Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I ragazzi della via Pal

208271
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Così passarono alcuni minuti, minuti che ai ragazzi sembrarono ore, tanto che si sentivano frasi come queste: — Che abbiano cambiato idea? — Che si siano spaventati? — Preparano qualche sorpresa! — Non verranno! Qualche minuto dopo le quattordici l'aiutante di campo caracollò lungo le posizioni dando ordine di cessare ogni schiamazzo e di mettersi tutti sull'attenti perchè il generalissimo intendeva passare l'ultima rivista alle truppe. E mentre l'aiutante di campo faceva questo annuncio ecco in fondo comparire Boka, muto, severo. Passò davanti prima all'armata di via Maria: tutto in ordine. I due battaglioni di copertura stavano irrigiditi a destra ed a sinistra della grande porta. I comandanti si fecero avanti. — Sta bene — disse Boka —. Sapete il vostro dovere? — Sappiamo. Fingere la fuga. — E poi attaccare alle spalle! — Sì, signor generale! Visitò quindi la capanna. Aperse la porta, mise la chiave nella toppa dal di fuori: provò anche se funzionava la serratura. Poi visitò le tre fortezze della fronte. Due o tre ragazzi stavano in ciascuna fortezza. Le bombe di sabbia erano pronte, in piramide. La fortezza numero tre aveva il triplo delle bombe delle altre, perchè era la fortezza principale. Tre artiglieri si misero sull'attenti quando il generalissimo comparve. Nelle fortezze 4, 5 e 6 v'erano bombe di riserva. — Queste non le toccate — disse Boka — perchè la sabbia di riserva serve per far fuoco se faccio passare qui gli artiglieri delle altre fortezze. — Sì, signor generale. Nella fortezza 5 l'agitazione era così forte che quando il generale vi giunse l'artigliere troppo zelante gli gridò in faccia: — Va al tuo posto che qui c'è da fare! Il compagno gli diede una gomitata e Boka lo redarguì: — Non riconosci il tuo generale, asino? Ed aggiunse: — Un soldato così, sarebbe meglio fucilarlo! L'artigliere si spaventò a morte perchè non pensava che era improbabile venisse fucilato davvero. Nè ci aveva pensato Boka il quale questa volta - e gli accadeva di rado - aveva detto una sciocchezza. Continuando giunse alla trincea. Dentro la fossa erano accovacciati due battaglioni; e Ghereb era tra essi, felice. Boka si mise sullo spalto della trincea. — Ragazzi... — gridò entusiasmato — da voi dipende l'esito della battaglia. Se riuscite a trattenere il nemico fino a che sia finita l'azione di via Maria, la giornata è nostra! Pensateci bene! Un urlo rispose dalla trincea... — Silenzio! — ordinò il generalissimo. E andò nel centro del campo. Ciele lo stava aspettando con la tromba in mano. — Aiutante di campo! — Comandi! — Noi dobbiamo metterci in un punto dal quale possiamo vedere tutta la battaglia. Di solito i generali seguono i combattimenti dall'alto di una collina. Noi possiamo arrampicarci in cima alla casupola. E vi si recarono. II sole brillava sulla trombetta di Ciele e questo dava un aspetto oltremodo marziale all'aiutante di campo. Gli artiglieri delle fortezze se lo indicarono l'un l'altro: — Lo vedi? Ed allora Boka cavò di tasca il binoccolo da teatro che era già stato adoperato durante l'azione dell'Orto Botanico. Se lo appese ad armacollo con una cinghia ed in questo momento non differiva dal grande Napoleone se non per qualche particolare di secondaria importanza. Egli era un comandante d'esercito: questo è certo. Ed aspettava. Per l'esattezza storica bisogna avvertire che dopo sei minuti precisi risuonò lo squillo di una trombetta dalla parte di via Pal. A questo suono i battaglioni cominciarono ad agitarsi. - Vengono! Ma non era che una trombetta estranea. Alcuni momenti dopo le due sentinelle balzarono dallo steccato e si diressero correndo verso la casupola in cima alla quale era il generalissimo. Si soffermarono, salutarono e dissero: — II nemico! — Ai vostri posti! — gridò Boka — Ora si decide il destino del nostro regno! Le due sentinelle corsero ai loro posti, uno dentro la trincea, l'altro fra le truppe di via Maria. Boka puntò il binoccolo e disse piano a Colnai: — Pronto con la tromba! Poi Boka abbassò il binoccolo; era infiammato in volto e disse con voce tremante: — Suona! E il segnale di tromba squillò. Alle porte, alle frontiere del regno, le Camicie Rosse sostarono. Sulle punte inargentate delle loro lancie risplendeva il sole: e le camicie ed i berretti rossi li facevano sembrare diavoletti. Anche le loro trombe suonarono all'assalto e l'aria fu piena di squilli di tromba eccitanti. Colnai soffiava senza tregua, senza cessare. Boka cercò col binoccolo Franco Ats. — Eccolo! E' con quelli di via Pal. Anche Sèbeni è con lui. Ha la nostra bandiera. L'armata di via Pal dovrà sostenere un urto violento. Quei di via Maria erano capitanati dal maggiore dei Pastor. Sventolavano una bandiera rossa. E le trombe squillavano senza tregua. Le Camicie Rosse sostavano sulle porte in ordine serrato. — Preparano qualcosa — disse Boka. Di colpo le trombe delle Camicie Rosse tacquero. L'esercito di via Maria eruppe in un tremendo grido di guerra: — Uja op! Uja op! E si precipitarono attraverso la porta. I nostri fecero mostra di opporsi un istante ma subito dopo scapparono come prescriveva l'ordine di battaglia. — Bravi! — gridò Boka. Poi di colpo guardò verso via Pal. L'armata di Franco Ats non era entrata. Se ne stava immobile davanti alla porticina, aperta. — Che è questo? — Un'insidia! — disse tremante Ciele. E di nuovo guardarono a destra. I nostri correvano e i nemici li inseguivano urlando. Boka che aveva guardato finora intimidito e pensoso la passività dell'armata di Franco Ats, d'un tratto fece quello che non si ricorda avesse mai fatto: buttò per aria il suo berretto e si mise a danzare come impazzito sul tetto della capanna. — Siamo salvi! — gridava. Balzò su Ciele, lo abbracciò, lo baciò. Poi si mise a ballare con lui. L'aiutante non ne capiva nulla. Gli chiese preoccupato: — Che c'è? Che c'è? Boka indicò verso la direzione di Franco Ats. — Non vedi? — Sì. — Ebbene, non capisci? — No! — Che sciocco! Siamo salvi! Abbiamo vinto! Non capisci? — No! — Non vedi che stanno fermi? — Lo vedo! — Non entrano! Aspettano! — Lo vedo! — Ma perchè aspettano? Aspettano che l'armata di Pastor abbia sgomberato il fronte di via Pal. Ed essi attaccano dopo. L'ho capito non appena ho veduto che non attaccavano contemporaneamente! La nostra fortuna è ch'essi abbiano ideato un piano di battaglia eguale al nostro. Hanno pensato di cacciare con l'armata Pastor metà del nostro esercito fuori dalla via Maria e allora l'altra metà sarebbe stata attaccata su due fronti. Ma noi non beviamo! Vieni! E si mise a strisciare giù. — Dove? — Vieni con me. Non c'è più nulla da guardare. Quelli non si muoveranno. Andiamo ad aiutare l'armata di via Maria. L'armata di via Maria eseguiva mirabilmente i propri compiti. Correva su e giù davanti alla segheria, attorno ai gelsi. E per fare i furbi gridavano: — Ahimè! Ahimè! — Siamo perduti! — Siamo finiti! Le Camicie Rosse li inseguivano urlando. Boka stava osservando se riuscissero a farli cadere in trappola. D'un tratto i nostri erano scomparsi dietro la segheria. Metà dell'armata era corsa nella rimessa, l'altra metà nella casupola. Pastor gridò l'ordine: — Inseguiteli! Catturateli! — E i rossi corsero loro dietro. — Tromba! — ordinò Boka. E la tromba segnalò alle fortezze ch'era giunto il momento d'iniziare il bombardamento. E l'urlo di guerra dei ragazzi giunse dalla prime tre fortezze impegnate. Si udirono tonfi sordi: le bombe di sabbia volavano. Boka era rosso in viso e tremava tutto. — Aiutante! — gridò. — Presente! — Corri alla trincea e dì che aspettino. Attacchino soltanto quando io faccio suonare l'assalto. E anche le fortezze di via Pal aspettino! L'aiutante si precipitò giù, ma giunto in prossimità della trincea si mise bocconi e 14 proseguì strisciando perchè il nemico non lo potesse scorgere: comunicò l'ordine sussurrandolo al più vicino e tornò com'era venuto. — Fatto! — comunicò. Dietro la segheria l'aria fremeva di urla. Le Camicie Rosse credevano d'aver vinto. Le tre fortezze bombardavano con intensità e questo impediva loro di dare la scalata alle cataste di legname. Nella fortezza d'angolo, numero tre, Barabas in maniche di Camicia combatteva da leone. Prendeva sempre di mira il maggiore dei Pastor; ed una dopo l'altra le bombe di sabbia scoppiavano sulla sua testa. E ad ogni colpo Barabas esclamava: — Per te, figlio mio! — La sabbia si spargeva sul viso e nella bocca del Pastor che sbuffava furiosamente. — Aspetta che vengo io! — urlò fuori di sè. — Vieni pure! — rispose Barabas. Mirò e tirò. II collo della Camicia Rossa si gonfiò di sabbia. Un grande urrà rispose da tutte le fortezze! — Mangia sabbia! — gridò invasato Barabas; e gettò bombe con entrambe le mani verso il Pastor. E anche gli altri due non dormivano. La fortezza d'angolo lavorava furiosamente. La fanteria era rannicchiata silenziosamente nella rimessa in attesa dell'ordine di marciare all'assalto. Le Camicie Rosse erano già ai piedi delle fortezze e stavano combattendo una dura battaglia. Pastor rinnovò l'ordine: — Su! Scaliamo le fortezze! — Bum! — esclamò Barabas colpendo il capo sul naso. — Bum! — ripeterono le altre fortezze scaraventando una grandinata di sabbia sulla testa dei più arditi avversari. Boka afferrò il braccio di Ciele. — La sabbia comincia ad esaurirsi. Lo vedo di qui. Anche Barabas lavora con un braccio solo sebbene nella fortezza d'angolo le munizioni fossero state triplicate... Il fuoco infatti sembrava rallentare. — E che cosa accadrà? — chiese Colnai. Boka oramai era più calmo. — Vinceremo! Intanto la fortezza numero due aveva sospeso il fuoco. La sabbia doveva essere finita. — Questo è il momento! — gridò Boka — Corri alla rimessa. Bisogna marciare all'assalto! Alla casupola si recò egli stesso: spalancò la porta e gridò: — All'assalto! I due battaglioni si precipitarono fuori contemporaneamente: uno dalla rimessa, l'altro dalla capanna. Giunsero al momento giusto: Pastor stava già arrampicandosi sulla seconda fortezza. Si aggrapparono a lui, lo tirarono giù. Le Camicie Rosse cominciarono a scompligiarsi. Credevano che la truppa fuggita si fosse ritirata dietro le cataste di legname e che queste servissero ad impedire l'avanzata degli inseguitori verso i fuggitivi; ed ecco erano attaccati alle spalle da coloro che poco prima erano scappati. I corrispondenti di guerra più seri dicono che il maggior pericolo della guerra sia lo scompiglio. I generali temono meno cento bocche di cannone che non il minimo turbamento che in pochi minuti provoca un trambusto generale. E se un piccolo scompiglio turba una vera armata con fucili e cannoni, che non poteva fare di alcuni piccoli fanti vestiti di camicia rossa? Non riuscivano a capire. Dapprima non avevano nemmeno compreso che questi erano gli stessi fuggiti poco prima davanti a loro. La credettero una nuova armata di rinforzo. Soltanto dopo averne riconosciuti alcuni compresero di trovarsi di fronte agli stessi. — Da che inferno son venuti fuori? — gridò Pastor mentre due forti braccia lo afferravano per le gambe e lo tiravano giù. Ora anche Boka combatteva. Si era scelta una Camicia Rossa e combatteva. Lottando lo sospingeva verso la capanna. La Camicia Rossa vedendo di non riuscire a spuntarla contro Boka gli diede lo sgambetto. Dalle fortezze partirono grida di protesta: — Vergogna! — Ha dato lo sgambetto! Boka era caduto in seguito allo sgambetto, ma era subito rimbalzato in piedi. — Hai dato lo sgambetto! Questo non è nelle regole! Fece un cenno a Ciele ed in pochi momenti sospinsero la Camicia Rossa dentro la capanna che Boka rinchiuse a chiave. — Ha fatto lo stupido — disse —. Se avesse combattuto lealmente non sarei riuscito a vincerlo. In questo modo è stato lecito attaccarlo in due. E corse di nuovo sulla linea del fuoco dove oramai si lottava a coppie. La poca sabbia rimasta nelle fortezze 1 e 2 veniva adoperata dagli artiglieri per spargerla sul nemico impegnato. Ma le fortezze di via Pal tacevano. Aspettavano. Ciele già aveva affrontato un avversario quando Boka gli ordinò: — Non lottare! Porta l'ordine alle guarnigioni delle fortezze 1 e 2 di portarsi nelle fortezze 4 e 5. Ciele s'infiltrò tra i combattenti e corse a portare gli ordini. Presto dalle due fortezze scomparvero le bandiere perchè i ragazzi le avevano portate con sè nella nuova linea di combattimento. Un grido di vittoria seguiva all'altro. Ma il più forte risuonò quando Pastor, il terribile ed invincibile Pastor fu sollevato di peso da Cionacos e portato verso la capanna. Dopo un istante Pastor percoteva furiosamente il muro della capanna, ma dall'interno! Un urlo tremendo si levò allora: le Camicie Rosse sentivano d'essere perdute. E persero completamente la testa quando il loro capo scomparve di mezzo. Speravano soltanto in Franco Ats che riuscisse a mutare le sorti della battaglia. Una Camicia Rossa dopo l'altra veniva portata nella capanna, tra gridi di vittoria sempre rinnovati, i quali giungevano fino all'armata immobile sulla soglia della porticina di via Pal. Franco Ats che camminava su e giù davanti alla frontiera, disse con sorriso fiero: — Sentite? Presto avremo il segnale! Le Camicie Rosse erano rimaste d'accordo che quando Pastor avesse finita la propria operazione in via Maria avrebbe dato un segnale di tromba e allora Pastor e Franco Ats avrebbero attaccato contemporaneamente. Ma in quel momento il piccolo Vendauer, trombettiere del gruppo Pastor, stava bussando con tutte le forze contro la porta della capanna e la sua tromba piena di sabbia giaceva nella fortezza numero 3 tra il bottino di guerra... Mentre questo accadeva tra la segheria e la capanna, Franco Ats incoraggiava calmo i suoi uomini. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

Ma quando Ghereb ha detto che tra di noi non c'è nessuno che abbia del coraggio, allora ho pensato: aspetta che to lo mostrerò io se tra quelli della via Pal ce n'è che abbiano del coraggio, se non altri Nemeciech, soldato semplice! Eccomi qui, ho sentito tutto, ho preso lo stendardo; eccomi: fate di me quello che volete, picchiatemi, strappatemi lo stendardo perchè da solo non lo consegnerò mai! Su, coraggio! Io sono solo e voi siete dieci! Arrossì, così dicendo, e stese le braccia. In una mano stringeva la piccola bandiera. Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

Ma ti do la mia parola di non essere venuto qui perchè le Camicie Rosse mi abbiano preso in odio. Il motivo è un altro. — E sarebbe? — Non te lo posso dire. Forse verrai a saperlo. Ma guai a me se lo saprai... Il presidente lo guardò a lungo. — Non capisco — disse. — Non lo posso spiegare — balbettò Ghereb. E s'avviò verso la porticina. Qui si fermò di nuovo e disse: — Se ti pregassi di riprendermi...? — Sarebbe inutile. — E allora non ti prego nemmeno! Corse fuori sbattendo la porticina. Boka esitò per un istante: era stato, per la prima volta in vita sua, crudele verso qualcuno. E già si moveva per gridargli: «Torna: ma d'ora in poi comportati bene!» quando ricordò la risata beffarda con la quale Ghereb gli era scappato pochi giorni prima sulla via Pal... — No... — disse — non lo richiamerò. E' un ragazzo cattivo! Si voltò per andare verso le cataste di legname, ma dovette fermarsi sorpreso: in cima alle cataste stavano ritti tutti i ragazzi, tutti, anche quelli che non erano di guarnigione alle fortezze, e tutti erano stati a guardare quel che dovesse accadere tra Boka e Ghereb. E quando Ghereb si fu allontanato e Boka s'avviò verso i cubi di legname, l'agitazione contenuta eruppe e tutta l'armata come un sol uomo si mise a gridare evviva. — Evviva! esclamarono le fresche voci dei ragazzi sulle cataste di legname; e i berretti volavano per aria. — Evviva il presidente! Un tremendo fischio spaccò l'aria, un fischio tagliente quale nemmeno una locomotiva sa produrre, un fischio sonoro e vittorioso. Naturalmente era Cionacos che, guardandosi attorno, disse: — Mai nella vita avevo fischiato così di gusto! Boka se ne stava in mezzo al campo e salutava commosso e felice l'armata. Pensava di nuovo al grande Napoleone che doveva essere amato così dalla sua vecchia guardia. Tutti avevano visto la scena e tutti avevano capito. Non si era sentito quello che i due s'erano detto, ma dai gesti tutti avevano compreso. Boka non aveva stretto la mano a Ghereb, ripeteva il gesto di rifiuto; poi avevan visto Ghereb piangere ed avviarsi. All'ultimo, quando di sulla porticina, s'era voltato un'ultima volta verso Boka, tutti avevano tremato. Lesik aveva mormorato: — Ahi... Ora gli perdona! Ma quando Ghereb se ne fu veramente andato e Boka rimase crollando la testa, il loro entusiasmo proruppe fragoroso. E l'«evviva» salutò il presidente quando questi si volse verso loro. Era piaciuto a tutti che il presidente non si fosse dimostrato bambino, ma vero uomo. Avrebbero voluto baciarlo ed abbacciarlo; ma era tempo di guerra! Non si poteva far altro che gridare, e questo lo facevano a pieni polmoni ed a squarciagola. — Sei un ragazzo in gamba, babbino nostro... — 11 disse Cionacos, fiero; ma si spaventò e corresse subito: — Non babbino, scusi, signor presidente! Ed allora ebbe inizio la manovra. Volavano comandi sonori, le truppe galoppavano tra le cataste, attaccavano le fortezze e le bombe piovevano a destra e a sinistra. Tutto andava a meraviglia. Ognuno eseguiva gli ordini avuti con impegno. E questo moltiplicava l'entusiasmo. — Vinceremo! — era il grido generale. — Li scacceremo! — Cattureremo dei prigionieri! — Prenderemo Franco Ats! Il solo Boka rimase serio. — Non lasciatevi montar la testa dalla superbia — disse —. Il buon umore potrà trovar posto a Battaglia finita. E ora chi vuole, può tornare a casa. Ma vi ripeto: chi domani alla stessa ora non ci sarà, è un traditore! Con questo Ia manovra era finita; ma nessuno aveva voglia di rincasare. Si divisero in gruppi per discutere l'affare Ghereb. Barabas strillava: — Società dello Stucco! Società dello Stucco! — Che vuoi? — gli chiesero i ragazzi. — L'assemblea straordinaria! Colnai si rammentò allora dell'assemblea promessa e davanti alla quale avrebbe dovuto discolparsi dell'accusa d'aver fatto disseccare lo stucco sociale. S'arrese con tristezza. — Ebbene — disse —, facciamo l'assemblea. Invito i signori soci a volersi riunire in disparte. E i signori soci col maligno Barabas in testa, uscirono dalle cataste per tenere la loro riunione presso lo steccato. — Sentiamo! Sentiamo! — gridava Barabas. E Colnai disse ufficiosamente: — La seduta è aperta! Dò corso all'interpellanza del signor Barabas! — Ehm! Ehm! — fece Barabas rischiarandosi la gola — Spettabile assemblea! Il signor presidente è stato fortunato perchè, causa la manovra, quasi veniva rimandata quest'assemblea che deve cacciare il presidente... Interruzioni sorsero dal partito presidenziale. — Per me, potete urlare finchè volete — continuò I'oratore —, so bene quel che dico. Il presidente ha potuto, in grazie alla manovra, rinviare un poco la questione ma ora non la può rinviare più. Perchè ora... S'interruppe. Qualcuno aveva bussato forte alla porticina dello steccato, ed eran momenti questi nei quali ogni bussare allarmava i ragazzi. Non si poteva mai sapere se non fosse il nemico! — Chi è — chiese l'oratore. E tutti furono attenti. Il bussare venne ripetuto con forza ed impazienza. — Bussano alla porticina — disse Colnai con voce tremante; e spiò tra le fessure dello steccato. Poi si rivolse con viso stupìto verso i ragazzi: — E' un signore! — Un signore? — Sì. Un signore con la barba. — Allora apri. La porta si aprì ed entrò un signore ben vestito con un cappotto nero con largo bavero. Aveva una gran barba nera e portava gli occhiali. Si fermò sulla soglia e gridò: — Siete voi i ragazzi della via Pal? — Siamo noi — risposero. L'uomo dagli occhiali si decise allora ad avanzare e li guardò più bonariamente. — Io sono il padre di Ghereb — disse, mentre chiudeva la porticina dietro a sè. A queste parole si fece silenzio: la cosa diventava seria, se anche il padre di Ghereb interveniva! Lesik diede una gomitata a Richter: — Corri a chiamare Boka! Richter corse verso la segheria dove Boka stava appunto raccontando ai ragazzi le gesta di Ghereb. Intanto il signore dalla barba si rivolse alla Società dello Stucco. — Perchè avete espulso mio figlio? Colnai si fece avanti: — Perchè ci ha tradito con le Camicie Rosse! — Cosa sono queste Camicie Rosse? — Sono degli altri ragazzi che vanno a giuocare all'Orto Botanico, ma che ora vogliono prenderci questo campo perchè essi non hanno posto per giuocare alle palle. Questi sono i nostri nemici. — L'uomo dalla barba corrugò la fronte: — Mio figlio è venuto a casa poco fa, piangendo. L'ho interrogato a lungo per sapere cosa avesse, ma non voleva confessare. Finalmente, dopo che io l'ho sgridato severamente, s'è deciso a parlare; ha detto che voi lo accusate di tradimento. Allora io gli ho detto: «Metto il cappello e vado da quei ragazzi. Parlerò loro e saprò quel che ci sia di vero. Se la cosa non è vera, pretenderò che ti chiedano scusa. Ma se la cosa è vera, avrai a che fare con me, perchè tuo padre è stato per tutta la vita una persona onesta e non può tollerare che suo figlio sia il traditore dei propri compagni». Questo gli ho detto. Ed ora sono qui e vi prego di dirmi lealmente ed in coscienza: mio figlio vi ha tradito, sì o no? Su! Si fece un gran silenzio. — Dunque? disse il padre di Ghereb. Non abbiate paura di me. Ditemi la verità. Io devo sapere se avete accusato ingiustamente mio figlio o se merita di essere punito! Nessuno rispose. Nessuno voleva amareggiare quell'uomo col cappotto che sembrava buono ed era così premuroso del carattere di suo figlio. Il signore si rivolse a Colnai: — Tu hai detto che vi aveva traditi. Devi provarmelo. Quando vi ha traditi? In che modo? Colnai balbettava: — L'ho... sentito dire... — Questo conta poco. Chi sa qualcosa di certo? Chi l'ha visto? Chi sa? In questo momento dalle fortezze sbucarono Boka e Nemeciech: Richter li guidava. Colnai respirò liberato: — Scusi — disse —. Ecco, c'è quel biondino... quel Nemeciech... quello l'ha visto. E sa tutto. Aspettarono fin che i due ragazzi furono nelle vicinanze, ma Nemeciech si dirigeva verso la porticina. Colnai gridò loro: — Boka! Venite un po' qui! — Ora non si può — rispose Boka —. Vogliate aspettare. Nemeciech si sente molto male. Ha un attacco di tosse. Bisogna che lo accompagni a casa. L'uomo dal cappotto quando udì il nome di Nemeciech gli chiese: — Sei tu Nemeciech? — Sì... — disse sottovoce il biondino; e si accostò all'uomo barbuto. Questi gli disse severo: — Io sono il padre di Ghereb e sono venuto per sapere se mio figlio è o non è un traditore. I suoi compagni dicono che tu lo sai perchè l'hai veduto. Rispondimi allora in coscienza: è vero o non è vero? Il viso di Nemeciech ardeva di febbre. La malattia lo aveva ghermito. Le tempie gli martellavano; la mano bruciava. E tutt'intorno il mondo gli appariva così strano! Quello zio con la barba che parla con una voce severa come il professore Raz parla agli alunni negligenti... tutti quei ragazzi... la guerra... le sue inquietudini... tutto... e quella domanda che faceva capire che se Ghereb era veramente traditore sarebbero accaduti grossi guai... — Rispondimi! — incalzava l'uomo con la barba — Parla! Rispondi! E' un traditore? E il biondino rispose coraggioso, col viso fiammeggiante di febbre, con gli occhi brillanti di febbre, ma sottovoce come se il colpevole fosse stato lui, rispose: — No! Non è traditore... II padre allora si rivolse minaccioso verso gli altri: — Allora avete mentito voi? La Società dello Stucco era sbalordita. Nessuno fiatava! — Avete detto una bugia, allora? — disse ghignando l'uomo dalla barba. Sapevo bene che mio figlio era un ragazzo onesto! Nemeciech si reggeva appena. Chiese modesto: — Posso andarmene? L'uomo con gli occhiali gli rise sul naso: — Puoi andartene, piccolo «sa-tutto»! E Nemeciech barcollò sulla strada a fianco di Boka. Tutto si confondeva davanti ai suoi occhi. Non distingueva più nulla. Un miscuglio ballava davanti al suo sguardo dove c'erano l'uomo nero, la strada, le cataste di legname e parole strane gli ronzavano all'orecchio «su, alle fortezze», «mio figlio è un traditore?» E l'uomo nero che rideva beffardo allargò una bocca che era la porta della scuola e dalla porta usciva il professore Raz e Nemeciech si tolse il berretto. — Chi saluti? — gli chiese Boka — Non c'è nessuno. — Saluto il professor Raz — disse piano il biondino. E Boka si mise a piangere. Sorresse, trascinò con sè frettolosamente il piccolo amico per la strada che si rabbuiava. Intanto, nel campo, Colnai così parlava all'uomo con gli occhiali: — Scusi, signore, ma quel Nemeciech è il bugiardo. Noi lo abbiamo proclamato traditore ed espulso dalla nostra società. Il padre era felice ed approvava: — Si capisce subito. Ha un viso ipocrita. Ha la coscienza sporca. E tornò lieto a casa per perdonare al figlio. Sull'angolo del viale Ulloi intravide ancora Boka e Nemeciech il quale barcollava lungo il muro, dall'altra parte della strada. Anche Nemeciech stava piangendo, triste, desolato di tutta la desolazione del suo cuore di soldato senza grado, e in questo pianto febbrile ripeteva sempre queste parole sole: — Hanno scritto a lettere minuscole il mio nome... a lettere minuscole il mio nome onesto...

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