È, quello del Borromini, uno spazio fatto «artificialmente» per quel tormento-delizia dello spirito che è nel Seicento la pratica ascetica: con una
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regola — (o anche un’opera molto più ordinata e strutturata come quelle di un Klee o di un Miró) - e ne isolo artificialmente un frammento, ingrandendo
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un’immagine olistica, globalizzante, e tale da non poter essere suddivisa ulteriormente (salvo che ciò venga fatto artificialmente e per particolari
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già stato tentato - un mercato artificialmente d’élite attraverso la vendita snobistica di video-nastri «firmati e numerati»!)
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particolari «oggetti percettivi» come in Stella o in Mari, che potrà valersi della presenza di elementi dinamicizzati artificialmente e creatori di
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dirsi artificialmente invecchiato: è il caso, in Italia, del Sassoferrato, in Spagna, dello Zurbarán. Poiché il fatto visivo vuol essere soltanto
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dei capelli, lo stormire delle fronde. Ma non nasconde che il marmo è marmo e non seta, carne, capelli, foglie: provoca artificialmente la sensazione
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che intreccia la nostra realtà non naturale, scaturisce da uno stupore e da un candore adulterati, che si direbbero ottenuti artificialmente attraverso
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parrucche. È roba da un Borromini — lasciamo indietro il Bernini, ch’è troppo grande — da un Borromini rifatto artificialmente: lo sforzo di uno sforzo
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, non è cioè lo scintillio del bronzo fuso, o la sua patina artificialmente ottenuta, né la levigatezza del marmo, la grana del legno; ma è spesso il
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