Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIPIEMONTE

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Elementi di genetica

419096
Giuseppe Montalenti 50 occorrenze
  • 1939
  • L. Cappelli Editore
  • Bologna
  • biologia
  • UNIPIEMONTE
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Tutti i casi che abbiamo finora preso in esame costituiscono un’analisi parziale, che dà quindi una rappresentazione incompleta della realtà: se si approfondisce sufficientemente lo studio, si rileva che molto spesso i fattori che intervengono nella determinazione di uno stesso carattere sono numerosi.

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È interessante osservare che simili analisi condotte su altri rosicanti (cavia, coniglio, ecc.) sebbene meno complete, hanno condotto a riconoscere l’esistenza di serie di fattori analoghi a quelli che abbiamo elencato.

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Chi non conoscesse il lavoro di analisi compiuto e si trovasse di fronte a una simile serie di individui, non saprebbe distinguerla dalla serie di variabilità continua o trasgressiva, che abbiamo preso come punto di partenza per il nostro studio.

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Abbiamo così ricostruito, approfondendo ed estendendo l'analisi, la continuità delle variazioni che si manifesta in natura, e che sembrava essere sostituita da una discontinuità, finché l’analisi era limitata a una o poche coppie di fattori. Sappiamo ora che la variabilità indotta dalle combinazioni è geneticamente discontinua, ma, dalla cooperazione dei fattori, risulta fenotipicamente continua.

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Abbiamo finora descritto esempî di fattori che influenzano diversamente uno stesso carattere, e i cui effetti possono interferire in vario modo. Ma si sono potuti riconoscere anche fattori che influenzano uno stesso carattere nello stesso senso: le azioni dei singoli fattori perciò possono sommarsi, e il risultato di questo fenomeno è della massima importanza teorica, sopratutto per la questione della «eredità intermedia».

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5) Le curve di variabilità che si ottengono alla F 2, F 3 ecc. sono simili a quelle che abbiamo visto prodotte dalle modificazioni, benché dovute a tutt’altre cause.

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L’applicazione della ipotesi della polimeria, che parve quasi un deus ex machina per ridurre in termini mendeliani l’eredità mista, non andò esente da critiche, e ancor oggi, come abbiamo detto, v’è chi non sa rinunciare al concento di eredità intermedia

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Abbiamo esposto le basi su cui questa ipotesi fu costruita, ne abbiamo visto l’importanza per interpretare molti casi intricati, e speriamo che sia uscita chiara da questa breve esposizione la sua fondatezza, anche da un punto di vista puramente fisiologico. Pur non dimenticando di considerarla come un’ipotesi di lavoro — preziosa perché esclude un dualismo d’interpretazione che riesce poco soddisfacente — dobbiamo riconoscere che le formule che sono state elaborate da varî autori per rivelare in quali casi e con quale approssimazione essa è applicabile ragionevolmente, sono sufficienti a garantirci contro il pericolo di applicazioni inesatte.

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Abbiamo visto già a pag. 106 qual’è la spiegazione di alcuni di tali fenomeni: la necessità della coesistenza e della cooperazione di due o più fattori per la produzione di un certo effetto.

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E tutto questo patrimonio ereditario proviene da due sole cellule, i gameti, ciascuna delle quali, per quanto abbiamo visto, contribuisce in egual misura alla sua formazione. Il gamete maschile contiene dunque tutti i geni che il padre trasmette al figlio, e quello femminile tutti i geni che gli trasmette la madre. È quindi nei gameti che dobbiamo cercare la localizzazione dei geni e conviene perciò fermare l’attenzione sulla loro struttura e sul loro modo di formazione. È necessario però richiamare prima alla memoria le nozioni fondamentali sul modo di riproduzione delle cellule.

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Questo meccanismo, la cui necessità era stata intuita, da un punto di vista puramente teorico, dal Weismann (1887), fu poi scoperto e illustrato per opera di varî citologi, e consiste nella intercalazione — fra le cariocinesi tipiche, o equazionali, che abbiamo sopra illustrate — di una divisione di tipo speciale, chiamata riduzionale, o meiotica o semplicemente meiosi. Essa ha come conseguenza la formazione di due nuclei figli, ciascuno dei quali possiede la metà del numero di cromosomi caratteristico della specie. Si è convenuto di chiamare numero aploide e di indicare con n questo numero, uguale a metà del numero tipico, e diploide o 2 n il numero normale.

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In questi casi, che abbiamo sommariamente considerati, v’è il fatto singolare della facoltà che possiede un pezzo del corpo di potersi, a un dato momento, trasformare in un individuo completo; ma la trasmissione ereditaria dei caratteri è una conseguenza

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Abbiamo testé sottolineato che occorre reincrociare un maschio ibrido con una femmina recessiva; ché se si prende una femmina ibrida (Bb Vgvg), discendente da genitori

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Nel secondo gruppo risiedono circa 120 geni, fra cui b e vg di cui abbiamo parlato or ora, che non sono associati al sesso. È probabile che siano localizzati in una delle due coppie di cromosomi lunghi.

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Osserviamo innanzi tutto che, come sopra abbiamo detto, quando si misura la distanza di due geni piuttosto vicini, in genere le somme (o le differenze) tornano, nel senso che, data una serie lineare di tre geni vicini ABC, la distanza

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I fatti che abbiamo esposto si riferiscono quasi esclusivamente alla Drosophila melanogaster, le teorie che su di essi sono state costruite, invece, aspirano ad un valore generale. Conviene quindi

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La costanza della percentuale di scambio, come abbiamo già avvertito, non è assoluta: essa può essere alterata da alcuni fattori esterni, come la temperatura. Plough (1918,1921) trovò che la percentuale varia, col variare della temperatura da 9° a 32°, mostrando due massimi in corrispondenza di 13° e di 21° e un minimo in corrispondenza di 25°; i limiti della oscillazione sono 6 % e 18 %. Anche i raggi X possono alterare la percentuale di scambio (Plough, 1924). Vi sono anche certi geni che influiscono sulla percentuale di scambio.

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Abbiamo visto, dunque, come si siano constatate delle eccezioni alla legge dell’indipendenza, e si siano scoperti dei gruppi di fattori associati: nella Drosophila melanogaster e in alcune altre specie (fra le meglio conosciute geneticamente) essi sono tanti quante le coppie di cromosomi. Tale associazione non è assoluta, ma può rompersi, con maggiore o minore probabilità (percentuale di scambio). Secondo la teoria del Morgan lo scambio genetico è dovuto ad uno scambio materiale di frammenti dei cromosomi che si avviticchiano alla sinapsi e la percentuale di scambio è, per ogni coppia di geni, relativamente stabile; l’ordine lineare dei geni assolutamente costante.

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Sulla base dei fatti che abbiamo brevemente riassunti, Th. H. Morgan enunciò, nel 1926, la «teoria del gene» con le seguenti parole:

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Abbiamo esaminato alcuni dei fatti in favore di tale teoria, prima di proseguire sarà opportuno prendere in considerazione i dati forniti dalla citologia, paragonandoli con quelli della genetica, e vagliarli criticamente.

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Alcune le abbiamo già incontrate, altre ne esporremo in seguito, nel capitolo sulle mutazioni. Qui ricordiamo quelle che più si prestano a dimostrare i varî asserti della teoria cromosomica.

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Abbiamo già parlato della mancata separazione e della saldatura dei cromosomi X, altre prove della localizzazione dei geni nei cromosomi.

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Abbiamo già accennato all’azione della temperatura e dei raggi X sullo scambio. Recentemente è riuscito a G. Friesen (1933) di ottenere con i raggi X una minima percentuale di scambi anche nel maschio della Drosofila, dove normalmente non avviene.

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Da quanto abbiamo qui riferito risulta che la teoria cromosomica posa oggi su di una tal base di fatti — di diversa natura, ma tutti convergenti verso un’unica dimostrazione — che non è lecito pensare di poterla facilmente demolire in base a qualche punto ancora dubbio, o con quei verbalismi inconcludenti di cui ancora si compiacciono taluni. È indubbiamente da considerarsi come una delle meglio fondate, più proficue e facilmente generalizzabili teorie biologiche, e gli indirizzi più recenti delle ricerche citologiche e genetiche, che abbiamo cercato d’indicare, sono tali da far prevedere probabili ulteriori conferme e da far sperare che si possa, per questa via, condurre più a fondo l’analisi dell'intima struttura della materia vivente.

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Talvolta compaiono negli ibridi tendenze all’ermafroditismo (es. nei pesci Limia caudofasciata X L. vittata), o alterazioni del rapporto dei sessi, di cui già abbiamo tenuto parola.

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Dall’insieme dei fatti che, per necessità di spazio, abbiamo dovuto riassumere in poche pagine, scaturiscono alcune importanti conclusioni. L’insieme dei fenomeni della ibridazione interspecifica ha un andamento molte simile nel regno animale e nel regno vegetale, tenuto conto delle differenze fondamentali dei modi di riproduzione nei due gruppi. L’ibridazione interspecifica può dar luogo a varî casi di pseudoibridi (per partenogenesi, o per apogamia)

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Fu incontestabilmente merito delle teorie evoluzionistiche, come abbiamo già detto, di avere portato in primo piano il problema e di avere aperto la via alla sua indagine metodica.

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Abbiamo finora considerato le varie razze di animali e di piante per studiarne il comportamento dei caratteri nell’eredità, senza domandarci come tali razze si siano originate. Per gli animali domestici e le piante coltivate, si sa che esistono molte razze diverse, ben caratterizzate e costanti. Nella Drosofila e in altri animali non domesticati, non esistono in natura razze distinte — o ne esistono poche — mentre numerosissime ne sono comparse nel corso degli allevamenti fatti dai genetisti. È necessario quindi analizzare questo fenomeno: la formazione delle razze dalle specie selvatiche.

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Già abbiamo accennato, in varî punti, alla presenza di mutazioni che interessano la struttura dei cromosomi. Nella massima parte dei casi esse sono controllabili citologicamente, oltre che geneticamente. Molte mutazioni, o aberrazioni cromosomiche sono poi controllabili con maggiore facilità sui cromosomi giganti delle ghiandole salivari, come già abbiamo detto.

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Abbiamo già visto come possono formarsi in Drosofila degli individui con tre X (triplo X) in conseguenza della mancata separazione dei due X alla meiosi e come tali individui, in genere non siano vitali. Probabilmente si possono originare per un meccanismo analogo, anche dei triplo-Il e triplo-III, parimenti non vitali. Invece individui provvisti di tre piccoli cromosomi del gruppo IV (triplo-IV) possono vivere, e sono stati studiati dal Bridges; esteriormente differiscono pochissimo dai normali, e si riconoscono soltanto con difficoltà. Il comportamento dei geni situati nel cromosoma IV, e in particolare del gene eyeless nei varî incroci, corrisponde perfettamente alle previsioni teoriche, come è stato riferito (pag. 203). Non si trovano, tuttavia, individui

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Le mutazioni-cromosomiche, che abbiamo passato brevemente in rassegna, le mutazioni del genoma e le mutazioni polisomiche costituiscono altrettante ulteriori prove della individualità e della continuità genetica dei cromosomi, e del fatto che le variazioni numeriche dei cromosomi non sono fluttuazioni irregolari, e non sono, prive di effetto sul fenotipo, bensì variazioni ben definite, la cui distribuzione nella discendenza si può prevedere.

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Abbiamo detto come non sempre vi sia differenza fra i due gameti, e come, in alcuni organismi primitivi vi sia una isogamia morfologica, a cui spesso corrisponde un’anisogamia fisiologica: gameti apparentemente identici, si comportano in modo diverso

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Abbiamo considerato come fatto essenziale della sessualità la presenza di cellule germinali dell’uno o dell’altro sesso; ma, come abbiamo detto, anche il corpo, o soma, manifesta una sessualità. Le cellule che sono a diretto contatto con le cellule germinali costituiscono, insieme con esse, quelle che impropriamente si chiamano ghiandole genitali, o meglio gonadi, e sono diverse (testicoli o ovari) nei due sessi. Vi sono poi differenze negli organi genitali sussidiari (vie genitali, ghiandole sussidiarie, organi copulatori, ecc.), e differenze di altri organi, o sistemi, o caratteri, come scheletro, cute e organi cutanei, voce, crasi sanguigna, caratteri psichici, ecc. Alcune di tali differenze si manifestano fin dall’età giovanile, altre compaiono, o si accentuano, quando le gonadi divengono capaci di funzionare, cioè con la maturità sessuale. È appena necessario richiamare alla memoria alcuni dei casi più tipici di dimorfismo sessuale: nella specie umana struttura scheletrica, sviluppo del sistema pilifero, timbro della voce, sviluppo delle ghiandole mammarie, varî caratteri psichici, ecc. sono profondamente diversi nei due sessi. Nei maschi di molti animali sono particolarmente sviluppati organi che servono come armi di difesa e di offesa (es. corna dei cervi, sproni di molti gallinacei). Talvolta sono ornamenti particolari che caratterizzano un sesso, come la cresta, i bargigli e il piumaggio del gallo, le smaglianti

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Oggi, dopo molti anni di intenso lavoro speculativo e sperimentale, di cui abbiamo tratteggiato fugacemente il corso, è possibile

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Solo le cellule capostipiti delle cellule germinali — la linea germinale — come abbiamo visto, ricevono tutto il complesso dei determinanti, in conformità appunto dell’alto ufficio che son chiamate a compiere.

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Abbiamo già avvertito come la dominanza completa sia piuttosto un’apparenza, che una realtà: in pratica negli eterozigoti v’è sempre una condizione intermedia fra il fenotipo dominante e il recessivo, più o meno facilmente svelabile. Non si ha per ora una teoria fisiologica della dominanza, né alcuna possibilità di intravvedere un principio generale capace di far prevedere quale di due caratteri debba dominare.

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A chi volesse approfondire questi argomenti non mancano, come s’è detto, opere adatte, in cui anche si troverà trattata la grave questione degli adattamenti; tralasciamo perciò la discussione di questi concetti generali, per rivolgerci alla biologia sperimentale, e domandarle quali dei metodi su accennati si sono rivelati più probabili o se altri ne sono stati messi in luce. Si deve ricordare che le «teorie» che abbiamo brevemente riassunte e altre di cui non abbiamo fatto cenno sono state elaborate per lo più su basi puramente congetturali e indiziali, e soltanto da pochi anni si è in grado di affrontare sperimentalmente il problema. Perciò i dati degli esperimenti sono ancora insufficienti a darci una risposta esauriente.

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L’eredità dei caratteri acquisiti, come abbiamo visto, non è stata finora dimostrata. Il lamarckismo, per quanto seducente e verisimile potesse apparire a prima vista, si è rivelato insostenibile, e, seppure non si possa escludere, anzi sia dimostrata, una azione diretta dell’ambiente sul germe (mutazioni da raggi, da temperatura, ecc.) questa non avviene nel senso voluto dalla teoria lamarckiana. Le «somazioni» non sono trasmissibili ereditariamente, e, benché alcuni naturalisti conservino qualche speranza di potere un giorno dimostrare il contrario, dobbiamo attenerci ai dati attuali degli esperimenti, che sono negativi.

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Abbiamo tuttavia creduto opportuno fare un cenno a questo argomento, sebbene le conclusioni siano ancora molto vaghe e generali, soprattutto per additare un campo di eccezionale importanza, nel quale sarebbe opportuno che i genetisti concentrassero gli sforzi.

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Questo atteggiamento è del tutto ingiustificato; non ci è possibile, qui, per molte ragioni, entrare in merito alla questione esemplificando, o indicando le principali linee di ricerca seguite e i risultati raggiunti, ma, come abbiamo fatto per l’eugenica, riteniamo utili alcuni chiarimenti di indole generale, rimandando il lettore desideroso di maggiori particolari alle due ottime e recenti trattazioni del Ghigi (1937) e del Crescini (1937).

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E la connessione con esse discipline rimane e deve rimanere intima e profonda, non soltanto per quella comunanza essenziale di problemi e di indirizzi, a cui abbiamo dianzi accennato, ma anche perché tanto i problemi, quanto i mezzi per risolverli possono esserle forniti solo dalla zoologia e dalla botanica, largamente intese. Tutte

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Il problema fondamentale della zoologia e della botanica, il problema della specie, delle differenze specifiche, nel senso che abbiamo or ora cercato di delineare, è pur sempre il problema primo ed essenziale della Genetica.

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Abbiamo così passato rapidamente in rassegna alcune delle cause che possono indurre sensibili variazioni su di un dato genotipo; molte altre ne esistono, e l’azione di ciascun singolo fattore di variabilità coopera con quella di ogni altro, sommandosi od elidendosi, a seconda che agisca nello stesso senso o in senso

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Con l’analisi precedente abbiamo distinto alcuni di questi fattori di variabilità, ma è chiaro che l’ambiente risulta dalla coesistenza e dalla cooperazione di moltissimi fattori — di «costellazioni» di fattori — di cui alcuni hanno un’importanza di prim’ordine, altri del tutto secondaria o appena sensibile. Anche nel caso in cui si facciano sviluppare individui genotipicamente omogenei nelle «stesse» condizioni, non manca una variabilità più o meno notevole, e ciò dimostra la difficoltà di potere ottenere sperimentalmente una assoluta identità di condizioni per ciascun individuo: piccole diversità d’ambiente, che in pratica non si possono annullare, sono sufficienti per dar luogo ad una variabilità abbastanza notevole.

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Raccogliamo ora i risultati dell’analisi sperimentale che abbiamo brevemente riassunta nelle pagine precedenti, e i concetti che ne sono stati stabiliti, e che serviranno per intendere quanto verrà esposto in seguito. Gli individui di una stessa specie, o razza, o varietà, manifestano una certa variabilità. Le cause che la determinano possono essere di varia natura: procedendo per eliminazione, e studiando le linee pure, i cui individui debbono considerarsi genotipicamente identici, cioè possessori di un patrimonio ereditario identico, abbiamo riconosciuto una categoria di variazioni,

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Abbiamo visto nel precedente capitolo che le modificazioni o somazioni non sono ereditarie, abbiamo cioè trovato risposta negativa al quesito. Ma poiché la questione è veramente di grande momento, dal punto di vista teorico come da quello pratico, e poiché le discussioni in proposito non sono ancora chiuse, e ancora oggi si trovano fra i biologi dei sostenitori del lamarckismo, vogliamo passare brevemente in rassegna le più importanti ricerche fatte in proposito.

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Abbiamo ancora da mettere sullo stesso piatto della bilancia — non ereditarietà dei caratteri acquisiti -— molti fatti che erano già noti e che erano stati già discussi sopratutto dal Weismann. Le molte mutilazioni o deformazioni, a cui, da innumerevoli generazioni, sono sottoposti gli individui di certi popoli (circoncisione, deformazione del piede nelle donne cinesi, deformazione del cranio negli indigeni americani, ecc.) non sono divenute affatto ereditarie.

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In questo genere di problemi abbiamo sempre a disposizione la natura — fonte perenne di verità — pronta a rispondere alle nostre domande, sol che si sappia abilmente interrogarla con l’esperimento. Vediamo dunque di vagliare criticamente i risultati dei molti sperimenti che furono fatti, e di trarne la conclusione.

Pagina 63

Da un lato abbiamo i risultati delle ricerche che sono state esposte nel precedente capitolo, e che sono impeccabili da un punto di vista metodologico, perché hanno escluso la possibilità che delle variazioni ereditarie preesistenti e latenti mascherino il risultato dello sperimento. Quando si opera, come primo fece il Johannsen, su individui che sono sicuramente provvisti di un identico patrimonio ereditario, non c’è pericolo che si possa scambiare per carattere acquisito quello che invece è preesistente nel plasma germinale. Le ricerche sulle linee pure sono quindi, sebbene limitate a poche specie, di gran peso.

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Cioè i rapporti numerici fra i quattro fenotipi della F2 da aspettarsi in base alla teoria sono 9 : 3 : 3 : 1, e a questi abbiamo visto che si avvicinano molto quelli trovati empiricamente.

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