Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Come posso mangiar bene?

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Ferraris Tamburini, Giulia 48 occorrenze

I buongustai infatti, digeriscono ottimamente, perchè non si arrendono a immettere nello stomaco cibi triturati antecedentemente in cucina; ma vogliono triturarli essi stessi, con una masticazione vigorosa e prolungata, onde la saliva abbia da rendere il nutrimento più facile e più sollecito alla digestione.

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Tra un commensale e l'altro si mettono alternativamente il sale e il pepe in modo che ciascuno abbia da avere a portata di mano e l'uno e l'altro.

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Nel dare il bagno-maria alle cibarie si faccia attenzione a che l'acqua nel bollire non abbia da allungare, o da guastare le pietanze.

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Imbrigliare un pezzo di carne o un animale mangereccio, vuol dire legarlo convenientemente con fili o spago, perchè durante la cottura non abbia a sformarsi, o a rompersi, o a perdere ripieni, o sughi.

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Legare una salsa significa: mettere uno o più torli d'uova nella salsa che si fa, onde abbia a presentarsi meno liquida, ma più consistente. Quando si lega con le uova si ritira il recipiente dal fuoco, altrimenti le uova, sotto l'azione del calore forte, si incuocerebbero.

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È termine francese che serve a determinare una salsa, che si ottiene facendo sciogliere in una casseruola, collocata su fuoco vivace, un pezzo di burro, al quale si aggiunge un po' di farina, mescolando sempre e sollecitamente col mestolo, perchè abbia da sciogliersi bene senza abbruciarsi e fino a che non abbia acquistato il bel colore, più o meno bruno, desiderato.

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Per servirlo, preparato alla crema, si immerge il broccolo prima nell'acqua fresca, entro la quale si lascia per una buona mezz'ora; poi il fiore si spoglia delle foglie e del torsolo e si avvolge in un pannolino di bucato onde non abbia a rompersi, e, così avvolto, si immerge in acqua bollente salata, entro cui si lascia cuocere da venti a venticinque minuti.

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Mescolate bene ogni cosa, dimenando col mestolo; accertatevi che il composto abbia un sapore equilibrato, e che il grasso non resti a pacchi, ma egualmente distribuito.

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Se la carne va sulla graticola o allo spiedo, ci vuole fuoco vivissimo da prima, perchè non abbia da perdere il sugo; ma una volta riserratisi i tessuti del pezzo di carne per l'azione del calore, si rallenti la forza del fuoco, e si trattenga il pezzo umettato con acqua calda, la quale si distribuisce sulla superficie della carne con un ramoscello di una pianta profumata (ramerino, salvia, ecc.). All'acqua si può sostituire l'olio (se piace), o il brodo. Ma questi due ultimi non sono da consigliarsi, perchè molto facilmente comunicano alla carne un sapore punto aggradevole, che ricorda l'odore nauseante di moccolaja misto all'altro, non meno disamabile, del grasso rancido abbruciato.

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Per arrostire la carne nella casseruola, basta aver cura di annaffiarla di tanto in tanto con cucchiajate di acqua o di brodo, onde non abbia da bruciare o da attaccarsi al fondo, che sarebbe rovinata, e di rivoltarla frequentemente.

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. — Qui cade acconcio dire come si taglia un pezzo così importante di ottima carne, onde abbia a presentarsi in forma agghindata, appetitosa e promettente sulla tavola.

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Fate intiepidire in una casseruola 150 grammi di burro e, un poco per volta, unitelo alla pasta zuccherata di castagne, mescolando sempre e bene, fino a che il composto abbia preso la consistenza di una purea o macco di patate. Assaggiate, per accertarvi delle giuste proporzioni dello zucchero e del burro, poichè l’età e la cottura possono modificare il sapore delle castagne.

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Compiuta l'operazione di riempimento, si comprime il cavolo con bel garbo, onde non si abbia a rompere e si avvolge in un pannolino candido e di tessuto rado; si lega e si ripone in una casseruola piena d'acqua salata bollente, entro la quale si lascia fino a cottura completa.

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Ciò fatto, la purea si distende per lo spessore di un dito in una teglia unta di burro, che si colloca nel forno molto caldo, onde la pasta abbia a rosolare. Al momento di servire si spolverizza con zucchero.

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Preparate un piccolo barile che abbia contenuto vino bianco o aceto, od anche una pentola di terra. Stendete in fondo dell'uno o dell'altra delle foglie di vite coi loro gambi e i viticchi, e foglie e grani di finocchio; salate assai abbondantemente. Stendetevi un suolo di cetrioli sopra. Ricoprite delle medesime foglie e salate; nuovo suolo di cetrioli e così di seguito terminando con le foglie e sale. Versatevi sopra dell'acqua piovana filtrata. Durante una quindicina di giorni visitate ogni due o tre giorni il barile o la pentola, poiché si dovrà produrre una fermentazione. Schiumatela. Perchè la conserva sia riuscita, bisogna che al termine della quindicina l'acqua sia diventata limpidissima e i cetrioli tanto trasparenti da poter contare i semi ch'essi contengono. Dopo, sarà cosa ben fatta, di raggiungere dell'acqua di tempo in tempo.

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Per maturanza, o momento opportuno di mangiare il fagiano, taluni vogliono intendere che l'uccello abbia il ventre verde, prima di essere vuotato; mentre altri vogliono che quel momento sia giunto quando, appeso per la coda.... cade per l'avvenuta decomposizione.

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Avrete cura di fissare questo ripieno in guisa che non abbia a spandersi di fuori. Cosa non facile se l'uccello è un po' avanzato.

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Secchi si racchiudono in un vaso entro il quale l'aria abbia poco giuoco.

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Questi si lessano e la parte verde (il bianco si getta via) si tira a sapore con un po' di burro e dopo aver mescolato un pizzico di parmigiano alle uova, si versa il liquido sugli asparagi, onde la frittata abbia ad assodarsi dalla parte di sotto.

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Quando la frittata avrà fatto presa da una parte, con un piatto rivoltatela e riponetela in padella aggiungendovi un altro pezzetto di burro, onde abbia a cuocersi completamente.

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Al momento di servire cospargetene la superficie con zucchero in polvere alla vainiglia e con un ferro rovente tracciate alcuni leggeri solchi sulla frittata, onde lo zucchero abbia a diventare caramella.

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Ma, perchè questa sorpresa abbia luogo, è indispensabile che il liquido abbia raggiunto il grado di calore necessario, affinchè la sua azione sia improvvisa, momentanea.

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Fate cuocere per quattro ore a piccolo bollore; fate diacciare nell'acqua per un'ora; fate sgocciolare, comprimendo con pesi e strizzando con le mani, onde tutto il liquido, che è penetrato nel tacchino, abbia da sortire.

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Quand'è quasi cotto si toglie il lardo, onde il gallo abbia da prendere il colore. Per servirlo si trincia e s'irrora con il sugo ristretto e passato al setaccio. Si può ornare con una polentina o purea di castagne o di lenti.

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. — L'indivia si mangia cruda in insalata; ma pulita e cotta in acqua salata (si lascia la casseruola scoperta durante l'ebollizione, onde l'indivia abbia da conservare il suo bel colore) e poi, passata al burro, costituisce un piatto di verdura squisito e giovevole alla salute.

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Mescolate bene e non perdete tempo ad anaffiare con un po' di brodo o d'acqua calda, onde la farina non abbia a prendere colore. Aggiungete, poi, circa un bicchiere di panna, sale e pepe e lasciate bollire fino a che la salsa non abbia preso consistenza. Se poi vi piace, potete aggiungere un pizzico di noce moscata in polvere.

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Si abbia cura di non rompere la forma della crema e di versare su questa un po' di zucchero caramellato che si sarà tenuto in precedenza da parte.

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Ricucire con cura il ventre della lepre, onde nulla abbia a sortire; mettere la lepre allo spiedo e farla arrostire a fuoco dolce. Quando la pelle si stacca, toglierla dallo spiedo; togliere tutta la pelle, che le resta, e servirla».

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Con un lungo ago pungete qua e là lo zampone, ricollocatelo in acqua fresca e mettetelo sul fuoco, perchè abbia da bollire per circa sei ore.

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Sola differenza; si dimena con maggiore energia, onde la majonese non abbia a cadere.

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Quando la salsa vi pare ben legata e che abbia raggiunto il volume desiderato, si aggiunge il sale, poco alla volta, e uno spicchio d'aglio battuto minutissimamente, senza però arrestarsi dal dimenare.

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Si mette intanto al fuoco un litro di latte insieme a 120 grammi di zucchero, e quando bolle vi si uniscono le mandorle pestate e 200 grammi di mollica di pane, si lascia cuocere qualche minuto, badando di rimestare sempre, acciò non si abbia di attaccare alla casseruola. Ritirata dal fuoco la casseruola, si lascia raffreddare il contenuto, lo si passa per lo staccio, e vi si uniscono otto torli d'uovo, sei chiare sbattute bene e un poco di cedro tagliato finissimo. Quindi bisogna rimestare a lungo. Finalmente si unge col burro internamente una forma, vi si versa il composto e si fa cuocere a bagno-maria, coprendo la forma con un testo di ferro, su cui sia un po' di fuoco. Quando il budino è già rovesciato nel piatto, vi si versa sopra un zabajone, che si è preparalo a parte. Il budino si serve caldo.

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Queste allora si lavano e si risciacquano a più riprese, fino a tanto che il frutto non abbia perduto il sapore saponaceo, e si mettono in salamoja.

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Si annaffia con acqua, un ramajolo per volta, affinchè non abbia a bollire ristretto, e cioè troppo asciutto; nel qual caso, mentre il riso si sfarina alla superficie, resta duro nel centro. Quand'è quasi cotto, salatelo e ritiratelo dal fuoco quasi asciutto.

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Accertatevi che non abbia macchie sulla pelle, e che sia ben grasso.... altrimenti mangerete poco; che sia, per quanto è possibile, alto di fianchi, spesso, e sopratutto bianco e fresco.

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Un'ora prima di servirlo si pone sopra una graticola oliata, che a sua volta si mette sopra la brace accesa e si sorveglia, perchè il pezzo di pesce non abbia ad annerirsi nè da un lato nè dall'altro.

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Se le scatole sono state chiuse da parecchio tempo, non è improbabile che l'olio, in cui le sardelle sono conservate, abbia disciolto sostanze velenose e che quindi produca disturbi gravi nel nostro organismo.

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Nella cucina, la sogliola (detta impropriamente sfoglia, ch'è invece una pasta) vuol essere ammannita quand'è fresca, benchè abbia bisogno di un po' di frollatura.

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La caldaia si pone su un fornello acceso a carbone di legna o coke, o anche a legna; ma si abbia grande cura di difendere il grasso dal fumo, affinchè non ne pigli il detestabile sapore. Il calore deve essere sufficiente a far bollire il grasso; il quale, dopo una più o meno lunga ebollizione, si liquefa. È completamente fuso quando piglia un bel colore latteo, e durante l'ebollizione forma delle bolle come occhi di pernici. Allora si leva, si versa nei recipienti di conservazione, e quando sia rappreso, si porta in locale fresco.

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. — Si prenda un fusto nuovo che abbia dei cerchi forti, lo si metta in un luogo asciutto. Si prende quindi della crusca, seccata al fuoco; se ne mette in fondo al fusto, e poi vi si pongono sopra alcuni grappoli d'uva; si mette poscia ancora crusca e quindi uva fin che il fusto è pieno. Si chiude ben bene il fusto e lo si tiene in luogo asciutto e fresco. Dopo sei od otto mesi l'uva si troverà ancora fresca ed in perfetto stato.

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Il locale di conservazione abbia una temperatura media di 8 gradi (da 6 a 10 al più), sempre ben netto, asciutto, ma tale che l'igrometro stia fra i 65 e i 170 gradi; o sempre a luce fioca, quasi all'oscuro, perchè la luce ha, come il calore, un'azione nociva sulle sostanze organiche.

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Mettete la pentola al fuoco, onde la carne abbia da bollire almeno per un'ora. Ritirate la pentola dal fuoco, e lasciate raffreddare acqua e carne.

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EH!La vita...(Novelle)

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Le conduco, stavo per dire, a pascolo in tutte le Esposizioni, e ormai sono più conosciuto sotto il titolo di pittore di anitre e di oche, o soltanto di oche - quasi la gente abbia in uggia le povere anitre! - conosciuto più assai che non col mio nome di Filiberto Rocchi. Credi tu forse che questo ridicolo Filiberto mi abbia mai fatto piacere? L'ho annullato così. - Quando penso che mia moglie dovrebbe essere chiamata: la signora Coscia! mi sento correre i brividi per tutta la persona. La invincibile fissazione era questa: - Sua moglie sarebbe chiamata: la signora Coscia! - Ah! Ah! - sbuffava a volte in camera - Certi sconci cognomi andrebbero proibiti per legge! E dire che Alberto Coscia non era solamente un buon giovane, una gentilissima persona, ma pure un giovane colto, a cui l'agiatezza ereditata dal babbo e, più, da uno zio, permettevano di menare quella ch'egli qualificava vita di niente, per significare non occupata in un mestiere, in un negozio, in un'impresa industriale qualunque! - Mangio, dormo, passeggio!... Oh! Esagerava, per modestia, e anche per delusione di non sapere in che modo raggiungere un certo suo mistico ideale. Proprio: mistico! Quel cognome - Coscia! - per ciò gli pareva la disastrosa influenza, il motto cabalistico di iettatura che incombeva su la sua vita. - Tant'è vero - concludeva il pittore delle anitre e delle oche - che uno, quando non ha nessun guaio addosso, va a cercarselo col lumicino, e dei peggiori che avrebbero potuto capitargli! Veramente Alberto Coscia il guaio non se lo era cercato col lumicino; gli era stato apportato dal testamento dello zio, pel quale egli godeva di un largo patrimonio, da usufruttuario, in vista del futuro piccolo Nicola Coscia che sarebbe stato il vero erede, se Alberto si fosse deciso di prender moglie e di metterlo al mondo, e così perpetuare la stirpe dei Coscia, che, in caso diverso, si sarebbe estinta con lui. - Gran disastro! - egli esclamava ironicamente. Ed era ingiusto verso le due generazioni dei suoi che, a furia di onesta attività, di economie, avevano messo insieme una discreta sostanza da permettere a lui, ultimo dei Coscia, di menare una vita senza preoccupazioni di sorta alcuna, e di fare quel che voleva, cioè: niente. Era rimasto solo, libero, a diciotto anni mentre cominciava il suo corso di filosofia e lettere all'Università. Lo aveva scelto tanto per dire: ho una laurea anch'io. Laurea che, infine, non gli imponeva nessun esercizio professionale, come quelle di avvocato, di medico, di farmacista. Permetteva, tutt'al più, di concorrere a una cattedra di Ginnasio, di Liceo e, tardi, anche di Università. Le tre, le cinque mila lire all'anno, che essa aavrebbero??? potuto fruttargli, le aveva già, senza grattacapi, dalle rendite del suo patrimonio; e, se gli fosse piaciuto, non gli sarebbe stato difficile di duplicarle, di triplicarle con oculate speculazioni. Ma, a quale scopo? La Natura gli aveva dato un'anima gentile, la filosofia - sembra strano - gliel'aveva ridotta fantastica. Giacché, ottenuta la laurea, egli aveva continuato ad occuparsi di filosofia, volendo foggiarsi una vita razionale, elevata, conforme alle grandi leggi dello Spirito - con l'esse maiuscola, come lo canzonava il terribile Filiberto Rocchi che gli voleva bene disinteressatamente. E intanto, egli, che avrebbe potuto cavarsi cento piccoli capricci, e godere la giovinezza meglio di qualunque altro, viveva quasi da eremita, ridòttosi al terzo piano della vasta casa dov'era nato, per non aver disturbi dagli inquilini, sui quali poi non voleva far pesare l'incubo della sua presenza di padrone di casa. - Vita razionale, elevata, conforme alle grandi leggi dello Spirito! - Quale? - gli domandava Filiberto Rocchi suo amico d'infanzia, che andava spesso a trovarlo, o a scovarlo, come soleva dir lui, in quel silenzioso terzo piano elegante e severo, quale si conveniva a filosofo giovane, ma proprietario, cosa che ai filosofi accadeva di rado. - Quale? - ripeteva Alberto Coscia - Quasi io lo sapessi! Studio, cerco: qualcosa di assolutamente diverso dalla stupida vita attuale. - La chiami stupida perché l'hai appena assaggiata, da studente. Poi, quel can barbone del tuo professore di filosofia ti ha guastato la testa; e si può dire che ti sei chiuso in quest'eremo... Ah! Te lo invidio! Me ne farei uno studio principesco sco, e forse non dipingerei più anitre ed oche, ma animali più nobili, se ce ne sono... Ti sei chiuso in quest'eremo a ringrullirti dietro l'Ideale! L'Ideale, caro mio, è la realtà che si tocca e si mangia e si beve; è la piena soddisfazione dei sensi tutti, con le grandi impressioni dello spettacolo della Natura, della musica, delle altre arti, comprese le mie anitre e le mie oche, che tu avresti dovuto comprare per avere qui, nel tuo studio, una sensazione di colore passata a traverso il cervello di un tuo amico. L'ideale è la donna amata e posseduta, in qualunque maniera - non scandalizzarti perché il tuo Spirito non ha mai detto se si deve amare così e così o cosà e cosà. - L'ha detto: - Per bocca di chi? Di quel can barbone del tuo professore di filosofia? E a lui perché non gli ha detto che non prender moglie e far funzionare da moglie quella povera contadina della sua serva, non è precisamente l'Ideale? - Chi lo sa? L'Ideale è così infinito, che ognuno può appropriarsene una parte e adattarlo ai bisogni del suo organismo, del suo intelletto. - E allora? Tagliatene una gran fetta per te, e vivi la vita vera, la vita vivente; scusa se mi esprimo male. Mi ispiri pietà. Ti voglio tanto bene, che non so che farei per vederti commettere un magnifico sproposito, di quelli che permettono di assaporare l'esistenza e lasciano indolcita la bocca per un gran pezzo. Ah, se Alberto avesse avuto il coraggio di rivelare al suo amico quel che teneva chiuso, sprofondato, da quasi cinque anni, in fondo al cuore! Ma Alberto era un gran timido, e nessuno se n'era mai accorto; il Rocchi meno di tutti, forse perché lui, di carattere impronto, noni poteva affatto capire che si potesse esser timidi fino a quell'eccesso. Aveva notato, è vero, da qualche tempo in qua che la corsa di Alberto a l'inseguimento dell'Ideale non era più, come prima, una specie di sport, sport,con lunghe intermittenze di riposo e di ristoro; ma continua, celere e, in certi giorni, quasi affannosa. E questo gli sembrava buon segno, da un lato. Dall'altro però gli faceva sospettare che Alberto gli nascondesse qualcosa, un segreto doloroso, del quale avrebbe voluto sbarazzarsi, e non ne trovava la via. Di tratto in tratto, con quella sua sarcastica imperturbabilità, il Rocchi lo interrogava: - Quanti chilometri abbiamo filato in questi giorni verso l'Ideale? Parecchi, credo: mi sembri un po' stanco. Rocchi fu stupito, una mattina, di sentirsi rispondere: - Non ne posso più! O sono un imbecille, o sono un pazzo, o sono in via di diventare qualcosa di peggio dell'uno o dell'altro. Cominci ad accorgertene ora? - Meglio tardi che mai! - Me ne rallegro sinceramente con te. E.... si può sapere di che si tratta? - Si tratta... che l'intelligenza è il peggior dono che ci sia stato fatto dalla Natura, da Dio, da non sappiamo chi. - Il can barbone del tuo professore di filosofia dovrebbe saperlo. Lo chiamava così per la straordinaria somiglianza della testa di lui con quella di un cane di questa razza. - Ma, più precisamente, di che si tratta, se è lecito domandarlo? - insistè Rocchi. - Sono nel bivio, o di rinunciare alla vistosa eredità di mio zio e ridurmi quasi povero, o prender in moglie, per forza, la prima femmina che càpita, ed essere infelice per tutta la vita. - Senti: prender in moglie la prima femmina che càpita non è poi, come tu immagini, una idea cattiva. Con le donne non si sa mai! Indovinala grillo! Ma che c'entra qui l'eredità di tuo zio? - Tu non sai! Fra cinque mesi io compio tren t'anni. E il testamento di mio zio dice che se al trentesimo anno non avrò ancora preso moglie, il suo patrimonio va interamente devoluto alla Congregazione di carità.... - E tu, per far dispetto a cotesto tuo zio nell'inferno dove si trova - giacché uno che commette l'infamia di un tal testamento dev'essere con certezza all'inferno - tu, per fargli dispetto, prendila sùbito, la prima femmina che ti capita tra' piedi. Forse avrai la fortuna di sposare la migliore delle mogli possibili. Il caso spesso... Vincere un terno al lotto è meno difficile di trovare una buona moglie. Non dire che sono pessimista. Ho l'esempio di mio padre. Mio padre era un gran originale.... - Lascia stare le storielle! - No, questa è opportuna, ed ha il rarissimo pregio di esser vera. Mio padre era rimasto scapolo fino a quarantacinque anni. Bellissimo - non badare a me, non gli somiglio punto - aveva avuto una giovinezza avventurosa, in tutti i sensi. - Una notte - raccontava spesso - misi senno tutt'a un tratto (non sapeva spiegarselo nemmen lui) e prima che spuntasse l'alba avevo già deliberato: sposerò la donna che passerà davanti alla mia porta allo spuntar del sole. Attesi. Passò una donnina che andava a messa. Non era giovane, non era bella, era anche gobbetta. Ma non esitai. E fu la mia fortuna. Mia madre infatti è stata una santa. Con questo non intendo di affermare che il caso sia sempre così benigno. - - Ma io amo, da cinque anni, una creatura divina! - Sposala dunque: che aspetti? - Lei non sa niente! - Faglielo sapere; ci vuole tanto poco! Se occorre un messaggero... Non ho mai fatto questo mestiere; ma per te son pronto a tutto. L'aveva vista a una fiera di beneficenza. Bionda, alta, snella, con certi occhi sognanti.... indimenticabili; voce soavissima, musicale... indimenticabile; e una lieve andatura di tutta la persona quasi sfiorasse il terreno coi piedi.... indimenticabile! Infatti non aveva dimenticato nulla di quanto potè osservare quella sera, l'unica volta che aveva avuto l'occasione di starle vicino, confuso tra la folla, pauroso di farsi scorgere, bevendosela tutta con gli occhi, e sentendosi ristorare l'anima e il cuore proprio come un assetato che riesca ad accostar le labbra a una limpida e fresca fonte. Un altro, dopo otto giorni di attivissimo fantasticamento, avrebbe preso disperatamente la risoluzione di avvicinare, a ogni costo, quella signorina, di farle sapere l'opera di sconvolgimento prodotta dalla sola vista di lei in un povero cuore. La risposta non avrebbe potuto esser dubbia se la signorina era libera di scegliere; ma egli si sentiva così indegno della felicità di possedere quel tesoro da rassegnarsi anticipatamente a un possibile rifiuto. Voleva almeno non meritarlo. E fece questo calcolo: - La Divina - non la chiamava altrimenti ha poco più di sedici anni: io ne ho ventidue. In tre, quattro anni, potrò fare lo sforzo di rendermi non del tutto indegno di lei, spiritualmente, non fosse altro; giacché non abbiamo nessun potere di modificare il corpo e le sembianze ricevuti nascendo. C'è l'azzurro del cielo nei suoi occhi; c'è la più paradisiaca melodia nella sua voce; m'ispirerò ad essi per arrivare a penetrare, ad intendere il cuore e l'anima della Divina e conformare ogni mio sentimento, ogni mio pensiero, ogni mio atto alla benefica ispirazione che mi verrà da lei. E per ciò si era quasi segregato dalla società, tutto intento a quell'opera di purificazione che lo esaltava ogni giorno più, come più credeva che essa servisse ad accostarlo a lei. C'erano ore e spesso giornate, nelle quali il suo misticismo filosofico gli faceva immaginare che certi influssi, certe correnti sprigionate dalla sua volontà dovessero arrivare fino a lei, farle, vagamente, sentire che qualcuno, da lontano, le stava attorno, in una specie di adorazione continua; e, forse, farle anche indovinare chi fosse; perché, certamente, ella avea dovuto notare gli sguardi dello sconosciuto che, tra la folla, la sera della Fiera di beneficenza non aveva cessato un sol momento di fissarla con avida ammirazione. Poi, tutt'a un tratto, il bel sogno del suo Ideale gli crollava davanti alla maligna insinuazione parsagli suggerita da qualche spirito irrisore: - E la tua Divina dovrà venir chiamata: signora Coscia?... Signora Coscia! Una mazzata sul capo gli avrebbe fatta minore impressione. Corse dal suo avvocato: - Vorrei mutar cognome. - Occorre un decreto reale, ma c'è un ostacolo. - ....? - Il testamento di suo zio. Appena lei diventasse mettiamo il signor Alberto Manzoni - scegliamo un cognome illustre - la Congregazione di carità vorrebbe sùbito mettersi in possesso del patrimonio che non servirebbe più a continuare la stirpe dei Coscia. Non ci ha pensato? Fece e rifece parecchi calcoli. - Che mai poteva rimanergli, se avesse rinunziato alla maledetta eredità dello zio? Poco, assai poco! Suo padre era stato uno sciupone sbadato. Fin la casa era inclusa in quella eredità! Lui, come lui, avrebbe fatto il sacrifizio a occhi chiusi: ma avrebbe poi potuto pretendere dalla Divina: - Vieni a condividere la mia povertà, se ti sembra che il mio amore valga qualcosa? - Lei e i parenti gli avrebbero riso in faccia! Fu appunto in una di quelle terribili giornate di angoscia che gli scappò detto al Rocchi: - Non ne posso più! O sono un imbecille o sono un pazzo! Il Rocchi, che gli voleva veramente bene, allora si credette in dovere d'insistere. E quando potè strappargli, a poco a poco, una mezza confessione, lo prese per le mani, e guardandolo negli occhi, gli disse: - Ma è possibile che tu sia fanciullo fino a questo punto? E la filosofia a che giova dunque? Non capisco perché Coscia ti debba sembrare cognome indecente. E tutti i Bocca, i Bracci, i Nasi, i Denti, i Gamba, i Panza, dei quali è popolato lo Stato civile? Hai dimenticato quel nostro collega di Università che si chiamava.... No no. Con quel cognome, quantunque un po' modificato, una signora avrebbe dovuto arrossire di sentirsi nominata... Eppure.... Via! via! Io credo che la tua Divina, se non è una sciocca, se è ancora libera... - Si? Tanto meglio! - dovrà dichiararsi felice di poter chiamarsi Coscia; siine certo, fanciullo mio:! Alberto sentiva lo sbalordimento di chi vien destato improvvisamente nel meglio del sonno e di un sogno. La semplice ipotesi espressa dal Rocchi, che la Divina potesse adattarsi a quel cognome, gli annebbiava nella mente la bionda figura snella, dagli occhi sognanti! Rocchi poi fu più feroce riguardo alla rinunzia della eredità. - Caro mio, l'amore, l'Ideale, ne convengo, sono bellissime cose, ma ti lasciano morire di fame, se non hai altro con cui rimediare. L'amore, disgraziatamente, non è eterno; l'Ideale si trasforma, tramonta, e non somiglia al sole che rispunta la mattina dopo. Se la filosofia non insegna questo, che.... filosofia è? Il can barbone del tuo professore, quello ah! la sa lunga. Filosofo su la cattedra, nei libri - Ne ha scritti?- Non lo so; - ma nella vita è uomo pratico. Impara dunque da lui. Credi a me; non c'è donna al mondo che valga trecento mila lire, quando esse sono tutto quel che un galantuomo possiede. E poi, l'Ideale te lo sei goduto cinque anni; dovresti già esserne sazio; sei ingordo, intendi? Come sono contento di aver potuto finalmente penetrare il mistero! Ma sai che sei stato davvero a tocca e non tocca con la pazzia? Ora, lesto, richiesta, fidanzamento, nozze.... con fulminea rapidità. Figurati se quelli della Congregazione non stanno con tanto d'occhi aperti, contando i giorni, le ore, i minuti! Mi ero profferto, ma riconosco che non sono l'uomo più adatto per un messaggio matrimoniale. Il tuo avvocato è persona savia, garbata; quel che ci vuole. E non aver quest'aria sbalordita! O scendo giù, nella via, prendo per mano la prima signorina che passa, e te la conduco qui; Ecco tua moglie! - E se accetta... di chiamarsi...? E se non accetta? Tre giorni di terribili ansietà. Anche l'avvocato gli aveva detto ridendo: - Andiamo! Un uomo come lei si preoccupa di queste sciocchezze? Ma per lui era tuttavia cosa suprema che l'Ideale, la Divina rigettasse sdegnosamente di essere profanata da quel vilissimo cognome. E non volle, non seppe attendere; gli parve che, in ogni caso, gli era già venuta meno ogni ragione di vivere. La palla del suo revolver fu però più intelligente di lui; non lo ammazzò. Quando, dopo due mesi di alternativa tra vita e morte, egli entrò in convalescenza, Rocchi, che lo aveva assistito notte e giorno da infermiere affettuosissimo, fu felice di sentirlo esclamare: - Com'è bella la vita anche... quando è cattiva! Alberto Coscia si alzò da letto già guarito dalla ferita al fianco, e dalla malattia dell'Ideale. Il tentativo del suicidio, aveva impedito all'avvocato di eseguire l'incarico avuto; e proprio in quei giorni la bionda creatura dagli occhi sognanti si lasciava rapire da un galante hauffeur. hauffeur.Alberto non ne fu scosso. Disse soltanto: - Infine, non è gran male l'aver sognato tanti anni! Il giorno delle sue nozze con una buona e modesta signorina propostagli dall'avvocato, Rocchi fece all'amico il regalo di un simbolico quadro: L'Ideale. Dalla cresta d'un caminetto che si scorgeva appena, in basso, salivano larghe ondate di denso fumo che dileguavano disperdendosi in fondo, lontano, su la vasta campagna illuminata dal sole.

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Non s'è mai dato il caso che io le abbia detto: Questo no! Ed è stato forse il mio torto! - Non vi pentite di essere stato buono! - Cinque anni! Notte e giorno! Come se fosse rimasta sempre quella davanti a me, bella sorridente, allegra, con la parola pronta, vivace.... E dovevo cacciarla via dicendole la parola più brutale.... per poter chiudere gli occhi al sonno, stanca, sfinito, quasi avessi fatto un opprimente lavoro col pensare a lei tutta la giornata e parte della nottata! Nè il sonno era riposo, ma sogno agitato. Notte per notte la povera mamma: - Te lo dicevo? Te lo dicevo? - Perché non mi lascia in pace neppure mia madre?... Ed ora lei viene a raccontarmi.... Io non so più perché campo: odio me, odio gli altri!... Il cancro se la rode viva viva? Felice lei! Ne avrà per poco. - Deve morire disperata? Almeno isolarla in una casetta, darle una di quelle infermiere che sono sostenute nel loro ufficio dall'alto sentimento religioso nella cura delle malattie più repugnanti; rendere meno penosi questi ultimi mesi di vita, perché mi è stato scritto che il male è rapidamente inesorabile. Pure bisogna fare quel che si può.... Ma, prima di tutto, perdonare. - Mi chiamano:l'" omo selvaggio". Non voglio smentirli! Pietro La Rocca si era lasciato ricadere di peso su la seggiola da cui si era rizzato cominciando a sfogarsi: Ah, signor parroco! Era pallido come un morto, curvo e si torceva le mani mentre cominciavano a sgorgargli dagli occhi due rivoletti di lacrime che s'infiltravano tra i peli dell'ispida barba, senza ch'egli facesse niente per arrestarle o un gesto per asciugarle. - Siate forte!... Lasciatevi vincere dal vostro gran buon cuore. Voi soffrite pel divieto che v'imponete di non fare il bene.... Volete che vi aiuti?... Volete? - No! E mentre egli, scattato in piedi, tentava di ricomporsi, di far sparire dal viso le traccie delle lacrime, il parroco gli diceva: - Ricorrerò alla carità dei benefattori che non si rifiutano di aiutare il prossimo, qualunque esso sia. Dirò: per la moglie di Pietro La Rocca! - La moglie di Pietro La Rocca - egli rispose, parlando come un trasognato - non ha bisogno della carità di nessuno!... Ha la sua casa... ha una stanza, un letto dove potrà morire in pace.... - E il vostro perdono, sopratutto. - Di notte. Non deve vederla nessuno. La riceverà lei. Venga accompagnata dalla suora infermiera: c'è una cameretta anche per essa.... La malata aveva pregato insistentemente ch'egli non cercasse di vederla. - Vi farebbe molto male - gli aveva detto la suora. - Farebbe male pure alla disgraziata. Sembra che il cancro abbia furore di divorarsela presto. Pietro La Rocca non dovette fare molti sforzi per non cedere alla triste curiosità di vedere come la sua Caterina era ridotta. Voleva conservarsi intatta nella memoria la bella, fresca figura di lei, quale gli era rimasta cinque anni in fondo al cuore, incessantemente adorata e maledetta, più adorata che maledetta, e senza che qualcuno lo avesse mai sospettato. La pianse morta, la fece seppellire come se non fosse stata moglie infedele. Per alcuni mesi mandò fiori a quella tomba su la lapide della quale aveva fatto incidere soltanto il nome di lei da ragazza, e poi.... Egli credette che fosse stato un miracolo operato dalla sua mamma. La sognò per l'ultima volta, quasi fosse venuta a dirgli addio!... E poi, lentamente, una gran pace discendeva a invaderlo: il passato sembrava allontanarsi, allontanarsi, dileguare nell'ombra; ed egli si lasciava vivere alla giornata; in apparenza, ancora "omo selvaggio", domandandosi ad intervalli: - Perché campo? Perché campo?

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