Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247483
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Dicevano che Terzi avesse abbandonato dall'ottobre Emilia Tromba e che costei gli avesse già dato un successore nel marchese di Rivadedro, un vecchio viveur a cui la ricchezza, una terza ricchezza, dopo due altre che ne aveva divorate, era giunta troppo tardi. Uno dei due, certo, doveva essere Ferdinando Terzi che andava sempre con Sanframondi e con Althan; forse discutevano fra loro di quel suicidio che colpiva tutta la loro classe e forse uno dei loro amici. Non osò, Carmela Minino, aspettando quell'ultimo atto dell'Aida che non veniva più, cercare di Concetta Giura per farle, anche indirettamente, quella domanda, nè costei si vide più. Aveva promesso di venire a dare notizie, ma non doveva aver saputo altro, poichè col suo gusto dei pettegolezzi, sarebbe corsa subito. Malgrado l'inquietezza sorda che le dava un tremolio interno, Carmela Minino non si mosse; quell'agitazione veniva, certo, dal suo mal di capo che ora si trasformava in trafitture nervose, nel cervello. Soffriva. Taceva, non dicendo mai ad alcuno le sue sofferenze fisiche e morali, timida anche fra le persone del suo sesso, fra le compagne di lavoro. Finalmente, questo tanto atteso ultimo atto della Aida venne. Le ballerine macchinalmente, ricominciarono a muoversi, a riaggiustarsi un nastro al collo, a sollevare le loro gonnelle di velo, a stirare sulla persona i loro bustini di stoffa d'oro. La scena, nell'ultimo atto dell'Aida, per chi non lo rammenta, è divisa in due piani: nel primo, basso, è la cripta, è il sotterraneo ieratico dove è seppellito, vivo, il traditore della patria Radames: nel secondo piano, è il tempio di Ftha, coi sacerdoti, coi ieroduli che finiscono di murare la pietra sepolcrale, con le danzatrici sacre che intessono intorno all'idolo, fra le colonne basse e tozze dell'architettura egiziana, le loro danze leggiere. Poi mentre Radames e Aida, che si sono ritrovati nell'oscura cripta, cantano il loro addio alla vita, alla terra, vedendo nel loro delirio di amore e di morte schiudersi il cielo, mentre ancora le ballerine scivolano lievi nei veli violetti, fra le arcate del tempio, Amneris appare velata di nero, piangente, si inginocchia sulla pietra sacra, la bacia, vi depone un fiore e vi resta ginocchioni a pregare. Le ballerine per fare quest'ultima piccola danza, sulla mistica musica che inneggia a Ftha, erano uscite metà da una quinta, metà dall'altra parte e poi si dovevano riunire, disciogliere novellamente, per poi formare quattro gruppi immobili. Concetta Giura, con le altre nove, uscì dalla quinta a sinistra dello spettatore: Carmela Minino dalla quinta a destra, danzando i due gruppi con pose molli orientali. Nell'ultimo, in cui Concetta e Carmela furono vicine, Concetta le disse con voce alterata: - Non lo crederesti, non lo crederesti chi è che si è ucciso! - Chi? - balbettò Carmela. L'altra non giunse a rispondere, perchè il ritorno del ballo le divise, per cinque o sei minuti: poi, come la musica diventava più incalzante e il ballo meglio le mescolava, Concetta Giura disse a Carmela Minino: - Si è ucciso Ferdinando Terzi, con un colpo di rivoltella al cuore. Carmela Minino, di botto, si fermò dal ballare. Vacillando, si arretrò verso il fondo, appoggiandosi a una di quelle colonne tinte di legno e cartone; era confusa fra le comparse, vestite da sacerdoti di L'ha, in abiti talari di dubbia bianchezza, con certe lunghe barbe bianche, abbastanza ingiallite. Non vedendola ballare, addossata alla colonna, con una mano che si reggeva la fronte, una di quelle comparse le chiese: - Che avete? Vi sentite male, signorina? Ella guardò in faccia quell' uomo, senza rispondergli. Non lo aveva compreso, come non comprendeva più dove si trovasse, con quei gridi dei cantanti, con quel rumorio sordo dell'orchestra, con quella sala zeppa di spettatori estatici e che ella vedeva avvolti in una nebbia, con quegli uomini fermi, travestiti bizzarramente, fra cui ella era, con quelle donne vestite similmente a lei e che continuavano a ballare, voltandosi, ogni tanto, a darle un'occhiata indagatrice e, in fondo, indifferente. Le parve che qualche cosa la tenesse inchiodata, lì, contro quella colonna, qualche ritorta di ferro che ella non potesse giungere a spezzare: si sentì avvinghiata coi piedi calzati di seta a quel palcoscenico di legno, con la persona stretta a quel legno e a quella carta-pesta che fingeva il granito del tempio egiziano: e le pareva di fare sforzi enormi per di vincolarsi, per infrangere quelle catene, per fuggir via, senza riuscirvi, spasimando di dolore muto. Poi, la silenziosa angoscia divenne più intensa, più profonda: la sua volontà si tese come se ella volesse fare in due una sbarra di ferro, e si sentì libera, ad un tratto. Uscì da quel palcoscenico, mentre le ultime battute della musica risonavano, mentre le ballerine davano gli ultimi passetti danzanti intorno alle colonne, mentre il canto degli amanti moribondi languiva nel sotterraneo e Amneris, inginocchiata sotto le gramaglie, levava le braccia disperate al cielo. Carmela Minino fuggì verso il camerone, dove si dovevano spogliare e rivestire lei e le sue compagne, furiosamente cominciò a strapparsi dai capelli l'ibis di metallo che fingeva oro, a sciugersi il corsaletto di seta a fili d'oro, con le mani tremanti che strappavano tutto, che rompevano tutto. In tumulto le ballerine rientravano, parlando di quel suicidio, gridando, dandosi sulla voce, contraddicendosi, ripetendo quello che già circolava in tutto il teatro, in tutto il palcoscenico, disputando, quasi venendo alle mani. - Si è ucciso alle otto! - Nossignora, alle dieci... - Si è ucciso a casa sua... - Ma che casa e casa! Non era rientrato a casa da ventiquattr'ore... - Lo credevano partito. - Aveva detto che andava a Roma. - Si è ucciso in un albergo. - Al Grand Hôtel, al Grand Hôtel! - Niente affatto, all'Hôtel Royal. - Che state dicendo? Quanto siete bestie! Si è ucciso all'albergo Suisse, a via Molo. - Un signore come lui, in quell'albergaccio! - Se vi dico che è al Royal! - Al Suisse, al Suisse! Non aveva che cinque lire, pare, addosso. - Ma non si è mica ucciso per debiti, Ferdinando Terzi. - Per amori, per amore! - Che peccato! un così bel giovane! - Bellissimo giovane, mi piaceva molto. Ci avrei fatto all'amore volentieri. - Ora è morto, è morto. - Non mi piaceva, a me: era troppo superbo. - Ed Emilia Tromba, che dirà Emilia Tromba - Che glie ne importa? Quella ha già un altro. Quella non ha mai amato nessuno, nel mondo. - Salvo quel cocchiere, con cui fece la prima sciocchezza. - Un cocchiere? Un cocchiere? Ed era arrivata a Ferdinando Terzi? - Sì: e glie ne ha mangiati denari! Anche lei sarà stata causa della sua morte. - Si è ucciso per quella signora, lo sapete... - Chi, signora? Chi, signora? - La contessa di Miradois... - La contessa di Miradois, sì, sì... Carmela Minino, senza neppure voltarsi contro la porta, come faceva, ogni volta, per pudore, quando si tirava via la maglia di seta e restava ignuda, un momento, ora si era spogliata, e si rivestiva, gittando via tutto da sè, afferrando alla rinfusa i suoi abiti di città, adattandoseli addosso alla meglio, con le mani così tremanti che non potevano annodare i nastri, agganciare i ganci, passare i bottoni negli occhielli. Ella ascoltava tutto, a occhi bassi, a bocca stretta, con una espressione feroce di collera nel viso. E vedendola vestirsi da città, ella che, come loro, doveva ballare fra mezz'ora nella Coppelia, due o tre di esse si meravigliarono. - Che fai? Ti sei scordata che devi ballare nella Coppelia? - le chiese sogghignando Filomena Scoppa. Carmela Minino la guardò, senza rispondere, e s' infilò la giacchetta. - Te ne vai? Te ne vai? - disse Rosina Musto. - Non ti senti bene? Carmela Minino si metteva il cappello, pungendosi con gli spilloni che lo dovevan tener fermo sulla testa. Non rispose neppure a Rosina Musto, prese il suo paio di guanti, la sua borsetta, si guardò attorno, con occhio bieco e senza salutare, senza rispondere una sola parola, uscì dal camerone. - Ma che ha? Che è successo? - Chi sa? - Sembra una pazza, da qualche tempo. Carmela Minino si urtò con varie persone, mentre con passo rapido e deciso attraversava il corridoio umido e lubrico, che conduce alla porticina del teatro: ma non vide e non sentì. nulla. Solo innanzi alla porticina vi erano due o tre gentiluomini che, malgrado il freddo, stavano lì, chiacchierando, coi baveri delle pelliccie alzati. Qualche lembo di frase le giunse: - Morto da tre ore... - La famiglia non è stata avvertita... - Non vi può essere funzione religiosa... Carmela Minino fu colpita in volto dal soffio rigidissimo della tramontana, ma non lo senti. Si era strofinata ruvidamente il volto con l'asciugamano, per togliersi il rossetto e il bianchetto, volendo riprendere il suo viso di ogni giorno: e le guance le bruciavano. Uscita sotto il porticato di San Carlo, guardò a destra e a sinistra, se vedeva una carrozza. E in quel punto le si presentò avanti Don Gabriele Scognamiglio, tutto chiuso nella sua ricca pelliccia di lontra, con la sua, bella barba bianca profumata, col suo bastone d'ebano col pomo di argento cesellato, la sua faccia di vecchio gaudente, egoista e sorridente. Ella ebbe un movimento palese di ribrezzo, arretrandosi. - Dove vai, bella mia? - le chiese il vecchio, non accorgendosi di nulla. Ella aveva fatto cenno a una vettura da nolo, aperta, che si accostava: e si accingeva a salire. - Ma si può sapere dove vai, così? - domandò imperiosamente, col tono del padrone, Don Gabriele. Ella, già salita in carrozza, a denti stretti, a voce bassa, gli rispose: - Dove mi pare. - Ah! - esclamò ironicamente Don Gabriele. - Di già, E quando ci vediamo? - Mai più - ella disse, con voce sorda, piena di sdegno invincibile, mentre la carrozza voltava, avviandosi verso la strada di Chiaia. Don Gabriele crollò le spalle e rientrò in teatro. Quando giunse al Grand Hôtel, quasi alla fine di via Caracciolo, la carrozza da nolo che conduceva Carmela Minino, erano le dodici meno un quarto. Ci aveva messo meno di dieci minuti, da San Carlo, mentre la via lunga; ma il cocchiere, intirizzito dal, vento gelato di tramontana, aveva bastonato a morte il suo cavallo, giacchè la signora, da dentro, gli diceva di far presto, di correre, di correre, perchè gli avrebbe dato quel che voleva. Ella non sembrava aver freddo, la signora, poichè non aveva neppure rialzato il bavero della sua giacchetta e guardava continuamente di qua e di là, la Villa Nazionale tutta bruna nella notte nera, e il mare nero che batteva sinistramente contro la banchina. La carrozzella girò attorno al giardinetto, che è davanti al grande portone del Grand Hôtel e Carmela Minino discese precipitosamente. Il portone del magnifico albergo era ancora aperto, poichè si aspettavano dei forestieri che dovevano arrivare col treno di mezzanotte da Roma e altri che erano in teatro; il maestoso guardaportone andava e veniva, col berretto gallonato d'oro sugli occhi; Carmela andò a lui, direttamente. - Scusate - disse, guardandolo negli occhi - è qui che si è ucciso un gentiluomo - Che dite? Che volete dire, signora? - borbottò il portiere, stupito dalla domanda. - Vorrei sapere se è qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande - ripetette ella, chiaramente. Colui la guardò un minuto, come avesse da far con una matta; poi soggiunse, gentilmente: - Nossiguora. Qui non si è ucciso nessuno. Ella restò, indecisa, guardandolo ancora fissamente, come se volesse strappargli una parola più sicura. - Ditemi la verità... - mormorò con voce tremula. - Ditemelo, vorrei saperlo... Se è qui, ditemelo... Era così smarrita, adesso, che il portinaio comprese qualche cosa e le disse, con una certa dolcezza: - Persuadetevi, signora, che questo gentiluomo non si è ucciso qui. - Allora, scusate. Buona notte, grazie, buona notte. Il portiere la vide allontanarsi con passo risoluto, nell'ombra, risalire in carrozza, dopo aver detto due parole al cocchiere. E la carrozzella riprese a correre, sgangheratamente, per via Caracciolo, perfettamente deserta, fra il tetro mare che rotolava le sue onde, rotte al soffio della tramontana, o gli alberi bruni e brulli della Villa Nazionale. - Corri, corri, per amor di Dio - pregava la donna di dentro, al cocchiere. Costui si era convinto, oramai, che si trattava di una cosa grave, di una disgrazia, forse, e, ogni tanto, dava un'occhiata di curiosità e di compassione alla donna, che fremeva d'impazienza, in quella notte freddissima d'inverno, e che girava di albergo in albergo, in cerca di qualcuno. Fermarono in via Chiatamone, innanzi all'Hôtel Royal, di cui allora allora si andavano chiudendo le porte: non vi era neppure più il portiere, vi era il facchino che veglia la notte, dormendo sovra uno stramazzo nel peristilio dell'albergo. Carmela Minino fece a lui, per la seconda volta, la singolare tragica domanda. Quel facchino era un napoletano. La guardò con un sorriso ironico, e le disse: - Figliuola mia, vi hanno burlata. - No, questo signore si è ucciso veramente - ella disse, guardandosi intorno, con un viso così pallido, con certi occhi scrutatori, che il facchino smise subito di scherzare. - Ma qui no, qui no, per grazia di Dio. - Ne siete certo, buon uomo? Ne siete certo? - Come è certa la morte, figliuola mia. - E buona notte, buona notte, andrò altrove. Quando fu sul marciapiede della via del Chiatamone, Carmela Minino fu presa da uno scoraggiamento immenso. Nell'ombra il cocchiere aspettava, guardandola. - Qui neanche vi è... - mormorò lei, come se parlasse a se stessa, con una espressione infantile di dolore. - Ma chi andate cercando, signorina? Chi andate cercando? - domandò il cocchiere, felice di poter appagare la sua curiosità. - Uno... - balbettò lei. - Uno.... che si è ucciso... - Madonna del Carmine! E vi era qualche cosa questo signore? Ella guardò il cocchiere senza rispondere. Costui dovette capire che quell'ucciso le era qualche cosa. - E non sapete dove? - Mi hanno detto due o tre alberghi; ma non vi è, non vi è, non l'ho trovato. - Qualche altro ve ne hanno nominato? - Sì, sì, l'albergo Suisse. Dove sta? Al Molo, mi hanno detto! - Chi lo sa, signorina mia! Questo è un albergo che non conosco. Andiamo al Molo. Chi ha lingua, va in Sardegna. Ella ripassò dinanzi a San Carlo, mentre la gente cominciava ad uscire dal teatro, poichò il piccolo ballo Coppelia era finito; ma Carmela non si voltò neppure. La mezzanotte era suonata, adesso ella pensava che a questo albergo Suisse avrebbero, forse, già chiuso il portone. Traversarono piazza San Carlo, piazza Municipio tutta la via Molo, mentre lei e il cocchiere guardavano su tutti i balconi, a cercare l'insegna di questo albergo. Finalmente, all'angolo fra via Porto e via Molo, in un avvallamento dove già cominciavano i lavori dello sventramento di Napoli, sopra un balcone videro una scritta su cui batteva a tratti la luce di un lampione, che il vento notturno, sempre più freddo, agitava: Pension Suisse. - Eccoci - diss'ella, con voce profonda, guardando quel balcone, di cui i cristalli erano chiusi, velati dalle tendine di merletto, ma, interiormente illuminati. Il portone della Pension Suisse aveva un battente chiuso e l'altro socchiuso; Carmela Minino si ficcò per quella mezza apertura, e si trovò in un androne oscuro e umido, illuminato appena da una lampada a petrolio, fumosa, dalla luce rossiccia; un uomo mal vestito, che portava in capo un berretto sdrucito e unto, con le mani in tasca, passeggiava, fischiettando l'aria della Ciccuzza. Carmela gli si avvicinò; e quell'individuo dal viso scialbo, dallo sguardo sfuggente ed equivoco, la squadrò. sospettosamente. - È qui...- diss'ella, ripetendo per la terza volta la funebre domanda. - È qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande? - Sì, per nostra disgrazia - borbottò l'altro. - Ah! - diss'ella, diventando anche più bianca. Di botto, uscì dal portone socchiuso, aprì la sua borsetta per pagare il cocchiere. Costui la rimirava con occhi compassionevoli. - L'avete trovato, eh? - le chiese con tono di rimpianto. - Sì, l'ho trovato - rispose Carmela, brevemente, con quel suo tono profondo o sordo, aggiungendo una lira di mancia al prezzo. - Debbo aspettarvi, signorina? - replicò il cocchiere, commosso da quell'avventura e da quella lira. - No, non mi aspettare. Rientrò nel portone. Il losco portinaio le sbarrò la via. - Dove andate? - A vedere il morto. - Siete persona di famiglia? - soggiunse l'altro, guardandola di nuovo. - ... No. - E allora, perciò salire? - Sono la sua cameriera - ella soggiunse, facendo scivolare due lire nella mano di quel portinaio. Per fortuna, teneva nella borsetta la quindicina, presa quel giorno stesso. A tentoni, ansando, ella salì per una scaletta in capo alla quale brillava un lumicino. E dal posto, dal portone, dalla scala, da quell'anticamera nuda, attraversata solo da una lurida striscia di cocco, dove un lercio cameriere sonnecchiava, presso la tavola, si vedeva non solo l'alberguccio di terz'ordine ma la locanda mal famata, le cui orribili stanze si affittano a giornate ed a mezze giornate, per due ore e per un'ora, da persone che arrivavano senza bagaglio, che pagano in fretta e anticipatamente, sempre in coppia, coll'uomo che arriva cinque minuti prima, la donna subito dopo, con cautela a occhi bassi. Due o tre porte davano su quell'anticamera: due erano chiuse, la terza a dritta, dirimpetto alla scaletta, dove andava a finire la striscia di cocco, era socchiusa; un filo di luce ne usciva. - Voglio vedere il morto! - disse subito, accennando cogli occhi a quella porta, Carmela Minino. Il cameriere si stropicciò gli occhi e le chiese anche lui: - Siete parente? - Sono una sua beneficata - replicò ella, reprimendo un singhiozzo che le schiantava il petto. - Parenti non ve ne sono venuti. Qualche amico... ma se ne è andato subito. Si aspetta il pretore. Entrate. Entrò Carmela Minino, sola. La stanza era quella più grande della trista locanda: aveva un balcone su via Molo e uno su via Porto, occupando l'angolo del casamento. Delle tendine, un tempo bianche, adesso giallicce di polvere e di fumo, coprivano i vetri, per nascondere la stanza ai vicini e ai viandanti; altre cortine, egualmente affumicate e sporche, erano state disciolte dai loro grossi cordoni di cotone bianco. Un tappeto di cui non si vedeva più il disegno, ridotto a un'esile trama, copriva il pavimento; una toilette d'antico modello, dallo specchio verdastro, un cassettone dal piano di marmo bianco, un secrétaire e quattro ..sedie di Vienna , completavano il mobilio di quella povera, sporca e pretenziosa stanza dove tante persone erano passate in un'ora di amore perseguitato, di capriccio volgare, di follia. Il letto grande maritale occupava tutto il fondo della stanza, sotto un baldacchino di sargia verde, da cui non pendevano cortine. Sul letto, ove si era ucciso, donde non era stato rimosso aspettando il pretore, giaceva il conte Ferdinando Terzi di Torregrande. Il letto non era stato disfatto: tutto ricoperto di sargia verde a macchie. giallastre, dimostrava che sulle materasse non vi erano lenzuola. I cuscini avevano, però, la loro foderetta, guarnita da un merletto all'uncinetto fatto in casa. La sargia verde aveva anche delle macchie fresche di sangue: delle macchie di sangue insozzavano il tappeto nella viottola del letto, dalla parte ove il conte si era ucciso; tutto lo sparato della camicia da frac era. macchiato, sul petto, di sangue. Ferdinando si era ucciso in marsina, e in cravatta bianca. Aveva, anche una gardenia candidissima all'occhiello. La sua pelliccia era deposta sopra una sedia, poco distante. La mano destra con cui si era tirato il securo colpo al cuore era ricaduta lungo la persona e si allungava sul letto, tenendo fra le dita, mollemente, una piccola rivoltella a Calcio di argento brunito, lavorato finemente di cesello; la mano sinistra, in un moto di spasimo, si era raggricciata sul petto verso il cuore: e le dita, il dorso della mano rosseggiavano di sangue. Del resto il corpo non offriva altre espressioni di dolore: era posato decentemente sul letto, supino, come chi aspetta il sonno, fantasticando. La testa si appoggiava sui due cuscini bianchi, senza linea di contorcimento: anzi, con una quiete composta che doveva essere anteriore alla morte. I bei capelli biondo-castani, divisi in mezzo, pettinati alla russa, non si erano disordinati: la bella bocca sottile e rossa appariva sotto l'arco de' bei baffi biondi sotto la linea purissima e tagliente del profilo aquilino: solo il mento si rialzava, come in vita, dalla linea dura di volontà. Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME

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