Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

Fino a un dato punto bisogna che li abbiate anche voi per amor suo." "I tedeschi andranno via presto, mamma", rispose Franco, "ma sta tranquilla, sarò prudente, vedrai." "Oh caro, io non ho più niente da vedere. Non ho che a vedervi voi altri due uniti e benedetti dal Signore. Quando i tedeschi saranno andati via, verrete a dirmelo a Looch." Portano il nome di Looch i praticelli ombrati di grandi noci dove sta il piccolo camposanto di Castello. "Ma ti devo parlare di un'altra cosa", proseguì la signora Teresa senza lasciar a Franco il tempo di far proteste. Egli le prese le mani, gliele strinse trattenendo a fatica il pianto. "Bisogna che ti parli di Luisa", diss'ella. "Bisogna che tu la conosca bene tua moglie." "La conosco, mamma! La conosco quanto la conosci tu e più ancora!" Egli ardeva e fremeva tutto, così dicendo, nell'appassionato amore per lei ch'era la vita della sua vita, l'anima dell'anima sua. "Povero Franco!", fece la signora Teresa teneramente, sorridendo. "No, ascoltami, vi è qualche cosa che non sai e che devi sapere. Aspetta un poco." Aveva bisogno di una sosta, l'emozione le rendeva il respiro difficile e più difficile il parlare. Fece un gesto negativo a Franco che avrebbe pur voluto adoperarsi, aiutarla in qualche modo. Le bastava un po' di riposo e lo prese appoggiando il capo alla spalliera della poltrona. Si rialzò presto. "Avrai inteso parlar male", disse, "del povero mio marito, a casa tua. Avrai inteso dire ch'era un uomo senza principii e che ho avuto un gran torto a sposarlo. Infatti egli non era religioso e questa fu la ragione per cui esitai molto prima di decidermi. Sono stata consigliata di cedere perché potevo forse influire bene sopra di lui che aveva un'anima nobile. È morto da cristiano, ho tanta fede di trovarlo in paradiso se il Signore mi fa questa grazia di prendermi con sé; ma fino all'ultima ora parve che non ottenessi nulla. Bene, temo che la mia Luisa, in fondo, abbia le tendenze del suo papà. Me le nasconde, ma capisco che le ha. Te la raccomando, studiala, consigliala, ha un gran talento e un gran cuore, se io non ho saputo far bene con lei, tu fa meglio, sei un buon cristiano, guarda che lo sia anche lei, proprio di cuore; promettimelo, Franco." Egli lo promise sorridendo, come se stimasse vani i timori di lei e facesse, per compiacenza, una promessa superflua. L'ammalata lo guardò, triste. "Credimi, sai", soggiunse, "non sono fantasie. Non posso morire in pace se non la prendi come una cosa seria." E poi che il giovane ebbe ripetuta la sua promessa senza sorridere, soggiunse: "Una parola ancora. Quando parti di qua, vai a Casarico dal professor Gilardoni, non è vero?" "Ma, questo era il piano di prima. Dovevo dire alla nonna che andavo a dormire da Gilardoni per fare poi una gita insieme alla mattina; adesso lo sai come sono venuto via." "Vacci lo stesso. Ho piacere che tu ci vada. E poi ti aspetta, non è vero? Dunque ci devi andare. Povero Gilardoni, non è più venuto dopo quella pazzia di due anni or sono. Lo sai, non è vero? Luisa te l'avrà detto?" "Sì, mamma." Questo professor Gilardoni che viveva a Casarico, da eremita, si era molto romanticamente innamorato, qualche anno prima, della signora Teresa e le si era timidamente, reverentemente proposto per marito, ottenendo un tale successo di stupore da togliergli poi il coraggio di ricomparirle davanti. "Povero uomo!", riprese la signora Rigey. "Quella è stata una stupidità grande, ma è un cuor d'oro, un buon amico, tenetevelo caro. Il giorno prima che gli venisse quell'accesso di pazzia, mi ha fatto una confidenza. Non te la posso ripetere, e anzi ti prego di non parlargliene se non te ne parla lui; ma insomma è una cosa che potrà, in certi casi, aver molta importanza per voi altri, specialmente se avrete figli. Se Gilardoni te ne parla, pensaci prima di dirlo a Luisa. Luisa potrebbe prender la cosa non come va presa. Delibera tu, consigliati con lo zio Piero e poi parla o non parla, secondo la strada che vorrai prendere." "Sì, mamma." Si picchiò all'uscio, sommessamente, e la voce di Luisa disse: "È finito?" Franco guardò l'ammalata. "Avanti", diss'ella. "È ora di andare?" Luisa non rispose, cinse con un braccio il collo di Franco. S'inginocchiarono insieme davanti alla mamma, le piegarono il capo in grembo. Luisa faceva ogni sforzo per trattenere il pianto, sapendo bene che bisognava evitare alla mamma ogni emozione troppo forte, ma le spalle la tradivano. "No, Luisa", disse la mamma, "no, cara, no", e le accarezzava il capo. "Ti ringrazio che sei sempre stata una buona figliuola, sai; tanto buona; quietati; son così contenta; vedrai che starò meglio. Andate dunque; datemi un bacio e poi andate, non fate aspettare il signor curato. Dio ti benedica, Luisa; e anche te, Franco." Chiese il suo libro di preghiere, si accostò il lume, fece aprire le finestre e l'uscio della terrazza per respirar meglio e mandò via la fantesca che si preparava a tenerle compagnia. Usciti gli sposi, entrò l'ingegnere per salutar sua sorella prima di andare in chiesa. "Ciao, neh, Teresa." "Addio, Piero. Un altro peso sulle vostre spalle, povero Piero." "Amen", rispose pacificamente l'ingegnere. Rimasta sola, la signora Rigey stette ascoltando il rumor dei passi che si allontanavano. Quelli gravi di suo fratello e del signor Giacomo, la coda della colonna, non le lasciavano udire gli altri ch'ella avrebbe voluto accompagnar con l'orecchio quanto era possibile. Un momento ancora e non intese più nulla. Ebbe l'idea che Luisa e Franco si allontanavano insieme nell'avvenire dove a lei non era dato seguirli che per pochi mesi o forse per pochi giorni; e che non poteva indovinar niente, presentir niente del loro destino. "Poveri ragazzi", pensò. "Chi sa cosa avranno passato fra cinque anni, fra dieci anni!" Stette ancora in ascolto, ma il silenzio era profondo; non entrava per le finestre aperte che il fragor lontano lontano della cascata di Rescia, di là dal lago. Allora, supponendo che fossero già in chiesa, prese il suo libro di preghiere e lesse con fervore. Si stancò presto, si sentì una gran confusione in testa, le si confusero alla vista anche i caratteri del libro. La sua mente si assopiva, la volontà era perduta. Presentiva una visione di cose non vere e sapeva di non dormire, comprendeva che non era sogno, ch'era uno stato prodotto dal suo male. Vide aprirsi l'uscio che metteva in cucina ed entrare il vecchio Gilardoni di Dasio, detto "el Carlin de Dàas", padre del professore, agente di casa Maironi per i possessi di Valsolda, morto da venticinque anni. La figura entrò e disse in tono naturale: "Oh sciora Teresa, la sta ben?". Ella credette di rispondere: "Oh Carlin! Bene e voi?", ma in fatto non aperse bocca. "Ghe l'hoo chì la lettra", riprese la figura agitando trionfalmente una lettera. "L'hoo portada chì per Lee." E posò la lettera sul tavolo. La signora Teresa vide chiaramente e con un senso di vivo piacere questa lettera sudicia e ingiallita dal tempo, senza busta e con la traccia di una piccola ostia rossa. Le parve dire: "Grazie, Carlin. E adesso andate a Dasio?". "Sciora no", rispose il Carlin. "Voo a Casarech dal me fioeu." L'ammalata non vide più il Carlin, ma vide ancora la lettera sul tavolo. La vedeva chiaramente eppure non era certa che vi fosse; nel suo cervello inerte durava l'idea vaga di altre allucinazioni passate, l'idea della malattia sua nemica, sua padrona violenta. Aveva l'occhio vitreo, la respirazione penosa e frequente. Un suono di passi affrettati la scosse, la richiamò quasi del tutto in sé. Quando Luisa e Franco si precipitarono in camera dalla terrazza, non si accorsero, causa il paralume della lucerna, che la fisionomia della mamma fosse stravolta. Inginocchiati accanto a lei, la coprirono di baci, attribuirono all'emozione quel respiro affannoso. A un tratto l'ammalata sollevò il capo dalla spalliera della poltrona, tese le mani avanti, guardando e indicando qualche cosa. "La lettera", diss'ella. I due giovani si voltarono e non videro niente. "Che lettera, mamma?", disse Luisa. Nello stesso punto notò l'espressione del viso di sua madre, diede un'occhiata a Franco per avvertirlo. Non era la prima volta, durante la sua malattia, che la mamma soffriva di allucinazioni. All'udirsi domandare "che lettera?" ella capì, fece "oh!", ritirò le mani, se ne coperse il viso e pianse silenziosamente. Confortata dalle carezze de' suoi figli, si ricompose, li baciò, stese la mano a suo fratello e al signor Giacomo, che non avevano inteso affatto cosa fosse accaduto e accennò a Luisa di andar a pigliar qualche cosa. Si trattava di una torta e di una bottiglia preziosa di vino del Niscioree, regalata con altre parecchie, tempo addietro, dal marchese Bianchi che aveva per la signora Rigey una singolare venerazione. Il signor Giacomo, non vedendo l'ora di svignarsela, incominciava a dimenarsi, a soffiare, guardando l'ingegnere. "Signora Luisina", diss'egli vedendo uscire la novella sposa. "La scusa, son propramente per domandar licenza ..." "No, no", lo interruppe con un fil di voce la signora Teresa, "aspetti un poco." Luisa scomparve e Franco scivolò pure fuori dalla stanza dietro sua moglie. La signora Teresa parve presa da uno scrupolo, accennò a richiamarlo. "Ma cosa mai!", fece l'ingegnere. "Ma, Piero!" "Ma cosa?" Le antiche tradizioni austere della sua famiglia, un sottile senso di dignità, forse anche uno scrupolo religioso perché gli sposi non avevano ancora assistito alla messa della benedizione nuziale, impedivano alla signora Teresa di approvare che i giovani si appartassero e insieme di spiegarsi. Le sue reticenze e la bonarietà patriarcale dello zio diedero agio a Franco di sottrarsi ai richiami senza rimedio alcuno. La signora Teresa non insistette. "Per sempre!", mormorò dopo un momento come parlando fra sé. "Uniti per sempre!" "Nualtri", disse l'ingegnere rivolgendosi in dialetto veneto al suo collega nel celibato, "nualtri, sior Giacomo, de ste buzare no ghe ne femo." "Sempre de bon umor, Ela, ingegnere pregiatissimo", rispose il signor Giacomo a cui la coscienza diceva che aveva fatto delle "buzare" peggiori. Gli sposi non ritornavano. "Signor Giacomo", riprese l'ingegnere, "per questa notte, niente letto." L'infelice si contorse, soffiò e batté le palpebre senza rispondere. E gli sposi non ritornavano. "Piero", disse la signora, "suonate il campanello." "Signor Giacomo", fece l'ingegnere senza scomporsi, "dobbiamo suonare il campanello?" "L'idea de la signora Teresa pare propramente questa", rispose l'omino navigando alla meglio tra il fratello e la sorella. "Però mi no digo gnente." "Piero!", insistette la signora. "Ma insomma", riprese suo fratello senza muoversi. "Lei, cosa farebbe? Lo suonerebbe, questo campanello, o non lo suonerebbe?" "Oh Dio!", gemette il Puttini. "La me dispensa." "Non La dispenso un corno." Gli sposi non ritornavano e la mamma, sempre più inquieta, ricominciava: "Ma suonate, dunque, Piero!" Il signor Giacomo, che moriva dalla voglia di andarsene s non poteva andarsene senza salutar gli sposi, incoraggiato dall'insistere della signora, fece uno sforzo, diventò rosso rosso e buttò fuori la sua sentenza: "Mi sonaria." "Caro signor Giacomo", disse l'ingegnere, "mi stupisco, mi sorprendo e mi meraviglio." Chi sa perché, quando era di buon umore e gli capitava in bocca uno di quei sinonimi, li infilzava tutti e tre. "Però", conchiuse, "suoniamo." E suonò molto discretamente. "Sentite, Piero", disse la signora Teresa. "Ricordatevi bene che adesso, quando partite voi, deve partire anche Franco. Ritornerà alle cinque e mezzo per la messa." "Oh povero me!", fece lo zio Piero. "Quante miserie! Insomma, sono marito e moglie, sì o no? Bene bene bene", soggiunse, perché sua sorella si inquietava. "Fate tutto quello che volete, ecco." Invece degli sposi entrò la fantesca portando la torta e la bottiglia e disse all'ingegnere che la signora Luisina lo pregava di uscire un momento sulla terrazza. "Adesso che viene un po' di grazia di Dio, mi mandate fuori", disse l'ingegnere. Egli scherzava, con la solita serenità di spirito, forse non comprendendo bene lo stato grave di sua sorella, forse per certa sua naturale disposizione pacifica verso tutto che fosse ineluttabile. Uscì sulla terrazza dove Luisa lo aspettava con Franco. "Senti, zio", diss'ella, "mio marito dice che certo la nonna scoprirà tutto subito, ch'egli non potrà più stare a Cressogno, che se la mamma fosse in buone condizioni si potrebbe venire da te a Oria, ma che così, pur troppo, non è possibile. Allora dice che si potrebbe mettere all'ordine una camera qui, in fretta, alla meglio; lo studio del povero papà, si diceva noi. Cosa ti pare?" "Hm!", fece lo zio, che non accettava facilmente le novità. "Mi pare una risoluzione molto precipitosa. Fate una spesa, mettete la casa sossopra per una cosa che non può durare." La sua idea fissa era quella di aver tutta la famiglia a Oria, e questo ripiego della camera gli faceva ombra. Temeva che se gli sposi si accomodavano a Castello finissero con restarvi. Luisa si studiò di persuaderlo che non si poteva fare altrimenti, che né la spesa né l'incomodo sarebbero stati grandi, che suo marito, quando avesse a uscir di casa, andrebbe difilato a Lugano e ritornerebbe con i pochi mobili strettamente necessari. Lo zio domandò se Franco non potrebbe invece mettersi a Oria e starvi fino a quando vi potessero scendere la mamma e lei. "Oh, zio!", fece Luisa. S'ella avesse saputo del campanello, si sarebbe ancor più meravigliata di una proposta simile. Ma il buon uomo aveva qualche volta di queste idee ingenue che facevano sorridere sua sorella. Luisa non durò fatica a trovare argomenti contro l'esilio di Franco e ad adoperarli con calore. "Basta", fece lo zio non persuaso, ma placido, allargando le braccia in arco, nell'atto di un Dominus vobiscum più caritatevole, più disposto a cinger di tenerezza le povere creature umane. "Fiat. Oh, e se occorre", soggiunse volgendosi a Franco, "come stai a quattrini?" Franco trasalì, s'imbarazzò. "È il nostro papà, sai", gli disse sua moglie. "Papà niente affatto", osservò lo zio, sempre placidamente. "Papà niente affatto, ma quel ch'è mio è vostro, ecco; vuol dire dunque che vi munirò un poco secondo le mie forze." E ricevette l'abbraccio commosso de' suoi nipoti senza corrispondervi, quasi seccato da una dimostrazione superflua, seccato che non accogliessero più semplicemente una cosa tanto semplice e naturale. "Sì, sì", diss'egli, "andiamo a bere ch'è meglio." Il vino del Niscioree, rosso chiaro come un rubino, delicato e gagliardo, blandì e pacificò le viscere dell'impaziente signor Giacomo, che in quegli anni di oïdium ben di rado bagnava le labbra nel vin pretto e beveva cupamente vin Grimelli di acquosa memoria. "Est, est non è vero, signor Giacomo?", disse lo zio Piero vedendo il Puttini guardar devotamente nel bicchiere che teneva in mano. "Qui almeno non c'è pericolo di crepare come quel tale: et propter nimium est dominus meus mortuus est. " "A mi me par de resussitar", rispose il signor Giacomo, adagio adagio, quasi sottovoce, guardando sempre nel bicchiere. "Allora, un brindisi agli sposi!", riprese l'altro, alzandosi. "Se non lo fa Lei, lo farò io: Viva lü e viva lee E nün andèm foeura d'i pee. Il signor Giacomo vuotò il bicchiere, soffiò molto e batté molto le palpebre in segno dei vari sentimenti che tumultuavano nell'animo suo mentre l'ultimo aroma e l'ultimo sapor del vino gli si perdevano in bocca; offerse la sua servitù alla signora Teresa riveritissima, la sua devozione alla sposina amabilissima, la sua osservanza allo sposo compitissimo; si schermì, menando le braccia e la testa, dai ringraziamenti che gli fioccavano addosso, e preso il cappellone, presa la mazza, si avviò umilmente, soffiando con un misto di compiacenza e di rammarico, dietro la mole placida dell'ingegnere pregiatissimo. "E tu, Franco?", chiese subito la signora Teresa. "Vado", rispose Franco. "Vien qua", diss'ella. "Vi ho accolto così male, poveri figliuoli, quando siete ritornati dalla chiesa. Sai, m'era venuto uno de' miei accessi; lo avete ben capito. Adesso mi sento tanto benino, tanto in pace. Signore, Vi ringrazio. Mi pare d'avere messa la casa in ordine, d'avere spento il fuoco, d'aver dette un po' di orazioni e di andar a dormire, tutta bella contenta; ma non così presto, sai, caro, non così subito. Ti lascio la mia Luisa, caro, ti lascio lo zio Piero; so che li amerai tanto, vero? Ricordati anche di me, però. Ah Signore, come mi rincresce di non vedere i vostri figli! Quello sì. Hai da dar loro un bacio per la povera nonna, tutti i giorni. E adesso va', figlio mio; ritorni alle cinque e mezzo, non è vero? Sì, addio, va'." Gli parlava carezzevole, come a un bambino che non capisce ancora ed egli piangeva di tenerezza silenziosamente, le baciava e ribaciava le mani, godendo che Luisa fosse presente e vedesse; perché nella sua immensa tenerezza per la mamma vi era la immensa gioia di essere divenuto un solo con la figlia e come un'avidità di amar tutto che sua moglie amava, con la stessa forza. "Va'", ripeteva mamma Teresa, temendo anche la commozione propria: "va', va'." Egli obbedì, finalmente; e uscì con Luisa. Anche stavolta Luisa tardò molto a ritornare, ma le anime più sante hanno le loro lievi debolezze e quantunque la fantesca non facesse che andare e venire dalla cucina al salotto, la signora Teresa, tocca dalle dimostrazioni d'affetto che le aveva prodigate Franco, non le disse mai di suonare il campanello.

"Abbiate prudenza. A questo riguardo il signor Zacomo ha dei dispiaceri da parte di certi indiscreti." "Lassemo star, Controllore gentilissimo, lassemo star", interruppe il signor Giacomo contorcendosi tutto, e l'ingegnere lo esortò a mandar i due seccatori al diavolo. "Come, sior Zacomo", riprese Pasotti, imperterrito: "non è un indiscreto quel piccolo sacerdote?". "Mi ghe digo aseno", fremette il signor Giacomo. Allora Pasotti, tutto ridente e trionfante perché si trattava proprio d'una burla sua, fece tacere Pedraglio che scoppiava dalla curiosità di saper la storia e rimise in corso il tarocco. Franco e l'avvocato studiavano un pezzo nuovo per piano e fagotto, pasticciavano, si rifacevan ogni momento da capo; ed ecco entrare in punta di piedi per non guastar le loro melodie, la signora Peppina Bianconi. Nessuno s'accorse di lei tranne Luisa che se la fece sedere accanto, sul piccolo canapè vicino al piano. A Franco la signora Peppina, con la sua bontà cordiale, chiacchierona e sciocca, urtava i nervi; a Luisa no. Luisa le voleva bene ma stava in guardia per il Carlascia. La Peppina aveva udito dal suo giardino quella canzonetta "inscì bella, neh", e poi il fagotto, i saluti; s'era immaginata che avrebbero fatto musica e lei era "inscì matta, neh", per la musica! E poi c'è quel signor avvocato "ch'el boffa denter in quel rob inscì polito!". E poi c'è il signor don Franco "parlèmen nanca, con quèi diavoi de did!" Udir suonare il piano con quella precisione era proprio come udire un organetto; e a lei gli organetti piacevano "inscì tant!". Soggiunse che temeva recar disturbo ma che suo marito l'aveva incoraggiata. E domandò se quell'altro signore di Loveno non suonava anche lui, se si fermavano un pezzo; osservò che dovevano avere ambedue una gran passione per la musica. "Aspetta me, birbone d'un Ricevitore", pensò Luisa e rimpinzò sua moglie delle più comiche frottole sulla melomania di Pedraglio e dell'avvocato, infilzandone tante più quanto più s'irritava contro la gente odiosa da cui era forza salvarsi a furia di menzogne. La signora Peppina le inghiottì scrupolosamente tutte fino all'ultima, accompagnandovi affettuose note di lieta meraviglia: "Oh bell, oh bell!". "Figürèmes!". "Ma guardee!". Poi, invece di ascoltare la diabolica disputa del piano col fagotto, parlò del Commissario di Porlezza e disse ch'egli aveva l'intenzione di venir a vedere i fiori di don Franco. "Venga pure", fece Luisa, fredda. Allora la signora Peppina, approfittando di un uragano che Franco e l'amico suo facevano insieme, arrischiò un discorsetto intimo che guai se il suo Carlascia l'avesse udito; ma fortunatamente il buon bestione dormiva nel proprio letto col berretto da notte tirato sugli orecchi. "Mi goo inscì mai piasè de sti car fior!", diss'ella. Secondo lei, i Maironi avrebbero fatto bene ad accarezzare un poco il signor Commissario. Era intimo della marchesa e guai se gli veniva il ticchio di farli tribolare! Era un uomo terribile, il Commissario. "El mè Carlo el baia un poo ma l'è on bon omasc; quell'alter là, el baia minga, mah, neh! ..." Per esempio, ella non sapeva niente, non aveva udito niente, ma se quel signor avvocato e quell'altro signore fossero venuti per qualche altra cosa invece che per la musica e il Commissario venisse a saperlo, misericordia! La luna trascinava i suoi splendori per il lago verso le acque di ponente; il giuoco finì e il signor Giacomo si dispose a far accendere il suo lanternino, malgrado le esclamazioni di Pasotti. "Il lume, sior Zacomo? È matto? Il lume con questa luna?". "Per servirla", rispose il signor Giacomo. "Prima ghe xe quel maledeto Pomodoro da passar, e po, cossa voria, adesso, la luna! La diga che la xe la luna d'agosto, anca; perché siben che semo de setembre, la luna la xe d'agosto. Ben! una volta, sì signor, le lune d'agosto le gera lunazze, tanto fate, come fondi de tina; adesso le xe lunete, buzarete ... no, no, no." E, acceso il suo lanternino, partì con Pasotti, accompagnato fino al cancello del giardinetto dall'impertinente Pedraglio con le solite antifone sul toro e la servente, si avviò verso gli antri di Oria, col conforto delle giaculatorie di Pasotti: "gente maleducata, sior Zacomo, gente villana!", giaculatorie dette abbastanza forte perché gli altri potessero udire e ridere. Un sonoro sbadiglio dell'ingegnere mise in fuga la signora Peppina. Pochi momenti dopo, preso il suo solito bicchier di latte, egli tolse commiato poeticamente: Crescono sul Parnaso e mirti e allori Felicissima notte a lor signori. Anche i due ospiti chiesero un po' di latte: e Franco che intese il loro latino andò a pigliare una vecchia bottiglia del piccolo eccellente vigneto di Mainè. Quando ritornò, lo zio non c'era più. Il bruno, barbuto avvocato, una quadratura di forza e di calma, alzò le due mani, chiamò silenziosamente a sé Franco da una parte, Luisa dall'altra e disse piano, con la sua voce di violoncello, calda e profonda: "Notizie grosse". "Ah!", fece Franco, spalancando gli occhi ardenti. Luisa diventò pallida e giunse le mani senza dir parola. "Sicuro", fece Pedraglio, tranquillo e serio. "Ci siamo." "Dite su, dite su, dite su!", fremette Franco. Fu l'avvocato che rispose: "Abbiamo l'alleanza del Piemonte con la Francia e l'Inghilterra. Oggi la guerra alla Russia, domani la guerra all'Austria. Volete altro?" Franco abbracciò di slancio, con un singulto, i suoi amici. I tre stettero abbracciati in silenzio, palpitando, stringendosi forte, nella ebbrezza della magica parola: guerra. Franco non si accorgeva di avere ancora la bottiglia in mano. Gliela tolse Luisa; egli allora si staccò impetuoso dagli altri due e cacciatosi fra loro a braccia aperte, li trascinò via per la vita come una valanga, li portò in loggia ripetendo: "Contate, contate, contate". Colà, chiuso per prudenza l'uscio a vetri che mette sulla terrazza, l'avvocato e Pedraglio misero fuori il loro prezioso segreto. Una signora inglese villeggiante a Bellagio, fervente amica dell'Italia, aveva ricevuto da un'altra signora, cugina di sir James Hudson, ministro d'Inghilterra a Torino, una lettera di cui l'avvocato possedeva la traduzione. La lettera diceva ch'erano in corso a Torino, a Parigi e a Londra segretissime pratiche per avere la cooperazione armata del Piemonte in Oriente, che la cosa era in massima decisa fra i tre Gabinetti, che restavano solamente a risolvere alcuna difficoltà di forma perché il conte di Cavour esigeva i maggiori riguardi alla dignità del suo paese; che a Torino si era certi di ricevere al più tardi in dicembre l'invito ufficiale delle Potenze occidentali per accedere puramente e semplicemente al trattato del 10 aprile 1854. Si affermava persino che il corpo di spedizione sarebbe comandato da S. A. R. il duca di Genova. V. leggeva, e Franco teneva stretta la mano di sua moglie. Poi volle leggere egli stesso e dopo lui lesse Luisa. "Ma!", diss'ella. "La guerra all'Austria? Come?" "Ma sicuro!", fece l'avvocato. "Vuole che Cavour mandi il duca di Genova e quindici o ventimila uomini a battersi per i turchi se non ha in pugno la guerra all'Austria? La signora crede che non passerà un anno." Franco scosse i pugni in aria con un fremito di tutta la persona. "Viva Cavour", sussurrò Luisa. "Ah!", fece l'avvocato. "Demostene non avrebbe potuto lodar il conte con efficacia maggiore." Gli occhi di Franco s'empirono di lagrime. "Sono uno stupido", diss'egli. "Cosa volete che vi dica?" Pedraglio domandò a Luisa dove diavolo avesse cacciata la bottiglia. Luisa sorrise, uscì e ritornò subito col vino e i bicchieri. "Al conte di Cavour!", disse Pedraglio, sottovoce. Tutti alzarono il bicchiere ripetendo: "al conte di Cavour!" e bevvero; anche Luisa che non beveva mai. Pedraglio si versò dell'altro vino e sorse in piedi. "Alla guerra!", diss'egli. Gli altri tre si alzarono di slancio impugnando il bicchiere silenziosamente, troppo commossi per poter parlare. "Bisogna andarci tutti!", disse Pedraglio. "Tutti!", ripeté Franco. Luisa lo baciò con impeto, sulla spalla. Suo marito le afferrò il capo a due mani, le stampò un bacio sui capelli. Una delle finestre verso il lago era spalancata. Si udì, nel silenzio che seguì quel bacio, un batter misurato di remi. "Finanza", sussurrò Franco. Mentre la lancia delle guardie di finanza passava sotto la finestra, Pedraglio fece "maledetti porci!" così forte che gli altri zittirono. La lancia passò. Franco mise il capo alla finestra. Faceva fresco, la luna scendeva verso i monti di Carona, rigando il lago di una lunga striscia dorata. Che strano senso faceva contemplar quella romita quiete con l'idea d'una gran guerra vicina! Le montagne, scure e tristi, parevano pensare al formidabile avvenire. Franco chiuse la finestra e la conversazione ricominciò sommessa, intorno al tavolino. Ciascuno faceva le proprie supposizioni sugli avvenimenti futuri, e tutti ne parlavano come di un dramma il cui manoscritto fosse già pronto fino all'ultimo verso, con i punti e le virgole, nella scrivania del conte di Cavour. V., bonapartista, vedeva chiaro che Napoleone intendeva vendicar lo zio demolendo uno ad uno i membri della Santa Alleanza: oggi la Russia, domani l'Austria. Invece Franco, diffidentissimo dell'imperatore, attribuiva l'alleanza sarda al buon volere dell'Inghilterra, ma riconosceva che, appena proclamata quest'alleanza, l'Austria, sacrificando i suoi interessi ai principii e agli odii si sarebbe schierata con la Russia, per cui Napoleone sarebbe stato costretto di combatterla. "Sentite", disse sua moglie, "io invece ho paura che l'Austria si metta dalla stessa parte del Piemonte." "Impossibile", fece l'avvocato. Franco si sgomentò, ammirando la finezza dell'osservazione, ma Pedraglio esclamò: "Off! Sti zurucch chì hin trop asen per fà ona balossada compagna!" e l'argomento parve decisivo, nessuno ci pensò più, salvo Luisa. Si misero a discorrere di piani di campagna, di piani d'insurrezione; ma qui non andavano d'accordo. V. conosceva gli uomini e le montagne del lago di Como come forse nessun altro, da Colico a Como e a Lecco. E dappertutto, lungo il lago, nella Val Menaggio, nella Vall'Intelvi, nella Valsassina, nelle Tre Pievi aveva gente devota, pronta magari a menar le mani a un cenno del "scior avocàt". Egli e Franco credevano utile qualunque movimento insurrezionale che valesse a distrarre anche una menoma parte delle forze austriache. Invece Luisa e Pedraglio erano del parere che tutti gli uomini validi dovessero ingrossare i battaglioni piemontesi. "Faremo la rivoluzione noi donne", disse Luisa con la sua serietà canzonatoria. "Io, per parte mia, butterò nel lago il Carlascia." Discorrevano sempre sottovoce, con una elettricità in corpo che dava luce per gli occhi e scosse per i nervi, assaporando il parlar sommesso con le porte e le finestre chiuse, il pericolo di avere quella lettera, la vita ardente che si sentivano nel sangue, le parole alcooliche a cui tornavano ogni momento. Piemonte, guerra, Cavour, duca di Genova, Vittorio Emanuele, cannoni, bersaglieri. "Sapete che ore sono?", disse Pedraglio guardando l'orologio "Le dodici e mezzo! Andiamo a letto." Luisa uscì a prendere delle candele e le accese, stando in piedi; nessuno si mosse e sedette anche lei. Allo stesso Pedraglio, quando vide le candele accese, passò la voglia di andar a letto. "Un bel Regno!", diss'egli. "Piemonte", disse Franco, "Lombardo-Veneto, Parma e Modena." "E Legazioni", fece V. Altra discussione. Tutti le avrebbero volute le Legazioni, specialmente l'avvocato e Luisa; ma Franco e Pedraglio avevano paura di toccarle, temevano di suscitare difficoltà. Si riscaldarono tanto che l'allegro Pedraglio invitò i suoi compagni a gridare sottovoce: "Vosèe adasi, fioeu!". Allora fu V. che propose di andare a letto. Prese in mano la candela ma senza alzarsi. "Corpo di Bacco!", diss'egli, non sapeva bene se in forma di conclusione o di esordio. In fatto aveva una gran voglia di parlare, di sentir parlare, e non sapeva cosa trovar di nuovo. "Proprio corpo di Bacco!", esclamò Franco ch'era nelle stesse condizioni. Seguì un silenzio alquanto lungo. Finalmente Pedraglio disse: "Dunque?", e si alzò. "Andiamo?", fece Luisa avviandosi per la prima. "E il nome?", chiese l'avvocato. Tutti si fermarono. "Che nome?" "Il nome del nuovo Regno." Franco posò subito la candela. "Bravo", diss'egli, "il nome!", come se fosse una cosa da decidere prima di andare a letto. Nuova discussione. Piemonte? Cisalpino? Alta Italia? Italia? Luisa posò presto la candela anche lei, e Pedraglio, perché gli altri non volevano passargli il suo Italia, la posò pure. Però siccome il dibattito andava troppo per le lunghe, riprese la candela e corse via ripetendo: "Italia, Italia, Italia, Italia!" senz'ascoltar i "zitto" e i richiami degli altri che lo seguivano in punta di piedi. Si fermarono ancora tutti a piè della scala che Pedraglio e l'avvocato dovevano salire per andare a letto, e si diedero la felice notte. Luisa entrò nella vicina camera dell'alcova; Franco restò a veder salire i suoi amici. "Ehi!", diss'egli a un tratto. Voleva parlar loro dal basso ma poi pensò invece di raggiungerli. "E se si perde?", sussurrò. L'avvocato si contentò d'uno sdegnoso "off!" ma Pedraglio voltandosi come una iena afferrò Franco per il collo. Si dibatterono ridendo sul pianerottolo della scala e poi "addio!", Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso. Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: "Cara, pensa che gran cosa, dopo, questa Italia!". "Oh sì!", diss'ella. Alzò il viso al viso di suo marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella tenerezza, così umile. "Allora", diss'ella, "non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come cittadino, non è vero?" "Sì, sì, certo!" Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un ditino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sul mento. "Vieni, Franco", disse sua madre. Si piegarono ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il discorso interrotto. Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: "Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io". E non gli permise di rispondere.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

"Credo che abbiate ragione" rispose l'irlandese, sorridendo. "Un buon bicchiere di vino scaccia meglio di qualunque altra cosa le emozioni, anzi, vi confesso che questo freddo mi ha messo indosso un certo appetito." "Sono sette ore che non abbiamo messo sotto i denti una briciola di biscotto. Ehi! Simone, preparaci qualche cosa." "È fiato sprecato, Mister Kelly. Il vostro negro mi pare che sia sempre mezzo morto di paura. Evidentemente i viaggi aerei non sono fatti per i negri." L'irlandese aveva ragione. Il servitore dell'ingegnere non si era ancora mosso dal posto che occupava e continuava a tenersi strettamente aggrappato alle corde gettando in giro degli sguardi smarriti. "Orsù, poltrone" disse l'ingegnere. "Quale strana paura ti ha invaso?" "Temo di cadere, massa" rispose il negro balbettando. "Forse cadiamo noi?" "Io sono negro, e voi ... " "Siamo bianchi" disse O'Donnell, scoppiando in una fragorosa risata. "Che gli uomini della nostra razza portino nel ventre un magazzino d'idrogeno? Che sia proprio così, signor discendente di Cam?" Il negro cercò di sorridere a quelle parole ma, invece, le sue grosse e tumide labbra si contorsero orribilmente, senza riuscirvi. Quel povero diavolo fece però uno sforzo supremo per alzarsi; ma ricadde pesantemente, come se avesse le gambe rotte, emettendo un grido di spavento. Quell'altezza produceva su di lui un senso di invincibile paura; quel vuoto lo atterriva e gli faceva girare la testa. "Rimani là" disse O'Donnell. "M'incarico io del servizio di bordo, poltrone." In un batter d'occhio aprì una cassa, ne tolse una scatola di carne arrostita, un'altra di acciughe, dei biscotti, una bottiglia, bicchieri e posate, e preparò la tavola, che era sostituita da una panchina del battello. "Quando desiderate, Mister Kelly" disse con la sua più bella voce. L'ingegnere, che stava esaminando i suoi strumenti, si affrettò a rispondere all'appello, ed i due aeronauti, che cominciavano a provare i morsi della fame intaccarono con molto appetito le vivande, senza dimenticare il negro, il quale fece molto onore al pasto, specialmente alla bottiglia, malgrado la sua grande paura. Terminata la cena, l'ingegnere e l'irlandese accesero le sigarette, poi volsero uno sguardo verso l'ovest. Il grande banco era scomparso sotto l'orizzonte, e l'aerostato filava sull'immensa distesa dell'Atlantico, i cui muggiti salivano fino alla navicella. L'irlandese, malgrado la sua audacia, impallidì leggermente. Ormai non dovevano contare più sulle loro forze e sul loro vascello aereo, poiché la sola immensità li circondava e in caso di catastrofe nessun uomo sarebbe accorso in loro aiuto. Quasi contemporaneamente il sole tramontò e le tenebre piombarono bruscamente sull'oceano avvolgendo l'aerostato.

"Suppongo però che abbiate già fatto qualche ascensione." "Sì, ma su un pallone frenato. Facciamo l'inventario di ciò che possediamo e cerchiamo di mettere un pò d'ordine nella nostra navicella.? "Nella scialuppa, volete dire". "Infatti, è una vera imbarcazione, leggerissima. ma solida a tutta prova, e ci sarà di grande utilità nel caso che i nostri palloni dovessero cadere in mezzo all'oceano." "Ma quale metallo avete adoperato per costruirla? Si direbbe che sia una barra d'argento." "Ho impiegato uno dei metalli più leggeri, ma nello stesso tempo dei più solidi: l'alluminio. È un metallo che oggi è poco usato, ma che è destinato ad avere un grande avvenire. Ecco la nota delle nostre ricchezze: quattro barili di alluminio contenenti 330 litri d'acqua, 340 chili, due casse di biscotti, 200 chili: sei casse di carni conservate e conserve alimentari, 200 chili: cioccolato, bottiglie di liquori, due fucili, tre rivoltelle, munizioni, una scure, due coltelli, 90 chili; bussole, termometri, barometri, un sestante del punto, matite, carta e piccoli oggetti, 24 chili; piccola farmacia, 4 chili; tende, coperte, vestiti, una vela per la scialuppa, albero e remi, 36 chili; tre ancore, una da terra e due da mare, due piccioni messaggeri, 26 chili." "Tre ancore!" esclamò O'Donnell. "V'ingannate: io non ne vedo che una." "No, amico mio: ne possediamo tre. Quella che vedete lì e che ha la solita forma, è una: le altre due sono quei coni di alluminio che somigliano a imbuti." "Non vi comprendo." "Basta immergere uno di questi coni in mare, e subito si rovescia, si riempie d'acqua, e la resistenza che oppone basta, se non a fermare del tutto i miei palloni, almeno a rallentare assai la loro marcia." "Avete pensato a tutto, Mister Kelly." "Lo spero," rispose l'ingegnere. "Una pompa premente, 8 chili ... " "Una pompa! Che cosa volete farne?" "Per mantenere sempre gonfi i due palloncini." "Ma quali?" "Quelli che stanno dentro nei due grandi palloni contenenti l'idrogeno. Mi spiegherò meglio più tardi. Dieci cilindri di idrogeno compresso, 24 chili ... " "Per cosa farne?" "Per i miei aerostati. Comprenderete che io dovevo cercare il mezzo per mantenermi in aria il maggior tempo possibile, e ho immagazzinato in quei cilindri, mediante una pompa speciale di mia invenzione, ben quattrocento metri cubi di idrogeno." "E non scoppieranno i tubi?" "No: almeno lo spero. Peso del battello, 72 chili; peso delle funi, 100 chili; peso dei nostri corpi ... Quanto pesate?" "Sessanta chilogrammi." "185 chili fra tutti e tre. Peso dei due aerostati, 602 chili; zavorra e altri piccoli oggetti, 758 ... Totale 2600. Va bene, O'Donnell?" "È esatto," rispose l'irlandese. "Dunque noi possiamo disporre di quasi 800 chilogrammi di zavorra: un bel peso, in fede mia, ma necessario" "Una cosa però non ho veduto, fra i tanti oggetti che ingombrano la scialuppa." "E quale?" "Una cucina." "Oh, ghiottone! Mi ero dimenticato di avvertirvi, prima che saliste nella mia navicella, che sareste stato costretto a nutrirvi esclusivamente di cibi freddi." "Non era necessario: freddi o caldi, poco m'importa. Ho fatto l'osservazione non per me, ma per voi." "La cucina portatile è stata la prima cosa che ho eliminato dalla lista dei miei oggetti. Sopra il nostro capo vi è una specie di polveriera, e una scintilla basterebbe a farla scoppiare. L'idrogeno s'infiamma facilmente; ed ecco il motivo per cui ho rinunciato ad accendere il fuoco per tutta la durata del viaggio." "E proibito fumare, dunque." "No, vedete anzi che tengo anch'io una provvista di sigarette: ma alla prima fuga di gas vi consiglio di gettare nell'oceano, e senza ritardo, il vostro sigaro." "Non mancherò di farlo, Mister Kelly. Ora mi spiegherete il vostro sistema di palloni." "Bastano poche parole. Come vedete, i miei due palloni hanno la forma di due grandi fusi, lunghi ventotto metri ciascuno, del diametro di 9,20 metri al centro, più acuminati dinanzi che di dietro e del volume totale di 2120 metri cubi, ossia di 1060 ciascuno. Ho preferito questa forma, perché si presta meglio: se fossero stati due palloni ordinari gli urti fra di loro sarebbero stati frequenti, e per la loro rotondità sarei stato obbligato a tenere ad una distanza troppo grande la mia navicella. Sembrano uniti; ma le loro maglie sono indipendenti l'una dall'altra, e con pochi colpi di coltello possono separarli. Se uno si guastasse, potrei facilmente lasciarlo cadere in mare senza lunghe manovre e farmi reggere dall'altro, gettando la mia provvista di zavorra e gli oggetti meno necessari. Entrambi sono muniti di due valvole: una situata in alto, detta di manovra, serve per la discesa; e per ottenere ciò, basta dare uno strappo a questo due corde fissate a poppa della navicella; l'altra, detta di sicurezza, è automatica, e serve a dar sfogo all'idrogeno quando si dilata per il troppo calore del sole. Senza di questa si potrebbe correre il pericolo di veder scoppiare i nostri palloni. Quando raggiungeremo dei climi più caldi, vi toccherà sovente di sentire un acuto odore di gas. Sarà una perdita grave, ma necessaria per la nostra salvezza. Ma nei miei due palloni ho voluto introdurre un grande miglioramento, che è stato già studiato e anche adoperato, credo, da taluni aeronauti europei, e con risultati soddisfacenti, io ho avuto la massima cura nella scelta del tessuto di seta dei miei palloni e nella vernice interna ed esterna che doveva spalmarli; ma, come voi sapete, il gas fugge sempre anche attraverso i tessuti più impermeabili, e dopo un certo tempo l'aerostato perde la sua forza ascensionale, ricade e forma delle grandi pieghe, entro le quali s'ingolfa il vento, producendo talvolta delle lacerazioni. Io spero che col tessuto da me fatto appositamente fabbricare e verniciare, la perdita dell'idrogeno sarà minima, tanto più che i miei palloni, invece di essere semplici, hanno doppia coperta. Tuttavia fra otto o dieci giorni si sarebbero manifestate delle pieghe che sarebbero diventate assai pericolose, data la forma speciale del mio vascello aereo. Per ovviare a questo grave inconveniente e mantenere la superficie dei miei aerostati sempre tesa, ho posto in mezzo ad essi due piccoli palloni gonfi d'aria, introdotta con la pompa premente che avete veduto. Quando i due fusi perdono l'idrogeno, io gonfio sempre più i miei due piccoli palloncini i quali, aumentando il loro volume, costringeranno la superficie dei primi a rimanere sempre tesa." "Benissimo, Mister Kelly; ma quando i due palloncini saranno completamente gonfi, come farete ad aumentare il loro volume? Allora non potrete più evitare le pieghe che si manifesteranno nei due grandi aerostati." "Non ho portato con me i dieci cilindri di idrogeno compresso? Voi vedete che tutti e quattro i palloni, all'estremità inferiore, o, meglio, nel loro punto centrale, hanno quattro tubi che si prolungano fino a noi. Adatto i cilindri alle maniche dei due fusi e v'inietto dentro i miei 400 metri cubi di gas." "Per San Patrick, mio protettore! Voi avete pensato ad ogni cosa!" esclamò l'irlandese. "Lo spero, O'Donnell; ma questo non è tutto. Se i due grandi aerostati perdessero poco idrogeno e il gonfiamento ad aria dei palloncini fosse sufficiente a mantenerli tesi, io potrei accrescere la forza ascensionale del mio vascello aereo, iniettando i miei 400 metri cubi di idrogeno nei secondi" "Eliminando l'aria?" "Sì. All'una sostituisco l'altro" "E se tutto ciò non bastasse e il nostro vascello dopo un certo numero di giorni cadesse? Chissà, i venti possono spingerci lontano, sull'ampio oceano." "Ho pensato anche a questo, O'Donnell. Ho preso con me tre lunghe guide-ropes o meglio, tre funi moderatrici, del peso complessivo di 70 chili e d'ineguale lunghezza. Se il mio vascello si abbassa (e ciò avverrà senza dubbio tutte le notti, poiché con lo scemare del calore l'idrogeno si restringe, diminuendo considerevolmente la forza ascensionale), io lascio pendere le mie tre funi. Immergendosi, esse perdono una parte del loro peso specifico e alleggeriscono i palloni d'un peso non piccolo. Non bastano? Senza sacrificare la zavorra, calo i miei barili d'acqua, che sono chiusi ermeticamente nei loro recipienti di alluminio, e mi scarico due o trecento chilogrammi. Un'ora di sole basta a dilatare l'idrogeno e noi, a giorno fatto, risaliamo in alto, portando con noi i nostri barili e le nostre guide-ropes, sacrificando forse poche decine di chilogrammi di zavorra." "E se ancora ciò non bastasse e i nostri palloni scendessero per mancanza d'idrogeno?" "Mi resta la scialuppa. Da aeronauti diverremo marinai e cercheremo di raggiungere la costa più vicina, o di incontrare qualche nave." "Ma voi avete eliminato tutti i pericoli." "Tutti no, O'Donnell. Un uragano può lacerarci i palloni, o un fulmine incendiarli, e noi precipitare in fondo all'oceano." "Speriamo di scendere sani e salvi in Europa, Mister Kelly." "Confidiamo in Dio e nel nostro Washington. Simone, versaci un bicchiere di whisky. Quassù fa freddo assai, e una sorsata di liquore ci farà bene e forse ci eviterà un raffreddore." Il negro non si mosse: sempre rannicchiato a poppa della scialuppa, con gli occhi strabuzzati, la pelle bigia, le mani convulsivamente strette attorno alle funi, pareva inebetito dallo spavento. Cercò di rispondere alla domanda del padrone; ma il solo rumore che gli uscì dalle labbra contratte fu uno stridìo di denti. "Orsù, poltrone," disse l'ingegnere. "Hai paura di precipitare nell'oceano? Bel compagno che ho scelto." "Ho ... ho ... paura massa (padrone).." balbettò il negro con voce rotta. L'irlandese proruppe in una fragorosa risata. "Siete comico, mastro Simone," disse. "Non sareste stato voi di certo a tenere allegra compagnia al vostro padrone. Con vostro permesso, Mister Kelly, metto le zampe io sulla vostra cantina." L'irlandese che conservava il suo inalterabile buon umore, stappò una bottiglia e riempì tre bicchieri. "Hurrah per il Washington" gridò. Stava per accostare il bicchiere alle labbra, dopo aver toccato quello dell'ingegnere, quando un'acuta detonazione risuonò sotto l'aerostato. "Per San Patrick!" urlò, "cosa scoppia?" "Una granata," rispose Kelly, con voce tranquilla. "Pare che agli inglesi prema assai di catturarvi. Bah! sarà polvere sprecata!"

Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!" "Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone." "No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso." "Ve lo prometto, parola di yankee." "Siete un compatriota? ... Viva l'America!" L'alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull'oceano. La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

"Pare che abbiate dei conti da regolare con la polizia britannica: comprenderete che ... " Lo sconosciuto impallidì leggermente, poi disse con triste accento: "È vero: voi avete il diritto di credermi un malfattore e come tale indegno di seguirvi in questo grande viaggio." "No, ma ... " "Al vostro posto questo sospetto mi sarebbe filtrato nel cervello, Mister Kelly, e avrei obbligato lo sconosciuto a spiegarsi o ad andarsene. Mi spiegherò; poi se mi crederete indegno di tenervi compagnia e di dividere con voi i pericoli di questo grande viaggio mi getterò a capofitto nell'oceano." "Per uccidervi? Dimenticate che ci troviamo a 3500 metri d'altezza!" "Bah! La morte non mi fa paura. Il mio delitto è quello di aver troppo amato la terra dei miei avi, la mia patria, la mia Irlanda." "Siete un feniano?(1)" "Sì, Mister Kelly, sono uno dei capi di quella lega che mira alla emancipazione dell'Irlanda dall'oppressione dell'Inghilterra e che, all'ombra della bandiera stellata del vostro paese, ha dichiarato una guerra di sterminio alla potenza inglese, la quale tiene schiava la mia povera patria; di quella lega che al tempo della guerra di secessione sparse tanto sangue per i vostri compatrioti dell'Unione. Voi sapete la guerra atroce che le polizie inglese e canadese muovono alla lega per distruggerla. Io, capo dei feniani del Basso Canada, segnalato come uno dei più pericolosi e dei più audaci, quindici giorni or sono, venivo sorpreso di notte e arrestato come complice dell'assassinio di uno sceriffo, trovato ucciso con due colpi di rivoltella sul qual di Quebec ... Questo delitto, attribuito a torto ai feniani, poiché vi giuro che nessuno della lega lo compì, avrebbe dovuto mandarmi a passeggiare all'altro mondo senza colpa; ma i miei amici trovarono il modo di farmi evadere. Sapendo che le autorità mi avevano condannato a piroettare nell'aria con una corda al collo, travestito da marinaio scesi il San Lorenzo e sbarcai all'Isola Brettone, in attesa d una nave in rotta per l'Europa. Appresi della vostra partenza per le regioni dell'aria e avendo udito che cercavate un compagno, decisi di seguirvi, certo che gl'inglesi, che non avrebbero mancato di visitare scrupolosamente le navi transatlantiche, non mi avrebbero inseguito per aria; e avete veduto che i policemen sono rimasti a terra. Questo è il mio delitto: ora giudicatemi voi." "Ma voi siete il feniano Harry O'Donnell!" esclamò l'ingegnere. "In persona, Mister Kelly." "Sono ben felice di avervi salvato, O'Donnell, e sono doppiamente felice d'aver un compagno della vostra specie." "Grazie, Mister Kelly," disse il feniano, stringendo calorosamente la mano che l'aeronauta gli porgeva. "Speriamo che gli inglesi non ci raggiungano." "Raggiungerci? E in qual modo, O'Donnell?" "Ho veduto una nave, un incrociatore inglese uscire da Sidney e filare verso Terranova a tutto vapore, pochi minuti dopo la nostra partenza." "E voi credete ... ?" "Che ci dia la caccia." "Credere che uno steamer possa gareggiare con il pallone è una pazzia, amico mio. In poche ore il vostro incrociatore rimarrà indietro di due o trecento miglia." "Ma non siamo quasi immobili?" chiese l'irlandese con stupore. "Filiamo con una velocità di trentasei miglia all'ora." "Ma io non sento alcun movimento e nemmeno un lieve soffio; se il pallone camminasse con una velocità di trentasei miglia all'ora, si dovrebbe provare una forte corrente d'aria. Guardate, Mister Kelly: la bandiera è immobile e il fumo della mia sigaretta non si disperde che lentamente." "E che cosa proverebbe ciò?" "Che dobbiamo essere immobili, o poco meno." "V'ingannate, O'Donnell, o potete accertarcene guardando l'Isola Brettone, che ormai è appena visibile, mentre Terranova ingrandisce a vista d'occhio." "Infatti è vero." "Noi non possiamo accorgerci della marcia del nostro vascello aereo, perché i palloni non hanno moto proprio. È la massa d'aria che li tiene prigionieri, ed essa cammina: ecco il motivo della nostra apparente immobilità. Anche se il vento fosse più forte, noi non ci accorgeremmo della sua rapidità e ci sembrerebbe di essere sempre immobili." "Ciò è strano!" esclamò l'irlandese. "Io ho sempre creduto il contrario." "E i più lo credono; anzi, taluni pretesi aeronauti hanno perfino immaginato di dotare i palloni di vele, credendo di poter aumentare la loro velocità." "Mentre le vele rimarrebbero assolutamente inerti." "Precisamente." "E non potrebbe nemmeno influire la maggiore o minore grandezza dei palloni sulla rapidità?" "Nemmeno: sia piccolo o grande, il pallone filerà sempre con la velocità del vento e niente più." "E credete voi di riuscire ad attraversare l'Atlantico e di discendere sulle coste europee?" "Lo spero, O'Donnell. Dispongo di tali mezzi che mi permettono di mantenermi in aria per parecchi giorni, anzi alcune settimane. Ho a lungo studiato questo grandioso viaggio aereo, ho tutto calcolato con precisione matematica, mi sono preparato a tutto e ho fatto degli studi profondi sulla direzione delle correnti aeree che si spingono verso il levante. Se avessi voluto intraprendere la traversata dell'oceano, avrei dovuto caricarmi di tale massa di carbone per la macchina da farlo ricadere subito, e sono tornato al vecchio sistema dei palloni liberi, che finora ritengo sia ancora da preferirsi. È vero che ho introdotto nel mio vascello aereo dei grandi miglioramenti ma, come vedete, è sempre un pallone senza moto proprio, senza macchine e senza eliche, affidato solamente alle correnti aeree. Dapprima avevo cercato di costruire un pallone dirigibile, dotandolo di moto proprio; ma mi sono convinto che, coi mezzi attuali di cui dispone la scienza, sarebbe stata un'utopia e ho rinunciato. È bensì vero che ero riuscito a costruire una piccola macchina a vapore che metteva in movimento due grandi eliche, le quali mi permettevano di lottare contro il vento, quando questo soffiava con velocità moderata, e ad inventare un timone che mi dava adito a dirigere l'aerostato; ma ciò poteva servire soltanto per un viaggio di breve durata. Andremo direttamente in Europa? Io lo spero. Ma se la grande corrente che va a levante, e che io ho scoperto, dovesse deviare nel mezzo dell'oceano e spingerci altrove, ho pensato a trovare il mezzo di mantenerci a lungo in aria e spero di esserci riuscito. Se tutto va bene, se un uragano non fa scoppiare i palloni, e un fulmine non ce li incenerisce, io calcolo di toccare le sponde dell'Europa fra sei giorni o forse anche meno." "Quale distanza corre fra l'isola Brettone e le prime coste europee?" "Circa tremila miglia. Ho scelto appositamente l'Isola Brettone, che si può considerare come un lembo di terraferma, data la sua vicinanza alla Nuova Scozia, e che è la più prossima alle coste europee. Avrei potuto partire dalla Groenlandia, che dista dalle spiagge della Norvegia solo ottocento miglia; ma avrebbero detto; forse che io non ero partito dall'America, quantunque i geografi di tutte le nazioni considerino quel gran deserto di ghiaccio come terra americana." "Ma non vi è altro punto più prossimo?" "No, poiché scendendo più a sud le distanze crescono, allargandosi l'oceano. Tra la Florida e il Marocco abbiamo già una larghezza di tremilaseicento miglia; fra Rio della Piata e il Capo di Buona Speranza sono altrettante." "Ma fra il Capo di San Rocco e la costa africana non si restringe l'oceano?" "È vero, O'Donnell, poiché là l'Atlantico è largo solo milleseicento miglia; ma noi avremo incontrato le grandi calme e i venti che da levante soffiano costantemente verso ponente; e anche se fossimo riusciti ad attraversare l'oceano, saremmo caduti sulle coste inospitali della Sierra Leone, forse fra le mani dei feroci abitanti del Dahomey e degli Ascianti." "Ma siete certo che i venti ci spingano verso oriente?" "Proprio certo, no; ma io so che al di là di Terranova i venti ordinariamente soffiano verso il nord-est." "Ma allora finiremo in Manda o in Norvegia," disse l'irlandese. "Ma credete che non vi siano altre correnti sopra quelle che vi ho accennato? Io spero di trovarne qualcuna che mi faccia piegare verso l'oriente. Bisogna però non illudersi, O'Donnell, ed essere preparati a tutto, anche a ritornare in America. Siamo in balia delle correnti aeree: possono spingerci direttamente in Europa, come possono trascinarci verso le gelide regioni del nord, o a quelle ardenti dell'equatore; possono prepararci una discesa trionfale sulle spiagge o dell'Inghilterra, o del Portogallo, o della Spagnia, o ... la morte. La nostra vita è nelle mani di Dio e dei venti." "Sono preparato a tutto, Mister Kelly," disse l'irlandese. "Ero condannato a morte, e tutti i giorni che vivrò ancora saranno guadagnati. Nel caso in cui fosse necessario, per salvezza vostra e dell'aerostato, ve lo dissi già, disponete liberamente della mia pelle." "Grazie, O'Donnell," disse l'aeronauta, sorridendo. "Cercherò di risparmiarla finché lo potrò e mi limiterò a gettare la zavorra che qui abbonda. Porto con me un peso enorme, che mi permetterà di mantenermi in aria lungo tempo." "Quanti chilogrammi ? " "Tutto compreso, noi, la scialuppa, le armi, le provviste, le funi, ecc., tocchiamo i 2600 chilogrammi." "Tale forza hanno i vostri palloni!" "La loro forza ascensionale è di 1,20 chili per metro cubo d'idrogeno, essendo questo di qualità superiore agli altri, che non sollevano ordinariamente più di 1,18 chili. Ora facciamo l'inventario dei nostri progetti; poi, in attesa di giungere sopra Terranova, se vorrete, vi spiegherò il sistema che ho adottato per i miei aerostati."

"Non abbiate paura, O'Donnell," disse l'ingegnere. "I rami ci serviranno da paracadute." "Sono abituato ai capitomboli. Mister Kelly." rispose l'irlandese. "Vi raccomando di non lasciare la rete prima che io dia il segnale, o uno di noi sarà trascinato ancora in aria." L'aerostato cadeva sempre. La distanza scemava con rapidità spaventevole: pareva agli aeronauti che la foresta volasse loro incontro. "Attenzione ai rami O'Donnell!" gridò l'ingegnere. "Badate di non farvi infilzare." Un istante dopo il Washington precipitava sulla cima del bosco. Trovando un punto d'appoggio, tentò di rialzarsi un'ultima volta, ma le maglie della rete s'impigliarono fra i rami, e fu trattenuto violentemente. Il vento però lo sbattè e lo trascinò per alcuni passi, sventrandolo contro le punte degli alberi. Il gas sfuggì con lunghi crepitii attraverso le fenditure, la seta si sgonfiò rapidamente, e i due fusi si ripiegarono sui rami, pendendo fino a terra come due immensi stracci. "Povero Washington" esclamò O'Donnell, con accento di dolore. "È finita" rispose l'ingegnere con un sospiro. "Scendiamo, Mister Kelly?" "Siete ferito?" "No, signore." "A terra, dunque." Si erano aggrappati ai rami di un albero di dimensioni colossali, un vecchio baobab. Scivolarono lungo i rami che s'incurvavano verso terra e si lasciarono cadere in mezzo ad alcuni fitti cespugli. Stavano per rialzarsi, quando si videro piombare addosso trenta o quaranta uomini di alta statura, color della liquirizia, coperti da pochi cenci e armati di lance e di fucili lunghissimi e di antico stampo. L'aggressione fu così rapida e inaspettata, che O'Donnell e l'ingegnere si trovarono ridotti all'impotenza prima di poter far uso delle loro armi. "Che vuol dire?" chiese O'Donnell, furioso. "E così che si trattano le persone che cadono dal cielo, in queste isole? Giù le zampe, furfanti!" I negri invece di obbedire strinsero più robustamente i due aeronauti, emettendo grida formidabili e sgambettando come scimmie che si divertano. Ridevano, si battevano il ventre, che risuonava come un tamburo, e parlavano senza arrestarsi, ripetendo sovente la parola: tubaba! "Tubaba!" esclamò O'Donnell. "Che vuol dire? Voi capite qualche cosa, Mister Kelly?" "No, O'Donnell, ma forse qualcuno conoscerà il francese, questi negri, di quando in quando, hanno dei contatti coi trafficanti della Senegambia." "Provate a interrogarli. Sarei curioso di sapere che intendono fare di noi." "Che cosa desiderate da noi?" chiese l'ingegnere, in francese. Udendo quella domanda un grande negro, che portava al collo una scatola vuota di sardine di Nantes e sul capo un berretto sformato e stracciato che pareva essere appartenuto a qualche ufficiale di marina, rispose nella stessa lingua: "Vogliamo condurvi da Umpane." "Chi è questo Umpane?" "Il re dell'isola." "Come si chiama quest'isola?" "Orango." "Ci avete teso un agguato?" "Vi abbiamo veduti cadere e siamo corsi qui per mangiare l'uccello che vi portava." L'ingegnere scoppiò in una risata. "Va a mangiarlo il nostro uccello" disse. "È fuggito? Non vedo che la sua pelle." "Sì, è fuggito dopo essersi sbarazzato della sua prima pelle" disse l'ingegnere sempre ridendo. "Dove andiamo ora?" "Alla tabanca di Umpane." "Conduceteci da lui, dunque." Ad un comando del negro che pareva fosse il capo, il drappello si mise in marcia, circondando i due aeronauti, ai quali avevano preso le armi, e portando con sé le spoglie del pallone dopo averle fatte in lunghi pezzi. Aprendosi il passo fra i fitti cespugli che ingombravano il bosco, e girando e rigirando fra i tronchi giganteschi dei baobab, delle palme d'elais e dei manghi che crescevano sulle rive delle paludi, dopo mezz'ora giunsero dinanzi a un villaggio situato a breve distanza dalle sponde dell'oceano e composto di un centinaio di capanne più o meno vaste e di lunghi fabbricati che parevano magazzini. Udendo le grida del drappello, una folla di negri si precipitò fuori dalle capanne, recando dei rami accesi e circondando i prigionieri senza però, per il momento, manifestare intenzioni ostili. Le grida divennero così acute, che l'ingegnere e O'Donnell furono costretti a turarsi gli orecchi. "Che concerto!" esclamò l'irlandese, più seccato che spaventato. "Una banda di scimmie urlanti non farebbe di più." "Dov'è il re?" chiese l'ingegnere al negro dal berretto. "Laggiù" rispose questi additando una grande capanna circolare, difesa da una palizzata di bambù e appoggiata a un boschetto di aranci. "Conducimi da lui." Il negro e la sua scorta respinsero la folla con una grandine di legnate e condussero gli aeronauti verso la grande capanna. Il re, senza dubbio informato del loro arrivo, li aspettava sulla porta. Era un brutto negro di trentacinque o trentott'anni, coi lineamenti feroci, gli occhi obliqui che tradivano la doppiezza dell'anima, il naso ricurvo come il becco d'un pappagallo e la carnagione d'un nero lucido perfetto. Portava ai fianchi un sottanino ornato di perle di vetro, di denti di animali selvaggi e di code di scimmie, alle gambe un paio di lunghi stivali sfondati, sul capo un vecchio cappello a cilindro, ammaccato e senza tesa, adorno di etichette, di scatole di sardine, e in mano un bastone da capomusica. In attesa degli stranieri, stava rosicchiando con visibile soddisfazione un pezzo di sapone profumato. Vedendo i due aeronauti, mosse loro incontro seguito da parecchi dignitari e da alcuni guerrieri armati di vecchi fucili, e li guardò per alcuni istanti con curiosità, poi interrogò il capo della truppa, il grande negro dal berretto. Vedendo che la conversazione si prolungava assai e non comprendendo che cosa dicessero, l'ingegnere si fece innanzi e domandò: "In conclusione, che desidera Sua Maestà negra?" "Nulla per ora" rispose il negro dal berretto. "Domani il grande sacerdote deciderà della vostra sorte." "Che intendi dire? È la libertà incondizionata che noi reclamiamo, essendo uomini liberi; al tuo re nulla dobbiamo: ci lasci dunque andare per i fatti nostri." "Deciderà il grande sacerdote." "Me ne infischio del vostro sacerdote." "Bada, bianco, che tu sei straniero qui e che i Bigiuga sono potenti." In quell'istante dalla parte dell'oceano risuonò una detonazione, che pareva prodotta da un cannoncino. L'ingegnere e O'Donnell si volsero da quella parte, mentre i negri alzavano urla acute, e al pallido chiarore della luna, che allora si alzava all'orizzonte, videro approdare il cutter che s'era volto in soccorso del Washington mentre questo stava per precipitare nelle onde. "Siamo salvi" gridò O'Donnell. Una voce argentina, ma squillante, partì dalla piccola nave: "Mister Kelly! ... Mister O'Donnell ... " "Walter!" esclamarono gli aeronauti. Un uomo bianco armato di fucile e di rivoltelle, era sbarcato e muoveva rapidamente verso i negri, seguito dal mozzo e da otto negri armati di fucili a retrocarica. "Indietro!" gridò in lingua portoghese. "Dov'è Umpane?" I Bigiuga, che pareva lo conoscessero, fecero largo e l'uomo bianco avanzò verso gli aeronauti stupiti stendendo la mano e dicendo: "Sono felice di liberarvi da queste canaglie, Mister Kelly e Mister O'Donnell. Ora accomoderò ogni cosa." "Grazie, signore" risposero i due aeronauti, vivamente commossi e stringendogli la mano. "So chi siete." riprese lo sconosciuto "e donde venite, e lo sapevo prima che raccogliessi il vostro mozzo. L'ardita vostra impresa era conosciuta anche sulle coste africane." Poi mentre l'ingegnere e l'irlandese abbracciavano il mozzo lo sconosciuto si volse verso Umpane, dicendogli con voce brusca: "È così che tratti i miei amici? Bisognerà che mi decida a non approdare più alla tua isola e che vada a vendere altrove il mio arak e la mia polvere da sparo." "Ma questi nomini sono caduti dal cielo" disse il re, pure in portoghese, "Forse che ti apparteneva quel grande uccello?" "Sì era mio" rispose il bianco con grande serietà. "Allora ne manderai uno al tuo amico Umpane?" "Nel mio prossimo viaggio te ne porterò uno." "E non fuggirà lasciandomi la pelle?" "T'insegnerò il modo di impedirgli di fuggire. Ma tu devi consegnarmi questi due bianchi che sono miei amici." "Lo permetteranno le divinità dell'isola?" "Interrogale." Ad un cenno del re si fece innanzi un vecchio negro, che si era affrettato a coprirsi con un pezzo di seta del Washington ornandolo di code di scimmie, di denti umani, di scaglie di testuggine e di perle di vetro. Alla cintola portava un coltellaccio, che pareva essere stato affilato di recente. "Che cosa sta per succedere, signore?" chiese l'ingegnere al portoghese. "Si sta per decapitare un disgraziato gallo, Mister Kelly" gli rispose. "E che cosa ha a che fare un gallo con noi?" "Questi superstiziosi negri pretendono che le divinità dell'isola risiedano nel corpo d'un gallo, e manifestino le loro intenzioni coi contorcimenti dell'innocente vittima. Se il gallo, nel dibattersi, cadrà dalla vostra parte, gli dei vi permetteranno di andarvene: se si allontana, allora sarà una faccenda seria. Fortunatamente conosco quel volpone di sacerdote e con un regalo farò in modo che le cose vadano bene." "Lo credete?" "L'ho già fatto avvertire che riceverà una delle mie rivoltelle." In quell'istante fu recata la vittima. Era un grosso gallo tutto nero, che faceva sforzi disperati per liberarsi dalle mani di due alti dignitari che lo tiravano per le zampe e per la testa. Il grande sacerdote scambiò un rapido sguardo col portoghese, poi con un colpo di coltello decapitò la vittima, la quale andò proprio a cadere ai piedi dell'ingegnere e di O'Donnell. "Le divinità li proteggono, Umpane" disse il sacerdote con accento solenne. "Andate," disse il re con un certo malumore. "Siete liberi. Ma trattengo le vostre armi e la pelle del grande uccello." "Te le lasciamo di cuore" disse il portoghese. Poi mentre uno dei suoi uomini donava al grande sacerdote la rivoltella, disse: "Affrettiamoci signori. Quella canaglia di Umpane potrebbe pentirsi." I negri ad un cenno del re aprirono le file. e i due aeronauti, il portoghese, il mozzo e l'equipaggio si diressero rapidamente verso il Cutter e s'imbarcarono. "Ti raccomando il grande uccello!" gridò Umpane. "Tè lo manderò" rispose il portoghese ridendo. "Vedrai come sarà magnifico! ... " Le àncore vennero strappate dal fondo, la randa e la controranda vennero orientate, e il piccolo legno s'allontanò rapidamente dal pericoloso arcipelago, portando seco gli eroi di quel meraviglioso viaggio compiuto attraverso l'Oceano Atlantico. %Conclusione §Il portoghese che li aveva raccolti era il signor Antao Cabrera, proprietario di una fattoria situata in Monrovia, capitale della repubblica di Liberia, sulla costa della Sierra Leone. Aveva terminato il traffico con gli abitanti dell'arcipelago delle Bissagos, coi quali aveva frequenti relazioni, e stava per ritornare alla fattoria con un carico di arachidi. La notizia della grande traversata dell'Atlantico era stata recata sulle coste della Sierra Leone dai giornali europei, giunti a Monrovia col postale che fa servizio costiero fra il Senegal e le colonie della Guinea. Il bravo portoghese, scorgendo quell'immenso pallone venire dall'oceano montato da tre uomini si era subito immaginato che fosse il Washington e si era affrettato a recarsi in soccorso dei naufraghi. Informato della caccia data all'aerostato dall'incrociatore inglese per catturare O'Donnell, il signor Cabrera s'impegnò a battere gli inglesi. Invece di rifugiarsi verso la costa africana o nei seni delle isole fluviali fece nascondere fra le arachidi gli aeronauti e veleggiò arditamente verso il sud. A mezzanotte, l'equipaggio segnalò l'incrociatore, che si avanzava a tutto vapore, lungo la costa. Lo lasciò avvicinare e quando lo vide a portata di voce fece sparare alcuni colpi di fucile per attirare l'attenzione degli ufficiali inglesi. Questi, comprendendo che il piccolo legno doveva far delle comunicazioni, si diresse verso di esso, chiedendo il motivo di quei segnali. Il signor Cabrera s'affrettò a informarli di aver veduto, poche ore prima, un grande pallone, montato da tre uomini, librarsi sulle isole Bissagos, poi scomparire verso l'ovest, in pieno oceano. Gli inglesi, che non sapevano più dove cercarlo, caddero nel laccio e, non dubitando della buona fede del portoghese, misero la prua verso l'ovest, allontanandosi a tutto vapore. Liberatosi da quel pericolo vicino, il portoghese spiegò la vela più che poté e quarantadue ore dopo sbarcava gli aeronauti sani e salvi nel libero territorio della repubblica di Liberia, che è sotto la protezione degli Stati Uniti d'America. Il telegrafo annunciò allora ai popoli d'Europa e d'America il grande avvenimento, coi più minuti particolari. Gli animi si commossero vivamente e Sua Maestà britannica, non meno commossa degli altri per le perigliose avventure toccate a quegli arditi aeronauti, che primi fra tutti avevano compiuto quella grande traversata, creduta prima impossibile, sottoscrisse la grazia per O'Donnell. Tre settimane più tardi, gli amici dell'ingegnere, che già avevano ricevuto notizie dai colombi messaggeri e guadagnate immense somme, sbarcavano a Monrovia con un transatlantico appositamente noleggiato e riconducevano in patria il valoroso aeronauta assieme ai due amici. Mister Kelly ha adottato il povero mozzo, raccolto morente di fame sull'immenso oceano, e il coraggioso O'Donnell. Si dice che egli progetti un altro ardito tentativo assieme ai suoi bravi compagni, e che faccia delle frequenti ascensioni nella sua principesca villa, situata sulle sponde meridionali dell'Ontario, a poche miglia dalle cascate del Niagara. Si parla vagamente di un viaggio al Polo in pallone. Sarà vero? Non lo sappiamo, ma sembra che l'ardito ingegnere, interrogato in proposito, non abbia negato: vedremo. %NOTE: (1) (Appartenente al partito irredentista clandestino irlandese Sinn Fein.) (2) Botte bislunga per vini e liquori.

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