; ella provò un terrore e una repulsione inimmaginabile e si mise a urlare come una pazza. - Falla tacere! Búttala giú! - gridò ancora il bianco; e la mano nera cercò la bocca di Rossella. Ella la morse con tutta la violenza di cui fu capace e attraverso le grida sentí il bianco bestemmiare e comprese che sulla strada buia era giunto un terzo uomo. La mano nera si staccò dalla sua bocca e il negro fece un salto indietro mentre il grosso Sam gli si lanciava addosso. - Correre, miss Rossella! - gridò Sam lottando col negro; e Rossella, urlante e tremante, afferrò redini e frusta e percosse con entrambi il cavallo. Questo fece un balzo, ed ella sentí che la ruota passava su qualche cosa di soffice e di resistente. Era il bianco che giaceva sulla strada dove lo aveva gettato un pugno di Sam. Impazzita dal terrore, ella percosse ancora il cavallo il quale prese un'andatura folle che faceva ondeggiare e saltare il calessino. Nel suo terrore, sentendo un passo che la inseguiva ella incitava il cavallo perché andasse piú veloce. Se quello scimmione nero la raggiungeva, era sicura che morrebbe prima che egli la toccasse. Una voce gridò dietro a lei: - Miss Rossella! Ferma! Senza rallentare, si voltò tremando e vide il grosso Sam che galoppava dietro a lei, con le sue lunghe gambe che battevano regolarmente il terreno come due stantuffi. Ella trattenne un attimo il cavallo quando Sam le giunse accanto; il negro si lanciò sul carrozzino accoccolandosi accanto a lei. Aveva il viso bagnato di sudore e di sangue; le chiese ansimando: - Tu essere ferita? Averti ferita? Non riuscí a rispondere; ma vedendo la direzione del suo sguardo si accorse che il suo corpetto era aperto fino alla cintura lasciando scorgere il suo seno nudo e il suo copribusto. Con mano tremante avvicinò i due lati e cominciò a piangere tenendo il capo chino, con singhiozzi pieni di spavento. - Dare a me redini - disse Sam strappandogliele. - Avanti, cavallo! La frusta schioccò e il cavallo spaventato prese nuovamente un galoppo furioso che minacciò di rovesciare il calessino nel fosso. - Io sperare di non avere ucciso babbuino nero. Ma non avere aspettato per accertarmi - ansimò ancora. - Ma se averti fatto male, miss Rossella, io tornare indietro a finirlo. - No... no... vai avanti, presto! - singhiozzò Rossella.

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Il suo abito nuovo di mussolina verde a fiori si allargava in pieghe ondeggianti sulla gonna a cerchi ed armonizzava a perfezione con le scarpine di marocchino verde dal tacco basso che suo padre le aveva portato recentemente da Atlanta. L'abito fasciava mirabilmente il vitino di quaranta centimetri di circonferenza, il piú sottile nelle tre contee, e disegnava il seno, abbastanza maturo per i suoi sedici anni. Malgrado la castità dell'amplissima gonna, la semplicità con cui i capelli erano intrecciati e raccolti in un nodo, la compostezza delle bianche mani congiunte nel grembo, la sua vera personalità non riusciva a celarsi. Gli occhi verdi erano vivacissimi nel visino dolce, pieni di volontà, avidi di vita, in assoluto contrasto col suo contegno riservato. Questo derivava dagli affettuosi consigli materni e dalla severa disciplina della bambinaia; ma gli occhi erano suoi ed erano indipendenti. Seduti a fianco della fanciulla, i gemelli stavano comodamente appoggiati alle spalliere delle loro sedie; socchiudevano alla luce del sole gli occhi muniti di occhiali montati in metallo e ridevano e chiacchieravano incrociando pigramente le lunghe gambe dai saldi muscoli di cavalcatori. Avevano diciannove anni, erano alti un metro e novanta; coi volti abbronzati e i capelli fulvi, gli occhi dall'espressione gaia e arrogante, vestiti di identiche giacche turchine e calzoni da cavalcare color mostarda, si somigliavano come due piante di cotone. Fuori, il sole del tardo pomeriggio scendeva all'orizzonte e illuminava il cortile avvolgendo in una gloria di raggi gli alberi di còrniolo che formavano solide masse di fiori bianchi su uno sfondo verde tenero. I cavalli dei gemelli, due grossi animali rossicci come i capelli dei loro padroni, zampavano sulla strada maestra; attorno a loro squittiva e saltellava la muta dei veltri magri e nervosi che accompagnava Stuart e Brent dovunque andassero. Un po' in disparte, con aria aristocratica, era sdraiato un grosso cane da pastore, che, col muso posato sulle zampe anteriori, aspettava pazientemente che i giovanotti andassero a casa per la cena. Fra i cani, i cavalli e i due gemelli era un'affinità piú profonda di quella derivante dall'essere sempre insieme. Erano tutti giovani animali sani, spensierati, graziosi e vivaci; i ragazzi focosi e temerari come i loro cavalli ma, con tutto ciò, docili e ubbidienti con chi sapeva come trattarli. Benché fossero nati fra le agiatezze della vita della piantagione e fossero stati serviti in tutto e per tutto sin dall'infanzia, i volti dei tre giovani seduti sotto al porticato non avevano l'aspetto languido né molle. Avevano piuttosto il vigore e la vivacità di coloro che hanno passato tutta la vita all'aria aperta e non si sono troppo occupati di malinconia e di libri. La vita nella contea di Clayton nella Georgia settentrionale era ancora agli inizi, né aveva lo sviluppo già raggiunto in Augusta, Savannah, Charleston. Le provincie meridionali piú vecchie e piú tranquille guardavano con un certo disdegno gli abitanti di quella parte della regione che confinava coi loro paesi; ma qui, nella parte settentrionale, la mancanza di certe finezze dell'educazione classica non era considerata una vergogna, purché questa fosse compensata dall'abilità nelle cose che piú importavano. E queste erano: il coltivare del buon cotone, saper cavalcare, ballare con leggerezza, tirare al bersaglio, inchinarsi alle signore con eleganza e comportarsi come un gentiluomo di fronte ai liquori. Tutte cose in cui i gemelli eccellevano: ed essi erano ugualmente saldi nella loro notoria incapacità ad apprendere qualunque cosa fosse contenuta fra le pagine di un libro. La loro famiglia aveva piú danaro, piú cavalli e piú schiavi di qualsiasi altra nel paese; ma i ragazzi avevano meno nozioni grammaticali di quante ne avesse la maggior parte dei loro poveri vicini. Questa la ragione per cui Stuart e Brent poltrivano sotto il porticato di Tara in quel pomeriggio d'aprile. Erano stati espulsi in quei giorni dall'Università di Georgia; la quarta Università che li metteva alla porta in due anni; i due fratelli maggiori, Tom e Boyd, erano tornati sempre a casa anche loro, non volendo rimanere in un istituto dove i gemelli non erano i benvenuti. Stuart e Brent consideravano la loro ultima espulsione come un bellissimo scherzo; e Rossella, che da quando aveva lasciato l'anno prima l'Accademia femminile di Fayetteville non aveva piú aperto un libro, lo trovava anch'essa divertentissimo. - Sapevo che a voi due non importava nulla di essere espulsi; e neanche a Tom - disse. - Ma Boyd? È uno di quelli che tengono ad avere un'educazione, e voi due gli avete fatto lasciare le Università di Virginia, di Alabama e della Carolina del Sud; e ora quella di Georgia. Con questo sistema, non riuscirà mai a finire gli studi. - Oh, potrà leggere il codice nell'ufficio del giudice Parmalee a Fayetteville - rispose Brent incurante. - Del resto, ciò non ha importanza. Tanto saremmo dovuti tornare a casa ad ogni modo, prima che fosse finito il corso. - Perché? - La guerra, ochetta! Può darsi che scoppi da un giorno all'altro; e non puoi supporre che qualcuno di noi resti in collegio mentre c'è la guerra! - Sai benissimo che la guerra non ci sarà - fece Rossella seccata. - Son tutte chiacchiere. Ashley Wilkes e suo padre hanno detto la settimana scorsa al babbo che i nostri commissari a Washington stanno per venire ad un... un... accordo amichevole col signor Lincoln riguardo alla Confederazione. E ad ogni modo, gli yankees hanno troppa paura di noi per combattere. Non ci sarà nessuna guerra ed io sono stufa di sentirne parlare. - Non ci sarà la guerra! - esclamarono indignati i gemelli, come se qualcuno li avesse truffati. - Ti assicuro, tesoro, che la guerra ci sarà - affermò Stuart. - Può darsi che gli yankees abbiano paura di noi, ma dopo il modo con cui il generale Beauregard li ha messi fuori dal Forte Sumter l'altro ieri, bisognerà che si battano se non vogliono essere bollati come codardi dinanzi al mondo intero. La Confederazione... Rossella fece una smorfia di noia e di impazienza. - Se pronunciate ancora una volta la parola «guerra» me ne vado in casa e chiudo la porta. Nessuna parola in vita mia mi è mai parsa tanto insopportabile, se non la parola «secessione». Il babbo parla di guerra la mattina, a mezzogiorno e la sera, e tutti quelli che vengono a trovarlo non fanno che nominare il Forte Sumter e i Diritti di Stato e Abe Lincoln, finché mi sento cosí esasperata che avrei voglia di urlare! E poi vi sono anche tutti i ragazzi che ne parlano. In tutta la primavera non c'è stato nessun divertimento, nessuna riunione perché i giovinotti non possono parlare d'altro. Sono stata tanto contenta che almeno la Georgia abbia aspettato dopo Natale a separarsi, altrimenti anche i ricevimenti natalizi sarebbero andati a monte. Se pronunciate ancora la parola «guerra» me ne vado in casa. E lo avrebbe fatto, perché era incapace di sopportare per molto tempo una conversazione di cui ella non fosse l'argomento principale. Ma sorrideva nel parlare, sicché sulle sue guance si formavano due graziose fossette, e le sue lunghe ciglia nere palpitavano come ali di farfalla. I ragazzi furono affascinati, com'ella aveva previsto, e si affrettarono a chiederle scusa per averla annoiata. La sua mancanza di interessamento non la diminuiva ai loro occhi; essi pensavano che la guerra era una cosa che riguardava gli uomini e non le donne, e il suo atteggiamento parve anzi a loro una prova della sua femminilità. Essendo riuscita a sviarli dal noioso argomento della guerra, ella tornò ad interessarsi della loro situazione immediata. - Che cosa ha detto la mamma del fatto che siete stati nuovamente espulsi? I ragazzi si sentirono a disagio, ricordando qual era stata la condotta della mamma tre mesi prima, quando essi erano tornati dall'Università di Virginia. - Veramente - disse Stuart - non ha ancora avuto occasione di dir nulla. Stamattina noi e Tom siamo usciti presto, prima che si alzasse; Tom si è fermato dai Fontaine mentre noi siamo venuti qui. - E ieri sera, quando siete arrivati, non ha detto nulla? - Oh, siamo stati fortunati. Poco prima del nostro arrivo, era stato portato il nuovo stallone che Mammà si è procurato il mese scorso nel Kentucky, e tutti erano sottosopra. Quel bestione - è un gran cavallo, Rossella; devi dire a tuo padre di venirlo a vedere - aveva già dato un morso, cammin facendo, al garzone che lo aveva condotto e aveva calpestato due negri di Mammà che erano andati all'arrivo del treno a Jonesboro. E pochi minuti prima del nostro arrivo aveva mezzo demolito la stalla a calci e quasi ammazzato Strawberry, il vecchio stallone di Mammà. Abbiamo visto Mammà fuori della stalla con un sacchetto di zucchero, che cercava di ammansirlo, e vi riusciva. I negri, tutti spaventati, stavano a guardare Mammà che parlava col cavallo come se fosse una persona e gli dava da mangiare in mano. Nessuno sa trattare i cavalli come Mamma. Quando ci ha visti ha detto: «In nome del cielo, che diamine siete tornati a fare a casa? Siete peggio delle piaghe d'Egitto!» Allora il cavallo cominciò a sbuffare e a impennarsi, e Mammà a gridare: «Via, andate via! Non vedete che è nervoso, questo tesoro? Andate, mi occuperò di voi domattina!» Cosí ce ne andammo a letto e stamattina ci siamo alzati prima di lei e abbiamo lasciato Boyd a casa per parlarle. - Credi che lo picchierà? - Come tutti gli abitanti della Contea, Rossella non riusciva a capire come la piccola signora Tarleton trattasse cosí tirannicamente i figliuoli grandi e li percuotesse col suo frustino quando l'occasione lo richiedeva. Beatrice Tarleton era una donna attiva, che dirigeva non solo la sua grande piantagione di cotone, con un centinaio di negri, e otto figliuoli, ma anche il piú grande allevamento di cavalli della contrada. Era di umor vivo e facilmente irritata dalle frequenti scappate dei suoi quattro figli; e, mentre a nessuno era permesso di frustare un cavallo o uno schiavo, ella riteneva che una bastonata ogni tanto non facesse alcun male ai ragazzi. - Oh, non lo batterà di certo. Non lo ha mai picchiato molto perché è il piú vecchio ed è anche il nano della famiglia - riprese Stuart fiero del suo metro e novanta. - Perciò lo abbiamo lasciato a casa a darle le spiegazioni. Dio benedetto, Mammà dovrebbe smetterla di frustarci! Abbiamo diciannove anni e Tom ne ha ventuno e lei ci tratta come se fossimo bambini di sei anni! - E cavalcherà il suo nuovo cavallo domani; alla riunione dei Wilkes? - Ne avrebbe il desiderio, ma il Babbo dice che è troppo pericoloso. E poi, le ragazze non glielo permetteranno. Vogliono vederla intervenire almeno una volta a una riunione in carrozza, come una signora. - Speriamo che non piova, domani - prosegui Rossella; - da una settimana piove tutti i giorni. Non c'è niente di piú noioso di una merenda fatta in casa. - Oh, sarà bel tempo e caldo come in giugno - affermò Stuart. - Guarda il tramonto: non ne ho mai visto di piú rossi. Sai che dal tramonto si può sempre prevedere che tempo farà il giorno seguente. Guardarono verso l'orizzonte vermiglio, oltre gli sterminati campi di cotone di Geraldo O'Hara. Ora che il sole stava declinando avvolto di porpora dietro le colline al di là del fiume Flint, il calore della giornata d'aprile dava luogo a una piacevole frescura. La primavera era giunta in anticipo quell'anno, con piogge tepide e un improvviso spumeggiare di rosei fiori di pesco; i còrnioli macchiavano di grosse chiazze candide la palude scura e le colline lontane. L'aratura era quasi terminata e la gloria sanguigna del tramonto dava ai solchi di rossa terra della Georgia una tinta anche piú ardente, il terriccio umido che attendeva avidamente i semi del cotone appariva roseo nel fondo sabbioso dei solchi, vermiglio, scarlatto e focato dove si stendevano le ombre sui lati dei fossati. La casa di pietra intonacata di bianco sembrava un'isola in un selvaggio mare purpureo, un mare le cui onde si fossero improvvisamente pietrificate nel momento in cui si frangevano. Perché quivi non erano solchi lunghi e dritti come si vedevano nei campi di argilla giallastra della piatta Georgia centrale o nella terra nera delle piantagioni che sorgevano sulla costa. L'ondulosa e collinosa campagna della Georgia settentrionale era lavorata in un'infinità di curve per impedire che la terra generosa franasse e andasse a finire in fondo al fiume. Era un terriccio di un violento colore sanguigno dopo le piogge, simile a polvere di mattone durante i periodi di siccità; la migliore del mondo per la coltivazione del cotone. Un piacevole paesaggio di case bianche, di campi tranquilli e ben lavorati, di pigri fiumi dall'acqua giallastra; ma pieno di contrasti, di sole abbagliante e di ombre dense. Le zone dissodate e le vaste estensioni di campi di cotone sorridevano a un sole caldo, placido e compiacente. Ai loro margini sorgevano le foreste vergini, fresche ed oscure anche nei meriggi piú ardenti, misteriose, un po' sinistre, ove i pini sembravano attendere con secolare pazienza e mormorare minacciosi: «Badate! State attenti! Vi abbiamo avuti una volta. Possiamo riprendervi nuovamente». All'orecchio dei tre sotto al porticato giunse uno strepito di zoccoli, un tintinnar di catene di bardature e il riso stridente dei negri, poiché lavoratori e mule tornavano dai campi. Dall'interno della casa si udí la voce dolce della madre di Rossella, Elena O'Hara, chiamare la bimba negra che portava il suo cestello di chiavi. La voce acuta infantile rispose: - Eccomi, signora - e vi fu uno scalpiccío nel retro della casa, verso il luogo dove si conservavano i viveri affumicati e dove Elena doveva misurare il cibo per i coltivatori che tornavano a casa. Vi fu un acciottolio di porcellane e un tramestio di argenti quando Pork, il domestico-maggiordomo di Tara, apparecchiò la tavola per la cena. Udendo questi ultimi rumori, i gemelli si accorsero che era ora di muoversi per tornare a casa. Ma non avevano nessuna voglia di trovarsi di fronte alla madre e rimasero ancora a gingillarsi sotto al porticato aspettando da un momento all'altro che Rossella li invitasse a rimanere a cena. - A proposito, Rossella. E per domani? - cominciò Brent. - Non sarebbe giusto che essendo stati via e ignorando dell'invito e del ballo, dovessimo essere privati di ballare con te domani sera. Non avrai promesso tutti i balli, spero? - Sicuro che li ho promessi! Come potevo sapere che sareste tornati? Non potevo correre il rischio di rimanere a far tappezzeria per aspettarvi! - Tu, far tappezzeria! - i ragazzi risero saporitamente. - Senti, cara - riprese Brent. - Mi darai il primo valzer e darai l'ultimo a Stu; e cenerai con noi. Staremo seduti sulla scaletta dell'approdo come abbiamo fatto all'ultimo ballo e ci faremo dire nuovamente la buona ventura da Mammy Jincy. - Non mi piacciono le predizioni di Mammy Jincy. Sapete benissimo che ha detto che dovevo sposare un signore coi capelli nerissimi e lunghi baffi neri; e sapete che non mi piacciono gli uomini bruni. - Ti piacciono i fulvi, non è vero, gioia? - rise Brent. - Via, promettici tutti i valzer e la cena. - Se ce li prometti, ti riveliamo un segreto - soggiunse Stuart. - Quale? - esclamò Rossella, ansiosa come una bambina. - Quello che abbiamo saputo ieri ad Atlanta, Stu? Se è quello, sai che abbiamo promesso di non parlare. - Sicuro; ce l'ha detto la signorina Pitty. - La signorina chi? - Sai, quella cugina di Ashley Wilkes che sta ad Atlanta: la signorina Pittypat Hamilton; la zia di Carlo e di Melania Hamilton. - La conosco; non ho mai conosciuto una vecchia piú stupida. - Ebbene: ieri mentre eravamo ad Atlanta aspettando il treno per venire qui, la incontrammo in carrozza; si fermò a parlarci e ci disse che domani sera al ballo di Wilkes verrà annunziato un fidanzamento. - Oh, lo so! - esclamò Rossella delusa. - Quell'idiota di suo nipote, Carletto Hamilton, con Gioia Wilkes. Lo sappiamo da anni che un giorno o l'altro dovevano sposarsi, benché lui sia abbastanza tiepido. - Credi che sia un idiota? - chiese Brent. - A Natale hai lasciato che ti ronzasse intorno parecchio. - Non potevo impedirgli di ronzare - e Rossella alzò le spalle negligentemente. - Ma credo che sia proprio uno scemo. - Del resto, non è il suo fidanzamento quello che sarà annunciato - dichiarò Stuart trionfante - ma quello di Ashley con la sorella di Carletto, Melania. Il volto di Rossella non mutò, ma le sue labbra si sbiancarono, come capita a chi riceve un colpo violento senza preavviso e che, nel primo momento, non si rende ben conto di quanto accade. La sua espressione era cosí calma che Stuart, poco osservatore, ritenne per certo che ella fosse soltanto sorpresa e molto incuriosita. - La signorina Pitty ci ha detto che non volevano annunciarlo ufficialmente fino all'anno venturo, perché Melania è stata poco bene; ma con le voci di guerra che ci sono in giro, le famiglie hanno pensato che era meglio sollecitare il matrimonio. Cosí il fidanzamento sarà annunciato domani sera, durante la cena. Ora che ti abbiamo detto il segreto, devi prometterci di cenare con noi. - Senza dubbio - rispose Rossella automaticamente. - E tutti i valzer? - Tutti. - Sei un tesoro! Scommetto che gli altri saranno furenti. - Che ce ne importa? - disse Brent. - In caso l'avranno da fare con noi. Un'altra cosa, Rossella: domattina, a mangiare la porchetta, siedi accanto a noi. - Che cosa? Stuart ripeté la domanda. - Va bene. I gemelli si guardarono giubilanti ma con una certa sorpresa. Benché si ritenessero i corteggiatori favoriti di Rossella, non avevano mai fino ad ora ottenuto cosí facilmente dei segni del suo favore. Di solito ella lasciava che pregassero e supplicassero, prendendoli in giro, rifiutando di dire un sí o un no, ridendo quando si imbronciavano, diventando glaciale quando si adiravano. Ed ora aveva promesso praticamente di trascorrer con loro tutta la giornata seguente: stare con loro durante quella colazione all'aperto in cui si mangiava la porchetta arrostita intera, e poi tutti i valzer (avrebbero pensato loro a far suonare soltanto dei valzer!) e la cena. Valeva la pena di farsi espellere dall'Università. Pieni di nuovo entusiasmo per il loro successo, si gingillarono parlando del pic-nic, del ballo e di Ashley Wilkes e di Melania Hamilton, interrompendosi l'un l'altro, scherzando e ridendo e cercando di farsi invitare a cena. Passò un po' di tempo prima che si accorgessero che Rossella non parlava. L'atmosfera era mutata. I gemelli non capirono perché, ma lo splendore del pomeriggio era scomparso. Sembrava che Rossella prestasse poca attenzione a ciò che essi dicevano, benché rispondesse correttamente. Intuendo qualche cosa che non riuscivano a comprendere, annoiati e contrariati, i gemelli esitarono alquanto; quindi si alzarono con riluttanza, guardando i loro orologi. Il sole era basso al di là dei campi arati, e i grandi boschi oltre il fiume apparivano piú grandi nei loro neri profili. Le ombre dei comignoli spiccavano sul cortile; e galline, anatre, tacchini attraversavano i campi barcollando sulle gambe corte. Stuart urlò: - Jeems! - Dopo un istante un giovinotto negro della loro età, alto e robusto, corse ansante, girando attorno alla casa verso i cavalli legati. Era il loro servitore e, come i cani, li accompagnava dovunque. Era stato il compagno di giochi della loro infanzia, regalato poi ai gemelli, in loro proprietà, per il loro decimo compleanno. Vedendolo, i cani dei Tarleton si alzarono dalla rossa polvere e rimasero ad attendere i loro padroni. I ragazzi si inchinarono e strinsero la mano a Rossella dicendole che l'indomani mattina si sarebbero trovati di buon'ora ad attenderla dinanzi alla casa dei Wilkes. Quindi si affrettarono a raggiungere i loro cavalli, balzarono in sella e, seguiti da Jeems, si avviarono al galoppo lungo il viale di cedri, agitando i cappelli ed emettendo grida di saluto. Oltrepassata la curva della strada polverosa che li nascondeva alla vista di Tara, Brent fermò il suo cavallo sotto a una macchia di còrnioli. Anche Stuart si fermò e il ragazzo negro rimase a qualche passo di distanza. I cavalli, sentendo che le redini erano lente, allungarono il collo a brucare le tenere erbette primaverili, e i cani pazienti si sdraiarono nuovamente nella soffice polvere rossa e guardarono con bramosa nostalgia il fumo dei comignoli che svaniva nel cielo crepuscolare. La larga faccia ingenua di Brent aveva un'espressione di stupore e di lieve indignazione. - Senti: non ti pare che avrebbe dovuto invitarci a cena? - disse a suo fratello. - Infatti - rispose Stuart. - Credevo che lo avrebbe fatto. Lo aspettavo. E invece non ci ha detto nulla. Che ne dici? - Niente. Ma mi pare che avrebbe dovuto invitarci. Dopo tutto, è il primo giorno che siamo a casa, e avevamo tante altre cose da dirle. - Quando siamo arrivati, mi è sembrato che fosse molto contenta di vederci. - È sembrato anche a me. - E poi, circa mezz'ora fa, è diventata silenziosa come se avesse mal di capo. - Infatti; ma lí per lí non ci ho badato. Che cosa credi che avesse? - Non saprei. Abbiamo forse detto qualche cosa che l'ha irritata? Rimasero per un minuto a riflettere. - Non ne ho nessun'idea. Del resto, quando Rossella si irrita, se ne accorgono tutti. Non si comporta come le altre ragazze. - Sí, e questo è quello che mi piace in lei. Non diventa fredda e astiosa, ma dice le sue ragioni. Sarà qualche cosa che abbiamo fatto o detto che l'ha fatta diventare silenziosa e quasi annoiata. Giurerei che quando siamo arrivati è stata contenta e aveva l'idea d'invitarci a cena. - Non sarà perché siamo stati espulsi? - Ma no! Non dire sciocchezze. Ha riso tanto quando glielo abbiamo raccontato... - E poi Rossella non ha maggior passione pei libri di quanta ne abbiamo noi. Si volse sulla sella e chiamò il negro. - Jeems! - Badrone? - Hai sentito di che cosa parlavamo con la signorina Rossella? - Mai piú, Mr. Brent! Come bensare che io stare a spiare signori bianchi? - Spiare! Voialtri negri sapete sempre tutto quello che succede. Del resto, bugiardo che sei, ti ho visto coi miei occhi gironzolare attorno al porticato e accoccolarti nel cespuglio dei gelsomini accanto al muro. Dunque: ci hai sentito dire qualche cosa che può avere irritato la signorina Rossella o aver ferito i suoi sentimenti? Interrogato in questo modo, Jeems smise di fingere di non aver udito la conversazione e aggrottò la sua nera fronte. - Veramende io non essere accorto che aver detto niente che botere irritarla. Mi è sembrato che essere molto condenda di vedere miei badroni, ed essere felice come un uccellino fino a quando avere barlato del fidanzamento di Mr. Ashley con miss Melly Hamilton. Allora essere diventata silenziosa come uccello quando vede volare falco. I gemelli si guardarono e annuirono, ma senza capire. - Jeems ha ragione. Ma non vedo perché - disse Stuart. - Dio mio! Ashley è soltanto un amico per lei. Non è innamorata di lui. È innamorata di noi. Brent annuí. - Forse si sarà adirata perché Ashley non le ha dato la notizia prima che agli altri. Sono amici da tanti anni; e poi le ragazze tengono molto ad essere informate per prime di queste cose. - Può darsi. Ma che ci sarebbe di male? Doveva essere un segreto, una sorpresa... e uno ha bene il diritto di serbare il silenzio sul proprio fidanzamento, no? Noi non lo avremmo saputo se non ce lo avesse detto la zia di miss Melania. Ma Rossella doveva sapere che un giorno o l'altro ci sarebbe stato questo matrimonio. Noialtri, infatti, lo sapevamo da anni. I Wilkes e gli Hamilton si sposano sempre tra cugini. Tutti sapevano che l'avrebbe probabilmente sposata, come Gioia Wilkes sposerà il fratello di Melania, Carletto. - E va bene, sarà cosí. Ma mi secca che non ci abbia trattenuti a cena. Ti giuro che non ho nessuna voglia di andare a casa e sentire quello che dirà la Mamma per la nostra espulsione. Non è la prima volta! - Forse a quest'ora Boyd l'avrà calmata. Ci riesce sempre, con le sue chiacchiere, quel vermiciattolo! - Sí, ci riesce, ma gli ci vuole del tempo. Parla, parla finché la confonde e allora la Mamma gli dice che la smetta e si risparmi la voce per quando farà l'avvocato. Ma in queste poche ore non è stato certo possibile. Scommetto che la Mamma è cosí eccitata per il suo nuovo cavallo che non si ricorderà neppure che siamo tornati, finché non siederà a cena e vedrà Boyd. E prima che la cena sia finita farà fuoco e fiamme. Arriveranno le dieci prima che Boyd trovi il momento opportuno per dirle che non sarebbe stato onorevole che uno della famiglia fosse rimasto in collegio dopo che il rettore ha trattato te e me in quel modo. E ci vorranno due ore perché Boyd le faccia cambiare umore; a mezzanotte sarà diventata furibonda contro il rettore e chiederà a Boyd perché non lo ha ammazzato. No, non possiamo andare a casa prima di mezzanotte. I gemelli si guardarono cupamente. Non avevano paura dei cavalli selvaggi, delle risse e delle questioni che finivano a rivoltellate, ma avevano un sacro terrore delle sgridate della loro fulva genitrice e dello scudiscio che ella maneggiava senza ritegno. - Facciamo una cosa - riprese Brent. - Andiamo dai Wilkes. Ashley e le ragazze saranno contenti di averci a cena. Stuart crollò il capo, sconfortato. - No, non ci possiamo andare. Saranno sottosopra a preparar tutto per domani; e poi... - Oh, non ci pensavo piú - interruppe Brent. - Hai ragione; non ci andiamo. Diedero la voce ai cavalli e per un po' di tempo cavalcarono in silenzio; sulle abbronzate guance di Stuart era apparso un rossore di imbarazzo. Fino all'estate precedente Stuart aveva fatto la corte a Lydia Wilkes con l'approvazione di entrambe le famiglie e dell'intera contea. Tutti pensavano che la fredda e contegnosa Lydia avrebbe prodotto su lui l'effetto di un calmante. O almeno, lo speravano vivamente. E Stuart l'avrebbe sposata volentieri; ma Brent non approvò. Lydia gli piaceva, ma la trovava troppo semplice e innocua; impossibile innamorarsene anche lui, per far compagnia a Stuart. Era la prima volta che i gemelli non la pensavano allo stesso modo; e Brent era seccatissimo che suo fratello avesse delle attenzioni verso la fanciulla che a lui sembrava insignificante. E poi, l'estate precedente era accaduto che a una riunione politica che aveva luogo in un boschetto di querce, tutti e due avevano improvvisamente notato Rossella O'Hara. La conoscevano da molti anni e fin dalla loro infanzia era stata una delle compagne di giochi preferite, perché era capace di andare a cavallo e di arrampicarsi sugli alberi quasi tanto bene quanto loro. Ma adesso, con loro sorpresa, era diventata una giovine donna; ed era la piú graziosa e la piú simpatica del mondo. Per la prima volta si erano accorti che i suoi occhi verdi erano vivi e mobilissimi, che quando rideva faceva le fossette, che aveva mani e piedi piccini e una vita sottile. Queste loro osservazioni l'avevano fatta ridere clamorosamente e, solleticati dall'idea che essa li riteneva una coppia notevole, i due avevano sorpassato se stessi. Era stata una giornata memorabile nella vita dei gemelli. In seguito, ogni qualvolta ne parlavano, essi si chiedevano sempre come mai non avevano prima d'allora notato le qualità di Rossella. E non riuscivano a trovare la soluzione dell'enigma; cioè che Rossella aveva deciso, quel giorno, di farsi notare da loro. Ella era costituzionalmente incapace di sopportare che un uomo - chiunque fosse - si innamorasse di una donna che non era lei; e la vista di Lydia Wilkes che discorreva con Stuart era stata intollerabile per il suo carattere predace. Non contenta del solo Stuart, aveva gettato l'amo anche a Brent, ed era riuscita nel suo intento con una perfezione che sbalordiva entrambi i giovani. Ora erano tutti e due innamorati di lei, e tanto Lydia Wilkes quanto Enrichetta Munroe, di Lovejoy, a cui Brent aveva fatto una corte discreta, eran ben lontane dalla loro mente. Essi non si chiedevano quale sarebbe stato il perdente, qualora Rossella avesse scelto uno dei due. Avrebbero superato questa difficoltà quando fosse giunto il momento. Per ora erano contenti di essere nuovamente d'accordo sul conto della fanciulla, poiché fra loro non esisteva gelosia. Era una situazione che divertiva il vicinato e infastidiva la loro madre, la quale non aveva alcuna simpatia per Rossella. - Vi starà bene, se quella furbacchiona accetta uno di voi - soleva dire. - Oppure, può darsi che vi accetti entrambi, e allora dovrete andare a stare a Utah, se i Mormoni vorranno accogliervi... cosa di cui dubito... Quello che mi preoccupa è che un bel giorno vi picchierete perché sarete gelosi uno dell'altro a causa di quella piccola e falsa creatura dagli occhi verdi, e vi ammazzerete. D'altronde, anche questa non sarebbe una cattiva idea. Dal giorno della riunione politica, Stuart si era sempre trovato a disagio dinanzi a Lydia. Non che essa gli avesse mai mosso alcun rimprovero o avesse dato a divedere menomamente di essersi accorta del suo mutamento. Era troppo signora per farlo. Ma Stuart si sentiva colpevole verso di lei. Sapeva di essere riuscito a farsi amare e che Lydia lo amava ancora; e, nel profondo del cuore, sentiva di non essersi comportato da gentiluomo. Continuava a trovarla molto simpatica e la rispettava per il suo contegno freddo ed educato, per la sua istruzione e per tutte le sue qualità. Ma, accidenti!, era sempre cosí pallida e poco interessante e monotona, paragonata al fascino brillante e mutevole di Rossella. Con Lydia si sapeva sempre a che punto si era, mentre con Rossella non lo si sapeva mai. Questo poteva portare un uomo alla demenza, ma aveva il suo fascino. - Allora, andiamo da Cade Calvert e ceniamo da lui. Rossella ha detto che Caterina è tornata da Charleston. Forse avrà qualche notizia di Forte Sumter che ancora ignoriamo. - Caterina? Sono pronto a scommettere due contro uno che non sa neppure che il Forte era sopra al porto, e tanto meno che era pieno di yankees prima che noi li scacciassimo. Lei sa soltanto parlare dei balli a cui è stata e dei corteggiatori di cui ha fatto collezione. - Ad ogni modo, quando chiacchiera è divertente. Ed è un modo di passare il tempo finché Mammà sarà andata a letto. - E va bene, perbacco! Caterina è simpatica e piacevole, e sarò contento di aver notizie di Càrolo Rhett e dell'altra gente di Charleston; ma che il diavolo mi porti se tollero di mangiare ancora una volta avendo a tavola quella yankee della sua matrigna. - Non essere cosí aspro verso di lei, Stuart. È piena di buone intenzioni. - Non sono aspro. È una donna che mi fa pena, ma non mi piace la gente che mi fa pena. E poi continua a girare intorno, cercando di fare del suo meglio perché uno si senta come a casa sua; ma riesce sempre a fare e dire tutto il contrario di quello che dovrebbe. Mi dà ai nervi! E crede che i meridionali siano selvaggi. Lo ha detto alla Mamma. Ha paura della gente del Sud. Quando siamo da lei, è terrorizzata. Mi dà l'idea di una gallina pelle e ossa, arrampicata su una sedia, con gli occhi brillanti e spauriti, pronta a starnazzare e schiamazzare al piú piccolo movimento dei presenti. - Dopo tutto, non puoi biasimarla. Ricordati che hai ferito Cade in una gamba. - Ero esasperato perché ero stato picchiato, altrimenti non lo avrei fatto. E Cade non me ne ha serbato alcun rancore. E neanche Catina, né Raiford, né il signor Calvert. Solo quella matrigna yankee ha strepitato dicendo che ero un selvaggio e che le persone perbene non potevano stare in mezzo a questi meridionali incivili. - Non si può darle torto. È yankee ed ha avuto un'ottima educazione; e poi, hai ferito il suo figliastro. - Vai all'inferno! Non è una buona ragione per insultarmi! Tu sei figlio, vero figlio, di Mammà; ma si è forse risentita quella volta che Tony Fontaine ti ha ferito alla gamba? Niente affatto; si limitò a mandare a chiamare il vecchio dottor Fontaine per medicarti e gli chiese come mai Tony mirasse cosí male. E disse che secondo lei le frustate danneggiavano l'abilità di un tiratore. Ti ricordi come si infuriò Tony per questo? I due ragazzi risero saporitamene. - La Mamma è un tipo! - approvò affettuosamente Brent. - Si può sempre esser sicuri che sa come regolarsi e che non vi fa mai fare brutta figura di fronte agli estranei. - Sí; ma è capacissima di farci fare una figura pessima dinanzi al Babbo e alle ragazze stasera quando arriviamo a casa - replicò Stuart abbattuto. - Sono sicuro, Brent, che in questo modo non riusciremo ad andare in Europa. Sai che la Mamma ha detto che se ci facevamo espellere da un altro collegio non avremmo fatto il nostro viaggio. - Beh! E che ce n'importa? Che c'è da vedere in Europa? Scommetto che quegli stranieri non hanno da mostrarci nulla che noi non abbiamo già in Georgia. I loro cavalli non sono piú veloci dei nostri né le loro ragazze piú graziose; e sono sicuro che il loro wisky di segala non può stare a paragone di quello del Babbo. - Ashley Wilkes ha detto che hanno un'infinità di teatri e di musica. Ad Ashley l'Europa piace molto. Non fa che parlarne. - Oh, sai bene come sono i Wilkes. Smaniosi di libri, di teatri, di musica. Mammà dice che è perché il loro nonno veniva dalla Virginia, e i Virginiani attribuiscono un grande valore a queste cose. - Beh, facciano pure. Quanto a me, con un buon cavallo e un buon liquore e una brava ragazza da corteggiare e un'altra... non brava con la quale divertirmi, sto benone qui come in Europa! Che ce n'importa di non fare il viaggio? Figúrati, se fossimo in Europa adesso e scoppiasse la guerra? Non avremmo altro pensiero che di tornare a casa al piú presto. Preferisco infinitamente andare alla guerra che in Europa. - Anch'io, il giorno in cui... Oh, senti! Ho pensato dove possiamo andare a cena. Attraversiamo la palude e andiamo a dire ad Abele Winder che siamo tornati tutti e quattro e siamo pronti per le esercitazioni militari. - Ottima idea! - esclamò Brent con entusiasmo. - Sapremo cosí tutte le notizie dello squadrone, e che colore hanno scelto finalmente per le uniformi. - Se sono uniformi da zuavo, mi faccio impiccare piuttosto che andare a fare il soldato! Con quei calzoni larghi, rossi, mi sembrerebbe di essere una donnetta. Somigliano alle mutande da donna di flanella rossa. - Badroni avere intenzione di andare da Mist' Wynder? - chiese Jeems. - Perché se avere quest'idea, gredo che non trovare molto da mangiare. Loro guoco morto e non avere angora gombrato altro. Fare gucinare da una donna, e un negro avere detto che essere peggiore guoca di tutta regione. - Dio benedetto! E perché non lo hanno comprato? - Gosa volere che può gombrare bovero bianco straccione? Non avere mai avuto molti negri e non di buona razza. Nella voce di Jeemes era uno schietto disprezzo. Egli era sicuro della propria condizione sociale, perché i Tarleton possedevano cento negri, e - come tutti gli schiavi delle grandi piantagioni - guardava dall'alto in basso i piccoli coltivatori che possedevano pochi schiavi. - Bada che ti levo la pelle! - gridò Stuart irritato. - Non ti permetto di chiamare Abele Wynder un «bianco straccione». Sarà povero, ma non straccione. E nessuno dei miei uomini, nero o bianco che sia, deve arrischiarsi a parlar male. Non vi è uomo migliore nella Contea; altrimenti perché lo squadrone lo avrebbe eletto luogotenente? - Non avere mai dubitato, badrone - riprese Jeems senza scomporsi per la sfuriata del suo padrone. - Ma io bensare che loro fare meglio scegliere ufficiali fra giovani ricchi invece che fra miserabili della palude. - Non è un miserabile! Vorresti forse paragonarlo ai bianchi veramente poveri, come gli Slattery? Soltanto, non è ricco. È un piccolo coltivatore, non un piantatore in grande; e se i ragazzi hanno avuto tanta stima di lui da eleggerlo luogotenente, nessun negro può arrischiarsi a parlarne impudentemente. Lo squadrone sa quello che fa. Lo squadrone di cavalleria era stato organizzato tre mesi prima, lo stesso giorno in cui la Georgia si era separata dall'Unione; da allora, però, le reclute non avevano piú molta speranza che si facesse la guerra. Il reparto non aveva ancora un nome, benché non mancassero i suggerimenti: ciascuno aveva un'idea in proposito e non aveva voglia di rinunciarvi; come ciascuno aveva anche un'idea intorno al colore e alla foggia delle uniformi. «I gatti selvaggi di Clayton» - «I mangiatori di fuoco» - «Zuavi» - «Fucilieri dell'Interno» (benché lo squadrone dovesse essere armato di pistole, sciabole, pugnali e non di fucili) «Gli sterminatori» - «Rapidi e violenti» - tutti avevano i loro aderenti. Ma finché non si prendeva una decisione, tutti parlavano dell'organizzazione come dello squadrone e malgrado il nome sonoro finalmente adottato, esso fu conosciuto sino alla fine come «Lo Squadrone». Gli ufficiali erano eletti dai membri, perché nessuno nella Contea aveva esperienza militare, ad eccezione di pochi veterani delle guerre col Messico e coi Seminoli; d'altronde, lo Squadrone avrebbe disprezzato un veterano come capo, se non lo avesse personalmente amato e stimato. Tutti quanti avevano simpatia per i quattro ragazzi Tarleton e per i tre Fontaine, ma purtroppo non li avevano potuti eleggere, perché i Tarleton erano troppo vivaci e amavano far delle mattane e i Fontaine avevano un carattere troppo impetuoso e attaccabrighe. Ashley Wilkes era stato eletto capitano perché era il miglior cavallerizzo della Contea e perché si faceva assegnamento sulla sua calma per mantenere un poco d'ordine; Raiford Calvert era stato fatto primo luogotenente perché tutti gli volevano bene, e Abele Wynder, figlio di un cacciatore delle paludi e piccolo coltivatore per conto suo, era stato nominato secondo luogotenente. Abele era un gigante, grave, furbo, illetterato, pieno di cuore, maggiore di età degli altri ragazzi, ma altrettanto educato, e anche di piú, in presenza delle signore. Vi era poco snobismo nello Squadrone. Troppi, fra i padri e i nonni dei componenti, erano arrivati alla loro attuale situazione cominciando con l'essere dei piccoli coltivatori. Inoltre, Abele era il piú bravo tiratore dello Squadrone, un vero puntatore che colpiva la testa di uno scoiattolo a settanta metri; ed era pratico di vita all'aperto, capace di accendere il fuoco sotto la pioggia, di scoprire sorgenti, di catturare animali. Lo Squadrone si inchinava dinanzi al merito; e siccome avevano anche simpatia per lui, lo nominarono ufficiale. Egli accettò l'onore gravemente senza eccessiva ritrosia, come se gli fosse dovuto. Ma le mogli e gli schiavi dei piantatori non potevano lasciar passare il fatto che egli non era nato gentiluomo, benché i loro signori e padroni lo trascurassero. Da principio, lo Squadrone era stato reclutato soltanto tra i figli dei piantatori: una truppa di signori, ciascuno dei quali provvedeva il proprio cavallo, l'equipaggiamento, l'uniforme e l'attendente. Ma i ricchi piantatori non erano numerosi nel giovine paese di Clayton; e per mettere assieme uno squadrone degno di tal nome si era dovuto estendere il reclutamento anche ai figli dei piccoli coltivatori, ai cacciatori della foresta, a quelli che tendevano i lacciuoli nelle paludi, e, in pochissimi casi, anche ai bianchi poveri, se erano al disopra della media della loro classe. Questi ultimi giovinotti erano ansiosi di combattere contro gli inglesi - il giorno in cui scoppiasse la guerra - non meno dei loro ricchi vicini; ma vi era la delicata questione del denaro. Ben pochi fra i piccoli coltivatori possedevano cavalli. Per i lavori della loro proprietà si servivano di muli; e anche di questi, non ne avevano d'avanzo: raramente piú di quattro. Non si poteva privarsene per mandarli in guerra, anche se lo Squadrone li avesse accettati, ciò che non avvenne. Quanto ai rifiuti bianchi della palude, questi stimavano di essere già in condizione abbastanza buona quando possedevano una mula. I cacciatori della foresta e quelli della palude non avevano né cavalli né muli. Essi vivevano esclusivamente dei prodotti della loro terra e di caccia, commerciavano generalmente col sistema degli scambi e vedevano raramente cinque dollari in un anno; quindi cavalli e uniformi erano per loro irraggiungibili. Ma erano tanto orgogliosi nella loro povertà quanto i piantatori nella loro ricchezza; e non avrebbero accettato nulla, da quelli, che potesse apparire un'elemosina. Cosí, per salvaguardare i sentimenti di tutti e per dare allo Squadrone tutta la necessaria efficienza, il padre di Rossella, John Wilkes, Buck Monroe, Giacomo Tarleton, Ugo Calvert, tutti, insomma, i grandi piantatori della Contea con l'unica eccezione di Angus MacIntosh, si erano quotati per equipaggiare completamente lo Squadrone: uomini e cavalli. L'essenza dell'affare fu che ogni piantatore convenne di pagare l'equipaggiamento dei propri figli e di un certo numero di altri; ma la cosa fu trattata in modo che i membri meno ricchi potettero accettare cavalli ed uniformi senza offesa per il loro onore. Lo Squadrone si riuniva due volte la settimana a Jonesboro per fare le esercitazioni e pregare che la guerra cominciasse. Non erano ancora state completate le disposizioni per procurare tutti i cavalli occorrenti, ma quelli che avevano già i cavalli compivano ciò che immaginavano fossero manovre di cavalleria, dietro al Tribunale, sollevando un'enorme quantità di polvere, emettendo grida rauche e agitando le sciabole della Guerra Rivoluzionaria che erano state staccate dalle pareti del salone. Quelli che non avevano ancora il cavallo sedevano sull'orlo del marciapiedi dinanzi alla bottega di Bullard, e osservavano i loro camerati, masticando tabacco e raccontando delle storie. Oppure facevano delle gare di tiro. Non occorreva insegnare a nessuno a tirare a segno. La maggior parte dei meridionali era nata col fucile in mano; e la vita del cacciatore aveva fatto di tutti loro dei tiratori scelti. Dalle case dei piantatori e dalle capanne fra le paludi venne fuori una quantità di armi da fuoco svariate. Lunghi fucili da caccia che datavano dall'epoca della prima traversata degli Alleghany, vecchi tromboni ad avancarica, pistole da cavallo che erano servite nel 1812, pistole da duello con l'impugnatura ageminata d'argento, pistole a canna corta, moschetti a doppia canna e carabine inglesi di nuovo modello, col calcio di legno prezioso. Le esercitazioni terminavano sempre nei saloni di Jonesboro e al cader della notte erano già scoppiate tante risse, che gli ufficiali avevano il loro da fare per evitare ferimenti prima che questi fossero inflitti dagli inglesi. Era stato durante uno di questi tafferugli che Stuart Tarleton aveva ferito Cade Calvert e Tony Fontaine aveva ferito Brent. I gemelli erano appena tornati a casa, espulsi dall'Università di Virginia; lo Squadrone era stato organizzato in quei giorni ed essi avevano aderito con entusiasmo; ma dopo la rissa, avvenuta due mesi prima, la madre li aveva impacchettati e spediti all'Università statale, con l'ordine di non muoversi. Durante la loro assenza, essi avevano penosamente sentito la mancanza dell'eccitazione data dagli esercizi militari; ritenevano che la loro educazione fosse incompleta se non potevano cavalcare, gridare e sparar fucilate in compagnia dei loro amici. - Bene, allora andiamo da Abele - concluse Brent. - Attraversando il fiume degli O'Hara e il prato dei Fontaine, arriviamo in un momento. - Non drovare nulla di mangiare; solo garne di sariga e un po' di legumi - obbiettò, Jeems. - Tu non avrai un bel niente - sghignazzò Stuart. - Andrai a casa ad avvertire la Mamma che non torniamo a cena. - Oh no, no! - esclamò Jeems spaventato. - No, no! non piacere assaggiare scudiscio di miss Beatrice piú forte che con badroni! Brima di tutto lei arrabiarsi con me perché badroni nuovamente espulsi. E poi, perché io non avervi fatti tornare a casa stasera e lei potervi dare grossa lezione. E poi diventare furia come se tutto questo essere colpa mia e frustarmi forte. Se non volete portarmi da mist' Wynder, io restare nei boschi tutta la notte e forse guardie pattuglie prendere povero Jeems, ma io preferire guardie piuttosto che miss Beatrice quando essere infuriata. I gemelli guardarono con perplessità e indignazione il risoluto ragazzo negro. - Sarebbe capace davvero di farsi prendere dalle guardie, e questo darebbe argomento ai discorsi di Mammà per qualche settimana. Giuro che i negri sono un bel fastidio. A volte penso che gli abolizionisti abbiano ragione. - In fondo, non è giusto fare affrontare a Jeems quello che non vogliamo affrontare noi. Lo porteremo con noi. Ma guarda, negraccio impudente, che se ti sogni di darti delle arie coi negri di Wynder e di raccontar loro che da noi si mangia pollo e prosciutto mentre loro non hanno che coniglio e sariga, ti... lo dirò alla Mamma. E non ti faremo neanche venire alla guerra con noi. - Arie? Io darmi arie con quei miserabili? No, badrone; io avere educazione! E miss Beatrice avermi insegnato modo di gomportarmi come avere insegnato a tutti voi. - Non ha avuto un gran risultato con nessuno dei tre - rise Stuart. - Via, andiamo. Diede la voce al suo cavallo rossiccio e spronandolo leggermente gli fece saltare con facilità lo steccato divisorio della proprietà di Geraldo O'Hara, e si trovò nel soffice campo. Il cavallo di Brent lo seguí e dopo di lui quello di Jeems, col negro afferrato alla criniera e al pomo della sella. A Jeems non piaceva saltare gli ostacoli; ma ne aveva saltato anche dei piú alti per seguire i suoi padroni. Mentre si avviavano attraverso i solchi purpurei e scendevano la collina verso il fiume nel crepuscolo che diventava sempre piú cupo, Brent gridò a suo fratello: - Senti un po', Stu! Non ti pare che Rossella avrebbe dovuto invitarci a cena? - Infatti credevo che lo facesse - gridò a sua volta Stuart. - Ma perché...

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Ma ora eccolo ai suoi piedi a darle tutta la soddisfazione. Per una notte l'aveva avuta completamente alla sua mercé; ma adesso ella conosceva il difetto della corazza. Da ora in poi lo avrebbe prono ai suoi desideri. Per molto tempo aveva stretto i denti sotto le sue sferzate; ma ora lo farebbe saltare attraverso al cerchio sempre che avesse voluto! Al pensiero di ritrovarsi dinanzi a lui alla luce del giorno, provò un imbarazzo non privo di un piacere eccitante. «Sono nervosa come una sposina» pensò ridendo. «E a causa di Rhett! Ma Rhett non apparve a desinare né a cena. La notte passò; una lunga notte durante la quale ella rimase desta sino all'alba, con le orecchie tese per udire il rumore della sua chiave nella serratura. Ma egli non venne. Dopo il secondo giorno di assenza, Rossella credette di impazzire di delusione e di spavento. Andò in banca, ma Rhett non c'era. Andò al negozio e fu scortese con tutti, perché ogni volta che la porta si apriva per lasciare entrare un cliente, ella alzava il capo agitata, sperando che fosse lui. Andò al deposito di legname e maltrattò Ugo finché questi si nascose dietro una catasta di legna. Ma non trovò Rhett in nessun luogo. Non poteva umiliarsi a chiedere ai suoi amici se lo avevano visto. Né poteva chiedere ai servi se sapevano nulla di lui. Ma sentiva che essi sapevano ciò che ella ignorava. I negri sanno sempre tutto. Mammy fu insolitamente taciturna durante quei due giorni. Osservava Rossella con la coda dell'occhio senza parlare. Dopo la seconda notte, Rossella pensò di rivolgersi alla polizia. Forse era accaduto un accidente: forse il suo cavallo lo aveva gettato a terra ed egli giaceva in qualche fossato senza che nessuno potesse aiutarlo; forse - orribile pensiero! - era morto. L'indomani mattina, mentre, dopo aver fatto colazione, si stava mettendo il cappello, udí per le scale il suo passo veloce. Piombò sul letto, scossa dalla gioia; in quell'istante Rhett entrò in camera. Era raso di fresco, lavato, in ordine, e non ubriaco; ma aveva gli occhi rossi e il viso gonfio come chi ha molto bevuto. La salutò con la mano dicendo: «Hello!» Come si poteva salutare in quel modo dopo essere stato assente due giorni senza spiegazioni? Come poteva essere cosí indifferente, se ricordava la notte che avevano passata insieme? Non era possibile, a meno che... a meno che... Un pensiero terribile le attraversò lo spirito. A meno che simili notti non fossero insolite per lui! Per un momento rimase ammutolita, dimenticando tutti i graziosi gesti e i sorrisi che aveva pensato di sfoggiare per adescarlo. Egli non si avvicinò nemmeno a darle il solito bacio superficiale, ma rimase a guardarla sogghignando, con un sigaro in mano. - Dove... dove sei stato? - Non dirmi che non lo sai! Credevo che tutta la città ne fosse informata. E forse tutti lo sanno, meno te. Conosci il vecchio adagio: «la moglie è sempre l'ultima a sapere»... - Che vuoi dire? - Credevo che poiché la polizia era stata da Bella l'altro ieri sera... - Da Bella... da quella donna! Sei stato con... - E dove volevi che fossi? Spero che non sarai stata preoccupata sul conto mio. - Lasciando me, sei andato... Oh! - Via, Rossella! Non fare la moglie tradita. Devi conoscere da un pezzo la mia relazione con Bella. - Sei andato da lei dopo... dopo... - Ah, quello? - Fece un gesto incurante. - Sto davvero dimenticando la mia buona educazione. Ti debbo mille scuse per la mia condotta. Ero molto ubriaco, come certamente avrai visto, e avevo perso la bussola dinanzi alle tue bellezze... Debbo farne l'enumerazione? Improvvisamente ella provò il desiderio di piangere, di gettarsi sul letto a singhiozzare senza fine. Egli non era mutato; nulla era mutato, e lei era stata una pazza, una stupida pazza illudendosi che egli l'amasse. Era stato soltanto uno dei suoi ripugnanti gesti da ubriaco. L'aveva presa e ne aveva goduto come avrebbe fatto con una qualunque fra le donne di Bella. Ed ora eccolo tornato, insultante, sardonico, irraggiungibile. Ella ringhiottí le lagrime e raccolse le proprie forze. No: non dovrebbe mai, mai venire a sapere ciò che Rossella aveva pensato! Come riderebbe, se lo sapesse! Lo guardò di sfuggita e sorprese l'antico sguardo scrutatore che l'aveva sempre lasciata perplessa; ansioso, come se anelasse alle parole che ella stava per dire, sperando che fossero... Ma che cosa sperava? Che lei gli desse campo di schernirla? Ah no! Aggrottò la fronte guardandolo freddamente. - Naturalmente, sospettavo quali erano i tuoi rapporti con quella femmina. - Lo sospettavi soltanto? Perché non mi hai chiesto nulla? Te lo avrei detto. Ho vissuto con lei dal giorno in cui tu e Ashley Wilkes avete deciso che noi dovevamo dormire in camere separate. - Hai la sfacciataggine di dire a tua moglie che... - Oh, risparmiami la tua indignazione! Non ti è mai importato di ciò che facevo, finché ho pagato i tuoi conti. Quanto all'esser mia moglie... non lo sei stata molto, da quando è nata Diletta, non è vero? Ho fatto un cattivo affare, Rossella. Quello con Bella è stato assai migliore. - Un affare? Vuoi dire che le hai dato...? - Ho impiantato il suo stabilimento facendo ogni cosa in regola. Bella è una donna abile. Volevo che avesse una posizione; e per raggiungerla, non aveva bisogno che di un po' di denaro onde mettere su una casa per proprio conto. Sai benissimo che una donna può fare dei miracoli, con un po' di denaro liquido. Guarda quello che hai fatto tu stessa... - Mi paragoni a... - Siete tutt'e due donne d'affari e siete riuscite entrambe. Soltanto, Bella ha lo svantaggio di essere un'anima buona, piena di cuore... - Vuoi uscire da questa stanza? Egli si avviò lentamente alla porta, sollevando un sopracciglio in maniera buffa. Irata e addolorata, Rossella si chiese come mai suo marito poteva offenderla cosí. Umiliarla e sferzarla mentre lei aveva tanto desiderato il suo ritorno! Ed era stato tutto quel tempo a ubriacarsi e disputare con la polizia in un postribolo! - Esci da questa camera e non rientrarvi mai piú. Te l'ho già detto una volta, ma non sei stato abbastanza gentiluomo da comprenderlo. Da ora in poi chiuderò a chiave la mia porta. - Non prenderti questa pena. - La chiuderò. Dopo il modo in cui ti sei comportato l'altra notte, cosí disgustoso... - Via, cara! Non mi pare di averti disgustato tanto! - Vattene! - Non ti arrabbiare. Me ne vado. E ti prometto di non disturbarti mai piú. Questa è la fine. E volevo appunto dirti che se la mia infame condotta è insopportabile per te, non mi opporrò al divorzio. Basta che tu mi dia Diletta. - Non voglio gettare l'onta sulla mia famiglia con un divorzio. - Non avresti tanti scrupoli se miss Melly fosse morta, vero? Penso che non esiteresti un minuto a divorziare... - Te ne vai? - Sí, me ne vado. Sono venuto a casa per dirtelo. Vado a Charleston e a Nuova Orléans... Oh, un viaggetto abbastanza lungo. Parto oggi. - Oh! - E porto Diletta con me. Di' a quella stupida di Prissy di preparare la sua roba. Porterò anche Prissy. - Non permetterò che la mia bimba esca da questa casa. - È anche mia, signora Butler. Certo non mi impedirai di portarla a Charleston a vedere sua nonna? - Me ne infischio di sua nonna! Non permetterò che tu la porti via, sapendo che sarai ubriaco tutte le sere e che probabilmente la porterai in case come quella di Bella... Egli gettò a terra il sigaro violentemente; questo continuò ad ardere sul tappeto e il puzzo di lana bruciata salí alle loro narici. In un attimo Rhett era accanto a lei, pallido d'ira. - Se tu fossi un uomo, ti spaccherei la testa per quello che hai detto. Ma poiché non lo sei, ti risponderò, per chiuderti quella maledetta bocca! Credi che abbia cosí poco affetto per mia figlia da portarla...! Dio mio, sei proprio pazza! Quanto a te, che ti dai quelle arie materne, una gatta è miglior madre di te! Che hai mai fatto per i tuoi bambini? Wade e Ella hanno paura di te; e se non ci fosse Melania Wilkes, essi non saprebbero che cos'è affetto e dolcezza. Ma Diletta, la mia Diletta! Credi che io non sappia occuparmene piú e meglio di te? Credi che ti permetterò di tiranneggiarla e intimidirla come hai fatto con gli altri due? Per l'inferno, no! Fai preparare la sua roba e che sia pronta fra un'ora; altrimenti ti avverto che ciò che è accaduto l'altra notte ti sembrerà dolce e soave a paragone di ciò che avverrà. Sono sempre stato convinto che una buona lezione a base di scudiscio ti gioverebbe immensamente. Prima che Rossella potesse parlare, era uscito dalla stanza. Lo udí attraversare il vestibolo ed entrare nella camera da gioco dei bambini. Vi fu un gaio cinguettio infantile; poi la vocetta di Diletta si levò sopra a quella di Ella. - Dove sei stato, babbo? - A caccia di conigli per averne la pelle e fare una pelliccetta alla mia piccina. Dai un bel bacio al tuo tesoro, Diletta... e anche tu, Ella.

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La condusse con sé a far delle visite, costringendola dolcemente a recarsi in salotti nei quali Rossella non andava da un paio d'anni. E Melania, con l'aspetto fiero di chi dice «chi vuol bene a me deve voler bene al mio cane» faceva conversazione con l'ospite stupita. Si recavano di buon'ora in quei salotti e vi rimanevano finché l'ultima visitatrice se n'era andata, privando cosí le signore della gioia di spettegolare sul loro conto. Quelle visite erano un vero tormento per Rossella, che peraltro non osava rifiutare a Melania di accompagnarla. Detestava trovarsi in mezzo a gruppi di donne che nel loro intimo si chiedevano se ella era stata veramente sorpresa in flagrante adulterio. E sapeva che nessuna di quelle donne le avrebbe rivolto la parola, se non avessero voluto bene a Melania e non avessero tenuto alla sua amicizia. E dopo averla ricevuta una volta, non potevano certo toglierle il saluto in seguito. Era caratteristico il fatto che ben poche persone difendevano Rossella basandosi sulla sua onestà personale. Ella si era fatti troppi nemici per potere avere adesso dei difensori. A nessuno importava che lo scandalo la colpisse; ma nessuno voleva offendere Melania o Lydia; e la tempesta infuriava attorno a loro piuttosto che intorno a Rossella, accentrandosi su una domanda: «Aveva mentito Lydia?» Quelli che sposavano il punto di vista di Melania accennavano trionfanti al fatto che la signora Wilkes era sempre con Rossella in quei giorni. Una donna che aveva i suoi saggi principi si sarebbe forse messa in vista in quel modo con una donna colpevole, specialmente colpevole col proprio marito? No davvero! Lydia era un'acida zitellona che odiava Rossella e aveva mentito, inducendo Baldo e la signora Elsing a credere alle sue menzogne. «Ma» dicevano i partigiani di Lydia «se Rossella non è colpevole, dov'è il capitano Butler? Perché non è accanto a sua moglie a difenderla con la sua presenza?» Domanda che rimaneva senza risposta; e quando, col passar delle settimane, si sparse la voce che Rossella era incinta, i partigiani di Lydia si stropicciarono le mani soddisfatti. Non poteva essere per opera del capitano Butler - dicevano. Da troppo tempo la loro separazione di letto era cosa di pubblico dominio, e la città ne era stata scandalizzata. E i pettegolezzi corsero, dividendo la città in due campi, e dividendo anche i circoli famigliari a prendere un partito: non esisteva terreno neutro. Melania con la sua fredda dignità e Lydia con la sua acida amarezza provvedevano a questo. Ma qualunque fosse il partito, tutti erano d'accordo nel riconoscere che Rossella era causa di questi dissensi. E nessuno di loro ritenevano che ella meritasse tanto. Però tutti quanti deploravano ugualmente che Lydia avesse lavato i panni sudici della famiglia in pubblico, coinvolgendo Ashley in uno scandalo cosí deplorevole. La metà di Atlanta era parente o mezza parente di Melania e di Lydia. Le ramificazioni di cugini in terzo e quarto grado, di parenti d'acquisto erano cosí complicate che nessuno che non fosse nato in Georgia avrebbe potuto mai districarle. Era stata sempre una specie di tribú, che aveva presentato al mondo un fronte compatto nei momenti gravi, qualunque fosse stata l'opinione privata di ognuno sulla condotta dei parenti presi uno per uno. Ad eccezione della guerriglia condotta da zia Pitty contro suo fratello Enrico e che era stata soggetto di gaie risate per tutta la famiglia durante molti anni, non si aveva memoria di un'aperta rottura tra parenti. Era gente tranquilla e riservata, che non era neanche dedita alle piccole dispute amichevoli che caratterizzavano la maggior parte delle famiglie di Atlanta. Ma ora la scissura era profonda; e la città assisteva al fatto che cugini in quinto e sesto grado si schieravano da una parte o dall'altra nello scandalo piú grave che Atlanta avesse mai visto. Il tatto e la tolleranza di quelli che non erano parenti furono posti a dura prova, perché la scissura Lydia-Melania portò il disordine in quasi tutte le organizzazioni sociali. I «Figli di Talia», il «Circolo di lavoro per le Vedove e gli Orfani della Confederazione», L' «Associazione per l'Abbellimento delle Tombe dei Gloriosi Caduti», il «Circolo musicale del Sabato» la «Biblioteca dei Giovani», tutti furono coinvolti. Cosí pure quattro chiese delle società del Soccorso e dei Missionari. Bisognò porre la piú grande attenzione per evitare di mettere negli stessi comitati membri di fazioni nemiche. Nei giorni di ricevimento le signore erano in grave angustia dalle quattro alle sei, per il timore che Melania e Rossella giungessero mentre Lydia e i suoi fautori erano nel salotto. La povera zia Pitty fu quella che sofferse piú di tutti. Pitty, la quale non desiderava se non di vivere comodamente circondata dall'affetto dei suoi parenti, sarebbe stata ben felice, in questa circostanza, di correre con le lepri e cacciare coi cani. Ma né lepri né cani lo permisero. Lydia abitava con zia Pitty: e se Pitty avesse parteggiato per Melania, come era suo desiderio, Lydia se ne sarebbe andata. E se Lydia se ne fosse andata, che avrebbe fatto la povera Pitty? Sola non poteva certo vivere. Avrebbe dovuto prendere in casa un'estranea, oppure chiudere casa e andarsene ad abitare con Rossella. Ma zia Pitty aveva la vaga sensazione che il capitano Butler non ne sarebbe stato entusiasta. Oppure andare da Melania e dormire nella cameretta di Beau. Pitty non aveva un particolare affetto per Lydia, perché questa la intimidiva con la sua rigidezza e con le sue convinzioni appassionate. Ma la presenza di lei le permetteva di conservare le sue comodità; e Pitty aveva sempre tenuto piú ai propri comodi che alle questioni morali. Quindi Lydia rimase. Ma la sua presenza in casa rese zia Pitty centro di un temporale, perché Melania e Rossella interpretarono questo come una adesione al partito di Lydia. Rossella rifiutò seccamente di continuare a contribuire al mantenimento di Pitty finché Lydia viveva sotto lo stesso tetto. Ashley mandò ogni settimana del denaro a Lydia, la quale fieramente e silenziosamente lo restituí, con grande spavento e rammarico della vecchia signorina. Le finanze della casa di mattoni rossi sarebbero state disastrose se non fosse intervenuto zio Enrico; ma Pitty fu molto umiliata di dovere accettare il suo aiuto. Pitty amava Melania piú di chiunque altro al mondo - eccetto sé stessa ed ecco che Melania si comportava come un'estranea, fredda e cortese. Benché abitasse quasi nel cortile dietro la casa di Pitty, non attraversò mai piú la siepe divisoria, come soleva fare una diecina di volte al giorno. Pitty si recò da lei e pianse protestando il suo affetto e la sua devozione, ma Melania rifiutò di discutere la cosa e non le restituí le sue visite. Pitty sapeva benissimo ciò che doveva a Rossella; quasi la vita. Nei tristi giorni dell'immediato dopoguerra, quando ella si era trovata di fronte all'alternativa di morir di fame o di unirsi a suo fratello Enrico, Rossella le aveva conservato la casa, l'aveva nutrita e vestiva e le aveva permesso di rimanere a testa alta nella società di Atlanta. E da quando si era sposata ed era andata nella sua nuova casa, era stata di una generosità senza pari. E quello spaventoso e affascinante capitano Butler... ogni volta che andava a trovarla con Rossella, Pitty trovava - dopo la loro partenza - una borsetta nuova stipata di banconote sulla mensola del camino, o un fazzoletto di pizzo annodato a fardelletto pieno di monete d'oro che era stato timidamente ficcato nella sua scatola da lavoro. Rhett aveva sempre sostenuto di non saperne nulla e la accusava di avere un segreto ammiratore: forse il baffuto nonno Merriwether. Sí; Pitty doveva affetto a Melania, sicurezza a Rossella... E a Lydia che cosa doveva? Nulla; se non che la presenza di Lydia le impediva di interrompere il suo piacevole modo di vivere. Era doloroso e volgare; e Pitty che in vita sua non aveva mai preso una decisione, lasciò che le cose seguissero il loro corso. Il risultato fu che la vecchia signorina sparse molte lagrime desolate. Vi era infine qualche persona di buon cuore che credeva nell'innocenza di Rossella, non per le sue virtú personali, ma perché Melania vi credeva. Taluni facevano delle riserve mentali, ma erano gentili con lei e andavano a farle visita perché volevano bene a Melania e desideravano conservare la sua amicizia. Gli aderenti di Lydia la salutavano freddamente; qualcuno le tolse anche il saluto. Questo era imbarazzante e antipatico; ma Rossella si rese conto che se non fosse stato per la difesa di Melania e il suo immediato atteggiamento, tutta la città sarebbe stata contro di lei ed ella sarebbe stata messa al bando.

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Si stringevano a Prissy, perché anche per le loro menti infantili vi era qualche cosa di spaventoso nell'atmosfera fredda e indifferente che era fra la loro mamma e il loro padrigno. Debole com'era, Rossella tornava a casa sua, a Tara. Sentiva che se fosse rimasta ancora un giorno ad Atlanta sarebbe soffocata, continuando a far girare il suo cervello stanco nel cerchio di pensieri inutili che la torturava. Ammalata nel corpo e stanca nello spirito, sembrava un bimbo sperduto in una contrada d'incubo, senza una traccia per guidarla. Com'era fuggita da Atlanta dinanzi all'esercito invasore, cosí fuggiva oggi, cercando di ricacciare i suoi pensieri nel fondo della mente, con la sua vecchia formula: «Non voglio pensarci adesso. Non resisterei. Ci penserò domani, a Tara. Domani è un altro giorno». Le sembrava che una volta giunta in mezzo alla calma e al verde dei campi di cotone, tutti i suoi dolori svanirebbero ed ella potrebbe raccogliere i suoi pensieri frantumati rinsaldandoli in una forma che le consentisse di sopportarli. Rhett rimase a guardare il treno finché fu fuori di vista; sul suo volto era un'espressione di amarezza poco piacevole. Sospirò, licenziò la carrozza e salendo a cavallo si diresse verso Via dell'Edera, a casa di Melania. Era una mattinata calda e Melania sedeva sotto al porticato ombreggiato di vite, col suo cestello da lavoro pieno di calze da rammendare. Si sentí confusa e sgomenta quando vide Rhett scendere da cavallo e gettare le redini a un ragazzotto negro che era dinanzi al cancello. Non lo aveva piú visto solo da quel terribile giorno, quando Rossella stava tanto male ed egli era tanto... sicuro, tanto ubriaco. Aveva scambiato qualche parola con lui durante la convalescenza di Rossella; e in quelle occasioni, le era stato difficile incontrarne lo sguardo. Però egli aveva il suo contegno abituale; né con una parola né con un gesto aveva mai fatto allusione alla scena che aveva avuto luogo fra loro. Ashley le aveva detto una volta che spesso gli uomini non ricordano ciò che dicono e fanno in istato di ubriachezza, e Melania pregava fervidamente il Signore che la memoria del capitano Butler gli facesse difetto in questa circostanza. Meglio morire piuttosto che sapere che egli ricordava i suoi sfoghi! Vedendolo avviarsi verso di lei si sentí piena di timidezza e di imbarazzo; un vivo rossore le salí alle guance. Ma forse egli veniva soltanto per chiederle di mandare Beau a passare la giornata con Diletta. Certo non avrebbe avuto il cattivo gusto di ringraziarla di ciò che ella aveva fatto quel giorno! Si alzò per salutarlo, notando con sorpresa, come sempre, l'elasticità del suo passo benché egli fosse grande e grosso. - Rossella è partita? - Sí. Il soggiorno di Tara le farà bene - rispose sorridendo. - A volte penso che sia come il gigante Anteo che diventava piú forte ogni volta che toccava la Madre Terra. A Rossella non giova rimanere troppo tempo lontana da quelle zolle rosse a cui è affezionata. La vista del cotone che cresce le farà piú bene dei medicinali del dottor Meade. - Non volete sedere? - chiese Melania, palpitante. Egli era un tipo nettamente mascolino, e gli individui molto virili le facevano sempre una certa impressione. Le sembrava che irradiassero una forza e una vitalità che la facevano sentire piú piccola e piú debole del vero. I muscoli forti di lui si disegnavano sotto l'abito di tela bianca in un modo che la sgomentava. Le sembrava impossibile di aver veduto quella forza e quell'insolenza piegate a terra. E aveva tenuto quel capo bruno sulle sue ginocchia! «Dio mio!» pensò atterrita; e arrossí di nuovo. - Miss Melly - disse Rhett dolcemente - vi disturbo? Preferite che me ne vada? Siate sincera, vi prego. «Oh!» pensò Melania. «Si ricorda! E sa che sono sconvolta!» Lo guardò implorante e a un tratto il suo imbarazzo svaní. Gli occhi di lui erano cosí buoni e tranquilli, cosí pieni di comprensione che ella si stupí del suo passato sgomento. Sembrava stanco e abbastanza triste. Come aveva potuto credere che egli fosse cosí maleducato da parlare di cose che entrambi preferivano dimenticare? «Poverino» pensò ancora «è stato cosí preoccupato per Rossella!» Quindi gli disse sorridendo: - Sedete, capitano Butler. Egli sedette pesantemente e la guardò mentre riprendeva in mano il lavoro. - Miss Melly, sono venuto a domandarvi un grande favore e - sorrise - a chiedere la vostra complicità per un piccolo inganno che certo vi farà inorridire. - Un... inganno? - Sí. Sono venuto per parlarvi d'affari. - Dio mio! Sarà meglio che vediate mio marito. Io non ne capisco nulla! Non sono davvero intelligente come Rossella! - Temo che Rossella lo sia anche troppo; ed è precisamente per questo che voglio parlare con voi. Voi sapete come... è stata male. Al suo ritorno da Tara vorrà nuovamente cominciare ad occuparsi del negozio e di quegli stabilimenti che sarei ben lieto crollassero una notte o l'altra. Ho paura per la sua salute, miss Melly. - Sí; si affanna troppo. Dovreste farla smettere; e farla pensare a curarsi. Egli rise. - Sapete com'è ostinata. Non tento mai di discutere con lei. È come una bimba caparbia; non vuole essere aiutata. Né da me né da nessuno. Ho tentato di persuaderla a cedere la sua parte dell'azienda, ma non vuole. Ed ora, miss Melly, eccomi al fatto. So che Rossella venderebbe la sua parte al signor Wilkes e a nessun altro; e io desidero che il signor Wilkes la compri. - Dio mio! Sarebbe molto bello ma... - Si interruppe e si morse le labbra. Non poteva parlare di questioni finanziarie con un estraneo. Malgrado il lavoro di Ashley, il denaro non era mai abbastanza; da parte non si poteva mettere quasi nulla e questo la preoccupava. Melania non sapeva dove andavano i quattrini. Ashley gliene dava abbastanza per il governo della casa; ma quando capitavano delle spese straordinarie, erano guai. Senza dubbio, vi erano i conti del dottore che la curava; e poi, i libri e i mobili che Ashley faceva venire da New York costavano parecchio. E vi era il vitto e il vestiario di un certo numero di orfanelli che venivano ospitati nelle cantine. Inoltre, Ashley non rifiutava mai un prestito a chiunque fosse stato nell'esercito confederato. Poi... - Desidero prestarvi io il denaro, miss Melly - riprese Rhett. - Siete molto buono; ma non saremo mai in grado di restituirvelo. - Non me n'importa. Non vi adirate con me, miss Melly! Vi prego di ascoltarmi. Sarò piú che compensato dal fatto che Rossella non si affaticherà a correre ogni giorno agli stabilimenti. Basterà il negozio a tenerla occupata e a farla contenta... Capite? - Veramente... sí... - fece Melania incerta. - Voi desiderate un pony per il vostro bambino, non è vero? E volete che possa andare all'Università e a fare il viaggio d'Europa? - Senza dubbio! - E il volto di Melania si illuminò, come sempre quando si parlava di Beau. - Vorrei che avesse tutto, ma... siamo tutti quanti cosí poveri al giorno d'oggi... - Il signor Wilkes guadagnerà molto denaro, un giorno, con l'azienda. Ed io farò in modo che Beau abbia tutto ciò che merita. - Che furbacchione siete, capitano Butler! - E Melania sorrise. - Accarezzate l'orgoglio materno! Leggo in voi come in un libro! - Spero bene di no! - E per la prima volta gli occhi di Rhett brillarono. - Dunque: volete permettermi di prestarvi il denaro occorrente? - Ma dov'è l'inganno? - Dobbiamo cospirare per imbrogliare vostro marito e Rossella. - Dio mio, no! Non potrei! - Se Rossella sapesse che ho complottato alle sue spalle, sia pure per il suo bene... conoscete il suo carattere! E temo che il signor Wilkes rifiuterebbe di accettare un prestito da me. Quindi nessuno dei due deve sapere da dove proviene il denaro. - Ma sono sicura che mio marito non rifiuterebbe se sapesse il motivo. Vuol tanto bene a Rossella... - Non ne dubito. Ma rifiuterebbe lo stesso. So come sono orgogliosi tutti i Wilkes. - Povera me! - esclamò Melania desolata. - Vorrei... Ma davvero, capitano Butler, non posso ingannare mio marito. - Neanche per aiutare Rossella? - Rhett sembrò molto offeso. - E dire che lei vi vuol tanto bene! Sulle ciglia di Melania tremarono le lagrime. - Sapete che sono pronta a qualunque cosa per lei. Non potrò mai, mai sdebitarmi di ciò che lei ha fatto per me. Lo sapete! - Sí - replicò Rhett brevemente. - So quello che ha fatto per voi... Non potreste dire al signor Wilkes che il denaro vi è stato lasciato per testamento da qualche parente? - Ma i miei parenti, Dio li benedica, sono tutti senza un quattrino! - E allora, se io mando il denaro a vostro marito per posta, senza il nome del mittente, farete in modo che sia impiegato per acquistare gli stabilimenti e non... insomma, non serva per mantenere degli ex-confederati? In un primo momento Melania sembrò offesa da queste parole che implicavano una critica per Ashley; ma Rhett sorrise con tanta comprensione che ella gli ricambiò il sorriso. - Senza dubbio. - Allora siamo d'accordo? Sarà un segreto fra noi? - Pensare che non ho mai avuto segreti per mio marito! - Ne sono sicuro, miss Melly. Melania lo guardò pensando che aveva sempre avuto ragione lei nel giudicarlo, mentre tutti gli altri avevano torto. Dicevano che era brutale, beffardo, maleducato e perfino disonesto. Ebbene! Lei aveva compreso fino dal principio che era un brav'uomo. Da lui non aveva avuto che attenzioni e cortesie, rispetto e comprensione! E come amava Rossella! Com'era buono nel pensare a questo trucco per risparmiare a Rossella una parte del lavoro a cui ella si costringeva! Impulsivamente esclamò: - È ben fortunata Rossella di avere un marito che è cosí buono con lei! - Credete? Temo che essa non sia della stessa opinione. Del resto, io desidero essere buono anche con voi, miss Melly. Vi do piú di quello che do a Rossella. - A me? - chiese perplessa. - Ah, volete dire per Beau. Egli si alzò e prese il cappello. Rimase per un attimo a guardare il visino triangolare col suo lungo mazzocchio di capelli e i dolci occhi neri. Un viso cosí poco terrestre, cosí privo di difese contro la vita! - No, non per Beau. Sto cercando di darvi qualche cosa di piú grande di Beau; non indovinate? - Non posso - replicò nuovamente stupita. - Per me non vi è nulla al mondo di piú prezioso di Beau, eccetto Ash... il signor Wilkes. Rhett la fissò, calmo, senza parlare. - Siete molto buono, capitano Butler; ma vi assicuro che sono completamente felice. Ho tutto ciò che una donna può desiderare al mondo. - Benissimo - ribatté Rhett improvvisamente cupo. - Ed io intendo darvi il modo di conservarlo.

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Evidentemente stavano giocando agli Indiani quando era giunto il momento di andare alla stazione; e Diletta doveva aver rifiutato di rimediare al disordine del suo abbigliamento, sia pure per andare incontro a sua madre. Rossella esclamò: - Che straccioncella! - baciandola; e porse la guancia al bacio di Rhett. Se non vi fosse stata tanta gente alla stazione, ne avrebbe fatto a meno. Malgrado la sua confusione nel trovare Diletta acconciata in quel modo, non poté fare a meno di notare che tutti sorridevano nel vedere il padre e la figlia cosí conciati; e non era un sorriso di derisione ma di bontà e di simpatia. Tutti sapevano che la piccina dominava completamente suo padre e approvavano ridendo. Il grande amore di Rhett per la sua piccina lo aveva fatto risalire di parecchi gradini nella pubblica opinione. Nel ritorno a casa, Rossella vuotò il sacco delle novità della Contea. Il tempo caldo e asciutto faceva crescere il cotone a vista d'occhio; ma Will diceva che i prezzi sarebbero stati bassi, appunto per la grande abbondanza. Súsele aspettava un altro bambino (lo disse sottovoce perché i bimbi non capissero) e Ella aveva mostrato di avere uno spirito bellicoso mordendo la bimba piú grande di Súsele. Cosa che del resto - osservò Rossella - la bimba meritava, perché somigliava tutta a sua madre. Ma la madre si era arrabbiata, e fra le due sorelle era stata una lite che ricordava quelle degli antichi tempi. Wade aveva ucciso una biscia d'acqua: da solo! Randa e Camilla Tarleton facevano le insegnanti a scuola; uno scherzo, se si pensava che nessuno dei Tarleton aveva mai saputo leggere correntemente! Bettina Tarleton aveva sposato un grasso mutilato di Lovejoy; insieme con Hetty e con Jim Tarleton coltivavano con discreto successo una piantagione di cotone a Fairhill. La signora Tarleton aveva un allevamento di giumente e puledri ed era felice come se avesse avuto un milione di dollari. Nella vecchia casa dei Calvert abitavano dei negri che ne erano anche proprietari! L'avevano comprata all'asta pubblica. Il luogo era devastato; roba da piangere! Non si sapeva dov'erano andati a finire Catina e quel fannullone di suo marito. Alex stava per sposare Sally, la vedova di suo fratello! Figurarsi, dopo aver vissuto per tanti anni nella stessa casa! Tutti dicevano che era un matrimonio di convenienza perché la gente mormorava da quando vivevano soli, dopo la morte della nonna Fontaine e della nuora. E Dimity Munroe ne aveva quasi avuto il cuore spezzato. Ma le stava bene. Se fosse stata furba, si sarebbe trovato un altro marito da un pezzo, invece di aspettare che Alex avesse messo assieme abbastanza denaro da poterla sposare. Rossella chiacchierava allegramente; ma vi erano molte cose che non raccontava; cose che preferiva dimenticare. Aveva percorso la Contea in carrozza con Will, cercando di non ricordare quando quelle migliaia di jugeri erano verdi di cotone. Ora le piantagioni erano a poco a poco riconquistate dalla foresta e folti cespugli di ginestra, arbusti di querce basse e abeti nani erano cresciuti attorno alle rovine silenziose e sugli antichi campi di cotone. Solo qualche jugero era coltivato, dove prima centinaia e centinaia venivano frugati dall'aratro. Sembrava di camminare attraverso un paese morto. - Questa regione ha bisogno di cinquant'anni per riaversi... se mai si riavrà - aveva detto Will. - Tara è la miglior fattoria della contea, grazie a voi, Rossella, e a me; ma è una fattoria, non una piantagione. E dopo Tara viene la fattoria dei Fontaine e poi quella dei Tarleton. Non fanno molti quattrini, ma vivono. Ma il resto delle fattorie e delle persone... No, Rossella non ricordava volentieri l'aspetto della contea abbandonata. Sembrava ancor piú triste di quanto non fosse in realtà, a paragone del movimento di Atlanta. - E qui, c'è niente di nuovo? - chiese quando furono finalmente a casa, seduti sotto al porticato. Per tutta la strada aveva continuato a discorrere, per paura del silenzio. Non aveva scambiato una parola da sola con Rhett dal giorno della sua caduta, e non era troppo ansiosa di restare a quattr'occhi con lui. Ignorava quali fossero i suoi sentimenti verso di lei. Era stato di una grande bontà durante la sua convalescenza; ma era la bontà di un estraneo indifferente. Aveva prevenuto i suoi desideri, impedito ai bambini di infastidirla, sorvegliato il negozio e l'azienda. Ma non aveva mai detto «Perdonami». Forse non era neanche addolorato. Forse continuava a credere che il bambino che non era nato non era suo figlio. Come poteva, Rossella, sapere ciò che si nascondeva dietro a quel viso bruno e simpatico? Però, in quel periodo aveva mostrato una certa disposizione alla cortesia, per la prima volta da quando erano sposati; e il desiderio di lasciare che la vita proseguisse come se fra loro non vi fosse mai stato nulla di spiacevole. «Come se...» pensa tristemente Rossella «fra loro non vi fosse mai stato nulla addirittura.» Ebbene, se era questo che desiderava, lei si comporterebbe nello stesso modo. - Tutto va bene - ripeté. - Hai avuto i nuovi embrici per la bottega? Hai cambiato le mule? Per carità, Rhett, togliti quelle penne dal cappello. Sembri uno scervellato, e sei capace di andare in città senza ricordarti di levarle! - No - fece Diletta prendendo il cappello di suo padre. - Tutto va bene qui - rispose Rhett. - Diletta ed io ci siamo divertiti; credo che non sia mai stata pettinata dopo la tua partenza. Non rosicchiare le penne, tesoro; sono cattive. Sí, gli embrici sono a posto; per le mule ho fatto un buon affare. Veramente non c'è niente di nuovo: tutto procede regolarmente. Poi, dopo un attimo riprese: - L'egregio Ashley è stato qui ieri sera. Voleva sapere se tu saresti disposta a cedergli il tuo stabilimento e la parte che hai nel suo. Rossella che si stava cullando in una sedia a dondolo e sventolando con un ventaglio di penne di tacchino, si fermò bruscamente. - Cedere? E dove diamine ha preso il denaro? Sai che non hanno mai un centesimo. Melania spende subito tutto quello che suo marito porta in casa. Rhett si strinse nelle spalle. - Ho sempre pensato ch'ella fosse una personcina molto economa. Ma non sono informato sui particolari delle finanze dei Wilkes come sembri esserlo tu. Era una frase nel vecchio stile di Rhett e Rossella ne fu seccata. - Vai, cara - ella disse a Diletta. - La mamma ha bisogno di discorrere col babbo. - No - rispose risolutamente Diletta arrampicandosi sulle ginocchia paterne. Rossella aggrottò le sopracciglia e Diletta la guardò a sua volta con un cipiglio tanto rassomigliante a quello di Geraldo O'Hara che sua madre quasi rise. - Lasciala stare - intervenne Rhett. - Quanto al denaro, pare che gli sia stato mandato da un tale a cui egli prestò assistenza a Rock Island, quando costui aveva il vaiolo. Il fatto che la riconoscenza esista ancora rinnova la mia fede nella natura umana. - Chi è? Una persona che conosciamo? - La lettera non era firmata e veniva da Washington. Ashley ha stentato a capire chi poteva averla mandata. Ma è naturale che un individuo come Ashley vada compiendo tante buone azioni nel mondo che gli è impossibile ricordarle tutte. Se non fosse stata enormemente stupita per la fortuna inattesa di Ashley, Rossella avrebbe raccolto il guanto, quantunque durante il suo soggiorno a Tara si fosse proposta di non lasciarsi mai piú trascinare a litigare con Rhett a proposito di Ashley. I suoi rapporti coi due uomini erano troppo incerti: ed ella non aveva intenzione di eccitarsi in proposito finché non fosse sicura del fatto suo. - E vuol comprare? - Sí. Ma gli ho detto che certamente tu non pensi di vendere. - Ti prego di lasciare che mi occupi io dei miei affari. - Mah, so che non hai nessuna voglia di rinunziare all'azienda. Gli ho detto che tu non sopporteresti di non ficcare il naso negli affari altrui... - Hai osato dirgli questo? - Perché no? Non è la verità? Credo che in cuor suo fosse d'accordo con me; ma è troppo gentiluomo per convenirne. - Non è vero! Gli venderò l'azienda! - esclamò Rossella. Fino a quel momento non aveva pensato affatto ad abbandonare la sua industria. Per molte ragioni desiderava conservarla; e il suo valore finanziario era il motivo meno importante. Negli ultimi anni aveva avuto piú volte occasione di venderla ad ottime condizioni, ma aveva sempre rifiutato. Gli stabilimenti erano la prova evidente di ciò che aveva fatto con le sole sue forze, ed ella ne era orgogliosa. Inoltre rappresentavano il solo contatto possibile con Ashley. Se li avesse venduti, avrebbe avuto assai raramente occasione di vederlo, e probabilmente non lo avrebbe mai visto solo. E voleva vederlo; voleva sapere quali erano adesso i suoi sentimenti verso di lei, se il suo amore era morto, seppellito dalla vergogna, in quella terribile sera del ricevimento. Rimanendo in rapporti di affari, avrebbe avuto l'opportunità di parlargli, senza che nessuno potesse fare osservazioni. E col tempo, ella avrebbe certo riconquistato il terreno che forse aveva perduto nel suo cuore. Ma se vendeva gli stabilimenti... No; non aveva voglia di venderli; ma stimolata dall'idea che Rhett l'aveva fatta apparire ad Ashley in cosí cattiva luce, aveva immediatamente mutato pensiero. Ashley avrebbe l'azienda, e a prezzo cosí favorevole che sarebbe costretto a riconoscere la sua generosità. - Voglio vendere!... - esclamò adirata. - Che ne pensi, adesso? Negli occhi di Rhett passò una lievissima luce di trionfo mentre egli si curvava ad allacciare una scarpina di Diletta. - Credo che te ne pentirai - rispose. Ella era già pentita delle sue parole impulsive. Se le avesse dette dinanzi a chiunque altri che Rhett, le avrebbe ritrattate senza vergogna. Perché precipitare in quel modo? Guardò suo marito con la fronte aggrondata e vide che la stava osservando col suo antico sguardo ansioso di gatto dinanzi alla tana di un topo. Quando le vide aggrottare le ciglia, rise improvvisamente, con un balenío dei suoi denti bianchi. Rossella intuí vagamente che egli l'aveva costretta in quella posizione. - C'entri per qualche cosa in questo? - gli chiese furibonda. - Io? - Inarcò le sopracciglia con sorpresa beffarda. - Dovresti conoscermi meglio. Non compio mai delle buone azioni io... se posso farne a meno.

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NEL periodo che seguí la sua malattia, Rossella notò in suo marito un mutamento; ma non riuscí a comprendere se questo le piaceva o no. Rhett non beveva piú; era tranquillo e pensieroso. Rimaneva spesso a casa dopo cena, ed era piú gentile coi servi e piú affettuoso con Wade e Ella. Non accennava mai a nulla del loro passato e sembrava silenziosamente impedire che lei vi alludesse. La vita continuava dunque a scorrere quietamente, almeno alla superficie. La cortesia impersonale che egli aveva cominciato a dimostrarle durante la sua convalescenza continuò; e Rhett si astenne oramai dal lanciarle frecciate velenose e dal pungerla coi suoi sarcasmi. Rossella comprendeva ora che quantunque i suoi maliziosi commenti fossero oltremodo irritanti, pure erano dettati da un interessamento per ciò che ella faceva e diceva. Ora forse non gliene importava piú nulla. Era e disinteressato; ed ella sentiva la mancanza di quel suo interessamento, anche perverso, degli antichi tempi pieni di liti e di rispostacce. Era gentile con lei, quasi come se si trovasse con un'estranea; ma i suoi occhi che una volta la seguivano, ora seguivano Diletta. Era come se la corrente violenta della sua vita si fosse ridotta in uno stretto canale. A volte Rossella pensava che se Rhett le avesse accordato una metà della premura e della tenerezza che prodigava alla bambina, la vita sarebbe stata ben diversa. La gente diceva: «Come adora la sua bimba il capitano Butler!» ed ella era costretta a sorridere perché non voleva riconoscere, neanche dinanzi a se stessa, di esser gelosa di una bambina; specialmente quando questa era la sua figliuoletta favorita. Rossella aveva sempre provato il bisogno di essere la prima nel cuore di chi le stava attorno; ed ora era evidente che Rhett e Diletta sarebbero sempre i primi, uno nel cuore dell'altra e viceversa. Rhett tornava tardi le sere in cui usciva; ma era perfettamente sobrio. Spesso lo udiva fischiettare pianamente mentre attraversava il vestibolo. A volte rientrava in compagnia di uomini e con questi rimaneva a discorrere in sala da pranzo, dinanzi alla bottiglia di acquavite. Non erano gli stessi individui coi quali beveva nel primo anno del loro matrimonio. In casa non venivano, invitati da lui, né «Carpetbaggers» né rinnegati né repubblicani. Rossella, avvicinandosi in punta di piedi alla balaustra tendeva l'orecchio e spesso riconosceva stupita le voci di Renato Picard, di Ugo Elsing, dei ragazzi Simmon, di Andy Bonnell. E lo zio Enrico e il nonno Merriwether non mancavano mai. Una volta, con sua grande meraviglia, udí la voce del dottor Meade. E dire che quella gente una volta avrebbe voluto vedere Rhett impiccato! Il gruppo era sempre associato, nella sua mente, con la morte di Franco; e tutto l'insieme le ricordava i tempi precedenti la scorreria del Klan in cui Franco aveva perso la vita. Ricordava con spavento la frase di Rhett che «si sarebbe perfino associato al loro maledetto Klan, per diventare rispettabile» benché «sperasse che Dio gli risparmierebbe una simile penitenza.» E se Rhett, come Franco... Una notte in cui egli tornò piú tardi del solito, Rossella non riuscí a dominarsi. Sentendo infilare la chiave nella serratura, si gettò uno scialle sulle spalle e, nella luce del gas acceso nel vestibolo, lo attese in cima alla scala. L'espressione pensierosa di Rhett si mutò in sorpresa vedendola. - Rhett, ho bisogno di sapere! Debbo sapere se tu... se è il Klan... è per questo che rientri a queste ore? Appartieni forse... Nella luce del gas egli la fissò senza curiosità e sorrise. - Sei in ritardo. Non vi è piú Klan ad Atlanta. E forse in tutta la Georgia. Sono i tuoi amici rinnegati che ti raccontano delle storie a proposito di immaginari oltraggi compiuti dal Klan. - Non esiste il Klan? Lo dici per tranquillizzarmi? - Quando mai ho tentato di tranquillizzarti, mia cara? No, il Klan non esiste piú. Abbiamo deciso che faceva piú male che bene, perché teneva gli yankees in stato di continua eccitazione e forniva troppo grano al mulino di sua eccellenza il governatore Bullock. Egli sa che rimarrà al potere soltanto finché il Governo federale e i giornali yankee saranno persuasi che la Georgia è in continua rivolta e che dietro a ogni cespuglio si nasconde un membro del Klan. Per conservare il potere, egli fabbrica una quantità di storie: yankees sospesi per i piedi, negri linciati e simili. Tutta roba inesistente. Ti ringrazio per la tua apprensione; ma non esiste piú un Klan attivo, press'a poco da quando io ho cessato di essere un rinnegato per diventare un umile democratico. Quasi tutte le parole concernenti il governatore Bullock le entrarono in un orecchio e uscirono dall'altro; la sua mente concepiva in quel momento soltanto la gioia di apprendere che il Klan non esisteva piú. Rhett non sarebbe ucciso com'era stato ucciso Franco; ella non perderebbe il negozio né il denaro. Ma una parola della sua conversazione le rimase fissa nel cervello. Egli aveva detto "noi", associandosi naturalmente a coloro che una volta chiamava "La Vecchia Guardia". - Rhett - gli chiese a un tratto - hai avuto parte, tu, nello scioglimento del Klan? Le lanciò una lunga occhiata e nei suoi occhi apparve la piccola luce maliziosa. - Sí, amor mio. Ashley Wilkes ed io ne siamo i principali responsabili. - Ashley... e te? - Sicuro. La politica crea delle strane amicizie. Né Ashley né io abbiamo una grande simpatia reciproca; ma... Ashley non ha mai avuto fiducia negli effetti del Klan, perché è contrario ad ogni specie di violenza. Ed io ho sempre ritenuto che fosse una grossa sciocchezza e che in quel modo non si sarebbe mai ottenuto ciò che desideriamo. Abbiamo quindi convinto le teste calde che il lavoro e l'attesa ci avrebbero condotti piú avanti che le camicie da notte e le spedizioni. - E quei giovanotti accettano i consigli di uno che... - ... che era uno speculatore e un rinnegato? Un amico degli yankees? Dimentichi, signora Butler, che ora sono un ottimo democratico, devoto fino all'ultima goccia del mio sangue al riscatto del nostro paese dagli usurpatori! Il mio consiglio era buono ed è stato accettato. Ed anche in altri argomenti politici il mio consiglio è gradito. Non abbiamo oggi una maggioranza democratica al Parlamento? E presto, amor mio, vedremo qualcuno dei nostri cari amici repubblicani dietro le sbarre. Sono diventati oltremodo rapaci, e lo fanno troppo apertamente. - E tu aiuterai a farli mettere in prigione? Ed erano tuoi amici! Ti hanno fatto entrare nell'amministrazione delle ferrovie dove hai guadagnato migliaia di dollari! Rhett sogghignò improvvisamente; era il suo vecchio sogghigno beffardo. - Oh, non voglio loro alcun male. Ma ora sono dall'altra parte, e se posso aiutare a metterli dove meritano di stare, lo farò. E come ridonderà a mio credito una cosa simile! Conosco abbastanza i particolari di alcuni dei loro affari; e quando il Parlamento comincerà a scavare... Cosa che farà ben presto; e metterà sotto inchiesta anche il governatore, cercando di cacciare in prigione anche lui, se sarà possibile. Farai bene a dire ai tuoi cari amici Gelert e Hundon di prepararsi a lasciare la città da un momento all'altro; perché se agguantano il governatore, agguanteranno anche loro. Per troppi anni Rossella aveva visto i repubblicani - sostenuti dall'esercito yankee - dominare la Georgia per poter credere alle parole di Rhett dette con tanta leggerezza. Il governatore era troppo ben trincerato perché qualunque Parlamento potesse fargli del male; meno che mai imprigionarlo. - Come corri! - osservò. - Se non lo mettono dentro, per lo meno non lo rieleggeranno. La prossima volta avremo un governatore democratico, per cambiare. - E magari sarà un po' merito tuo? - chiese Rossella sarcastica. - Senza dubbio, tesoro. Me ne sto già occupando. Perciò rincaso cosí tardi la sera. Sto lavorando come non ho lavorato mai, per organizzare le elezioni. E... so che questo ti dispiacerà, signora Butler, ma sto contribuendo anche con molti quattrini. Ti ricordi che alcuni anni fa, nella bottega di Franco, mi dicesti che era una disonestà conservare l'oro della Confederazione? Ho finito col darti ragione; e quel denaro sarà speso per far tornare i confederati al potere. - Denaro buttato! - Denaro buttato quello speso per la democrazia? - Il suo sguardo la scherní; poi tornò tranquillo e senza espressione. - Non m'importa nulla di chi riuscirà nelle elezioni. Ciò che mi importa è che tutti sappiano che me ne sono occupato e ho contribuito col mio denaro. In futuro se ne ricorderanno; e questo sarà tutto a favore di Diletta. - I tuoi discorsi mi avevano quasi fatto temere che tu fossi cambiato; ma vedo che non sei piú sincero verso i democratici di quanto tu non sia stato verso chiunque altro. - Non sono mutato affatto. Ho solo cambiato la pelle. È possibile togliere le macchie a un leopardo, ma rimane leopardo ugualmente. Diletta, svegliata dal rumore di voci nel vestibolo, chiamò con voce sonnacchiosa ma imperiosa: - Babbo! - e Rhett si avviò passando davanti a Rossella. - Aspetta un momento, Rhett. Voglio dirti un'altra cosa. Devi smettere di portare in giro Diletta, nel pomeriggio, alle tue riunioni politiche. Non fa un bell'effetto. Una bambina in quei luoghi! E fai la figura di uno sciocco. Non avrei supposto che ve la conducevi, se non me ne avesse parlato zio Enrico, credendo che io lo sapessi e... Egli si volse; il suo viso era indurito. - Che cosa vedi di male nel fatto di una bambina che siede sulle ginocchia di suo padre mentre egli parla coi suoi amici? Ti sembra una sciocchezza ma non lo è. Fra qualche anno la gente ricorderà che Diletta era con me mentre io cercavo di scacciare i repubblicani dallo Stato. Lo ricorderanno e... - La durezza scomparve dal suo volto; negli occhi neri tornò a brillare la malizia. - Sai che quando le chiedono a chi vuol piú bene, risponde: «A babbo e ai democati»? E chi odia di piú: «I innegati». Grazie a Dio, il pubblico ricorda queste cose. La voce di Rossella si levò furibonda. - E magari le avrai detto che io sono una rinnegata! - Babbo! - chiamò la vocina che adesso era indignata; e Rhett, ancora ridendo, attraversò il vestibolo per andare da sua figlia.

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Il romanzo della bambola

222184
Contessa Lara 6 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
  • UNICT
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La Giulia cominciò a fantasticare su' casi suoi: perchè non aveva mai potuto avere un'ora di bene? Un po' vanitosa era stata, non c'è che dire: si ricordava ancora della superbia con cui guardava le sue compagne della vetrina, a Milano; si rimproverava d'aver troppo amati i bei vestiti, la società elegante, le passeggiate in carrozza con la Marietta, senza neppur darsi un pensiero di tante e tante piccole bambole, di segatura come lei, che pativano nelle stamberghe della povera gente. Forse il Signore aveva voluto punire codesto suo vizio. E confrontando la propria vita alla vita di tutti gli altri esseri, s'accorgeva che ciascuno era punito per l'appunto là dove peccava. O il povero Orlando non era condannato a giacer lì, in balia de' topi e delle tarme, lui che si vantava d'aver tenuto testa a tanti cavalieri cristiani e pagani? Riflettendo a questa e ad altre simili cose, la bambola cominciò a sentirsi gli occhi pesanti, e i pensieri confusi; due o tre volte sbarrò gli occhi nel buio che le fluttuava d'attorno; alla fine, lei pure s'addormentò. Da quel giorno l'amicizia fra il burattino e la bambola divenne sempre più stretta: si raccontavano tutto quello che avevano visto; si compativano e si confortavano a vicenda. Orlando aveva sempre pronta la facezia che rasserenava il visino ferito della povera Giulia; la quale, per compensarlo, gli faceva capire di volergli bene. La notte, quando i topi tentavano d'arrampicarsi fino alla Giulia, dovevan passare sul corpo del paladino di Francia: e lui faceva tale un fragore con tutte le ferrarecce che aveva addosso, che i topi, impauriti, fuggivano. Alla Giulia, ch'era una personcina pulita, rincresceva soltanto che non ci fosse nessuno per lavarle la faccia e per ravviarle i capelli; ma Orlando le faceva coraggio dicendole che neppure le donne dell'epoca della cavalleria si lavavano mai, perchè non ne avevano il tempo, occupate com'erano a girar sempre per non incappar nelle mani di qualche mago o di qualche pagano. Quella volta, la Giulia, che tanto spesso gli aveva sentito nominare i cavalieri e la cavalleria, ma non se n'era mai fatta un'idea giusta, non potè tenersi di non domandare ad Orlando: - Ma insomma, con chi l'aveva codesta gente? - Con tutti! Con tutti i malvagi, gli sleali e i traditori - tonò Orlando. E riprese a declamare:

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- gridò Lucietta, battendo le mani e saltando dalla gioia, perchè quell'idea le era proprio andata a genio. Nannina osservava, spalancando gli occhi ingenui: - Ma come si fa?... La sorellina, che avea paura di veder subito svanire in nulla il bel progetto, la interruppe, dandole su la voce: Come si fa, si fa bene. È vero, mamma, è vero? La madre accennava di sì, col capo. - E io vi porto i suoni - promise il fratello, che era un giovanotto fatto, e che si divertiva a scherzar con quelle bimbe come se fossero state due figliuolette sue. Io vengo con la chitarra e invito Luigi, il gobbo, col mandolino. - E noi si balla, allora! - esclamò Nannina, cominciando a pigliar gusto all'idea della festicciuola. - Si balla! Si balla! - strillava Lucietta, che già ballava da sola come un'orsacchiotta in allegria. - Sì, chiamiamo i ragazzi del Brugia, quelli di Rosa, Antonia, le Bongianni...- E nominò una filza di parenti, d'amici, di vicini. Il babbo fumava quietamente la corta pipa di creta, ormai molto più nera della barba. Non rideva con la bocca, ma gli ridevano gli occhi, vispi e bonari. - Quanto a me - dichiarò egli - regalo a tutti un bel carrattello di vin Santo; vi garba? Figurarsi se la proposta fu approvata, e con rumorosa gioia. D'improvviso la Lucietta corse a prendere in braccio la pupattola. - E tu, che ne dici? - le chiese, senza affatto indovinare che la Giulia aveva capito tutto. - È contenta, è contenta! - disse la massaia. Sì, che la Giulia era contenta. Per dire il vero, l'idea del matrimonio non le era mai passata per la testolina vuota: neppure nel ricco negozio di Milano, dove erano fantocci Dio sa quanto più belli del povero paladino da teatrucolo. Là, anzi, disprezzava tutti. Non esisteva un principe degno della sua manina inguantata di bianco. Poi avea pensato a brillare, come una vanitosella spensierata; e quindi aveva sofferto, e aveva amata Camilla. Ma, certo, (se lo confessava senza che per questo un velo di rossore salisse a coprirle il visetto) da quando Orlando, in quella orribile soffitta senz'aria, si era messo a tenerle così buona compagnia, cercando, ora con una frase gentile, ora con un verso strampalato di distrarla e ricrearla, qualcosa di nuovo le era nato in cuore. L'amore forse? No, non doveva esser l'amore, perchè in fondo ella era contenta che si fosse rotto per sempre lo spago che un tempo la faceva ripetere T'amo. Al tempo in cui si sentiva giovane, bella, adorata da Camilla, la magica parola le pareva fatta per lei. Ora no. Non si può dire T'amo con lo stesso sentimento due volte nella vita; e quando quella corda... o quello spago si spezza, meglio è tacere. Diceva, però - oh questo sì - nella sua lingua di bambola, al bravo Orlando, ch'ella gli voleva del bene perch'egli era buono, di sensi generosi, piacevole di carattere; e che sempre glie lo avrebbe voluto, persuasa com'era che il capriccio è uno de' più brutti difetti che esistano. Orlando, poi, gongolava. Tutte le tenerezze che si possono trovar da dire in versi e in prosa, egli le schiccherava alla Giulia, non importandogli più affatto che il pubblico plaudente e urlante, come una volta, udisse le sue dichiarazioni, anzi, delicatamente soddisfatto che soltanto al piccolo orecchio di rosea porcellana dell'amata sua venissero le sue parole. Proprio com'era stata progettata, la festicciola campestre ebbe luogo. In una bella sera di luna piena, al tempo della mietitura, una trentina di giovani contadini e di fanciulletti s'erano riuniti su l'aia e ballavano allegramente, mentre la chitarra e il mandolino non rifinivano di sonare polke, mazurke e canzonette napoletane, senza preoccupazione di parecchie note sbagliate nell'accompagnamento. Che importa? C'era l'intenzione di disimpegnarsi alla meglio, e sopra tutto di divertirsi e far divertire gli altri. Quello non era un concerto d'etichetta; si faceva per far due salti all'aria aperta e due risate di cuore, con la scusa delle nozze. Ogni tanto, qualche ballerino correva dentro la cucina, e giù si versava un bicchierone colmo di vino tracannandolo d'un fiato, tanto aveva la gola arsa, a forza di vociare. In mezzo a una specie di galop finale, la Lucietta corse a pigliare Orlando e la Giulia, e premendoli a faccia a faccia l'uno all'altra fece un giro sfrenato per tutta l'aia. Scoppiò un applauso formidabile in tutta la rustica società, e in quel punto la massaia uscì di casa con in mano un grosso cartoccio a imbuto; e fattasi a spintoni in mezzo a tutti cominciò a buttar in aria manciate di confetti colorati. Gli urli e gli applausi raddoppiarono; e fu un pigia pigia per raccogliere i confetti, che ruzzolavano sotto i piedi. - Evviva gli sposi! - gridò con quanto fiato aveva nel corpo contorto il gobbetto dal mandolino. - Evviva!! - risposero tutti in coro, ridendo e mangiando i dolci nuziali. - Buona gente! - disse la Giulia al suo sposo, commossa da quell'allegria così schietta e alla buona. - Meglio, certo, di quant'altra ne abbiamo conosciuta tu ed io - le rispose l'antico attore. La Giulia riprese: - E pensare che c'è chi s'arrabbatta tanto per far figura nella così detta alta società, dov'è tanta finzione, tanto egoismo, tanto interesse! - Io, davvero, ti giuro che a quest'aria pura, co questa pace, e in mezzo a povera gente così buona e sincera, non rimpiango nulla nè nessuno - dichiarò Orlando. - E poi ho te! Che cosa potrei desiderare di più? La Giulia lo ringraziò con un tenero luccichio degli azzurri occhi di vetro, ma nell'interno, tra la segatura, passò un sospiro della sua fedele anima di bambola. Era un sospiro per Camilla... Ahimè, perchè non era ella lì con loro quella cara? Ahimè, perchè non tornano a noi i morti che si chiamano, i morti che ancora s'amano?...

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Al mattino seguente, la Marietta non ebbe bisogno, come al solito, d'essere svegliata; era appena giorno quando lei stessa chiamò la governante, pregandola d'aprirle subito la finestra per poter vedere lì accanto la sua bambola; e prima di vestirsi per sè volle vestir la Giulia con l'elegante accappattoio di crespo della China color limone; poi le tolse di capo la reticella, le disfece le trecce, ma per quanto si provasse e riprovasse, non seppe ripettinarla; e già cominciava a disperarsi, stizzendosi e strappando anche qualcuno di que' bei capelli biondi come il grano, quando la governante le venne in aiuto. Presa la Giulia su le ginocchia, la pettinò tale e quale una signorina grande. Tornata subito di buon umore, la fanciulla s'alzò anche lei. Aveva un gran d'affare quel giorno: rimettere a posto, dentro il bauletto, tutto il corredo della bambola, poi vestir questa daccapo per far visite; giacché la mamma avea promesso di condurre la Marietta a trovar delle famiglie di parenti cui augurare un buon Natale; e la Marietta voleva seco anche la pupattola. All'ora della colazione, la bambina si pose la Giulia accosto, sur una seggiola dove aveva messo due cuscini, uno sopra l'altro; e a mano a mano che le vivande venivano in tavola, le offriva molti bocconcini ghiotti sur un piattello dorato: tutte cose che l'altra gradiva molto ma delle quali, certo, non poteva profittare, perchè la sua natura non ne aveva bisogno; sì che a poco a poco gli ottimi bocconcini erano mangiati dalla stessa Marietta, che si divertiva chi sa quanto a quel gioco. Quando venne l'ora delle visite, si trovarono pronte tutte e due, bambina e pupattola: la prima, ben calda nel suo bel mantellino di velluto bianco, uno dei tanti regali che le avea portato il babbo da Milano; la seconda, col famoso abito di velluto marrone ricamato d'oro. Avevano un cappello di forma quasi simile, in proporzione, s'intende, alla grandezza delle loro teste; e quasi simile era il manicotto, di cigno. C'è da figurarsi l'entusiasmo che destò la Giulia nelle cuginette e le amiche della Marietta; non si stancavano di guardarla da tutte le parti, d'ammirare ogni cosa che portava addosso; e volevano toccar tutto; ma la padroncina non permetteva troppe confidenze. - Si sciupa! - badava a gridare, scostandosi, tanto che la Leopoldina, una bimba delle più invidiose, fece una scenata di singhiozzi per averla un momento in braccio; e quando la buona signora de' Rivani la tolse alla propria figliuola per affidarla alla fanciulla, essa la gettò dispettosamente per terra e scappò via in un'altra stanza. La povera Giulia sentì una forte scossa in tutta la sua personcina; non precisamente un dolore acuto come quello d'una bimba di carne che cade, ma una sofferenza impossibile a spiegare. Fortuna che il suo cappellone di velluto le aveva riparata la testa! Altrimenti, con quel colpo violento, se la sarebbe spezzata! Molto diversa dall'ammirazione pericolosa di Leopoldina, fu quella d'un'altra cugina: Camilla. Figlia d'una sorella della signora de' Rivani che aveva fatto un matrimonio assai disgraziato, quella bambina era cresciuta nella solitudine, con poche cure, quasi senza affetto. Parlava di rado, avvezza com'era a essere lasciata giornate intere chiusa in una stanza a farvi le sue lezioncine; ma aveva un gran buon cuore e i sentimenti più gentili che una bambina possa avere. Quando vide la bellissima pupattola della Marietta, Camilla rimase muta, ma arrossì, tanto era commossa, fino alla radice dei capelli e sorrise dolcemente. - Ti piace? È carina, è vero? - le domandò la cugina fortunata. L'altra accennava di sì, di sì, col capo. Altro che le piaceva! Le piaceva tanto da lasciarle quasi gli occhi addosso. La Marietta, che di Camilla si fidava perchè la sapeva buona e assennata, le disse, porgendole la bambola: - Guardala, guardala pure... prendila in braccio - e intanto che Camilla, tutta contenta, la pigliava con delicatezza, per paura di sgualcire quel vestito così signorile, la Marietta si mise a raccontarle per filo e per segno quanta magnifica roba aveva la sua bambola. Non finiva più d'enumerarne le ricchezze. Ma Camilla non le prestava una grande attenzione. S'era messa a guardar fisso gli occhi celesti della Giulia, quasi avesse, chi sa come, indovinato che la pupattola aveva un'anima dentro di sè, molto dentro, chi sa dove, e glie l'avesse voluta cercare a traverso quel vetro lucente, iridato. - Costa cinquecento lire, sai! - fece la Marietta inarcando le sopracciglia, perchè sapeva di dire una somma grossa. Camilla ripetè macchinalmente: - Cinquecento lire! - ignorando quante erano in realtà; ma persuasa che dovevano essere tante e poi tante da far sì che lei non avrebbe mai avuta una bambola simile. Sospirò leggermente e rese la troppo bella Giulia alla sua proprietaria. La sera di quel medesimo giorno, le piccole parenti e le numerose amiche della Marietta, tranne Camilla, che i genitori non conducevano mai in nessun luogo, erano tutte riunite in casa de' Rivani, a godervi la festa dell'albero di Natale: il bell'abete carico di lumicini di ogni colore, co' rami intrecciati di fili d'oro e d'argento, da cui pendono i regali per tutti gl'invitati grandi e piccini. Anche in codesta festa la Giulia ebbe i principali onori, un vero trionfo. Le avevano messo un vestito da ballo di seta color di rosa a lungo strascico, guarnito di ciocchette di fiori; al collo, un filo di perle; in testa, una stella di brillanti veri, perch'era una piccola spilla della signora de' Rivani, che la bambina aveva voluta a forza, per uno de' suoi soliti capricci. I fanciulli s'affollavano a udir da vicino il fenomeno della bambola parlante; nè si contentavano fintanto che ciascuno, per conto suo, non s'era fatto dire da quella vocetta di gobbina: T'amo! Allora erano risa, esclamazioni di piacere, gesti, salti, sopratutto una grande meraviglia, quasi incredula, in tutti quegli occhi spalancati e allegri. La Giulia godeva infinitamente. La sua innata vanità, che non era poca, si sentiva lusingare da tutti quei complimenti! Gli era dunque vero ch'era bella! Gli era vero ch'era una principessa! E le tornavano in memoria, chi sa perchè, le occhiate di canzonatura del vecchietto dall'orologio, là su a Milano quando erano insieme nel magazzino de' giocattoli. Ora si ch'ella le poteva disprezzare quelle occhiate, ora ch'era in una delle prime famiglie di Roma! Avrebbe pagato che la potesse vedere a quella festa il vecchietto burlatore! Ma lui, sa Dio dov'era a quell'ora; forse fracassato. Ben gli stava! Una orchestra di bravi sonatori intonò d'improvviso un'aria da ballo: una polka. In quel punto vi fu tra' bambini la più gioconda confusione; chi correva di qua, chi di là, i maschietti cercando le femmine, le femmine i maschietti. Un amico della Marietta disse a questa: - Io voglio ballare con la tua bambola. - Con la mia bambola? E perchè non balli con me? - Perchè lei è più bella di tutte voi altre! Una risata generale accolse la curiosa risposta, che nessuno s'aspettava; e la prima coppia che diede principio alle danze fu quella di codesto bambino impertinentemente spiritoso e della Giulia, che teneva le braccia aperte come nel desiderio di stringere l'ardito piccolo cavaliere che l'aveva scelta, preferendola a tante graziose creature di carne. - Sarà un poeta quando cresce - aveva sentenziato su quel ragazzo una giovane signora - perchè è troppo originale! Un poeta! Dunque, la Giulia ballava con un poeta in erba, e non poco se ne insuperbiva. Quando furono le dieci, s'aperse per i piccini la sala della cena, e accaldati, sudati, essi vi si precipitarono dentro, con molta sete e non poco appetito. La Giulia fu posta a sedere tra il suo ballerino e la Marietta, che si buttò sui dolci più che sul resto, non ostante le giuste osservazioni della sua governante, la quale stava in piedi dietro la sedia. Alla fine, vedendo che non c'era verso di farla ubbidire, la governante corse a chiamare la signora de' Rivani. Senza dire una sola parola, la mamma, conoscendo il debole della bimba, prese la bambola e se la portò via: era l'unico mezzo per far cedere la Marietta. Questa seguì sua madre; pregò, scongiurò, e, per l'intercessione del babbo, sempre indulgente, riebbe la sua pupattola. - Tu vuoi, cattiva, che questa bella festa finisca male! - sgridò la signora. Già la Marietta piangeva a cald'occhi. - Non la far piangere così! - disse con bontà il signor Giovanni alla moglie. - Purchè non tocchi più un dolce! - fece la madre. La Marietta promise, e mantenne. Ma il male era già fatto. Nella nottata, la bambina sofferse d'agitazione; poi di male allo stomaco; finalmente, le si sviluppò la febbre. Tutti di casa erano sossopra: il babbo, la mamma, le persone di servizio; chi le scaldava dei pannilani su Io stomaco; chi le preparava una tazza di camomilla. E lei si lagnava, sbattendosi qua e là per il letto, piagnucolando, chiamando tutti, senza lasciare un momento di pace. La Giulia, ch'era buttata da una parte del letto,

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Camilla stava là zitta a udir tutto. Era avvezza non soltanto a non chiedere mai nulla, ma neppur quasi a desiderare cosa al mondo; anzi, s'era persuasa, a forza di sentirlo ripetere, ch'ella non meritava niente e che qualunque cosa era troppo per lei. Macchinalmente seguiva con gli occhi la scelta, alla quale la zia avea piacere ch'ella assistesse perchè le voleva assai bene; e quando della roba ch'era stata destinata a lei vedeva impossessarsi sua madre, non se ne doleva, come avrebbe fatto più d'una bambina, ma n'era contenta. - Così, pensava, la mamma litigherà meno col babbo, a causa de' vestiti che le mancano. - Mamma, dài a Camilla il mio mantello di velluto bianco; - disse la Marietta - tanto è macchiato di sciroppo, davanti! - Un mantello di velluto bianco non è adattato a Camilla, e il velluto non si può tingere - osservò la signora Amalia. - Prendilo, qualcosa te ne farai - consigliò la signora de' Rivani. - Ne farò un bel guanciale per il salotto - disse la madre di Camilla; e si prese il mantello. - Oh, la Giulia, guarda la Giulia! - esclamò a un tratto Camilla, additando la bambola. - Ah! E io che me n'ero scordata! O chi l'ha messa qui? - disse la Marietta afferrando la pupattola per le vesti e tirandola a sè. Ma quando l'ebbe in braccio e la guardò si mise a ridere, a ridere come una scapata, levando in aria la gamba mutilata. - È storpia! Non ha più un piede! È diventata zoppa! - e cominciò a strappucchiare con I'unghie i lembi della pelle rosicchiata dal sorcio. - Peccato! Una così graziosa bambola! - fece la signora de' Rivani. - Che costava cinquecento lire - soggiunse con una smorfia la sorella. - Avessi io cinquecento lire da buttar via in gingilli!... - Poverina! - sospirò Camilla, e accostandosi alla cuginetta, carezzò leggermente la bambola sul capo, ravviandole i capelli scomposti, arruffati. La Giulia, che aveva riaperto gli occhi e li teneva sbarrati, non ostante la luce viva alla quale non era più abituata da tanto tempo, fissò lo sguardo negli occhi buoni e affettuosi di Camilla; e di dentro al vetro dovette parlare, implorando pietà, la piccola anima sua; perchè la buona bambina, tutta intenerita, ripetè con accento più commosso che mai: - Poverina! La Marietta avea posata la pupattola sur una sedia. - Non è più buona a nulla, così - diss'ella. - La puoi fare accomodare - suggerì la signora Amalia. Ma la signora de' Rivani, che avea visto la sua figliuola alzare le spalle e sapeva quanti giocattoli di prezzo la bambina aveva sciupati senza più curarsene, si voltò alla Marietta e le chiese: - Vuoi dare quella bambola alla Camilla ? Credo che a lei, per divertircisi non fa niente se anche le manca un piede. - Camilla, rimasta senza fiato per la commozione, guardò la Marietta, che, indifferente, disse, con un sorriso: - Sì, sì, dagliela, io non so che me ne fare! Due piccole braccia tremanti dalla gioia strinsero la pupattola a un petto dove il cuore batteva come se avesse voluto balzar fuori: le braccia di Camilla, nelle quali Ia Giulia si sentì subito al sicuro, come un uccellino nel nido materno. - Le daremo anche il baule col corredo - disse la signora de' Rivani. Ma per quanto il bauletto fosse cercato per tutta la casa, non ci fu modo di ritrovarlo. Chi sa dove era andata a finire la roba della povera Giulia, mentre la Marietta la lasciava cosi abbandonata rovinarsi in fondo a un armadio! - Non importa, non t'incomodare, zia - disse Camilla con gentilezza - io so un po' cucire, e nell'ore che non sono a scuola le farò io un vestitino con qualcosa di mio che non porto più. La Marietta, che rientrava allora in guardaroba, a corsa, dopo aver inutilmente cercato il famoso baulino, osservò che doveva esservi una bella differenza tra gli abiti che la sua pupattola aveva prima e quelli che avrebbe avuti ora: osservazione che sua madre troncò con un: - Taci! - ben meritato. Era vero; la Giulia era entrata in quella casa circondata da un lusso straordinario per una bambola; e ne usciva povera, con soltanto l'abito, ormai sgualcito, che teneva in dosso. Ma c'era entrata accolta dal capriccio, e ne usciva accompagnata dall'amore; e per un essere che ha sentimento, il cambio non era poi cattivo. Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

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La Giulia, inerte sur una seggiola, la guardava meravigliata che la lasciassero lì a quel modo. A un tratto, Camilla si ricordò della pupattola, e scesa dal letto, corse a prenderla. La spogliò in silenzio, e quando l'ebbe accosto, le susurrò vicino all' orecchio: - Non sai, Giulia, non sai? La mamma non mi vuol bene! - E scoppiò di nuovo in singhiozzi, tirando il filo, senza curarsi di far rumore, perchè aveva bisogno d'udire una dolce parola. - T'amo! - disse la Giulia. E lo disse con tale accento d'amore da credere ch'ella fosse davvero una creatura umana. A quella piccola voce la bambina sorrise; e sorridendo e premendosi la bambola, s'addormentò; ma la tosse le seguitava nel sonno.

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Quanto a me, niente paura! persino la camicia avevo di ferro. È vero che il pubblico, davanti a cui si dava lo spettacolo, mi batteva le mani e mi tirava buccie di cocomero, in segno d'ammirazione; ma, in tanto, Angelica fuggiva, e non c'era più verso di rintracciarla. - Un profondo sospiro s'esalò dal petto del burattino disteso per terra: la Giulia ebbe come una scossa. Nel suo povero cuore di bambola cominciava a farsi strada una grande pietà per quel gran fantoccio così curioso, così spaccone, e che doveva egli pure aver tanto sofferto in questo mondo! - Bei tempi! - riprese l'altro. - Bisognava vedere la sera, verso l'avemaria, quando cominciava la rappresentazione, tutta la gente che si pigiava davanti al nostro teatro. Eran soldati, operai, serve, balie, bambini, che si contendevano i posti migliori, che leticavano, strillavano, ridevano: un baccano d'inferno. Ogni tanto Don Giovanni, il burattinaio, un omone con una gran barba, affacciava la testa di tra le quinte, e gridava al colto pubblico e all'inclita guarnigione: - Silenzio, canaglia! - Allora era una tempesta d'urli, di fischi, di contumelie e di patate che si rovesciavano sul palcoscenico; ma non voleva dire: la gente ci voleva bene, e ci dimostrava la sua affezione a quel modo. Ma quando la piccola orchestra intonava un motivo di marcia, e uno de' guerrieri usciva fuor delle quinte, tutti tacevano: si sarebbe sentita volare una mosca. Io poi, non faccio per dire, ero proprio il beniamino del pubblico. Mi ricordo quando venivo a scoprire che Angelica aveva sposato Medoro, ed eran passati insieme nell'India; e io, venuto a scoprire il tradimento, davo in ismanie.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222808
Misteri del chiostro napoletano 7 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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Dopo il fatto d'Angiola Maria, fatto nel quale aveva ella dimostrato nutrire affetto scarsissimo per me, e niuna umanità per gli altri, io l'aveva ceduta a mia zia, ed in cambio m'era, provveduta d'una giovinetta, entrata poc'anzi nel convento, e nativa d'un piccolo paese nelle vicinanze di Napoli. Chiamavasi essa Maria Giuseppa: aveva diciassett'anni, ed era di fisonomia insinuante. Benchè la sua famiglia, avesse fatto molta spesa per chiuderla, e che essa non provasse ancora la nostalgia della personale libertà, pure aveva fin dal principio concepita siffatta devozione per me, che protestava tutto giorno d'esser pronta a seguirmi dovunque le combinazioni mi avessero potuto condurre. Ne' contorni della mia prigione trovavasi una casa alla cui finestra spesso vedeva io una giovine monaca in amichevole conversazione colle parenti. La mirai, la rimirai, ne interrogai l'abito: non v'era dubbio, apparteneva ad un qualche convento di clausura, la non pareva addetta a quella classe di bigotte che chiamansi monache di casa. Per quale mezzo aveva ancor essa ricuperato l'impareggiabile benefizio di ricalcare la soglia paterna? La brama di trapelare alcun che intorno a quel portento mi preoccupò vivamente. Seppi alfine, dopo lunghe indagini, ch'era essa di clausura d'un monastero di Nola, e stava da lungo tempo fuori del chiostro, avendo addotto de' motivi, e rinnovando il permesso d'assenza ogni sei mesi, per modo da ottenerne un prolungamento indefinito. Quale raggio consolante di luce nel buio del carcere! Perchè, profittando del messaggio, che forse la provvidenza mi mandava, perchè non avrei battuto anch'io la stessa via? Non era forse vero, non era evidente il pessimo state di mia salute? Non andava io soggetta ad accessi nervosi, ad emicranie, a spasimi, che logoravano sempre più l'ingracilita mia complessione? Pingui, fresche, rubiconde, piene di brio e di beatitudine erano la maggior parte delle altre mie compagne: la spensieratezza, l'ozio, l'apatia conferivano loro, come il pollaio conferisce alle galline. All'incontro io diveniva sempre più pallida e smilza: le gote mie si affossavano, gli occhi si spengevano, i capelli mi cadevano a ciocche. Uno dei medici della comunità mi fece il rispettivo certificato, che unito alla supplica spedii senza indugio a Roma. Era tanto sicura del buon esito, che dal giorno stesso della spedizione cominciai a contare le ore e i minuti del tempo che mi restava ancora da patire. Diceva fra me stessa: - Ora il corriere consegna la mia supplica: ora Pio IX la sta leggendo con animo disposto al favore: ora sarà già fatta la grazia, firmato l'atto, sigillato il foglio, passato alla rispettiva autorità perchè lo mandi a Napoli: fra due giorni sarà di ritorno il corriere: oggi è giovedi; sabato mattina per tempo, a rivederci! Ah! ma queste due giornate saranno per me più lunghe di due secoli!! Frattanto il canonico non sapeva darsi pace di questo mio passo, e cercava d'infiacchire la poesia delle mie speranze con tutti i colpi che in sua disposizione mettevano lo scetticismo della logica ed il cinismo della professione. Non mancò peraltro di lagnarsi coll'abbadessa delle sciocche persecuzioni a me fatte soffrire dalle monache, dicendole in conclusione: "La mia penitente è donna di fermo carattere, sebbene di poche parole. Siate certa che se si prefigge di uscire ne uscirà!" "San Benedetto non lo permetterà. Chiunque ha indossato una volta il suo abito, non uscirà più di qua dentro nè viva nè morta," rispondeva la povera donna. Ma se mi sapeva mill'anni di andarmene da quel luogo detestato, assai, ciò non ostante, dolevami di lasciarvi una ragazza in cui si erano concentrate le mie premure, ragazza ch'io amava come figlia od unica sorella. Discendeva essa da un'onesta ed agiata famiglia napoletana, ed erami stata distintamente raccomandata un anno prima de' sovraccennati avvenimenti. Chiarina (avea tal nome) era stata da principio affidata ad una zia, monaca da quarant'anni nello stesso monastero, ed in quel tempo rimbambita per eccessiva vecchiezza. Attristata dall'orrendo abuso che la conversa faceva della debolezza di lei, la povera vecchia mi aveva supplicata di prendere la nipote sopra di me, e farle da madre. Ogni educanda aveva per maestra una monaca; Chiarina fu dunque data in custodia a me, ed io l'accolsi caritatevolmente. Nata di sette mesi, quella giovinetta era viva per miracolo; aveva sedici anni, ma ne mostrava appena, dieci. Perduti entrambi i genitori in tenera età, era, rimasta con due soli fratelli; il minore studiava in altra città, ed il maggiore, per la natura delle pubbliche funzioni che esercitava, era costretto a trovarsi sempre in viaggio. Chiarina aveva il volto di un angioletto: sembianze regolari, guardatura attraente, profondamente patetica. Era impossibile, anche alle persone del suo sesso, averla veduta una volta alla sfuggita, e non sentirsi la voglia di pascer la vista nella contemplazione de' suoi sguardi incantevolmente languidi. Quegli occhi mandavano fuori tale un influsso di carità, che avrebbero sull'istante placata la più gran collera. - Ma, se vago aveva il sembiante, era pero deforme di corpo e malaticcia. Affetta da un'aneurisma che le aveva dilatata la regione cardiaca, essa era tormentata da tosse ostinata e da palpitazioni di cuore frequentissime che le rendevano affannosa la respirazione e velata la voce. Nè meno bello del volto era l'animo suo, animo ingenuo, cortese, mansueto e dotato di mirabile pazienza. Possedeva quella ragazza la facoltà di ben giudicare quali cose fossero da fare, quali da evitare, facoltà ch'io, superiore a lei di molti anni, ammirava, ma non sapeva imitare. Lì nel chiostro però, oltre la mancanza della salute, aveva la poveretta due grandi malanni: l'essere allieva mia, e l'aver per cameriera una conversa che facevale non dirò da matrigna, ma da tiranna. Era ben naturale che l'odio, dalle giovani monache giurato alla maestra, si riflettesse altresì sulla discepola. In quanto alla conversa, era essa un mostro di brutalità, una belva feroce a faccia umana. Essendo la giovinetta piuttosto ricca per eredità, aveva preso a covare il reo progetto di non lasciarsi scappare di mano quella preda, ma di perpetuarne il possedimento, obbligandola con ogni sorta di coazione a pronunziare i voti, e volendola accostumare bel bello al suo despotico dominio. A questo scellerato disegno ostava però la malattia della padroncina; faceva dunque mestieri occultarla a tutti, per quanto era possibile, acciocchè le monache non avessero esclusa nel Capitolo la sofferente. Ma come potevansi nascondere la tosse e l'affanno? - A forza di villanie e di sgridate! Se essa la udiva tossire pel corridoio, la sgridava tosto colle maniere le più plebee, od anche, per reprimere il suono della tosse, le chiudeva colla sua mano la bocca. Se l'avesse veduta per le scale in colloquio con qualche monaca, subito le imponeva di risalire facendo cento scalini senza riposarsi. La poverina diveniva livida e ansava, in modo, che sembrava lì lì per dare l'ultimo fiato. Io non mancava talora di sgridare la conversa per siffatte brutaltà, ma Chiarina dicevami, che, dopo le mie sgridate, i maltrattamenti che da sola a sola facevale soffrire la conversa erano maggiori. Per tale riguardo mi convenne più volte ora raffrenare lo sdegno, ora di non dar corso a proteste, le quali non avrebbero fatto che viepiù inferocire l'animo naturalmente spietato della cameriera. Saltò alfine in testa a questa megera l'idea di raddrizzare il corpo alla mia discepola, per meglio nascenderne la deformità; ed a raggiungere tale scopo, le pose un busto colle stecche di ferro. La povera Chiarina, non sì tosto entrata la mattina nella mia camera, buttavasi mezza incadaverita sulla seggiola a bracciuoli, e con un fil di voce morente mi diceva: "Signora Enrichetta, per pietà, allargatemi il busto: io mi sento soffocare." La menava allora in luogo appartato, il più sovente nel noviziato, ove di soppiatto le allentava la stringa; la sera però io doveva tornare a strignerla per non farne accorto il cerbero. Io diceva sovente alla pupilla: "E fino a quando, cara mia, sarai tu la schiava d'una servaccia? Se vuoi vederla finita, io ne conosco il modo: lascia fare a me! "No, no, per carità, non lo fate," rispondeva quella, giungendo le mani supplichevolmente, e tremando alla sola idea della collera di quel mostro. Questa creatura interessante, tanto piena di candore, di religione, d'amorevolezza, quanto maltrattata dalla natura e tartassata dal destino, nutriva un affetto singolare per gli animali, e specialmente per le rondini. Seduta nel vano della finestra, col capo appoggiato alle braccia incrociate, passava parte della mattinata a seguitare le aeree scorrerie di quei volatili, ed a contemplate la gioia delle loro piccole famiglie annidate sotto il tetto, o ad ascoltare i loro garruli preludii nel punto di dare l'imbeccata ai neonati. I costumi e gl'istinti delle rondinelle la rapivano in estasi, nè mai si saziava di udirne il racconto. Ogni qualvolta io le narrava qualche novello aneddoto intorno alle loro maravigliose trasmigrazioni, essa, interrompendo il discorso, soleva dirmi con mestizia: "Esse almeno se ne vanno d'autunno per ritornare la primavera nello stesso nido..... E noi?" A dispetto però di tali requisiti, le giovani monache non la trattavano meno duramente della conversa. Allorquando l'udivano recitar l'ufficio nel coro (cosa ch'io le voleva sempre inibire, ma per la quale essa era appassionatissima), facevansi beffe del suo affannoso respiro, oppure, dileggiando il suo zelo, sclamavano ad alta voce: "Che seccatura!" Il chirurgo della comunità, signor Giampietro, aveva assistita la madre di Chiarina, quando si era sgravata di lei. Costui, che per tale ragione amava paternamente la ragazza, non cessava di raccomandarla alle mie cure, ripetendomi le mille volte di non imporle fatica, e di evitarle qualunque molestia. Ma, perchè tali raccomandazioni non gradivano troppo alla conversa, ebbe Chiarina l'avvertimento di schivare la presenza del chirurgo. Io era già da qualche tempo rientrata nelle funzioni d'infermiera. Un giorno, mentre Giampietro trattenevasi nella porteria, io e Chiarina vi giungemmo per caso. La prese egli per la mano e fattasela sedere sulle ginocchia, tese l'orecchio alla mia relazione sulla salute dell'educanda, i cui palpiti crescevano d'intermittenza, e più forte manifestavasi il battito violento del cuore. La fece alzare in piedi, e nel posarle una mano al dorso, l'altra al petto, per esaminare il ritmo de' battiti che questo dava, le sue dita toccarono le stecche di ferro. "Che cosa è questo che porti nel busto?" le domandò. E la ragazza, facendosi rossa, rispose: "Niente." Io feci segno con gli occhi al chirurgo di procedere all'indagine, perlochè, spezzando egli la stringa del corsaletto di lana nera, mise il busto alla luce. "Misericordia!" gridò con furia. "Chi è stata quell'infame che ha messo a questa disgraziata una corazza di ferro?" "È stata la mia conversa," rispose Chiarina. "Chiamatemi subito quella scellerata," riprese il chirurgo. La fanciulla, divenuta pallida e tremante, mi pregò di calmarlo; ed egli, vedutala così costernata, si fermò un poco, poi, voltosi alla portinaia, e alle altre monache presenti, "Gli omicidi," disse, "non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. Mettere un tal busto a questa malata, è lo stesso che volerla uccidere: comprimendo il suo cuore, voi la mandate alla tomba." Parole gettate al vento. Chiarina continuò a portare le stecche di ferro; non valsero nè le ammonizioni del chirurgo nè le mie preghiere. Suo fratello trovavasi negli Abruzzi. Gli scrissi una lettera in cui a chiare note gli dissi come il ritenere più lungamente la sorella nel monastero equivaleva a volerla abbandonare a morte sicura. Venne egli subito in Napoli, e disse a Chiarina che si apparecchiasse a seguirlo. Essa mostrossi dolente di lasciarmivi, sebbene convinta d'altronde ch'io stessa non vi sarei rimasta più a lungo, perchè la mia domanda non poteva incontrare in Roma alcun ostacolo. Uscì adunque del chiostro, condotta dal fratello, e le giovani monache in segno di ringraziamento, accesero delle candele alla Vergine. Senonchè, il rio destino non avea cessato di perseguitare quella miserella. Era d'inverno. Il freddo degli Abruzzi, dove il fratello dovette ritornarsene, recò grave pregiudizio alla salute di Chiarina, e come d'altra parte il tempo fa dimenticare le passate sofferenze, credette questa di trovarsi più riparata nel chiostro, che non viaggiando col fratello. Di lì a qualche tempo facea ritorno in Napoli, e domandava di essere ripristinata nel suo pesto di educanda. Quale idea! Le feci osservare l'incauto proponimento, non degno della sua provata prudenza: le rammentai i passati patimenti, le diedi il consiglio di scegliersi piuttosto un ritiro, prendersi una cameriera: e viver tranquilla e indipendente. Mi rispose: "Voglio starmene, amica diletta, appresso di voi: non voglio rientrare che per voi sola." "Ma io sono in procinto di lasciare San Gregorio." "Son già passati dei mesi dacchè siete pronta a partire, ma chi sa se ve lo permetteranno?" Il giorno che per farla rientrare fu convocato il Capitolo, volli mettere in salvo la mia coscienza. Nell'atto di dare il mio voto, alzai la mano, e feci vedere a tutte quante che nell'urna bianca io gettava la pallina nera. L'ammissione riuscì coi soli voti delle monache vecchie: le giovani lo diedero contrario. Entrò adunque, ma poco dopo si pentì di non avere seguíto il mio consiglio. La sua tosse, esacerbata durante la notte, disturbava i sonni della conversa. Per evitar le rampogne e le imprecazioni che per tale motivo ne riscuoteva, la povera malata cacciava il capo sotto le coltri, e vi rimeneva immota e quasi sepolta. Una mattina la conversa andò a svegliarla: pareva immersa nel sonno. La chiamò a nome, la tornò a chiamare: non diè risposta. La scosse: non si muoveva Rimosse allora la coperta che le nascondeva il volto..... Era morta! Sedici volte sono ritornate da quel tempo le rondinelle, ma lo spirito angelico di Chiarina non farà più ritorno in questa valle di lagrime!

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Troppo giovine ancora per tale carica, scarso d'istruzione, privo altrettanto di pratica che di prudenza, e di costumi sdrucciolevoli anzi che no, aveva ottenuto il governo di quella chiesa mercè l'intervento suo zio, il quale in quel secolo d'oro del papato disponeva a suo talento della volontà di Gregorio XVI. Per dargli un'infarinatura degli obblighi e delle cure vescovili, di che era totalmente digiuno, lo avevano tenuto in tutto quel semestre nella piccola Sede d'Aversa. Il pontefice Gregorio se ne morì, poco dopo aver fatto questo regalo alla capitale di Ferdinando II, che cordialmente ne lo ringraziò, e Mastai gli succedette alla Santa Sede. Nei primordi del suo pontificato sanno tutti che dava Pio IX somme speranze di sè. Egli era non pure liberale di fatto, ma, ad esempio di Aristide il giusto, voleva altresì farsi conoscere per tale. Già da terribili larve funestati erano i sogni, fino a quel punto placidi, de' Pigmalioni d'Italia; già questi popoli afflitti riaprivano il cuore a legittime aspirazioni; già si parlava d'un concilio, destinato a decretare lo scioglimento dei voti monastici, tre secoli innanzi definiti dal Tridentino. In questo frattempo fu spedita a Roma la mia domanda di poter lasciare il cenobio. Il cardinale Riario, bramoso negli esordi del suo governo di apparire zelante prelato, era venuto più volte a visitare il nostro monastero. Dopo di essersi trattenuto lunga fiata coll'abbadessa e con un'altra monaca, esimia simulatrice, che si poteva pur chiamare la vera superiora, poichè nulla poteva farsi senza il suo consenso, era stato ogni volta salutato dall'intera comunità, a bella posta convocata per fargli onorevole accoglienza. Io entrai insieme alle altre, ma presi sempre l'ultimo posto, lasciando le prime file a quelle che avevano più piacere di farsi vedere o di indirizzargli qualche mezzo complimento. Racchiusa nel mio silenzio aveva osservato che gli mancava il meglio: l'istruzione. Era evidente che il tempo, speso dallo scopone in Roma, era stato impiegato in tutt'altro che nello studio. Egli aveva imparato in Roma solamente la pasquinata; ma se voleva imitare i Romani nel sarcasmo, non ne aveva però l'arguzia e la prontezza che danno al frizzo il vantaggio dell'opportunità: per un mauvais plaisant tra Marforio e Pulcinella ci corre poco. Se, affettando una mal preparata gravità, prendeva qualche volta a rivolgere sia un'allocuzione od un avvertimento, duravasi fatica a raccapezzare quello che avesse voluto conchiudere col suo diffuso sproloquio: idee disadattamente accozzate: termini e locuzioni impiegati male a proposito: costruzione oscura e disordinata. Benchè inesperto nel parlare e più ancora nello scrivere la propria lingua, pure era pizzicato dalla vanità di farsi credere latinista, per cui nel suo ragionamento spesso mescolava de' proverbi latini o dei versetti della Bibbia..... Ma io temo davvero che del suo Limen Grammaticum, appreso nell'Eterna Città, abbia egli ritenuto in mente ben poco: il modo, cioè, di coniugare il presente e futuro d'un solo verbo: del verbo amare. Tale pur è l'opinione di due buoni terzi della romana società. Riario era allora in concetto di bell'uomo: intorno ai gusti non c'è da disputare. Egli è peraltro indubitato che ciascuna delle sue visite elettrizzava le giovani benedettine. Appena uscito del parlatorio, si radunavano esse in diversi crocchi, dove ciascheduna ingegnavasi di sorpassare le altre nel panegirico delle doti materiali e spirituali di Sua Eminenza. Chi diceva: - Come è bello! che nobile portamento! che sguardo fascinatore! che mano fatta al tornio! - Chi diceva: - Quanto è dotto ed istruito! da quella bocca scorre il miele! - Io diceva tra me: - Egli non ha imparato che a star ben ritto su due piedi! - In somma per più giorni e più notti altro in convento non facevasi, che pascersi dell'olezzo delle sue parole; quelle poi alle quali gli odorosi mazzetti erano stati diretti, rosse, palpitanti e distratte divenivano per la gran commozione. Io non m'era fatta giammai vedere nè gli avea parlato. Provava per la sua persona una di quelle ripuguanze insuperabili che si sentono a prima vista e non si sanno giustificare. Non so perchè, ma sin dal primo incontro egli mi sembrò un Dandino, travestito da principe ecclesiastico. Volendo una volta far mostra di galanteria, mandò in dono alla comunità un gran canestro di fravole: le monache diedero una piastra al cameriere, e non rifinirono di magnificare la garbatezza del così detto nuovo superiore. Credo che questo fattarello trapelasse fuori del chiostro, e pervenisse a notizia di qualche bello spirito propenso alle burle, che avrà dovuto esclamare: In qual parte del mondo non s'infiltra la commedia? Di lì a pochi giorni ci arrivò un secondo regalo. Un facchino, condotto da un cameriere, recò un pesce di enorme grossezza, tutto coperto di foglie d'arancio. Nel presentare quella mole, che nominò storione, sciorinò costui a nome di Sua Eminenza un'interminabile litania di complimenti, mentre il pesce faceva grondar sudore dalla fronte del portatore. Un'altra piastra fu offerta per mancia al cameriere, oltre due carlini dati al facchino. Le monache, tutte ansanti, affollate nella porteria, ne giubbilavano, e quelle di loro che si appropriavano il complimento facevano a gara a proporre in favor del cameriere in livrea più lauta la mancia. Giunse in quel mentre il ragioniere. "Sapete, Don Giuseppe, che il cardinale ci manda un altro dono più magnifico del primo? preparatevi a scrivergli una seconda lettera di ringraziamento in nome della comunità." "Davvero!" sclamò con un salto d'allegrezza il ragioniere. "E cosa vi manda?" "Un pesce!.... ma che pesce! ce ne sarà per le converse!" "E ne avanzerà!" Le converse leste leste tirarono l'ingente storione presso la porta. Il ragioniere si pose gli occhiali, lo guardò dal capo alla coda, lo fece voltare e rivoltare, e, dopo d'avere ruminato tutto ciò che sapeva d'ittiologia, disse atterrito: "Sapete, mo, signora badessa, e voi altre reverende, che questo mi sembra un pesce da museo di storia naturale?" "Un pesce da museo!" ripeterono in coro più di cento voci. "Il regalo è dunque molto più splendido che non avevamo creduto da prima!" "Chè! chè! l'è una burla bell'e buona! È un pesce che non si mangia!" "Ma, se l'ha portato il cameriere dell'altra volta!" soggiunsero le monache. "Ho l'onore di dirvi che questo è un mostro!" "Don Giuseppe mio, farneticate!" "Ebbene, fatelo vedere a qualche marinaio!" Mentre le suore tutte stavano ancora sclamando: Gesù! Gesù! sopravvenne il pescatore dalla vicina piazza del Purgatorio, il quale, gettato uno sguardo sul regalo, gridò: "È un vitello marino: buttatelo via!" "Una foca:" riprese Don Giuseppe; "ve l'ho ben detto io che è un mostro da museo!" Figuratevi il dispetto delle monache, massimamente di quelle che si erano appropriate il complimento! - Fatto sta, che la burla giunse all'orecchio del cardinale, il quale comprese che la galanteria costava più cara in Napoli che in Roma. Fu anzi detto che nel giorno medesimo avesse ricevuta una bella lettera di ringraziamento da parte della comunità di San Gregorio. Comunque siasi, d'allora innanzi si astenne di dare altre prove d'affetto a quelle suore. Venuto un'altra volta in San Gregorio si trattenne egli lungamente colla superiora e colla solita monaca, sua pedissequa. Le altre aspettavano impazienti di essere, secondo il solito, chiamate alla sua presenza. Furono invece dati al campanello i tócchi miei. Scesi alla porteria e trovai l'abbadessa che usciva appena del parlatorio. "Il cardinale vuole parlarti," mi disse. Balzommi il cuore: la mente mi ricorse subito alla domanda di assenza, da già due mesi inviata alla Santa Sede. Il cardinale era solo, e stavasi adagiato sul seggiolone. Al primo colpo d'occhio mi parve attillato con molta ricercatezza, ed un leggero profumo d'acqua di Colonia spandevasi dalla sua persona nell'ambiente del parlatorio. M'inginocchiai dinanzi al porporato, siccome l'uso o meglio l'abuso vuole. Egli alzò la mano, mi benedisse, mi fissò a lungo in silenzio, indi: "Voi avete avanzata una domanda alla Santa Sede per uscire del chiostro?" mi domandò con voce sdolcinata e melliflua. "Eminenza sì," risposi, tremante non meno di timore che di speranza. "E per qual motivo?" "Per cagione di salute." Si atteggiò ad ironico sorriso, tornò a fissarmi ben bene, poi soggiunse: "Ma voi non mi avete l'aria di ammalata." "Eppure se sono ammalata Dio lo sa!" "Di che soffrite?" "Di mal di nervi." "E chi non soffre di questo male!" "Di convulsioni," ripigliai. "Eh, tutte le donne ne patiscono. Isterismi, isterismi, e nient'altro! Voi altre monache vi andate più soggette ancora delle femmine secolari." Dopo una breve pausa gli dissi essere stata la mia domanda accompagnata dal certificato del medico curante. "Ho poca fede nei medici: chi più, chi meno, sono tutti impostori." "Ma il mio era giurato." "Tutti miscredenti, tutti spergiuri, capissi j'à." Mi tacqui allora, e dopo un'altra pausa ripigliò: "Voi sapete che tutte le petizioni mandate a Roma dalla mia diocesi sono dalla Santa Sede rimandate a me. La vostra domanda dunque trovasi nelle mie mani, acciocchè io ne verifichi l'esposto e dia conseguentemente il mio voto. Ora, per non permettere che vi pasciate di vane speranze, debbo dichiararvi che il mio voto è contrario; lasciate ogni speranza di uscire!" Credetti d'essere percossa dal fulmine. Onde maravigliato egli dal mio sommo turbamento, m'invitò a sedere, poi, raddolcendo la voce, inasprita nelle ultime frasi: "Ho parlato testè colla superiora," disse, "ed ella mi assicura motivo della vostra petizione non essere veramente la salute, ma sibbene l'affare del chierico." Io conosceva appieno la parte che il cardinale aveva presa in quell'argomento. A siffatta rimembranza, destata da lui stesso, il sangue mi rifluì nella faccia, e gli volsi un'occhiata di sdegno. "Vostra Eminenza," dissi, sforzandomi a contenere l'alterazione nervosa che m'agitava, "Vostra Eminenza dovrebbe sdegnare di scendere a sì bassi ed ignominiosi intrighi...." "Non vi sgomentate," riprese egli interrompendomi; "a quell'inezia non annetto alcuna importanza, essendo convinto che nulla di positivo sia passato fra voi e lui. Scenderebbe mai a livello d'un semplice chierico una nobile.... voglio dire una monaca, qual voi siete? Nondimeno l'idea di lasciare il chiostro è assurda: bisogna deporla." Fredda e impavida, gli dissi non credere che Iddio e il Santo Padre, e Sua Eminenza avessero di comune accordo decretata la mia morte col prolungamento della chiusura. Ma egli, troncatami la parola, passò a intrattenermi per qualche tempo in estranei e futili ragionamenti; quindi, alzatosi di repente: "Tornerò spesso a visitarti," mi disse, dandomi quella volta del tu; "fàtti dunque vedere di buon grado, nè ti nascondere, come hai fatto finora, e dammi inoltre il contento di sentire, che hai discacciata dal cuore la tentazione di restituirti all'inferno del secolo, capissi j'à!" Ritornai nella mia cella, ove m'abbandonai alla disperazione, che pur veniva esasperata dal sogghigno delle monache. Io le sfuggiva tutte. Adempiti che aveva i doveri del coro, e gli altri d'infermiera, per la più breve via mi riduceva nella mia stanza, dove o leggeva, o meditava, o piangendo lavorava: e là, più per bisogno di distrazione, che per vaghezza di pubblicità, incominciai a scrivacchiare queste Memorie. Maria Giuseppa, la buona mia conversa, l'unica compagna della mia solitudine, non si moveva dal mio fianco, che per urgente servizio, e, meno esperta di me sulla pretesca simulazione, andava immaginando, per confortarmi, le più folli e chimeriche speranze; alle quali spesso, traendo un sospiro, io rispondeva con quella dantesca apostrofe dell'Astigiano: «. . . . . Stirpe malnata e cruda, Che degli altrui perigli, all'ombra ride!» Mia madre, del pari, fu inconsolabile, avendo da me saputo che ad altre monache, meno sofferenti, meno accasciate, era stato concesso quello che or veniva vietato a me. Il canonico tentava invano di rattemprarmi il cruccio; non fu possibile. Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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Ivi sedetti a pranzo colla superiora e con tre altre monache, dopo di che venni condotta al secondo piano, nella stanza a me assegnata presso la chiesa. La città di Napoli, travagliata nel 1526 da fierissima pestilenza, che la disertò di sessantamila anime, votava alla Madre di Dio una picciola cappella. Quando poi nel 1575 rinnovellavasi il morbo per tutta Italia, senza che penetrasse tra noi, grato, il Comune, cambiava la modesta cappella in un tempio, cui più tardi, nel 1603, si aggiunse il conservatorio: nobile, vasto e comodo fabbricato, posto in uno dei più animati quartieri della città. Poche abitatrici io vi trovai: quattordici oblate, una ventina di educande, e quattro converse. Le oblate vestono l'abito dell'Immacolata Concezione, e le educande, oltre a' lavori donneschi, s'ammaestrano un pochino anche nelle lettere. Da lunghissimo tempo disavvezza alle grandi folle, al flusso e riflusso della piazza, a quel clamoroso favellío, a quell'assordante frastuono di ruote, tutto caratteristico di Napoli, credetti di primo tratto d'essere, per non so quale prodigio, risalita dal regno delle ombre al mondo de' vivi. Schiarita mi sentii la vista, dilatati i polmoni, rasserenato l'animo. Non vedeva più a me davanti quell'enorme muraglia della clausura, che per nove anni mi avea compresso il petto, e angustiata la respirazione colle strette dell'incubo; sentiva passare gente, carrozze, venditori, truppa: alle finestre io non mi poteva affacciare, perchè troppo erano alte; pure, trovandomi così in una delle più belle vie della città, mi potevo immaginare d'esser piuttosto alloggiata in casa particolare, che in monastero. Tutto insomma mi parve nuovo, tutto singolare e curioso: l'aria, il suono, la luce, il movimento, e per fino le sembianze de' miei simili. La mia stessa persona mi parve una pianta esotica, venuta da lontanissimo paese: mi parve, non saprei più dir quale, ma un oggetto di curiosità. Nè temerò di passare per esagerata, se, per dipingere quella fase singolare del mio stato interiore, confesserò d'aver più volte interrogato lo specchio intorno alla mia personale identità. Il Breve mi permetteva d'uscire ogni mattina; ma il cardinale, che scherzevolmente era stato soprannominato il mio Hudson Lowe, mi proibì di passeggiare a piedi. Veniva dunque mia madre a prendermi in carrozza, mi riteneva a pranzo, e al tramonto del sole mi riconduceva. Ho detto che tutto mi parve nuovo. Perchè non aggiungerei che tutto mi parve più umano? L'aria di San Gregorio spirava il tanfo delle stanze mortuarie: atmosfera carica di miasmi mefitici, che, da ogni parte aspirata, infiltrava nell'organismo più o meno acrimonia, asprezza e cattivería. Ritornata nell'aria libera, sana, ventilata, nell'affettuoso consorzio de' parenti, nella soave comunione dei sensi, delle speranze, delle commozioni patrie; restituita, in una parola, all'amplesso dell'umanità, ne provai subitamente i benefici influssi. Poco a poco la mia ragione si sgombrò della negra caligine che l'offuscava; il cuore, rincantucciato negli ultimi ripostigli, inciprignito in isterili lotte, inselvatichito nell'isolamento, tornò bel bello ad inebbriarsi nei concerti di quell'armonia sovrumana, che chiamasi amor del prossimo. Debbo manifestarlo? Allora soltanto cominciai a travedere in che veramente consistesse la religione cristiana. La fede, che sino a quel punto aveva con impero dispotico agito sulla mia volontà, quella fede che io eveva veduta deturpata in pratiche di pietà imbecille, vituperata nell'odio per tutto quello che non portasse in sè l'impronta ieratica, quella fede, dico, la sentii allora quasi rifluire in me per gagliardi zampilli nel libero esercizio delle facoltà dell'anima, nell'operosità del pensiero e del sentimento, nella partecipazione alle miserie altrui. Che più? le note, che, nei momenti della consacrazione e dell'elevazione, scioglieva l'organo, m'inondarono d'ineffabile dolcezza, mi commossero, m'ingentilirono; nè uscíi mai dalla Messa meglio disposta alla carità, di quanto lo fui quando mi venne fatto di respirare le aure stesse, onde il cristianesimo trae vita e vigore. Migliore ancora sarebbe stata la mia nuova condizione, senza due cose che mi recavano molestia: la curiosità pubblica che, fermata dal mio abito di monaca, mi andava esaminando come un animale di serraglio; e la combinazione spiacevole che nel detto conservatorio non faceva da portinaia una monaca corista, ma invece una conversa feroce, e poco meno che antropofaga. Costei sì che potuto avrebbe realmente figurare in un serraglio per le sue forme, partecipanti ad un tempo dell'animale umano e dell'orso di Siberia. Fronte non più larga di due dite, sopracciglia eternamente increspate, occhi piccini ed iniettati di sangue, naso schiacciato, bocca armata di formidabili zanne che spuntavano fuori delle labbra, e voce ringhiosa. Quando guardava, minacciava; quando parlava, mordeva. La porta chiudevasi al tramontare. Cinque minuti di ritardo la mettevano in gran furore: digrignava i denti, stralunava gli occhi, e borbottava queste o simili parole: "Malannaggio al cardinale pel regalo fatto al conservatorio! Una monaca che tutti i giorni vuole uscire!" Verso la fine del seguente ottobre il cardinale mandò all'abbadessa l'ordine di proibirmi assolutamente l'uscita. Eccomi dunque ricaduta nella primiera reclusione: «Nuovi tormenti, e nuovi tormentati.» In risposta ad una mia rimostranza, venne il cardinale a trovarmi, e disse non essere regolare che una monaca traversasse il Corso in carrozza, nè d'altronde convenevole che le oblate del conservatorio restassero scandalizzate dalle mie uscite. "Quale," soggiunse, "sarebbe la sorte della santissima nostra religione, ed in particolare degli ordini monastici, se le monache tutte sentissero, come voi, il bisogno della passeggiata all'aria aperta?" Irritata da siffatto incrudelimento, e prendendomi ormai vergogna di soggiacere ad un prete orgoglioso, arbitro della mia libertà, mi confermai nel proposito di fare tutto il possibile onde levarmi dal collo l'ignobile giogo. A tale uopo mi venne in mente di ottenere, per mezzo di eminenti amici, un diploma di canonichessa. Ottenuto che avessi per avventura questo vantaggio preliminare, Dio e le circostanze mi avrebbero aiutata al completo riacquisto dell'affrancamento. L'Ordine cavalleresco e religioso delle Canonichesse di Baviera, conforme a quello de' commendatori di Malta, vieta alle donne che vi appartengono il matrimonio, ma permette che vivano libere in seno alle proprie famiglie. Per favore del principe Dendia, molto potente presso la corte di Monaco, ne ottenni in breve tempo la nomina e le insegne; nella speranza poi di vedermi liberata per tal modo da qualunque fastidio, il generale Salluzzi, mio magnanimo benefattore, ne pagò i diritti in ducati 240. Un'apprensione mi restava. Mi avrebbe la corte di Napoli accordato il regio exequatur? Per buona sorte, il ministro Fortunato firmò l'atto di consenso, senza punto sospettare ch'io fossi monaca professa. Ottenutolo così di leggieri, feci un altro passo innanzi. Intavolai una pratica a Roma per altro permesso, che mi autorizzasse a passare dall'Ordine di San Benedetto a quello di Sant'Anna delle Canonichesse di Baviera. Ma qui incappava di bel nuovo negli agguati de' preti. Il cardinale rispose facetamente, che io poteva portare le insegne bavaresi sull'abito da monaca benedettina. Un malanno vien dietro all'altro, dice il proverbio. Le suore del conservatorio erano divise in tre partiti. Uno era guello dell'abbadessa, composto di oblate superlativamente bigotte e fanatiche pe' preti; un altro di giovani, non nemiche del progresso e della civiltà; il terzo delle educande, che non facevano lega col primo, nè simpatizzavano col secondo partito. La scambievole animosità dei partiti giungeva fra le monache a segno tale, che quando s'incontravano nel giardino o pei corridoi, o si voltavano le spalle, o tornavano indietro. Era meno tronfio d'orgoglio quel sovrano di Francia, che al secolo suo diede il proprio nome, quando diceva lo Stato son io, di quello che non fosse la condottiera del partito fanatico, cioè la badessa, nel sentimento del proprio dominio. Sveglia d'ingegno, ma petulante ed intrattabile, avara quanto una vecchia zittellona, soprattutto caparbia e ignorante, ella era sanfedista nata: eccellente pasta per un pontefice, se fosse nata uomo. Tal era il quadro che le faceva una delle suore dell'opposizione, la quale, propensa allo scherno, vedendola entrare, diceva: "Ecco l'antipapa!" Preceduta nell'animo di questa donna dalle informazioni date sul conto mio dalla consorteria di San Gregorio, poteva io dimorare nel conservatorio, senza divenire l'oggetto del più vigile spionaggio? la badessa, accortasi per tempo della mia simpatia per le suore della parte liberale, mi ritirò di repente la sua grazia, e perfino la cortesia del saluto. Più d'una sera, essendomi da lei portata, per darle, secondo l'usanza, la buona notte, non si degnò di ricevermi; ed io per conseguenza non mi diedi più pensiero di andarvi. Anche le monache tutte del suo partito non mi salutarono più. Benchè estranea a quella comunità, pure mi conformava alle loro pratiche, e prendeva vivo interesse alle cose loro. Questa mia benevolenza e spontaneità fu male interpretata dalla superiora, la quale, dimentica ch'io era claustrale ed ella semplice oblata, pretese di comandarmi a bacchetta, non altrimenti che se io fossi stata un'impubere educanda. Vid'ella un giorno sul mio tavolino un paio di volumi delle Storie del Cantù. Li prese in mano, ne svolse alcuni fogli intonsi ancora, poi, riponendoli: "Scommetto," disse, "che questi son libri di politica, e per conseguenza scomunicati! E qui, signora mia, colgo l'opportunità per dichiararvi, che scritti messi all'Indice nel mio conservatorio non c'entrano." Un'altra volta un servitore della mia famiglia chiese di me, per consegnarmi certi borzacchini da parte della sorella. Uscíi del coro per disbrigarlo; l'abbadessa mi venne dietro, e vedutami parlare con lui, "In coro si fa la meditazione: state là!" mi disse con imperiale sussiego, e puntando l'indice verso il suolo. La fissai, per esaminare se quelle parole erano dirette a me. Essa, immobile, continuava a tener gli occhi pertinacemente fissi sul mio viso. Allora le dissi: "Sappiate, signora, che impertinenze alla Caracciolo non se ne fanno. Io non sono nè educanda nè monaca di questo conservatorio. Se vengo a coro, ci vengo per ispontanea volontà. Ora che voi lo esigete, non mi ci vedrete mai più!" Pochi giorni dopo, mi si presentò l'occasione di prestare un gran servigio a quella comunità; ed io, posto da parte il risentimento per le scortesie della badessa, mi ci prestai colla più viva sollecitudine. Ecco come: Da molti anni le suore francesi dell'Ordine di San Vincenzo de' Paoli avevano ottenuta parte di quel conservatorio per uso di scuola pubblica. Non paghe della parte occupata, pretendevano l'intero locale, e già stavano per riuscirvi. Le altre suore nostrane, costernate a tale pericolo, e povere di protezione, pensarono di ricorrere alla clemenza del principe. Coll'influenza del Salluzzi feci ottenere sollecita udienza all'abbadessa, e ad uno dei governatori del conservatorio. Nè mi ristetti a questa sola pratica; perchè, fatta stendere una supplica dal Generale, conseguíi prestamente un decreto reale, favorevole alle mie ospiti. Ma quella gente è come il gatto, risponde alle carezze coi graffi. E poco dopo io lo provai. Chiusa in convento fin dall'eta di diciott'anni, aveva troncato a mezzo i miei studi. Proibiti essendo nel chiostro e maestri e libri, non aveva potuto coltivare le lettere che da me sola, e di soppiatto. Ora la mia condizione era cambiata; ed io avendo, come noi tutti Napoletani, passione per la musica, mi comprai un piano-forte per cantare ed accompagnarmi. Se una bomba fosse caduta dal conservatorio non ci avrebbe portato più terrore che quell'innocente divertimento. Le bigotte si armarono di scrupoli, ond'io, per evitare ulteriori mormorazioni e maldicenze, mi ristrinsi a suonare soltanto, senza cantare. Ma non bastò. Cercavano un pretesto per farmi prendere a sdegno il loro conservetorio: era cosa chiara. Studiava l'introduzione e la tirolese del Guglielmo Tell. Maria Giuseppa venne a dirmi che la badessa dava in furie contro di me. "Perche?" domandai. "Perchè non può permettere che le monache siano scandalizzate più a lungo dal piano-forte, essendo stata sempre vietata la musica nel conservatorio." Mi portai senza indugio nella stanza della superiora, che mi ricevette senza neppure invitarmi a sedere. Quando il Califfo riceve in sua presenza qualche suddito, non si compone a maggior sostenutezza e gravità. "Dalla mia conversa," le dissi, "ho ricevuto un'ambasciata vostra." "Sì," rispose guardandomi a traverso; "sono scontentissima di voi per gli scandali delle vostre suonate." "Non capisco davvero, come suonando si possa scandalizzare." "Ieri suonaste e risuonaste una Tarantella!" Qui, senza volerlo, feci una risata. "In primo luogo," risposi, "non ho suonato quello che credete, ma bensì un pezzo di Rossini; voi, non intendendovi di musica, avete preso un equivoco. Ma posto ancora, che invece di musica seria, avessi suonato una Tarantella, od un'arietta amorosa, che forse motivi simili non si eseguiscono sull'organo d'ogni chiesa nel tempo della Messa e della benedizione?" "Queste sciocchezze a me non si danno ad intendere!" E battendo i piedi, e gesticolando soggiunse: "Il cardinale mi aveva detto che non vi sareste trattenuta qui più d'un semestre: ora è già scorso un anno, e non si parla più della vostra partenza." Qui colsi l'occasione di castigare quell'orgoglio imbecille. Noi eravamo sole sole: io forzai il mio volto all'affabilità, inzuccherai la voce, ed avvicinatami a lei misteriosamente: "Buona madre," le dissi, "se qualcuno vi udisse parlare tanto duramente di me, crederebbe per certo che foste impaziente di liberarvi della mia presenza. Eppure, chi mai di questa famiglia non conosce l'affetto sincero che mi portate, le cure materne che mi usate? Meglio d'ogni altro lo so io, che vi pago della medesima moneta, io che vi corrispondo con eguale benevolenza....." "Da quando in qua?" domandò ella, aprendo le labbra ad un sorriso sardonico. "Ve ne ho data prova poche settimane sono; ve ne darò un'altra, e più sicura, adesso, che si tratta, non più della salvezza di questa casa, ma del vostro proprio onore, del vostro grado, e forse della vostra libertà....." "Gesù! Gesù! Gesù!" sclamò atterrita; "si tratta di grado, di libertà! che ne sapete figlia mia? spero che non abbiate l'ardire di burlarvi di me!" "Vi sovrasta una tremenda, e, temo, irreparabile sciagura." "Parlate, per carità!" "Un pericolo orrendo, spaventevole!....." "Mi si ghiaccia il sangue nelle vene!" "Poveretta! la perdita del badessato sarebbe un nulla dinanzi agli altri mali che vi aspettano. Chi sa che non siate trascinata da birri in carcere: che vi pongano a sedere sul banco dei rei....." "Gesù! Gesù!" "Che non veniate condannata alla galera, od almeno alla reclusione perpetua, con un’enorme catena al piede....." "Gesù! Gesù!" "Messa forse a pane e acqua, forzata a spazzare il locale, a spolverare il palco colla granata, a mondare....." L'avrei tormentata più a lungo, se non l'avessi veduta vicina a svenire. Tremava l'infelice da capo a piedi: il respiro le andava mancando: aveva fatto un viso di cadavere. Quando l’ebbi veduta un pocolino riavuta, proseguii: "Non ignorate, buona madre, l'immenso bene che vi vogliono le monache francesi." "Si tengano per sè quel bene!" rispose la maligna vecchia con voce fiacca, sprofondata dall'apice dell’orgoglio all'imo dello scoraggiamento. "Dice proprio bene l'antica tradizione:

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Se non che le Francesi, avuto sentore della calunnia, sono pronte e risolute a rendervi colpo per colpo. Già il piano d’attacco è concertato, l'accusa è stesa; il ministro francese, tutti i sudditi della repubblica in movimento, la gente della polizia in piedi, la capitale in subbuglio..... E frattanto voi vi occupate di queste inezie!" La superiora, puntò le mani sul tavolino per balzare in piedi, ma la forza essendole mancata, ricadde di tutto peso sulla poltrona. "Posso almeno sapere di qual delitto m'accusano quelle scellerate!" domandò più morta che viva dallo spavento, e con parole semispente fra' denti. "Di cospirazione, di liberalismo, di lesa Maestà..... Congiura nel vostro conservatorio: monache liberali..... voi il loro Masaniello..... testimonianze prese dall'ispettore..... lettere intercettate, documenti parlanti..... prove e indizi irrefragabili. Poveretta! in qual cattivo passo vi trovate!" "Miserere mei Deus! Io Masaniello! Io rea di alto tradimento! quale esecranda macchinazione!" gridò esterrefatta la sfegatata borbonica. "C'è l'ambasciatore di mezzo, e la vincerà." "Mi credete dunque irreparabilmente perduta?" "Ahimè! lo temo." "E le suore del conservatorio?" "Vostre nemiche la maggior parte." "E voi, cara e buona.... E voi, fedele e generosa Enrichetta?" A questo punto corsi verso la finestra, e dalla finestra alla porta: l'aprii per metà, vi tesi l'orecchio, poi, d'un salto ritornata presso l'abbadessa. "I birri! i birri!" gridai da spiritata: "entrano in questo momento: i birri nella porteria!" "La polizia, reverenda, entra colle baionette in canna nel conservatorio!" gridò con voce strepitosa Maria Giuseppa, che tutto aveva sentito, spalancando la porta e precipitandosi nella stanza. La vecchia, rinvigorita dal terrore dell'imminente catastrofe, fece l'estremo di sua possa per rizzarsi in piedi, e vi riuscì; mosse un passo innanzi, e buttatasi a' miei piedi, e stringendomi le ginocchia con braccia convulse, "A te, fidata amica, a te sola mi raccomando! salvami almeno tu!" esclamò in tuono supplichevole, interrotto da singhiozzi. "Non sei tu stessa che salvasti questo conservatorio dall'invasione delle prepotenti Francesi? Deh, prestami una volta ancora il tuo magnanimo soccorso! in te sola ripongo la speranza della mia salvezza, angelo di bontà!" I miei sforzi per sollevarla da quell'umile positura tornarono vani; ella continuò a stringermi le gambe sempre più forte. "Mi rincresce, reverenda," le dissi allora, "di non potervi soccorrere questa volta. Essendo stata poc'anzi da voi congedata, e dovendo andarmene, sono costretta ad abbandonarvi all'orrendo destino che v'aspetta." "No; non partire, non m'abbandonare, ti supplico! restaci, e suona e canta pure quanto vuoi!" "Oh, no, no: io debbo partire!" "Non ti lascerò, no: resta, per carità!" Allora io finii la commedia con una potentissima risata; presala per le braccia, la rialzai da terra. "Da ora in poi," le dissi, ripigliando il tuono serio, e rimettendola a sedere sulla poltrona, "da ora in poi, non alzerete troppo superba la fronte, se non volete abbassarla poco dopo nella polvere. Questo spavento vi serva di lezione! Quanto a me, sarò di parola: sono determinata di lasciare il conservatorio, ma lo lascierò quando piacerà a me, e non quando piacerà a voi." A ristorare le smarrite forze, chiese la superiora un bicchier d'acqua, e glielo porsi; indi con occhio pieno di carezzevole sommissione, sogguardatami, e stretta tenendomi la mano, "Sono sicura," disse, "che questa commedia non andrà per i giornali! a questo patto resteremo amiche.... Un altro bicchier d'acqua, vi prego!" D'allora in poi me la passai, non felice, ma libera da molestie, nè più ebbi a lagnarmi delle fantasticaggini della superiora. In quanto a' birri, la sorte li riservava, non a lei, ma a me. A me, pur troppo: perchè le cose d'Italia precipitavano a ruina fatale. Carlo Alberto, sconfitto presso Novara dall'Austriaco, era costretto ad abdicare ed abbandonare l'Italia. La corte pontificia, da tale disfatta incoraggita, invocava da Gaeta, per essere ristaurata in Roma, le armi degli Stati cattolici, e già si accingevano in suo soccorso l'Austria, la Spagna e la repubblica francese. In Toscana veniva ristabilito il dominio granducale per una sollevazione popolare in favor dell'antico regime, mentre Venezia, abbandonata a sè sola, e Roma strettamente assediata, lottavano: questa contro i Francesi, quella contro gli Austriaci, con sforzi eroici di prodezza. Benchè profondamente afflitta dalle infelici condizioni dell'Italia, non perdetti di vista la speranza di finirla coll'Ordine benedettino. Da me pregata, mia madre portossi a Gaeta all'incontro di Pio IX, con una supplica, nella quale io chiedeva al pontefice l'atto di secolarizzazione, coll'impegno di rimanere vincolata a' voti, non altrimenti che come semplice canonichessa. E perchè le monache di San Gregorio avevano mosso lite per indennizzazione a quel mio parente, che simulato aveva nel tempo della professione d'essermi debitore di ducati mille, io implorava inoltre dal pontefice d'esser dichiarata immune da tale ingiusta esigenza. Pio IX parve commosso alle istanze di mia madre, alle preci delle mie sorelline. Si volse attorno per vedere se nella stanza vi fosse l'occorrente da scrivere, e non avendovelo trovato, disse alla mia famiglia di ritornare dopo due giorni. Intanto il mio acerrimo persecutore, l'arcivescovo e cardinale, informatosi di queste pratiche, partiva premurosamente da Napoli alla volta di Gaeta, e vi giungeva l'indomani dell'arrivo di mia madre, latore di quella lettera famosa, da me indirizzata al papa sotto la salvaguardia della confessione, e da lui intercettata e aperta. Mia madre tornando dal pontefice lo trovò cambiato. "Signora," le disse con gravità, "fate che vostra figlia si contenti di quello che ha ottenuto finora; chi troppo vuole, niente ha. Ella vorrebbe mutar abito e condizione: non possiamo consentirvi. Che direbbero, che farebbero le altre monache, vincolate nella medesima sua condizione? Avevamo dimenticato il suo nome l'altr'ieri: ce l'ha rammentato il cardinale Riario, ed oggi stesso abbiamo letta una carta, ch'essa cindirizzava due anni fa." Era evidente, che, come quelle della povera Italia, le mie sorti andavano in rovina. Un mese dopo mi veniva dal Riario partecipato un Breve pontificio, per cui Pio IX mi concedeva la grazia di starmene stabilmente in conservatorio, sotto condizione di clausura: potendo però uscirne l'estate per i bagni di mare, purchè i medici li avessero ordinati, e di più che fosse piaciuto all'arcivescovo di permetterli. Quanto poi alla lite mossa dalle monache, ordinava ch'io dovessi versare alla cassa di San Gregorio ducati mille, e che da quel monastero percepissi, vita durante, un assegnamento mensile, proporzionato alla somma da me versata. Insino allora aveva ricevuto pel mio mantenimento ducati 14 e mezzo; da quel momento non mi vidi più consegnare che una polizzetta mensile di ducati sei, a titolo d'alimento mio, e della conversa. - Carità e munificenza fratesca! Alla necessità non resistono neanche gli Dei. Giuocoforza mi fu ristringere il vitto ad una sola pietanza, ed assuefare il palato al pane nero. Ciò dovei fare, mentre, di porpora decorato, l'autore della mia indigenza dava pranzi sontuosi a' parassiti papassi, suoi colleghi, che, da Roma trafugati, rifluivano presso i Borboni, affine di seco loro consultarsi intorno a' mezzi di ribadire più sicuramente i ferri al popolo d'Italia. Venne Pio IX in Napoli, tramutato di luogo, come di colore e di sentimenti. Sebbene uscissi spesso, reputai superfluo, anzi pericoloso, il disegno di ricorrere nuovamente alla sua misericordia. Egli, che chiudeva l'orecchio a' gemiti della sua patria, per quale supremo privilegio l'avrebbe aperto alle lamentazioni d'una povera monaca? E fiancheggiato qual era da un Ferdinando II, da un Riario, come poteva, poniamo pure che avesse voluto, dar ascolto ai miei lamenti? Il solo fanatismo della infima plebe napoletana sorreggeva ancora nel vacillante seggio que' due volgari nemici di ogni bene. E il re di Roma, debole di cuore, più debole di mente, assetato di popolarità, incapace di acquistarla durevolmente, metteva la barca sdrucita della povera Chiesa a rimorchio della loro galera. Una sera, mentre sull'imbrunire io mi ritirava, la Polizia vietò alla carrozza ov'io era di traversare la piazza delle Pigne. Ritrovandosi il Santo Padre nel Museo delle antichità pagane, Ove il principe reale gli faceva da cicerone, non sarebbesi potuto aprire un varco nella folla, senza far calpestare dai cavalli la gente. Mi convenne, voltando strada, fare un lunghissimo giro, scendere per la Vicaria e risalire per San Pietro a Majella. Quest'involontario ritardo eccitò la rabbia dell'idrofoba portinaia del conservatorio, la quale con quegli occhi biechi e sanguigni, che mi facevano rizzare i capelli in capo dalla paura, mi disse: "Se un altr'anno avremo la disgrazia di tenervi con noi, affè di Dio che non metterete più il piede fuori di questa porta!" E così dicendo, alzava minaccioso l'indice in aria, a guisa di maestro di cappella. Prima di partir da Napoli, volle il papa visitare uno ad uno tutti i monasteri di clausura. Quando toccò al monastero di San Giovanni, le suore di Costantinopoli manifestarono a quelle religiose il desiderio di vedere la persona del pontefice in un luogo, che, per la vicinanza dei due monasteri, a ciò si prestava. Salito adunque il papa sopra una certa terrazza, benedisse complessivamente tutto il gregge a lui dintorno. Non so chi m'accennasse all'attenzione sua. Fissò egli lo sguardo sopra di me, e disse: "Una benedizione particolare alla monaca claustrale!" Ed alzata la destra, mise la parola in effetto. Quell'atto non mi recò alcun conforto. Io m'augurava salute, tranquillità, ed emancipazione dall'ignobile servaggio. - Ora, quali di questi beni mi recava quella benedizione? Da lì a pochi giorni Pio IX ritornava in Roma, lieto quanto quel suo predecessore, che alla caduta di Rienzo ritornava vescovo e signore nell'Eterna Città. Il cardinale colse il momento per infierire contro di me. Mi giunse all'orecchio allora che tutti i rigori della clausura stavano per essermi scaricati addosso; per lo che mi veniva proposto di restituirmi presto al primiero carcere, di rinunziare una volta per sempre a qualsiasi speranza d'affrancamento, di rassegnarmi alla sorte delle altre monache, senza più ruminare ulteriori tentativi: e in compenso di tale atto d'abdicazione, mi si lasciava travedere l'onore d'un badessato, che per un Breve di speciale condonamento, nonostante l'età giovanile, avrei ottenuto. Quanto più attraente di tale prospetto era il pan nero che divideva colla mia buona e fidata Maria Giuseppa! Feci rispondere al porporato, ch'io preferiva soggiornare libera in una capanna, anzichè badessa in un carcere. Come rispose Sua Eminenza? - Mi tolse anche quel magrissimo assegnamento mensile di sei ducati! Me ne rimasi dunque, come i Toscani dicono, nelle secche di Barbería. Di lavori donneschi io ne sapeva un po', e l'Onnipotente, che tempera i venti per l'agnello tosato, non m'aveva privata d'operosità e d'industria. Per non viver d'accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. - Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l'avvenire? Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell'accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva: "La madre è ricca: ci penserà lei." Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l'uscio e il muro; destituita al fine dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all'energia dell'animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi. Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perchè, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.

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Scorsi quei giorni, arrivò una lettera del vicario, per la quale era io avvertita che un canonico, espressamente incaricato dal cardinale, sarebbe venuto il giorno dopo a parlare con me. Venne infatti; e cominciò ad esortarmi in nome di santi d'ambo i sessi, a profondermi lusinghe e promesse, a sfiondar minaccie, a consigliarmi insomma di ritornare prontamente in gabbia. Gli risposi chiaro e tondo: NO! - Soggiunse, che se motivo della mia fuga era la sospensione dell'assegnamento, quel mensile mi sarebbe stato infallibilmente restituito non sì tosto fossi tornata alla Regola, separandomi dai parenti e rinchiudendomi nel cenobio. - Sua Eminenza voleva darmi per favore quello che mi spettava per giustizia. - Si sfiatò insomma un'ora quel canonico a persuadermi, che l'anima mia trovavasi in pericolo di dannazione, e che disubbidire al cardinale era lo stesso che consegnarsi direttamente al diavolo. Risposi, la mia coscienza essere più pura, più tranquilla di quella del suo cardinale; costui piuttosto dover temere le fiamme eterne per aver operato da despota: come mai, ben sapendo la mia ripugnanza per la reclusione, doveva egli fare della mia libertà un affar di Stato? Il mandatario, accortosi che invece di dar busse, ne buscava, chiese scusa dell'incomodo, e partì. Dopo questo tentativo rimasi altre due settimane in pace. Alloggiava allora mia madre nel palazzo Ripa a Ponte Nuovo, ove stretta aveva amicizia colla principessa, padrona del palazzo, e col generale Torchiarolo, altro inquilino dell'abitazione, persona di qualche merito. La principessa, venuta una sera a visitarmi, disse aver risaputo dal generale, che Riario, in seguito ad un colloquio segreto avuto col re, aveva dato a Peccheneda, direttore di polizia, l'ordine di procedere al mio arresto. Qual sentimento spingeva quei signori ad avvertirmi? Forse l'amicizia? forse il comune liberalismo? Ohibò: troppo bigotti, e troppo divoti erano essi alla dinastia Borbonica, per avere alcun che di comune con una monaca ribelle all'autorità. Ricordo anzi che una signora della loro famiglia, donna di ruvido bacchettonismo, aveva tenuta una segreta conferenza con dottori e casuisti intorno ad un caso di coscienza importantissimo: se, cioè, abitando nella stessa casa con me, incorreva nella scomunica; al che la conferenza decise, che poteva pure dimorare sotto il tetto medesimo, purchè schivasse di salutarmi. - La sollecitudine dunque di quell'avvertimento proveniva dal timore di veder eseguito un arresto nel loro palazzo, e non da altro. Rimaste sole, ci mettemmo a deliberare su ciò che dovesse farsi, e fu preso il partito di antivenir l'arresto coll'evasione. Ma dove ricoverarsi? Altro asilo sicuro, tranne un qualche vescovato, non mi poteva preservare dagli artigli del potere. Dove poi rinvenire il vescovo generoso, che volesse largirmi ospitalità e protezione? Dopo lungo pensare e ripensare, ricordandomi che il cardinale di Capua, Capano Serra, era uomo di rara bontà, deliberai di ricorrere a lui. Passammo una nottata agitatissima: ogni momento io mi affacciava alla finestra per vedere se comparivano i poliziotti: e mi pareva sempre di sentir suonare il campanello dell'uscio, e gente salir le scale. Era grave, soffocante l'aria notturna, che alla finestra mi percuoteva il viso. Soffiava un vento gagliardo, che per le vie rotolava vorticosi nuvoli di polvere, e minacciava ad ogni sbuffo di spegnere la lampada alla Madonna della cantonata. Tetro, lugubre il cielo: addormentati tutti nel quartiere, deserti i vicoli: non altro suono d'intorno, che il passo lento e indistinto d'una lontana pattuglia. Mia madre riposava vestita sul canapè. Verso le due, lì seduta alla finestra col capo appoggiato sulla persiana mi addormentai; e feci un sogno spaventevole. Tre manigoldi, mi pareva che afferratami, uno per un braccio, uno per la testa, il terzo per la gola, mi trascinassero rovescione giù per le scale di marmo del palazzo, tirandomi per i capelli, e menandomi grossi colpi col dosso della mano. Svegliatami, sentii dei forti e spessi brividi, un palpitare affrettato di cuore, un tremendo nodo alla gola: segni della crisi nervosa, che poco dopo mi prese. Furono lunghe, furon violente quelle convulsioni? Non lo so: nessuno di casa se n'avvide. Mi ritrovai giacente a terra, colle membra peste, abbattuta, oppressa, fiaccata più ancora nello spirito che nelle membra. Cento tristi pensieri, cento timori, a me ignoti fino a quel punto, presero a funestarmi lo spirito, a conturbarmi la coscienza. Avvistami l'evasione non essere che un riparo provvisorio, giacchè la Polizia m'avrebbe presto o tardi rintracciata, pensai che il trafugarmi sarebbe stato un partito tanto vano, quanto pure stolto e dannoso, e mi parve d'essermi ostinata troppo in un sistema di folle resistenza. - Dove andrò? Che farò? domandai a me stessa. Girerò il mondo fuggiasca e alla ventura? Non bastano gl'infausti voti, che da madre e da sorelle mi separano, ma debbo pur di propria mano scavar più profondo ancora l'abisso del mio isolamento? Fossi uomo! ben altrimenti saprei lottare allora coll'inesorabile destino! Ma donna.... e donna, agli occhi del mondo riprovevole per avere ripudiato con troppa prestezza l'umano consorzio: io povera, io malata, e senza consiglio, e priva d'una mano pietosa, che voglia trarmi dalla voragine, ove affondo e affogo; quale, quanta resistenza opporrò, Dio mio, alla combinata persecuzione di due poteri, che con accanimento crescente m'incalzano. Il sonno, di che la madre e le sorelline godevano, mentr'io desta e abbandonata alla mia vertigine, lottava fra contrari affetti; il cupo silenzio che m'avviluppava come per separarmi più presto dal commercio de' miei cari, non servirono che a rendermi maggiormente orrida e spaventosa l'immagine dell'esilio. - Piuttosto che camminar di porta in porta, e limosinare il pane amarissimo dell'esilio, non sarebbe meglio, ripresi a dirmi, cedere al destino, rassegnarmi alla dura necessità, placare colla simulazione l'ira de' superiori, colla compiacenza insinuarmi nella loro grazia; e, non potendo rompere le catene, ottenere almeno che mi siano alleggerite al piede....? Rapiti dal mio ravvedimento, assicurati della mia devozione, non solamente mi lasceranno in pace, ma mi colmeranno inoltre di favori, m'accorderanno gradi, potere, dignità.... Alla fin fine un badessato non è pascolo tanto meschino per l'ambizione d'una monaca! - Mi rialzai sollecita, accesi il lume, trassi dallo scrittoio un foglio bianco, e intinta la penna nel calamaio, presi, con dita tuttavia tremanti dalla convulsione, a segnarvi le seguenti parole, che non saranno mai cancellate dalla mia memoria: Eminenza! Tutti nel mondo siamo soggetti a deviare dal retto sentiero; il solo Nostro Signor Gesù Cristo nacque impeccabile. Sedotta pur io da rea tentazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui la penna si fermò ad un tratto, poi mi cadde dalla mano sulla carta: per lungo tempo io rimasi col capo appoggiato sulla tavola....... - Sciagurata! esclamai alfine, balzando in piedi furibonda, e mettendo in pezzi quel foglio. Sciagurata! Non ti bastano i ferri che trascini al piede, ma porgi anche il collo al capestro? Hai tu dunque aspirato alla libertà solamente per disertare il suo vessillo in tempo di battaglia? E l'onore? e le generose aspirazioni, e la fede, e il cuore? Che ne hai tu fatto, vile, del cuore? E la coscienza? Ancorchè tu possa rimanertene sorda ai gemiti della tua patria, credi peter soffocare la voce della coscienza? Perchè non prendi consiglio e conforto dalla storia di questa tua patria? Spinta da contrarie passioni, governata da fiacco volere, abbandonata alle seduzioni altrui dalla propria famiglia, adescata da ogni parte, cadde la misera Italia nel servaggio, come precisamente vi cadesti anche tu. Così pur essa languì per lungo tempo carcerata nel chiostro, che principi spirituali e temporali le fabbricarono; così pianse, implorò, protestò. Conformi sono le tue vicende alle peripezie di lei: comune l'espiazione, comuni i voti al rinnovamento, comuni perfino gli sforzi recenti a ricuperar l'esercizio della propria volontà.... Ed ora tu retrocedi....! E in qual momento? Alla vigilia della redenzione; mentre allo splendore della giovine Italia si dileguano le ombre della tirannide. - Spuntato il giorno, partii con mia madre alla volta di Capua. Il cardinale Capano mi accolse con rara gentilezza; era uomo di facile accesso, scevro di pregiudizi e superiore alle basse vendette. Ei mi promise la sua protezione, e nell'udire il racconto delle mie vicende, affermò di voler operare quanto poteva, per togliermi da quell'infelice stato. Il pomeriggio dello stesso dì venne a trovarmi il suo vicario, mandato da lui per mettersi d'accordo con me. Conobbi in quell'uomo un sacerdote rispettabile. Non contento di ricevere la mia confessione, che deposi ai suoi piedi bagnata di lacrime, ei volle inoltre che mi recassi l'indomani all'arcivescovado, per narrargli tutta intera la mia vita. Assicurato che io non operava per fini men che nobili e puri, mi chiese i Brevi pontificii ricevuti fino a quel giorno. Questi Brevi erano stati, nella fretta della partenza, dimenticati; perlochè convenne che mia madre ritornasse subito in Napoli; e siccome l'affare richiedeva tempo, il buon vicario consigliò che intanto io fossi entrata in un ritiro della città. libera di uscirne in tutte le ore del giorno, purchè vi pernottassi. Uno di quella specie di ritiri portava il nome dell'Annunziata. Il vicario, trovata ivi una stanza libera, mi pregò di non prendere in mala parte il nome del locale, poichè se quello era per consuetudine il deposito delle proiette, vi dimorava pure un picciol numero di religiose, che non appartenevano a quella classe di femmine. Parte della mobilia mi fu garbatamente favorita da lui stesso, e parte ne presi a nolo dall'albergo. Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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Riposta fuori d'ogni contatto colla società, di quale mezzo efficace mi sarei valsa per confutare le false voci, che i preti non avrebbero mancato di spargere, a detrimento della mia riputazione, e a loro propria discolpa? All'idea di quest'ultimo e più barbaro colpo del destino, non seppi più rinvenire nell'intrepidezza quella morale energia, con che aveva resistito fino allora ai colpi della sventura. Per essere uomo, e non donna (non fosse che per pochi giorni), per trovarmi in Londra, in Parigi, in America, in un paese libero, non d'altra cosa padrona che d'alcuni fogli di carta e d'una penna, avrei rinunziato, non dirò all'esistenza, della quale può soltanto disporre chi l'ha creata, ma sicuramente ad un trono, se ne avessi avuto a mia disposizione. Un'ora dopo fu bussato leggermente all'uscio: non risposi. Il picchio è replicato: e io zitta. Al terzo picchio, sento la voce della priora, che mi prega di aprire. "Non sono padrona neppure di questo tugurio?" rispondo con voce adirata. "Sì, signora, siete padrona, ma dovete aprire." "Atterrate l'uscio, se vi pare: io non vi apro!" La priora prese a supplicarmi con parole umili, giustificando il disturbo che mi recava colla necessità di far una cosa per me. Aprii allora, e la vidi atterrita dall'atteggiamento ch'io aveva preso. Due converse vi portavano un letto, un tavolino e una lucerna. "Abbiate," dissi, "la bontà di procurarmi l'occorrente per iscrivere." Essa storse il viso, a modo di persona che ha da comunicare uno spiacevole annunzio. Poi, biascicando le parole: "Debbo," disse, "con mio dolore farvi sapere, che il leggere e lo scrivere vi sono proibiti da' superiori fino a nuov'ordine." "Non potrò dunque corrispondere per iscritto neppure co' miei parenti?" "Questo sì, purchè io legga le lettere vostre, prima che sieno sigillate, e che prenda notizia di ciò che conterranno le risposte, innanzi che siano consegnate a voi." "Proibito qualunque libro, Senza eccezione?" "Abbiamo qui parecchi libri devoti: ne potrete leggere quanti vorrete." Il cerchio della mia vita si ristringeva sempre di più. Le domandai quali fossero gli ordini precisi sul conto mio. "Ordini rigorosi," rispose. "Proibito di vedere, o di parlare con chicchessia; non potete ricevere nè i parenti, nè gli amici, nè i conoscenti vostri, nè tanto meno gli estranei che venissero per avventura a cercar di voi; anzi, per tôrre il caso d'un'intelligenza clandestina, vi sarà assolutamente proibito d'affacciarvi alle finestre, di salire al terrazzo, di passare pel parlatorio. E per colmo di severità...." "Vediamo quando la finirete!" interruppi. "Non vi sarà permesso d'avere persona alcuna al vostro particolare servizio." "Di grazia," le dissi, "come si chiama questo vostro locale?" "Il ritiro di Mondragone." "Sarebbe meglio chiamato il carcere del Santo Uffizio! Sapreste dirmi ancora, se vi sarò ritenuta per lungo tempo?" "Chi lo sa! Potreste starci e due e tre e cinque e dieci anni, a volontà de' superiori; per avvezzarvi più presto alla pazienza, dovreste smettere la speranza d'uscirne presto" "Non mi nascondete la verità vi prego! Sono forse condannata a vita?" "Raccomandatevi a Dio, e pensate all'anima vostra!" "Basta...!" gridai. E a queste parole caddi priva di sentimento sul mattonato. Riaperti gli occhi, mi trovai sdraiata sul letto, e nuovamente sola. Notai allora con raccapriccio un disordine nelle idee, un intorpidimento della ragione, di cui, volendolo pure, non poteva indagar la causa. Ch'io fossi smarrita di mente, ne aveva chiara coscienza; - ma quell'aberrazione donde mai proveniva? Era essa l'effetto del deliquio? era dell'eccessivo cordoglio? Oppure derivava essa dalla contusione riportata alla testa, cadendo sopra i mattoni? Quanto più mi sforzava di riafferrare il timone della ragione che di mano mi sfuggiva, tanto m'avvedeva ch'io non ne era più padrona come prima: fiacco il discernimento, confuse le rimembranze, perturbati i sensi, tutte le facoltà scombussolate. E nel centro di quel caos un'idea fissa, sovraneggiante, una immagine molestissima come un martello tormentoso: l'uomo ch'io aveva amato tanto passionatamente, Domenico, fattosi prete e vestito da prete, parevami che stesse in atto di leggermi la sentenza di morte. Comincia da questo momento, e continua per qualche tempo non facile a determinare, un periodo della mia esistenza, oscillante ad intervalli fra il senno e lo sconcerto delle facoltà mentali. Risparmierò al lettore la noia che il racconto de' miei delirii gli recherebbe; ma nel continuare il filo della narrazione con uguale esattezza e pel solo dovere di non interporvi nel mezzo una lacuna, siami lecito di premettere qui una preghiera; e questa è, ch'io non sia aggravata della responsabilità d'alcuni atti commessi negli intervalli di quella forsennatezza, atti, che citerò per dovere di fedeltà, ma la cui riprovevole natura sono io la prima a deplorare. .............................................................................................. .............................................................................................. Sullìimbrunire entrò col lume una conversa, e le tenne dietro la priora, munita di sali e di caraffini, che volle farmi odorare. Le dissi aver immaginato, e voler mettere in esecuzione un mezzo, che deluderebbe la pubblicità del mio supplizio. Il tuono serio e cupo con che espressi quest'intendimento la fece ridere. Era una donna sotto i quaranta, fresca e vegeta ancora, ed affabile anzi che no. Il mio stato la muoveva a pietà, poichè non si riguardava di rivolgermi parole di compassione; ma, non meno tenera della sua carica, aspirava all'approvazione de' superiori eseguendo pedantescamente i loro oidini. Tale ingrata incombenza, io, nel suo caso, non l'avrei accettata. Più tardi mi fece portare una scodella di brodo: la rifiutai. La notte che seguitò fu la più angosciosa della mia vita: vera agonia di morte. M'alzai più volte per rinnovare la preghiera a Dio di conservarmi sana la ragione. Fatto giorno, mi portarono il caffè: lo rimandai non tocco, e così fu rimandato anche il pranzo! Due ore dopo vennero i miei bagagli. La priora mi consegnò una lettera di mia sorella, già aperta da lei. Quanto blandite furono le pene mie dalla notizia che Maria Giuseppa era stata, dopo l'interrogatorio, consegnata a suo zio! Aggiungeva mia sorella d'aver già scritto a nostra madre, la quale, informata dell'avvenimento, non avrebbe mancato di chiedere una udienza dal re. - Il capo mi girava, la mano rifiutavasi a scrivere. Cionondimeno con poche righe l'avvertii, che, per timore ch'io non reclamassi al papa o ad altra autorità superiore, le mie lettere venivano aperte e lette: badasse dunque a ciò che scriverebbe. Il giorno appresso ricomparve all'uscio l'antipatice figura del superiore ecclesiastico. A quella vista mi sentii ribollire il sangue, ed incapace di frenare il traboccante sdegno, proruppi in imprecazioni contro il cardinale e contro il re: strana accoglienza ad un direttore della censura pubblica! Don Pietro Calandrelli credette di poter imporre silenzio a me, come lo faceva ogni giorno agli autori di grammatiche e di dizionari: ben lo sa egli se lo feci chetare, io! "Ritengo," gli dissi, "per insulto la visita di preti censori ed inquisitori. Liberatemi dunque della vostra presenza se non volete ch'io ricambi insulto per insulto." "L'ingiusta collera," rispos'egli, "non vi permette di vedere che oltraggiate i vostri benefattori; quando sarete calmata da questo stato d'irritazione, verrà a trovarvi anche Sua Eminenza." Indietreggiai d'un passo, e puntando l'indice, "Ditegli che non ardisca, perchè diverrei una tigre!" esclamai. Il prete si volse alla priora: "La è pazza davvero," disse: "andiamo via!" Quest'epifonema del prete diede il tracollo al disordine delle mie idee. - Sono dunque realmente pazza! - andai dicendo fra me. Erano scorsi intanto quattro giorni, dacchè perseverava a rifiutare ogni alimento. Una lunga malattia di languore non mi avrebbe più profondamente incavate le gote; il volto era divenuto del colore del bronzo; il bianco degli occhi, di quello dello zafferano. Se mi coricava, in cerca d'una tregua all'orrenda fissazione che mi perseguitava, eccomi di bel nuovo innanzi l'immagine di Domenico prete, nell'atto di spedirmi al patibolo. Insomma, priva d'un solo barlume di speranza, inferma di corpo e di spirito, io invocava ad ogni istante o una morte immediata o la restituzione della libertà. Al sesto giorno le forze per alzarmi di letto mi mancavano, nè per questo condiscesi a pigliare i rimedi che la priora mi suggeriva. L'indomani fu mandato per il medico; era il dottor Sabini, cuore aperto, e, come seppi dipoi, caldo di generoso amor di patria. Udito dalla priora il racconto de' miei mali, e come io m'ostinava a ricusare qualunque nutrimento: "Tanto meglio," osservò: "più giovevole, che dannoso riuscirà il digiuno alla sua salute; appena sarà cessata la febbre, la forzeremo a cibarsi." Chiese il calamaio per una ricetta; lo trattenni colla mano per impedirglielo. "Perdereste il tempo," gli dissi; "sono fermamente risoluta di non prendere alcun rimedio. Voi siate pure il ben venuto, se vi conduce l'umanità; ma se venite a prestarmi i soccorsi della vostra professione, io vi congedo al momento!" Non aveva finito di parlare, quando riapparve all'uscio la testa del prete superiore. "Signor Sabini," disse, senza oltrepassare la soglia, "il cardinale vuol sapere da voi lo stato dell'inferma." A quella voce agitandomi convulsa nel letto, gridai quanto n'aveva in gola: "Via di qua, papasso mascherato!" "Calmatevi, per carità!" mi disse il Sabini. - "Signor cavaliere," soggiuuse rivolto al messo del cardinale, "l'inferma è affetta da una febbre nervosobiliosa, febbre complicata con qualche sintomo di congestione cerebrale. Se ella sarà docile alle mie prescrizioni, e soprattutto se vorrà rinunziare al pensiero d'attentare a' propri giorni per mezzo dell'inedia, spero che potremo superare l'infermità." A questi detti il prete varcò la soglia, ed entrato nella camera, che a rapidi passi prese a misurare, "Come!" esclamava, "come! vorrebbe ella dunque cessar di vivere! Signora priora," soggiunse in un tuono rauco ed imperioso, che richiamava la memoria di Torquemada "levate subito da questa stanza ogni oggetto pericoloso!" Il regio revisore aveva adocchiato i miei bauli, e mirava ai libri, ch'erano, a suo credere, ben più pericolosi dell'arsenico, e mettevano in pericolo cosa più preziosa della mia vita. Per evitare un violento conflitto, volli passare in altra stanza, mentre la priora e il prete assistiti da altre persone si preparavano alla visita dei bagagli. Si cominciò dalla camera, che fu esplorata per ogni buco e bucolino; impadronitisi poi delle chiavi, nella speranza di sorprendere qualche documento relativo a segrete società, m'aprirono le casse, esaminarono i sacchi, visitarono le cassette, spinsero l'esame per fino ne' penetrali della biancheria. I soli oggetti che attirarono l'attenzione loro furono alcuni volumi di stampa forestiera, fra' quali, mi rammento, il libro sopra Dante di Ozanam, l'altro sull'educazione di Tommasèo, gl'Inni Sacri del Manzoni, ed un carme alla Libertà di Dionisio Salomos, eminente poeta della Grecia moderna. Fatta questa cattura, l'odiosità della ricerca fu adonestata col sequestro di coltelli, forchette, forbici, d'un temperino, e di altre cose consimili. Il nemico del vocabolo eziandio scendeva le scale quand'io rientrava nella mia camera. Voltosi con un amaro sogghigno, in cui balenò tutta l'ingenita sua malvagità, "Con vostro buon permesso," disse, "riporterò a Sua Eminenza, vostro e mio benefattore, che tolti vi sono i mezzi di attentare alla preziosa vostra esistenza." E detto questo, scese la scala. Sfuggì per altro alle loro indagini un fascio di carte ben altrimenti pericoloso. Io era sicura che senza la mano d'un uomo del mestiere non avrebbero scoperto il ripostiglio contenuto in uno dei bauli. Ma di ciò a suo tempo. Sabini ogni mattina presto veniva a trovarmi. La forte complessione m'aiutava a superare quella lotta fisica e morale, cui ogni altra donna avrebbe forse dovuto soccombere. Nondimeno m'astenni tenacemente da ogni qualsiasi alimento, ed il medico si avvide che la mancanza di cibo andava scemando le mie forze con sempre maggiore rapidità. La mattina dell'undecimo giorno mi ritrovò in uno stato d'estrema depressione; io non poteva più alzare il braccio smunto, e solamente a sollevare il cape dall'origliere sveniva. Tanto inoltrata era l'estenuazione, che divenuta incapace di scendere dal letto, io non poteva, com'era solita, mettere la sera il chiavistello all'uscio di quel tugurio. Sabini per salvarmi immaginò un pietoso ripiego. Governatore del ritiro era un Caracciolo, principe di Cellamare, di cui egli era ugualmente il medico. Più d'una volta ei mi aveva detto che aveva tenuto parola di me col principe. Una mattina, adunque, ridendo e stropicciandosi le mani, "Allegra, signorina," mi disse: "vi porto buone nuove!" Fatto uno sforzo, mi volsi a lui. "Ieri sera," soggiunse, "il principe vi raccomandò caldamente alle autorità, le quali condiscendono, appena convalescente, di farvi uscire." Il cuore mi cominciò a battere tanto forte, che non so come non rimanessi colpita da sincope. "Dunque sarò scarcereta!" dissi, sforzandomi di riprendere la lena che mi mancava, e di stendergli la destra. "Di certo," riprese egli: "e però bisogna rimettersi in forze, poichè non voglio che, uscita di qui, facciate paura alla gente. Presto, signora priora, fatele portare del brodo." Un momento dopo la conversa ne portava un poco, che il medico stesso, sorreggendomi sul capezzale, con carità paterna mi faceva prendere a cucchiaiate. Alla terza cucchiaiata la vista mi si offuscò, e prima di potermi rimettere sul guanciale rigettai quella magra e scarsissima sostanza. "Lasciamola in calma," disse Sabini: "troppo avanzata è la spossatezza. Ora le scrivo un calmante che le somministrerete ogni mezz’ora." Io m'era lasciata prendere all'esca; più del brodo e della ricetta m'avevano rianimata le parole del medico. Il giorno appresso stava meglio: continuavano tuttavia a funestarmi le apparizioni, effetto dello sconcerto mentale: ma la speranza, supremo specifico, qual sollievo mai non reca al disperato? Dopo quattro giorni il miglioramento era grande; il sesto Sabini chiese al parlatorio le mie nuove, ma non salì. Sul finire della settimama io ricominciava pian piano a cibarmi..... ma frattanto Sabini non si faceva rivedere. Mossane qualche lagnanza alla priora, ottenni che fosse richiamato. Ei venne alfine. Com'ebbe avuto contezza della mia salute, gli domandai del giorno in cui mi sarebbe stato comunicato il permesso d'uscita. Ei mi rispose in termini evasivi: non mi tolse la speranza della redenzione per non farmi ricadere, ma disse non potermene precisare il momento..... Ohimè! Ivi a poco acquistava l'amara certezza d'essere stata pietosamente ingannata. Piansi come donna non ha pianto mai; nuovamente mi diedi alla più smoderata disperazione, non seppi a qual estremo partito appigliarmi, ma non ebbi più il coraggio o la pusillanimità di troncare i miserandi miei giorni per mezzo del digiuno. In questo mentre mia madre era tornata da Gaeta. Informata dalla sorella che le lettere mie subivano al parlatorio una sorte pari a quella che in tutti gli uffici postali del Regno subiva la corrispondenza del pubblico, mi rese conto del suo operato in termini del tutto inintelligibili. Ma l'inciampo non mi scoraggì. - Ben conoscendo l'altiera e risoluta indole di lei, poteva io dubitare che dopo l'affronto ricevuto fosse ella donna da starsene colle mani alla cintola? In uno de' miei lucidi intervalli (e ne aveva allora di più frequenti) concepii un ingegnoso sotterfugio. Domandato alla priora chi avrebbe preso cura della mia biancheria, ed avuto in risposta che le sue converse non avevano il tempo, ne feci un fagotto per mandarla in casa di mia madre, e nella cocca annodata di una pezzuola avvolsi un biglietto, col quale chiesi contezza di ciò ch'ella aveva operato per me. La biancheria mi veniva restituita tre giorni dopo; e nello stesso nodo trovai la risposta. Scriveva mia madre: «Avere parlato col re ed anche colla regina: entrambi aver detto doversi la faccenda trattar piuttosto coll'arcivescovo, non essendo use le Loro Maestà d'immischiarsi in affari di Chiesa: credere del rimanente le medesime, che il suonare l'organo o il cantare i vespri fosse occupazione più confacevole ad una monaca, che non il cospirare all'aria aperta coi nemici del trono e dell'altare.» Verun dubbio dunque restava; non più un solo, ma due poteri locali mi tenevan dietro: la polizia e l'arcivescovado. A dire il vero, i sospetti della polizia borbonica non erano ingiusti. Sortito avendo dalla natura bollenti passioni, immaginazione mobile, volontà forte abbastanza da lottare contro le seduzioni del sentimento e contro la corrente delle abitudini, io ho mirato alla reintegrazione della libertà nella terra nativa, prima ancora che la storia romana e gli annali delle nostre repubbliche mi avessero ammaestrato sui destini di essa. I libri, i giornali, il consorzio degli uomini di tempera vigorosa, soprattutto l'ammirando esempio degli altri popoli più di noi inoltrati nella carriera della civiltà, fecero divampare nell'animo mio quel fuoco sacro dell'amor patrio. Da quel punto presi ad esecrare l'aquila imperiale, e i principotti suoi satelliti, e la depravazione del nostro sacerdozio e la strisciante cortigianeria dei nostri baroni con quell'odio stesso, odio inesorabile, con che i Saraceni furono detestati dagli Spagnuoli e i Turchi da' Greci e i Russi da' Polacchi e la pirateria barbaresca da tutta quanta la cristianità. Nè, ambiziosa d'aggregarmi pur io all'apostolato di sì nobile missione, cessai d'allora in poi di cercare all'ombra della cocolla quel centro occulto di operazioni, che metter potesse in esercizio la mia operosità. Picchiai lungamente senz'aver risposta, ma finalmente mi venne aperto. Scorsero allora per me momenti d'esaltazione e d'entusiasmo, nei quali ebbi l'arroganza di credere, che se tutte le donne pensassero e sentissero a modo mio, neppure una sola oste barbarica sarebbe mai calata in Italia, od almeno l'Italia l'avrebbe da lungo tempo finita coll'opera devastatrice dei tiranni. Non erano dunque privi di fondamento i sospetti della polizia; ma chi l'aveva messa sulle mie traccie? Io non lo so, nè m'importa saperlo. Comunque siasi, io perdeva l'ultima speranza di riveder la luce. A questi motivi di sconforto un altro e più irritante mi sopravvenne. Reluttando agli ordini replicati della curia di rindossare l'abito monastico, io ricevei l'ordne perentorio di riprendere lo scapolare entro tre giorni, sotto l'alternativa di vedermi confinata in un ritiro di provincia, e passare il resto della mia vita nella separazione illimitata da' parenti e dal mondo. Rindossare quell'odiata insegna dell'inerzia, dell'ignoranza, dell'egoismo inalzato a dignità di dottrina! Ricadere per sempre, e senza speranza di riscatto, sotto la verga d'un'ignorante, fanatica badessa! Seppellire nel marciume d'un chiostro murato e ferrato la voce della ragione, del cuore e della volontà! A questa orribile idea la mia povera mente, già sconcertata, subì l'ultimo crollo. Ho detto che in un ripostiglio del mio baule stava nascosta qualche cosa, che sfuggì alla perquisizione de' preti. Quel segreto conteneva un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola, oggetti appartenenti ad un mio cognato, e da lui a me dati in deposito sin da quando io dimorava nel conservatorio di Costantinopoli. Era la notte del 16 luglio, un'ora prima della mezzanotte. Dopo d'aver piegato il ginocchio appiè del letto e innalzata la preghiera de' moribondi al Dio della misericordia, scrissi l'ultima lettera a mia madre, lettera palpitante di affetti e tutta bagnata di lagrime. Io le diceva: ..................................................................................................... «Ah, all'enormità delle mie pene non presterà fede, se non chi ne abbia provata una parte! Esistere e credere di sognare: quel perpetuo affannarsi a sormontare il cavallone che v'incalza, e sta per ingoiarvi, senza speranza alcuna di riguadagnar la riva: quell'essere sepolto vivo e risvegliarsi inchiodato nel buio della bara, ah, mamma, credetemi, sono tormenti atroci! » Cara mamma, questa vita che voi mi deste, altro non è più per me che un supplizio. Che vale l'esistenza, se è cieca di libertà e di coscienza, se è condannata all'atrofia, mentre le altre creature di Dio respirano il nativo elemento, libere, prospere e sane quanto gli uccelli dell'aria? Siate perciò la prima a perdonarmi, e vogliate difendere la mia memoria, quando l'unica traccia, che lascerò al mondo di me, sarà la vostra commiserazione!» Terminata la lettera, che, tutta bagnata di lagrime, deposi aperta sul tavolino, aprii il baule, e tratto dal segreto lo stile, mi ferii il fianco.... - Oh, tu che leggi, non mi condannare! compiangimi; rianda colla mente tutti i miei patimenti, mettiti nel mio miserissimo stato, e piangi con me, che pure scrivendo di questo orribile momento, mi sento profondamente commossa. Ah sì, io avevo tanto patito e patito, che il lume della ragione era spento! Perdonami, lettore, come spero m'abbia perdonato Iddio! Il polso debole e tremante diede poca forza al colpo: una stecca di balena fece scivolare il ferro, che strisciando sulla pelle, la sfiorò. Avrei forse rinnovato il colpo, ma l'orrore e il ribrezzo che mi fece il freddo della lama, mi risvegliò da quel delirio. Non fa parte della legge divina anche l'istinto della propria conservazione? La voce interna che al disperato grida: Consèrvati! - non è forse quella d'un angelo custode, che il cielo invia? Lo stile mi cadde di mano: io mi posi tutta tremante a sedere. Non era scritto che dovessi morire, in un accesso di demenza, omicida di me medesima. Vissi, piansi, patii ancora; e ne sia lode alla divina Provvidenza, io sopravvissi a quell'èra d'ignominia e di servaggio! Nuovi tormenti m'aspettavano. Non paghi i preti d'avermi costretta ad incapperucciarmi nuovamente, vollero pur menarmi per confessore un religioso di loro fiducia, il padre Quaranta, Agostiniano. Trattandosi d'un'anima dannata, la cui conversione non avrebbe forse mancato d'essere ascritta a miracolo, scelsero quel religioso, come colui che, salito in grido d'ineluttabile facondia e in odore di santità, di leggieri avrebbe vinta qualunque resistenza. Risolvei di non portarmi al confessionale. Quaranta mi fu condotto in camera tutti i giorni, a mio dispetto, e ad ore indeterminate. Era egli un vecchierello smemorato, navigante a gonfie vele alla volta dell'imbecillità, il quale, troppo occupato del fervorino che recitava tutto d'un fiato e a modo di scatola musicale, dimenticava da un momento all'altro le mie obiezioni. Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i beneci effetti dell'ultima crisi nella mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta. "Poichè tanto lo decantate, tenetevelo per voi," risposi al prete superiore; "se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta." La priora m'aveva tenuto parole d'un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir Messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano. Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d'illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l'incombenza, purchè non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana. Gli feci sapere ch'io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne. Ma la scelta di quell'egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina. Ne conseguiva che diametralmente opposta a' sentimenti del subalterno essendo la condotta de' superiori, indarno avrebbero questi tentato di penetrare per mezzo del confessore nell'anima della penitente. Senonchè, vergognosi essi stessi d'una disapprovazione che nulla poteva giustificare, furono più tardi costretti a rivocarla; e per tal modo, ne' sinceri conforti profusimi da quel buon vecchio, ebbi la prova consolante che il Cielo non mi aveva del tutto ritirata la sua clemenza. Ma lo ripeto, un malanno porta l'altro. Il generale Salluzzi, che in tante e tante occasioni mi aveva dato prove di paterno affetto, fu, dopo gli ultimi avvenimenti, sì severamente redarguito per la protezione che accordava ad una monaca cospirante contro il principe e ribelle ai voleri della Chiesa, ch'ei non osò più chiamarsi amico mio. Oltre questa perdita, che m'arrecò non piccola mortificazione, il re mi sospese ancora un assegno di annui ducati 60, ultimo mezzo del mio sostentamento. Di lì in poi, nonostante i sussidi della famiglia, furono molte le mie ristrettezze. Obbligata a farmi tutto da me stessa, benchè non assuefatta, per un'estate intera mi ristrinsi al solo pane, e per companatico a qualche frutta, serbando la carne alle domeniche. In quanto alla mia sequestrazione, essa fu completa nei primi sei mesi. Ad eccezione del medico che in sul principio mi visitò, non mi venne fatto vedere per quel tratto di tempo altra figura umana, fuorchè quella sgradevole di preti, di monaci e di monache; cosa che mi costrinse a carcerarmi nella propria stanza, e mi ridusse al compiuto isolamento. Un solo filo di comunicazione mi conservava ancora in relazione col mondo di fuori: era l'involto della biancheria, prezioso messaggiero e confidente, che mi tratteneva in sicuro carteggio con la madre. Coll'aiuto di pochi e scelti libri quale noia non si rompe, quale tristezza non si dissipa, qual muto orrore non è rianimato? Defraudata di quest'innocuo sollievo, mi fu giuocoforza ricorrere alla lettura che fornirmi poteva Mondragone. Nè mi pento d'averla accettata, anzi conserverò particolare memoria della Vita delle sante Martiri che vi trovai: libro interessante che ho letto riletto più volte con edificazione e diletto grande. La casta poesia, il puro e santo zelo di quell'èra cristiana mi serviva di calmante nella lotta interna che m'agitava. Ammirabile secolo di riscatto, in cui la donna, da ardente fede, da speranza, da carità sublimata, non solamente contese all'uomo il privilegio dell'eroismo, ma col sagrifizio della giovinezza, della beltà, degli averi, e della stessa esistenza, colla pratica d'ogni virtù seppe ancora eclissare e modestia di gerarchi, e dottrine di scuola, ed elucubrazioni di teologi. Chi può negare che uno fra i più maravigliosi prodigi della rivelazione sia questa novella devozione della donna alla riforma della società, al rinnovamento del genere umano? E questa fede, quest'abnegazione, che trae la femmina dal gineceo, per menarla gloriosa sul rogo, non è ella già degna di ammirazione, più che non lo sia l'eroismo, in grazia del quale sono i nomi d'Epaminonda e di Scipione celebrati nelle pagine di Plutarco? Questi e non altri esemplari vorrei che con mano diurna e notturna svolgessero le nostre giovinette! Che non oserebbe, a che non riuscirebbe anche la donna de' nostri giorni se quella fede pigliando per modello, deponesse, quasi offerta di primizie, il fiore degli affetti sull'altare della patria? Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l'animo, m'isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili! Ecco come mi rialzerete dall'inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell'incivilimento! Nelle ore d'ozio (e quante non ne dovetti passare in più di tre anni d'assoluto sequestramento!) materia di grata distrazione mi somministrarono gl'insetti, soli viventi compagni del mio deserto. Quante ore non passai assorta all'isocrono rosicchiare del tarlo nel fracido tavolato delle porte e del soffitto! Quante volte non tesi lungamente l'orecchio a' gorgheggi d'un canarino, la cui prigione, per quanto facessi, non m'era dato di discernere, ma la pazienza e la giubilante superiorità del quale io invidiava dal fondo del cuore! In tempo d'estate e d'autunno una porzione del mio scarso pane era religiosamente riservata alle formiche. Adescate dalla mia ospitalità, esse affluivano in differenti repubbliche e sotto capi differenti nella mia stanza, ne prendevano imperturbato possesso, si aprivano ingressi ed uscite a piacimento, montavano in lunga schiera su per le pareti, o in diverse tribù affollandosi a me d'intorno, facevano a gara l'una coll'altra per la briciola che porgeva loro. Altra volta mi divertiva, a guisa di Silvio Pellico, a contemplare la lotta della mosca caduta nelle granfie del ragno, e a quella vista ricordava la massima di Anacarsi: «che la giustizia d el principe è tale di ragno: i piccoli insetti vi restano avviluppati e catturati, i grossi la squarciano e se ne vanno.» - In tempo d'inverno poi, quello che più d'ogni altro m'aiutò a passare le lunghe ed insonni nottate fu l'esercizio mnemotecnico. A forza di moltiplicare a mente de'numeri determinati, corroborai talmente la memoria che pervenni a trovare il prodotto di due fattori di cinque cifre ciascuno. Ma riprendiamo il filo del racconto. Era già molto tempo che procedeva regolarmente il carteggio clandestino, quando m'accade di trovare nel nodo della pezzuola un dispaccio del seguente tenore: «Cerca d'ottenere un abboccamento dal nunzio apostolico: è persona dabbene. Lo potrai fare per lettera, che manderai a me.» L'abboccamento fu domandato, e prestamente ottenuto. Il nunzio venne a Mondragone non sì tosto ebbe ricevuta la mia lettera. All'annunzio della visita d'un funzionario tanto eminente della Santa Sede tutto il ritiro andò in trambusto. La priora, propensa ad arrogarsi l'onore della visita, corse precipitosa al parlatorio. Ma quale fu il suo stupore sentendo che il ministro del Sommo Pontefice domandava della sua prigioniera! Nell'incertezza se dovesse farmi scendere al parlatorio, o piuttosto rispettare la proibizione, la povera donna rimase di sasso, nè seppe che rispondere al funzionario. Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscíi ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tuono altiero alla priora: "Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego." Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce: "E se fosse pazza un'altra volta?" Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece le più alte maraviglie al racconto della mia Odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l'aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l'immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore. Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache. Approssimatami al crocchio: "Non vi date pena dell'avvenuto," dissi sorridendo alla prepositessa: "mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io." Non riusciva nuova alla priora quest'aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l'abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l'impertinente.» La priora fece nota al prete superiore l'avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme. Lo ricevei seduta ridendo, guardandolo a traverso, e dondolando una gamba sull'altra: "Chi vi ha dato l'ardire di scendere al parlatorio, nonostante gli ordini dell'arcivescovo?" "Ardire fa rima con dormire," risposi. "Sapete, mannaggia! che avendo fatto i voti, dovete prestare cieca ubbidienza a' superiori che Dio vi ha dato?" "Presso quale Evangelista si trova scritto che il Nostro Signore m'abbia dato per superiore il reverendo cavaliere Don Pietro Calandrelli?" "Io sono vostro superiore in nome della santa Chiesa cattolica." "Che cosa intendete per Chiesa cattolica?" "Intendo, signora mia, la padrona dei re, la rappresentante di Dio sulla terra: dico la Santa Sede, e l'intero cattolicismo che le ubbidisce." "Non credo nella Santa Sede, con vostro buon permesso." "Dunque voi non siete cattolica?" "Se quello che voi chiamate cattolicismo in mano al papa, ai cardinali, ad altri vescovi e preti non dovesse essere altro che un mezzo d'industria, una macchina d'ignoranza e di servaggio, per fermo, io non sarei cattolica!" "Che cosa dunque sareste?" "Cristiana; e ci guadagnerei un tanto." "Uh, che orrore, che orrore!" gridò: "Sareste voi protestante?" "Scismatica?" soggiunse la priora. "Nè l'uno, nè l'altro," ripresi io; "sarò cristiana di quel rito che favorirà la civiltà, il benessere, la libertà de' popoli. Ecco la fede mia, che pur sarà la fede dell'avvenire." "Voi siete una religiosa empia e sacrilega! - Signora priora, vi raccomando di badare bene, che il contagio di tali opinioni sataniche non infetti le giovanette innocenti del ritiro." "Non temete," soggiunsi io: "qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me." Ben lontano però eravamo ancora da tale meta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poichè Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano: "Maronna delle Grazie, salva l'anima sua! Dio mio, convertila!" Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si potè sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l'inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di decenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell'ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni. Ma io che m'aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio. Nella piega d'un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall'impazienza, schiuse il corpo del delitto. "Finalmente," disse alla priora, "il topo è nella trappola!" E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a leggere ad alta voce.... Alla quarta linea divenne pallido; a mezza lettera gli morì la voce fra i denti: e seguitò a leggere solamente cogli occhi; In quel foglio io aveva scritto di lui ogni ben di Dio: gli davo dell'impudente, dell'ubriacone, del seduttore, del tanghero; eravi, fra le altre cose, ricordato un fatto vero: cioè, che venendo ogni dopo pranzo avvinazzato, egli chiamava ora l'una ora l'altra delle monacelle nella propria stanza, e vi rimaneva lungo tempo da solo a solo col pretesto di farsi aiutare a recitare l'uffizio. La lista del bucato terminava col seguente epigramma:

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Aspirai l'aria pura a grandi sorsi, come se contate fossero le ore che m'era lecito goderne, e mi sentii tocca da viva commozione agli aspetti desti, ridenti delle genti che passavano. Le penose rimembranze si ristrinsero in un punto impercettibile, pronto pur esso a svanire; e per lo contrario la strada che faceva in carrozza mi parve fiancheggiata da un'immensità, i cui orizzonti eccedevano di gran lunga le mie aspirazioni. Avvertita dal vescovo che avrei fatto meglio per ora a valermi della ricuperata libertà in campagna, che non in città, risposi quello essere appunto il mio proponimento. Assetata d'aria, di luce, di spazio, di libero movimento, presi ogni mattino a compagna la mia vecchierella, e lasciata la città, m'arrampicava su per le balze boscose di Castellamare. Da quelle alture, che dominano la sottostante città, l'intera baia di Napoli, e i più pittoreschi dintorni di questa terra benedetta, io lanciava lo sguardo or su questo punto, or su quello, ne misurava le armoniche proporzioni, e ne percorreva le distanze, ebbra di giubilo, rinascente alle forze native, anzi ispirata da una poesia d'affetti e di speranze, che non sapeva d'aver posseduta in addietro. Nè in quelle escursioni m'arrestavano le intemperie della stagione: non la pioggia, che lungo i fianchi della montagna scateneva furiosi torrenti, non la nebbia d'autunno, quando sboccando dalla foresta, e scavalcando i burroni, veniva ad avvilupparmi in densi vortici. Coll'occhio fiso sul punto più lontano dell'orizzonte, aspettava lo sfumare della caligine per ritrovare poi alla luce del sole più bella e splendida una prospettiva, non più circoscritta da enormi muraglie e da spranghe di ferro. Un giorno, percorrendo la montagna, m'imbattei in un contadinello, che in una rozza gabbia, portava una ventina d'uccelli presi di fresco. "Quanto volete di tutti questi prigionieri?" gli domandai. "Tre piastre" rispose il bricconcello. Me li cedè per una, compresa la gabbia. Pigliati i poveri carcerati uno per uno, li restituii alla natía libertà, lieta di vederli prendere il volo, e sparire in un batter d'occhio fra gli alberi. Adescato il ragazzo dal guadagno, venne spesso a cercarmi con nuove gabbie e nuovi schiavi. Non trovandomi in grado di largheggiare, fissai di comprarli a due grana l'uno, e per tal modo mi procurai spesso il diletto di fare ad altre creature viventi il bene che Dio avea fatto a me. Nel mirarli scappar di mano io diceva a me stessa: "Se l'Italia mia risorgesse a vita e libertà, non farebbe anch'essa lo stesso a favor degli altri popoli, ancor languenti nel servaggio!" Cominciavano frattanto a crescermi i capelli, caduti la prima volta sotto le forbici di San Gregorio, e pel corso di tredici anni tosati come quelli delle pecore. A mano a mano che le treccie allungavano, mi parea di guadagnar terreno nello stadio della personale indipendenza, e mi pareva mill'anni che, non più tocchi dal ferro servile, si ripristinassero all'onore primiero. Mi rimaneva un'altra insegna della servitù: l'abito monastico. L'aveva già smesso in casa, ma bisognava trovare modo di disfarsene anche fuori, e per sempre. Quell'abito, non solo mi umiliava a me stessa, ma m'annoiava, m'inceppava ad ogni passo. Tutti si voltavano a guardarmi: chi per curiosità, chi per offeso fanatismo, chi per vaghezza di cose originali, ed io desiderava passare inosservata per la via. Quegli occhi che mi si puntavano addosso, non importa se con benigna o maligna intenzione, non erano forse un tributo oneroso? Non iscemavano notabilmente il capitale della mia libertà? Risoluta di finirla con quell'anomalia, un bel mattino mi recai dal Vescovo. "Monsignore," gli dissi, "quest'abito mi dà tanta noia che per spogliarmene mi toccherà ad espatriatre, se voi non mi date licenza di lasciarlo." "Vi consiglio a conservarlo addosso," rispose il Vescovo; poi sorridendo: "Ma se poi ve ne voleste spogliare assolutamente," soggiunse, "che bisogno v'è di chiedermene licenza?" Qualche giorno dopo deposi l'abito, ed egli fece le viste di non accorgersene. Una sola eredità del passato conservai, simbolo della mia vita celibe: il VELO NERO. Intanto la stella d'Italia risaliva nel firmamento, piccola sì, ma tuttavolta piena di consolante splendore. La guerra di Crimea aveva procurato alla prodezza della monarchia di Savoia e al genio politico di Cammillo Cavour l'opportunità di sollevare il Piemonte, campione della nazionalità e della forza militare di Italia, al grado di potenza. Una rete di maglie misteriose ormai riuniva Torino alle città principali della penisola: un gruppo di fili elettrici manteneva l'italico patriottismo in continua comunicazione e operosità. Quest'orgasmo febbrile diveniva più visibile in Napoli, che in altra parte: in Napoli, dove la dinastia borbonica, per avere violata la santità de' patti, trovavasi, non solo in istato di ribellione contro i sudditi, ma pur caduta in discredito rispetto al mondo incivilito, e per ciò virtualmente spossessata sin dal 1848. Agli occhi della maggior parte, Napoli presentava l'immagine del formidabile suo vicino, alla vigilia d'una delle più tremende eruzioni, che gli annali dei vulcani ricordino. Tutti quanti i partiti rivoluzionari (trista eredità della confusione che condotte aveva le precedenti vicende), tutti i partiti, non eccettuato il borbonico-clericale, stavano ansiosamente attenti ai sintomi precursori della crisi che stava per iscoppiare, attenti come l'Arrotino della Tribuna fiorentina, profondamente assorto nell'ascoltare la congiura....... Che faceva intanto io inoperosa in Castellamare? Gli amici, deplorando l'esilio mio, m'indrizzavano lettere disperate. Pensando adunque che si sarebbe in Napoli ritrovato un piccolo posto anche per la mia personale operosità, pensai di mettere in non cale ogni pericolo, purchè potessi prestare anch'io qualche tenuissimo servigio al movimento che s'ordinava. Dopo undici mesi, oziosamente passati in quel paesetto, feci una seconda visita al Vescovo. "Monsignore," gli domandai "se vi scacciassero della vostra sede, e vi mandassero pel resto della vita in esilio, vi piacerebbe?" "A nessuno piacerebbe," rispose egli ridendo, perchè aveva inteso dove l'interrogazione mirava. "E perciò dispiace anche a me; e non potendo stare eternamente separate da' parenti, ho risoluto di tornare a Napoli." "E Riario? E il governo? E le spie?" "Dagli amici mi guardi Iddio, dai nemici mi guarderò io." Pochi giorni dopo io prendeva a pigione un quartierino nella capitale, in un nuovo palazzetto di faccia alla Croce del Vasto, e me n'andai a stare con la vedova, non però senza la precauzione di tenere sempre una stanza in Castellamare, per rifugiarmi nel caso di qualche imminente pericolo. Il posto remoto di quell'alloggio, la trasformazione dell'abito, e la generosa tolleranza del Vescovo servirono a tenermi lungamente al coperto dall'altrui curiosità; e le minuziose cautele che presi in difesa dello incognito avrebbero prolungata la mia sicurezza, senza un caso imprevisto che diede sentore a Riario del mio ritorno. Abitava al piano superiore un prete che m'accadde più volte d'incontrare per le scale. Il suo sinistro aspetto mi faceva terrore e schifo. Una sera del mese di febbraio, intorno alle 9, lasciai la stanza della vedova per andare a letto. Divideva la camera mia dall'ingresso un salottino rischiarato da un lampione, che faceva pur lume alla scala, essendo la via appartata, ed il palazzo senza portinaio. In quel momento udii scendere dal piano superiore due persone, le quali presero ad altercare fra loro. Un grido orribile: Ah infame! mi fece raccapricciare, e subitamente sentii cadere a terra un uomo, che con fioca voce diceva: Mi hai assassinato! Udii quindi i passi di persona, che risaliva frettolosamente le scale; poi uno scoppio di grida e di pianti sopra la stanza mia; alfine spalancar la finestra della parte posteriore del palazzo, e in pari tempo il tonfo di un peso che cadde dalla finestra. La vecchia dama, sua nipote, ed io eravamo in preda alla costernazione: tutta la gente del palazzo in movimento. Quando intesi voci di persone a me note per gente dabbene, preso il lume, mi accostai all'uscio; un rigagnolo di sangue vi penetrava di sotto: io mi ritrassi inorridita; ma poi ripreso coraggio, tornai a farmi innanzi per soccorrere il ferito, se ancor vivesse. Aprii, ed oh spettacolo orrendo!... Un giovane dalla folta e bionda chioma giaceva disteso vicino alla mia porta; una larga ferita gli aveva aperto il ventre, mentre quel misero cogli occhi smarriti e immoti, e digrignando i denti, esalava l'ultimo fiato. Domandai dell'uccisore; nessuno sapeva nulla, e non meno ignoto a tutti era il nome dell'ucciso. In questo mentre la serva del prete nell'atto di svincolarsi dalle strette della padrona, gridava quanto n'aveva in gola: "No, voglio andar via subito da questa casa di briganti!" E così dicendo si precipitava giù per la scala. Giunta vicino al cadavere, si mise a piangere, a urlare, a storcersi le mani; domandata dell'assassino, rispose: "Il prete!" Restammo tutti stupefatti. "E quest'infame dov'è?" "Si è buttato dalla finestra nel giardino." L'infelice giovine aveva sposata da nove mesi una sorella di quel prete, il quale sventrò il cognato per una questione insorta di soli ducati 30 sulla dote materna. Ed ecco come. Quella sera lo aveva mandato a chiamare sotto pretesto di fare all'amichevole un'accomodamento, ma mentre il giovine partiva, lieto della pace conchiusa, il prete finse di volergli leggere una carta importante. Lo raggiunse per le scale, si fermò sotto il lume che rischiarava l'uscio del mio quartiere e lì, invece di porgergli la carta, gli ficcò nel ventre un grosso coltello da cucina. Consumato il misfatto, volle strappar l'oriuolo all'ucciso, e gridare All'assassino! nell'intenzione di attribuire ad altri la scelleraggine; ma in quell'agitazione dimenticava di buttar via il ferro insanguinato, e pur gridando lo teneva in pugno. La serva che accorse alle grida, "Ah, siete voi," gli disse, "che l'avete ucciso: non è codesto il coltello insanguinato?" Il prete allora s'avventò a lei per finirla, ma udendo un calpestío, e vedendosi immancabilmente scoperto, aprì la finestra e si precipitò giù. In quello spavento e confusione niuno accorse per vedere se era rimasto vivo o morto, finchè non giunse la polizia che lo trovò sotto la finestra disteso. Si era rotte le gambe, le braccia e i denti, ma vivea tuttora; morì il giorno dopo nelle carceri di San Francesco. La sua sorella, e moglie dell'ucciso, incinta di sei mesi, fu condotta in quel medesimo giorno all'ospedale de' pazzi. Atterrita da questa tragedia, che diè largo argomento di dicerie alla città, la vecchia dama che meco dimorava non volle più vivere fuor del monastero, temendo forse di andar sottoposta ad altri simili spaventi; per la qual cosa, lasciatami colla nipote, entrò un'altra volta nel ritiro, ed io, mutato alloggio, mi rinselvai in un altro non meno solitario quartiere. Ma il delitto del prete dovea mettere la polizia e l'arcivescovo sulle mie traccie. A chi non è palese la penetrazione della polizia borbonica, massimamente in materia di liberalismo? «Il regno di Napoli, scriveva Vittore Hugo, non ha che un'istituzione: la Polizia. Ogni distretto ha la sua commissione per le bastonate. Due sbirri, Aiossa e Maniscalco, regnano sotto il re; Aiossa bastona Napoli, Maniscalco la Sicilia. Ma il bastone non è che un rimedio turco, e il governo napoleteno ha per giunta un gastigo dell'Inquisizione: la tortura. Ed ecco come: Uno sbirro, Bruno, tiene gli accusati legati col capo fra le gambe finchè non confessino. Un altro sbirro, Pontillo, li pone a sedere sopra una graticola, e accende il fuoco di sotto; è questa la sedia ardente. Un altro sbirro, Luigi Maniscalco, parente del capo sunnominato, è inventore d'uno strumento: vi si introduce il braccio o la gamba del paziente, si gira una vite, e quel membro si va fratturando; è questa la così detta macchina angelina. Un altro sospende un uomo a due anelli di ferro con le braccia ad un muro, con i piedi al muro di contro: ciò fatto, salta su quell'infelice, e ne disloga le membra. Vi sono le manette, che slogano le dita della mano: v'ha il cerchio di ferro che stretto da una vite, si pone sul capo, e serve a fare schizzar gli occhi fuori della fronte. Qualche volta si perviene a fuggire, ed avvenne così a Casimirro Arsimano; ma chi lo crederebbe? Sua moglie, i suoi figli, le sue figliuole sono state arrestate, e messe sulla sedia ardente in sua vece. » Il Capo Zafferano confina con una spiaggia deserta. Su questa spiaggia alcuni birri portano dei sacchi, e in questi sacchi vi sono degli uomini. S'immerge il sacco nell'acqua, e vi si mantiene fino a che non si dibatta più; allora si tira fuori il sacco, e si dice a chi vi è dentro: Confessa! Se ricusa, s'immerge nell'acqua di nuovo. In questo modo morì Giovanni Vienna di Messina. A Monreale un vecchio e sua figlia erano sospettati di patriottismo. Il vecchio morì sotto il bastone; sua figlia, ch'era incinta, fu denudata e fatta pur morire sotto il bastone.... Ciò accade nella patria di Tiberio.» - Questa polizia dunque, avendo preso nota del nome di tutti gl'inquilini del palazzo ov'era successo l'assassinio, non mancò di far noto al cardinale e il mio ritorno in Napoli, e il mio domicilio ancora; seppi allora di buon luogo, che se per mala ventura fossi presa, avrei forse potuto scapolare la sedia ardente, ma non per fermo la bastonata. Da quel giorno incominciarono le spie a mettersi in moto, non altrimenti d'uno sciame; e si sa che lo spionaggio era praticato in gran parte da sacerdoti e da monaci. Preti dal ceffo birresco avvertiti del mio mutato domicilio ronzarono continuamente intorno al vicinato della mia dimora, e presero a seguitarmi da per tutto, muti, costanti, inseparabili non meno della mia ombra. Addestratemi poco a poco a riconoscerli, ancorchè travestiti, non li curai; stetti però molto attenta a non dar loro qualche appiglio di denunzia, appiglio che andavano evidentemente cercando nelle mie relazioni con persone sospette di liberalismo; poichè, quanto a me, non temeva d'essere perseguitata. Dall'una parte il permesso ottenuto da Roma, di uscirmene da un luogo ov'era stata violentemente sequestrata; dall'altra il cangiamento di giurisdizione, erano due argomenti, atti a raffrenare le tiranniche recrudescenze di Riario. Nulladimeno, consigliata a metter pur io delle spie intorno alle spie laiche e clericali che m'assediavano, lo feci, e ne ottenni felici risultamenti. Con questo mezzo pervenni non solamente a porre me stessa in istato di difesa, ma pur anco a poter trattare liberamente gli amici, e perfino a frequentare qualche casa segnata con croce nera dal commissario. Per dare un esempio del metodo da me tenuto nel deludere la vigilanza delle spie, basti dire, che in quell'intervallo di sei anni cambiai diciotto volte di abitazione, e trentadue volte di donna di servizio. Quello spionaggio borbonico di mostruose proporzioni vestiva mille forme diverse, prendeva mille diversi atteggiamenti, infestava l'aria stesea del santuario. Entrata in qualche chiesa del vicinato, i preti anelanti mi assaltavano fin dalla porta per domandarmi: Volete confessarvi? - Stabilita in qualche nuova casa i vicini stavano attenti a sobillarmi la fantesca con adescamenti di ogni genere; poi la interrogavano: "È fanciulla? È vedova? È maritata? Perchè abita sola? Perchè non si marita? Chi è il suo confessore? Ha qualche amante? Come si chiamano quei tali che l'hanno visitata stamani? Tiene carteggio con nessuno? E le lettere, le porta da sè alla posta, o le consegna a voi?" Ed ecco la via che seguiva lo spionaggio di quel dipartimento: il fatto dalla fantesce passava al droghiere, all'oste, al farmacista, e bene spesso al medico del vicinato: da questi trasmettevasi, sotto la garanzia della confessione, al parroco, e quindi al vescovo: dal quale passava ipso facto al commissariato, donde giungeva poi al gabinetto del re. Una volta mi avvenne di avere dirimpetto alla mia abitazione una vecchia zittellona, la più molesta zanzara delle maremme clericali di Napoli. La sua casa era dalla mattina alla sera un viavai di frati e di preti d'ogni specie; essa li menava al balcone, onde pigliarsi il gusto singolare di accennarmi loro a dito, ogni volta che per caso m'affacciassi alla finestra. La mia serva fu da lei guadagnata con regali, e per questo canale ella s'informò di tutto quello che accadeva in casa mia. Per liberarmi dalle punture di quell'insetto, che non mi dava nè pace nè tregua, mi convenne perdere un trimestre, e cercarmi un asilo in altra via. Ma fu peggio. Seppi con mio stupore che il padrone di casa era niente meno che un impiegato di polizia. Appena saputo ciò, voleva lasciare anche quell'abitazione, a rischio di perdere un secondo trimestre; ma una tale precipitosa partenza avrebbe maggiormente destati i sospetti del poliziotto, e perciò presi il partito di rimanervi. A dritta e a manca dello stesso piano, da me abitato, stanziavano perpetuamente due birri maschi; al piano di sotto vigilavano, pettegoleggiavano due altri birri femmine, sorelle del padrone di casa. Spie al buco della chiave dell'uscio di casa, spie per le scale, spie nel cortile e nei terrazzi, insomma un'invasione di spie in tutti i luoghi. Quest'Argo da' cento occhi, avendo notato ch'io non mi confessava, ne fece parte al parroco, e questi chiamò in casa sua la mia fantesca per assoggettarla a lungo e minuzioso interrogatorio, particolarmente rispetto ai nomi e alle qualità delle persone che frequentavano la mia casa. Ne uscíi a bene, avendo la fantesca affermato di non vedervi praticare nessuno; ed era vero; ma dovetti anche quella volta mutar di cameriera. Non ebbi in questo intervallo dalla polizia, che una sola granfiatina. Alcuni mesi dopo la morte di Ferdinando II, mi imbattei presso gli Studi in un uomo, non meno insigne per patriottismo, che per sapere. Scambiati i complimenti d'uso, parlammo brevemente dell'aspetto che le cose d'Italia prendevano, atteso l'imbecille governo di Francesco II; poi, data intorno un'occhiata d'esplorazione, l'illustre uomo si trasse di tasca una lettera che mi consegnò. Io me la riposi in seno, non però senza accorgermi ch'era stata adocchiata dal pedisseguo poliziotto, e per conseguenza non senza la sicurezza d'esser chiamata l'indomani a renderne conto. E così fu. Di buon mattino mi fu annunziata, la visita d'un aiutante d'Ajossa, il quale con esimia garbatezza volle da me sapere: quando, e dove, e per mezzo di chi avessi fatta la conoscenza del signor B** G**, se questi fosse uso di visitarmi, ciò che il giorno innanzi m'aveva detto per la via, ec., ec. A tutto questo risposi in modo, che parve averlo soddisfatto. "E la carta che egli le mise in mano?" mi chiese da ultimo; "vorrebb'ella compiacersi di favorirmela per un momento?" "Eccola appunto!" risposi con prestezza e disinvoltura. E pigliata una carta piegata, che a tal uopo avea messa sul mio scrittoio, gliela porsi con garbatezza uguale alla sua. Era l'ultimo numero del Giornale di Napoli. La mattina del 25 giugno 1860, tutte le cantonate di Napoli erano ingombre di gente d'ogni classe, intenta a leggere un manifesto: era l'atto sovrano, per cui il giovine Eliogabalo, stretto dalla rivolta di Sicilia, dalla vittoria di Garibaldi, dall'attitudine minacciosa della capitale e delle provincie continentali, dalle mire, come costoro le chiamavano, invasive della Casa Savaia, e dall'indifferenza de' gabinetti, prometteva a' suoi sudditi istituzioni rappresentative italiane e nazionali, ed una lega col re di Sardegna, accettava i tre colori, e faceva sperare analoghe istituzioni costituzionali per la Sicilia. Dopo aver letto, tutti si ristringevano nelle spalle con aria di compassione. "Che dice?" domandai al mio compagno, che per leggere il manifesto erasi fatto largo nella folla. "È," mi rispose, "il testamento di un negoziante fallito per la quinta volta." Così quell'atto sovrano era chiamato anche dal comitato centrale di Napoli, il quale in un proclama dello stesso giorno diceva a' Napoletani: «Qualunque apparente concessione, strappata dalla urgenza de' tempi, ed intesa a ritardare la piena ed intera attuazione dell’idea nazionale, sarà accolta con disprezzo.»

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