Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 324 in 7 pagine

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Da Bramante a Canova

251220
Argan, Giulio 4 occorrenze

L’itinerario di questi piccoli capolavori, ricostruito con perfetta analisi da Portoghesi, dimostra come Borromini, angustiato per l’incolpevole fallimento della grande impresa, abbia cercato di creare nelle navate minori, più conformi al suo disegno, altrettanti punti di vivo interesse, che distraessero il visitatore dalla disgraziata veduta della navata maggiore, il cui effetto doveva apparirgli doppiamente mancato: dal punto di vista della spazialità prospettica, malamente troncata da una brusca diminuzione di scala all’arco trionfale, proprio là dove avrebbe dovuto dispiegarsi nella tribuna e nel transetto, e dal punto di vista della spazialità luminosa, soffocata dai grevi intagli del soffitto piano. Con quei minuscoli gioielli architettonici ribadisce, infine, il suo intento antimonumentale; e scrive l'amaro, patetico commento (quasi un epicedio) dell’opera incompiuta.

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Rimane da vedere quale peso abbia avuto, nell’esistenza artistica di Michelangiolo, la presenza costante, ossessiva, quasi persecutoria dell’idea inespressa della tomba di Giulio II. Non ha senso rispondere che, morto il committente e succedendosi le ordinazioni da parte dei pontefici venuti dopo, l’attuazione del progetto perde ogni ragione d’urgenza e viene perciò sistematicamente posposta ai nuovi impegni di lavoro: se tutto si riducesse a questo, non si spiegherebbero i mutamenti radicali, anche tematici, che evidentemente non dipendono da un progressivo restringersi del programma iniziale. Quanto al fatto che tutte le opere compiute da Michelangiolo tra il 1505 e il 1545 attingano e portino motivi al progetto inattuato, determinando anche nel «concetto» gli sviluppi che il Tolnay ha così bene descritti, si tratta appunto di vedere perché questa specie di osmosi tra le opere in atto e l’opera in progetto abbia finalmente condotto allo svuotamento di quest'ultimo. Infine, bisogna tenere presente che la storia delle vicende della tomba non è la storia di un progetto inattuato, ma di una serie di tentativi falliti: almeno quattro volte (dopo il progetto del 1505, quando eseguisce varie parti decorative; dopo quello del 1513, quando scolpisce i due Schiavi ora al Louvre e il Mosè; dopo quello del 1532, quando eseguisce gli Schiavi della Accademia e la Vittoria; dopo il 1542, quando partecipa all’esecuzione del disegno finale) Michelangiolo ha messo mano all’esecuzione della tomba; e gli Schiavi, il Mosè, la Vittoria sono indubbiamente tra le sue opere più alte. Si tratta dunque di trovare i motivi profondi dei successivi fallimenti dell’opera.

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Nel 1772 il suo giudizio non era senza riserve: «Alla domanda su chi debba avete il primo posto, Raffaello o Michelangiolo, bisogna rispondere che, se questo spetta a chi possiede una più ricca combinazione di possibilità artistiche, non v’è dubbio che ne abbia diritto Raffaello; se invece si ritiene, come Longino, che il sublime, rappresentando la vetta più alta che l’arte umana possa raggiungere, compensi largamente l’assenza di ogni altra bellezza e faccia perdonare ogni deficienza, allora la preferenza va data a Michelangiolo».

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Il divenire della critica

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Dorfles, Gillo 3 occorrenze

Perché l’arte concettuale abbia un’efficacia occorre che si oggettualizzi e come tale traduca il concetto in oggetto.

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Questa constatazione ci permette inoltre di accettare l’ipotesi che l’opera d’arte abbia, oltre ad una vitalità ed efficacia contemporanea alla sua ideazione e realizzazione, anche una efficacia «postuma», transepocale, che si riverbera in epoche anche molto posteriori a quelle della sua produzione.

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E ho anche spesso affermato come tale fenomeno abbia i suoi lati positivi e negativi: positivi, per la «scoperta» e la messa in valore di tutto un vasto panorama oggettuale che ci circonda e di cui siamo partecipi; negativi, per il pericolo, sempre incombente, d’una «feticizzazione»: tappa spesso immancabile della precedente oggettualizzazione, attraverso la quale l’oggetto - e addirittura la creatività dell’uomo si trasforma in feticcio e finisce col diventare soltanto moneta di scambio mercificata e alienante.

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La storia dell'arte

253332
Pinelli, Antonio 2 occorrenze

Il Teatro Olimpico è rimasto un unicum nel suo genere, un episodio isolato che, però, è indicativo di come l’architettura rinascimentale, fuorviata dalla contemporanea pratica prospettica, abbia interpretato la scenae frons in maniera del tutto impropria. Nel teatro antico, infatti, la scena a forma di facciata di palazzo fungeva da sfondo alle azioni dei protagonisti. Nel Teatro Olimpico, invece, la scenae frons non è più una facciata di palazzo, ma un’aulica e sovrabbondante cornice, che invece di fare da sfondo convoglia lo sguardo dello spettatore al di là di se stessa, nello spazio illusorio di una veduta di città che si estende a perdita d’occhio.

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La verità è che, anche volendo prescindere dalla singolarità di ogni esperienza artistica individuale, non si può fare a meno di constatare che in ogni epoca coesiste una pluralità di tendenze e sottotendenze, ciascuna delle quali possiede una propria legittimità e utilità storico-critica sempre che si abbia ben chiaro la loro natura di astrazioni concettuali ad uso classificatorio.

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Le due vie

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Brandi, Cesare 3 occorrenze

Proprio per questo non si nega l’arte contemporanea negando che abbia il carattere delle avanguardie storiche: l’identità o coincidenza, come avrebbe voluto il Poggioli, fra avanguardia e arte moderna 24 non tiene conto del fatto che, se non vi è protensione verso il futuro, il titolo di avanguardia scade a designare il semplice traguardo del presente. Sicché se l’astrattismo di ripresa post-bellica non era avanguardia, perché chiaramente rivolto al passato, al primo astrattismo, e non al futuro, e quindi segnava il passo, il movimento che è venuto dopo, l’informale, non è stato avanguardia proprio perché, se non si rifaceva al passato, insisteva sull’hic et nunc e solo nell’hic et nunc della integrazione dello spettatore.

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Pia illusione, che questo possa accadere, anche dove lo Stato abbia struttura socialista e non capitalista. La redenzione della cultura di massa non si può sperare prima del fatto migliorando, come qualcuno crede, il livello dei fumetti o la forma del catino di polietilene, ma solo post factum: solo sul fatto l’individuo, la coscienza singola, potrà elaborare il riscatto.

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Se la definizione precedente riguarda la struttura del messaggio — perché si abbia messaggio si devono riscontrare certi dati requisiti — tale struttura ha senso solo in vista della informazione che col messaggio si vuole trasmettere.

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Le tre vie della pittura

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Caroli, Flavio 1 occorrenze

Per inciso, vuole la cronaca dei tempi che Antonello da Messina, che lavora in questi anni vicino a Giovanni Bellini, abbia importato dal Nord Europa la tecnica della pittura a olio, fornendo così al veneziano lo strumento risolutivo per far scintillare i colori come non poteva fare la pittura a tempera.

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Leggere un'opera d'arte

256114
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Come abbiamo già avuto occasione di dire il sonno richiama il simbolismo della Resurrezione, corrispondentemente alla figura del Bambino, ma poiché è utilizzato anche per l’immagine della Madonna dobbiamo arguire che il Caravaggio abbia semplicemente voluto evocare, in maniera molto realistica, un senso di sfinimento.

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L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

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Vettese, Angela 2 occorrenze

Nelle pratiche artistiche i dubbi sul fatto che ci potesse essere ancora spazio per la poesia non sono sorti soltanto in seguito al vulnus provocato dalla più grave manifestazione di odio che l’uomo abbia saputo dare verso se stesso una ferita che si rinnova ogni volta che si ha notizia di una nuova guerra o di un nuovo genocidio nel mondo; ma si sono esacerbati con la riduzione ai minimi termini del supporto fisico dell’opera. Eppure i cambiamenti nella tecnica non hanno prodotto un calo di forza espressiva; hanno agito al contrario come potenti artifici retorici confermando la vitalità della prassi artistica oltre ogni tecnica e ogni radicalismo concettuale. Facciamo subito qualche esempio.

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Ma l’idea che tutta l’arte abbia a che fare con il soggetto e le sue peripezie è molto dubbia, tanto che gli studiosi Rudolf e Margot Wittkower hanno liquidato quanti attribuiscono troppa importanza all'inconscio come motore dell’opera definendoli «manipolatori faciloni del materiale storico [che# sanno giungere a vertici di cecità e stortura».

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

260042
Venturoli, Marcello 12 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Titoli, come si vede, per liriche, più che per quadri e disegni; ma è in Munch continuamente, anche nelle opere più a fuoco, una specie di complesso illustrativo, quasi che il pittore abbia trovato, condotto dalla ispirazione letteraria di una splendida lirica, pennelli e matite nel giro di quelle parole. Le parole sono scomparse; e restano le immagini.

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Noi pensiamo che Picasso abbia voluto dirci: nascono dentro di noi per ogni cosa che vediamo, per ogni persona che amiamo, vicino a sentimenti semplici, umani, anche dei sentimenti inconfessabili (ciò che prima abbiamo chiamato inconscio, bestiale, assurdo) ma fino a quando questa parte del nostro sentire rimarrà dentro di noi come un peso, una colpa, noi non potremo liberarcene. Soltanto quando questo inconscio sarà fatto conscio, questo inespresso sarà reso espresso, noi cesseremo d’esserne le vittime. Per non avere più paura — sembra dire l’artista in questo quadro — è necessario riconnettere punto per punto l’immagine della paura. Ecco perché a noi il quadro, «alla fine», non ripugna. Vi troviamo, e in maniera molto evidente, in quel consolidarsi grandioso e solenne di un corpo diviso, la vittoria della ragione.

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affascinano e appagano qualunque visitatore, anche colui il quale abbia deciso di considerare Braque a qualche cosa di meno e di più limitato» di Picasso.

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Giudizi assai negativi e minimizzanti sono stati formulati da studiosi di vana formazione al contributo del surrealismo nelle arti figurative, come l’opinione, assai discutibile, che questo «ismo» sia stato indifferente a costituire nuovi mezzi espressivi e che abbia esaurito l’atteggiamento dell’artista in una ricerca tutta esteriore e letteraria di analogie e di accostamenti di oggetti: in sostanza, per queste critiche un po’ sbrigative, il surrealismo altro non fu che un giuoco più o meno intelligente di composizioni accademiche in scenografie di incantate assurdità, ora in chiave di favola, ora di incubo, ora squallidamente fisse ad elencare, sotto mentite spoglie, manie sessuali, storture psichiche, casi limite della nostra vicenda mentale.

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Viene il sospetto, a questa esemplificazione, che il pittore si sia voluto prendere per sé e per pochi amici una licenza, abbia soltanto voluto «fare il matto» con una certa eleganza; infatti i lettori potranno domandarsi a che cosa serve, fra tante preoccupazioni gravi della vita di oggi, fra tanti problemi urgentissimi, di carattere economico e politico, un bosco di birilli, o, peggio, una campagna, come nel quadro «Le Territoire» del 1956, che appare sulla tela come un miraggio, una specie di isola verde, con prati ed albero, stampata in mezzo al cielo; o perché mai nel quadro «La voix du sang» (1962) un tronco si apra in due cassetti, levigati e sagomati come nella bottega di un ebanista e mostri nei vuoti una sfera e una villetta.

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Forse non c’è quadro del pittore, eccetto il suo autoritratto (l’opera più alta dell’artista) che non abbia un equivalente più espresso nella pittura francese e tedesca del medesimo periodo; ma questo continuo somigliare di Viani agli altri senza rifarne il verso, questo attingere da fonti forestiere con i bicchieracci di Viareggio, questi alti e bassi di tradizione e di anti-tradizione, di bel disegno xilografico e di escandenscenze espressioniste, formano, guardati tutti insieme, una voce, una personalità, che è impossibile attribuire ad altri se non a Viani. D’accordo, «Monsieur Flery», «Il filosofo», «Impressioni di Parigi», poco ci manca perché diventino vignette; ma è proprio quel poco che ci manca, che è di Viani: la sobrietà delle linee, è alle soglie del facile, ma il facile rimane fuori della porta.

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Spazzapan non era un artista bohémien, almeno nei modi e nei gusti; e benché abbia vissuto quotidianamente nella misura più diretta la sua avventura con l’arte, non si può dire che egli assumesse dall’esterno e molto spesso anche nelle sue abitudini e nelle sue scelte d’uomo, atteggiamenti smaccatamente professionali: infatti, fra lui pittore e il mondo in cui, fin dal 1928 fu necessitato a vivere, Torino e l’Italia fascista, era una perpetua frattura, un vuoto non facilmente colmabile, pena la grave rinuncia da parte dell’artista ad una cultura europea da lui conquistata a Vienna, Monaco e Parigi intorno agli anni Venti.

Pagina 25

Tanto che, leggendo i titoli di alcune opere di Mafai, ci viene quasi il sospetto che l’artista abbia voluto lasciar scritto sotto il quadro quasi l’opposto di quanto pati: «Perché no?», si domanda dinnanzi a una tentazione pittorica astratta; e dinnanzi a questa medesima tentazione, così conclude: «E senza prudenza». Mentre la prudenza del quadro raggiunge fin anche la timidezza. Sotto un altro soggetto egli ha scritto: «Meglio non pensarci»; mentre, se mai, sembra proprio che l’artista al quadro abbia pensato troppo.

Pagina 263

E non solo perché dallo «sguardo alla giovane scuola romana dal 1930 al 1945» si ricava con soddisfazione quanto abbia dato la Capitale allo svecchiamento dell’arte nostra, ma quanto sia stata originale e commossa la fase prima di rottura coi modi del Novecento; fase di rottura che iniziò da Roma, ebbe subito riflessi e contatti con Torino e, più tardi, con i giovani di «Corrente».

Pagina 330

Potrebbe dunque sembrar ovvio, — tanto da domandarci stupiti perché mai la Quadriennale non vi abbia pensato prima — che si facesse a Roma, dopo quindici anni, una Mostra dell’arte migliore prodotta nella Capitale dopo il momento novecentista; infatti molti artisti «romani» continuano ad operare nella Capitale, molte opere che fan parte della Mostra furono in occasioni ormai storiche, esposte nel medesimo palazzo, in una edizione più antica della Quadriennale: sono, insomma, gelose opere della nostra cultura cittadina, queste dello «sguardo» di Castelfranco, uno «sguardo dal ponte» si potrebbe chiamare, nel senso che tanta arte di avanguardia, tante opere assai più tese e gridate, son passate sotto il ponte «romano», sotto questa prima fase di riscossa dal chiuso ermetico e di evasione dell’arte del Novecento.

Pagina 330

Dalla partenza naturalistica all’arrivo astratto può sembrare che l’artista abbia camminato troppo in fretta, nel senso di ritenere le scorie di una immagine visiva, dentro i pur liberi, unidimensionati paradigmi; pare in un primo momento che, come paglie nella retina, l’artista abbia conservato i colori fisici delle sue vegetazioni, cardi secchi, viti, granoturchi, tra violetti e verdi e terre bruciate e che, allarmato e scontento, si affanni a rilevare con la grassa pennellata quella sorta di macerazione più o meno inerte dentro la luce; ma, pur in questa condizione difficile, di naturalista astratto (come ben seppe definirlo Francesco Arcangeli in un memorabile saggio su «Paragone») Morlotti riesce a dare a chi non si appaghi della prima impressione, la misura inconfondibile di un travaglio, pazienza e fiducia sempre scaldate dal senso della scoperta. I suoi paesaggi e le sue nature morte, nella turgidezza del tessuto cromatico fanno pensare perfino a certa pittura lombarda, ma altro è il tono, altro è il timbro; fuor delle scaglie e delle asperità della tela, il quadro appare intensamente unitario, quasi lo specchio di un poi, non più contrasto o bisticcio insanabile tra sensazione e schema mentale, ma purissima visione di fantasia. In quest’ordine di risultati sono secondo noi le due nature morte esposte.

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E così si può dire per l’accanimento col quale Leoncillo presenta di anno in anno sempre nuovi esperimenti materici, profondendo il suo magistero tecnico in artifici, di smalti, strati, tagli, senza giungere a quella agognata immagine di poesia, a quella giusta cadenza fra intenzione e mezzo adoperato, fra ispirazione e stile, per cui le sue opere compongono quasi il ritratto di un arsenale, sono il risultato di una febbre fredda; né si vede perché lo scultore abbia così spesso da prodursi in questo arrovellio.

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Pop art

261486
Boatto, Alberto 1 occorrenze

Dunque, è sotto il segno gastronomico che si svolge il primo tempo di Oldenburg (per quanto l’americano abbia continuato anche dopo ad occuparsi di cibi), durante il quale l’artista modella nel gesso e sostiene nei confronti della realtà la parte del pasticciere o del garzone di un delicatessen. Con questo pretesto si è accinto a ricostruire in modo sistematico tutto un mondo. In un passaggio che va da una fetta di dolce ad una cucina con casseruola e con un buon assortimento di vivande (Fornello, 1962) e ad una Vetrina con pasticceria (sempre 1962), fino a coinvolgere nella simulazione un intero ambiente, trasformando il proprio studio di scultore in una fornitissima pasticceria.

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Scritti giovanili 1912-1922

262396
Longhi, Roberto 15 occorrenze

E solo così si può comprendere perché il Rinascimento non abbia saputo creare il paesaggio.

Pagina 15

Giotto e Simone vi sono accolti freddamente e il loro stile non vi è interpretato dai seguaci che per via di limitazioni realistiche e perciò ridotto poco a poco al nulla come efficacia d'arte: un secolo dopo il tardo goticismo illustrativo del Besozzo attira ancora più dello stilismo fiorentino: Van Eyck piace più di Masaccio: Van der Weyden più di Piero: e l'affermazione di stile più profonda che abbia avuto il '400, quella di Piero per l'appunto, non riesce a farsi strada a Napoli né con Antonello, né con qualche pallida imitazione di scuola romana, né col piccolo campione lasciato da Bramantino** a San Domenico Maggiore, e neppure con la solida volgarizzazione nelle serie narrative di Antonio Solario.

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II nome dell'artista veneziano è inaccettabile per chiunque abbia pratica del suo modo formale, prima parallelo ad Elsheimer, poi volgentesi a smalti lustri di colori freddi con fìammingherie di particolari, poi ancora a cercare prontezze caravaggesche in poche opere del tempo stremo della sua vita. Se si ricordi poi il senso tutto olandese con cui egli trattò, piuttosto volgarmente, lo stesso argomento nel quadro della Sagrestia del Redentore a Venezia, e nella Pinacoteca di Monaco 16 ci si convincerà che questa trattazione larga sottile e delicata, non può avere a che fare con lui ma con la preparata placidezza di Gentileschi.

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Che l'attribuzione al ferrarese Carlo Bononi non abbia gran base è provato dal fatto che la copia (o replica?) dell'opera, esistente nella Galleria Cook a Richmond portava sino a non molto tempo fa il nome di Velazquez 28: ciò che prova almeno come si fosse compreso d'aver dinanzi un'opera caravaggesca epperciò... spagnola (confronta introduzione), e non veneziano-bolognese come ci si manifesta ogni dipinto di Carlo Bononi.

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Nella Santa Caterina di Palazzo Barberini *, che non so se mai abbia portato qualche attribuzione, v'è lo stesso indurimento dell'impasto pittorico che ci fa pensare all'interpretazione legnosetta che di Caravaggio dava Gramatica. Ma il ragionevole Antiveduto non giunse mai, ch'io per ora mi sappia, neppure nel San Romualdo [figura 119; tavola XV] di Frascati (Camaldoli) a creare dei bianchi nevosi come in queste maniche; a dipingere stoffe con così grande acume, a trapungere cuscini così delicatamente; e v'è poi quella trovata della palma del martirio non verde ma secca, buttata là a scivolare frusciando dal cuscino trapunto e damascato, ch’è più di gusto di una aigrette maligna discesa con arte dalle mani di una modista di Paquin. Nella ruota, v'è il punto del «troppo vero», che non manca mai in Orazio.

Pagina 234

Essa ci pare l'unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità; da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane; e ai suoi tempi non si potrebbe trovarle paragone che in Giuditta Leyster, Nulla in lei, almeno di primo acchito, della peinture de femme ch'è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Fede Galizia, in Caterina Ginnasi, in Giovanna Garzoni, o nelle pittrici di Donna o di Foemina. Si travede anzi un temperamento che, fosse vissuta a Parigi dopo la metà del secolo passato, avrebbe figurato un poco come Mary Cassatt

Pagina 252

Del quale si ostenta perciò, per la prima volta, la grande importanza quasi più come fattore storico che come valore artistico e assoluto, E sia pure che abbia fecondato altra storia solo con quei lampi d'arte ch'egli seppe gittare. Poiché in ogni suo quadro v'è almeno un angolo, un taglio di raso, una spalla soffiata d'ombra, unaconcola di luce che si isola e canta come nota strappata di un capolavoro assente; quello che non fu mai in grado di creare, per manco di profondità intellettuale, l'astratto e superbo toscano che aveva visto tanta, troppa pittura tramontare sull'orizzonte del suo atelier, sicché infine un po' trasognato, dignitoso ed incerto, era andato a sciogliere in Britannia, non senza empietà, i suoi voti di sete lisce e smorte, sulle spalle eburnee, e freddine delle guardarobiere di corte, all'ombra rada e discreta dei parchi di Carlo I.

Pagina 252

Quanto a pittura, l'oro della veste è fratto in liquidità magistrali, in lampi molli e grassi, in deliziosi anfratti pittoreschi: i valori di ombra e luce sul collo e le spalle sono degni di Orazio - sebbene il modellato abbia qualcosa di troppo enfiato; lospecchio e il riflesso dell'orecchino e dei capegli non spiacerebbero a Terborch: ma dopo tante finezze credete che la fiorentina Artemisia si sarebbe dimenticata d'intrecciare i peneri della poltrona e di ricamarle sul fianco a filo d'oro «Artemisia Lomi?».

Pagina 258

È troppo comodo credere che Nicola Cordier nella sua orrenda statua del San Sebastiano alla Minerva abbia raggiunto un effetto di movimento per il semplice fatto d’aver liberato il braccio sinistro dal torso! Senza ricordare che molte volte un gesto più liberato mira a produrre non già un effetto di moto ma un effetto di quiete maggiore. Ed è strano che proprio Muñoz che nota le affinità tra la Niobide e la Veronica del Mochi, non si sia accorto che qui vi era la rivelazione di fallacia del «movimento» come preteso principio artistico. Infatti il gesto è di moto in entrambe le statue; ma l’effetto artistico è quasi di calma (di colore) nell’una, di vivacità (di pittoresco) nell’altra. E allora?

Pagina 317

Il semplice fatto che Lionello Venturi nelle sue ottime analisi dei Giorgioneschi, abbia trovato un posto per Romanino e non per Moretto è di per se stesso illuminante 13. Chi in verità potrebbe raffigurarsi un Moretto seguace di Giorgione? E d'altra. parte s'egli davvero come vollero i critici si volve completamente nell'orbita di Romanino, chi si potrebbe immaginare un Moretto non giorgionesco?

Pagina 331

Ed anche quando si astragga da questi pregiudizi mentali del Nicodemi, non ci pare che dov'egli si addentra in problemi più nettamente artistici, abbia meglio compreso·chi sia il pittore Daniele Crespi. Quando si leggeva la facilità con cui il vecchio Mongeri s'induceva a paragonare i ritratti di Daniele Crespi alla Passione con quelli del Velazquez o di Tiziano, veniva tutta la voglia di reagire violentemente accentuando la parentela di quelle creature con quelle del Bronzino, del Pontormo, del Parmigianino; ora che il Nicodemi parla con tanta enfasi e capovolgimento verbale dello spirito di Michelangelo rinato in Daniele, vien voglia di parlare di Tiziano e di Velazquez. Le mancanze di finezza sono mancanze fondamentali negli studi d'arte che è fatta, per l'appunto, di finezze.

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In Accordo di Gialli già il titolo vi fa prevedere ricerche più serie d'armonie, meno del solito sgargianti; nella Sala di Campagna [tavola XX], nuovi filoni cromatici sono sfruttati da arredi dove la materiale ricchezza è sbandita, come nei cortinaggi a semplici doghe di colore, soavi prodotti dei tappezzieri di provincia: nel Guardaroba - che col precedente è uno dei quadri più forti che l'Italia abbia fino ad oggi sacrificato sull'ara scintillante degl'impressionismi - Cavaglieri dimostra di sapere ormai cantare all'improvviso anche su chiavi sprezzate e modeste; poiché è dolcemente inaspettato e nuovo incastonare a turchese e i rubini di questa livrea di guardaportone in un cerchio ferrigno di bruni «s'udivano sussurri - cupi di macroglosse - su le peonie rosse - e sui giagioli azzurri»).

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Ci si soffermava alla porta famigeratissima, curiosi di come un legnaiolo geniale abbia potuto imprigionare in un legno scuro tanto sole chiaro; e già vi sollevava quel respiro lato e steso della gran nave, che, si sente, attendeva sui fianchi nudi coltri di colore, simili a quella già stesa sopra la porta, scrollando in un pigro brillare di tessere verderamate il fluente latino di uno scolaro non ignobile di Papa Damaso. Così, strusciando i piedi alle tombe terragne, carezzando gli alamari murati di qualche vecchio ambone, si vagava assorti nella penombra delle navate minori, dove alcune ferite barocche, velate di cruori iridescenti di marmi e di pitture, si addentravano per nulla dolorosamente nella carne delle muraglie modellata parcamente, qua e là di tombe belle, e decorose.

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Poiché non credo che mai sia stato compiuto al mondo - e suppongo che mai si abbia a compiere - un falso estetico tale da sfuggire al giudizio di qualità della critica figurativa. Per la contraddizione tra «falso» ed «estetico» che non lo consente.

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Messo quindi da parte anche Masolino, e poiché s'è voluto fin qui che l'arte fiorentina da Giotto a Michelangelo non abbia degnato di uno sguardo il colore, si dovrebbe concludere che il delizioso colorismo gotico avrebbe stagnato col decadere della scuola senese fino a rinascere - indipendentemente da ogni anello storico - come grande colorismo a Venezia. Eppure esso nacque dapprima a Firenze nel primo ventennio del Quattrocento, quando alcuni pittori troppo innamorati dello spazio per ritornare a una spazialità superficiale, troppo innamorati del colore per buttarsi al chiaroscuro inteso ad effetti di spazialità illusoria, compresero che uno solo era il mezzo per esprimere pittoricamente ad un tempo forma e colore: la prospettiva.

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L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

266869
Sgarbi, Vittorio 3 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
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Nella bella casa di questo mio compagno di scuola, vidi le opere del primo artista che abbia sentito davvero tale, nato esattamente un secolo fa e oggi completamente dimenticato: Neri Pozza. In lui, che fu anche poeta, scrittore, editore e grafico, c’è il binomio letteratura-pittura/ scultura come condizione naturale. Guardando le sue meravigliose acqueforti con le vedute di Vicenza (la Vicenza di Palladio, ma anche la Vicenza del suo bel fiume, il Bacchiglione) ebbi il primo sussulto di chi avverte di essere di fronte a qualcosa che si chiama “arte”.

Poche cose sono più sorprendenti e ammirevoli di questa grotta, che appare come l’opera di un artista d’avanguardia che abbia utilizzato quello che la produzione alimentare gli ha consentito. Si vedono cinquemila culatelli, disposti in una sorta di volta ideale, che coronano gli spazi della cantina dell’Antica Corte Pallavicina, a Polesine Parmense, vicino a Zibello, l’area del culatello. Sono i culatelli prodotti e destinati ai grandi ristoratori del mondo ma anche a eminenti personalità del mondo politico, culturale, internazionale e nazionale. Chi vede un culatello lo considera un cibo prelibato; se, però, ne vede cinquemila ne ha un effetto che potremmo definire manieristico. Ma nella “grotta del culatello” non c’è alcuna finalità artistica. Non è un conchiglia montata per creare una coroncina. No. I culatelli sono appesi così come sono e come devono essere, come art brut, senza alcuna intenzione di sorprendere, eppure, nella loro quantità, determinano un effetto di horror vacui, potentemente barocco e straordinariamente fantasioso. Entrare in questa grotta dà la sensazione che si potrebbe avere quando si vedono i sacchi di carbone di un artista molto amato dalla critica, Jannis Kounellis. Sennonché in Kounellis c’è l’artificio, l’intenzione, la volontà di fare qualche cosa che abbia un significato, nell’accumulazione dei culatelli no: c’è un culatello a fianco dell’altro, un Jannis Kounellis, Senza titolo, 2002. salame a fianco dell’altro (perché vi sono anche salami e forme di parmigiano), in una composizione che dà senso di infinita sovrabbondanza. In questa architettura, o decorazione di interni, fatta di culatelli si respirano, naturalmente, anche odori che, insieme all’umidità del luogo, creano un’aura, un effetto che dà ulteriori suggestioni.

Pagina 100

Sicché, posto che in un determinato periodo la quotazione massima per un artista coincide con la quotazione massima per una singola opera di qualunque artista, avviene che in tutte le aste internazionali nessun artista antico né Mantegna né Antonello né Raffaello abbia mai raggiunto la cifra pagata per van Gogh. Il che induce alcuni giornalisti, in qualche modo testimoni dello scandalo per cui un artista importante ma “pur sempre” moderno costa più di un artista antico, a telefonare all’esperto per chiedergli se non lo scandalizzi il fatto che van Gogh costi più di Raffaello. Io non mi scandalizzo, e non perché reputi Raffaello meno grande di van Gogh, ma perché so che è così che vuole il mercato. Oggi Cézanne ha “battuto” van Gogh. I suoi Giocatori sono stati venduti a duecentocinquanta milioni di dollari.

Pagina 44

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267851
Dorfles, Gillo 3 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Come il poeta che prima di tutto si libera del “saper-dire" e vuole che spariscano i sostegni e le fondamenta della realtà per riproporcela poi a modo suo impalpabile e come non ancora apparsa nel mondo, ma è molto importante per lui, cosi il pittore attuale nella sua agitazione interiore, prima distrugge (nessuna metamorfosi senza autofagia), cancella, massacra la natura e il modello della natura per seguire poi, sbarazzatosi delle costrizioni, una tempesta che non viene dal di fuori e di cui, senza fermarla, egli esprimerà l'agitazione e i segni, sperando che anche agli occhi degli altri tutto questo, che è passato attraverso un torrente cosi agitato, abbia vita anche se non ha apparentemente legami con "nulla” se non con il desiderio del “nulla,’’ del "pili nulla" e del suo fascino.

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In ogni caso continuo a lavorare, aggiungo e tolgo, cambio, correggo (bisogna notare che lavoro empiricamente, come un cieco, esperimentando ogni genere di mezzi) finché non intravedo nel dipinto una certa liberazione, e da quel momento mi sembra che abbia acquistato proprio quella "vita," voglio dire quella "realtà."

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In altre parole, si vorrebbe ammettere da parte di taluni che l’opera d’arte (e non solo quella visuale) sia soltanto in parte la definitiva creazione dell’artista, ed abbia invece bisogno d’essere “completata" e definita attraverso il processo fruitivo e ricreativo.

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