Il viso di Utrillo, smagrito, lungo, sul quale la pelle si era accartocciata come una scorza, gli occhi spenti, la bocca stretta e amara — come è
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equilibrio, come salvezza dall’irrazionale, la accettazione sempre più piena e amara di una condizione «privata», insopprimibile e antica quanto l
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da Toulouse Lautrec; c’è perfino cordializzata nel grottesco, la sua amara satira; e così nei dipinti di Bonnard fra il 1895 e il 1905 — molti dei
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contraddizioni del Novecento, facesse seguito una certa somiglianza umana, la solitudine amara, nella passione smoderata dei sensi, la contemplazione di
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somma di correnti di avanguardia, per farsi meditazione sul recente passato rivoluzionario, per farsi amara e appassionata solitudine, nella
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una patria più desolata, amara, più direttamente e semplicemente cantata: quella che prende le mosse dal suo viaggio a Lipari, e che per via di una
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straniera dell’arte e della letteratura contemporanee: esuli, anarchici, rivoluzionari rifugiati nella Svizzera neutrale avevano sùbito scoperto l’amara
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amara. Ciò non toglie che il fondo di questi contenuti sia vivo, originale; per quella capacità a muovere gli spessori delle sue «figure» in spazi
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sua inequivocabilità, per la sua totalità, come un grido o una paura, una realtà amara con la quale fare i conti.
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