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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
Trento, 17 dicembre 1907
L'evoluzione della cultura e la stampa quotidiana (Conferenza del D.r Alcide Degasperi, detta nella sala del Comitato Diocesano, domenica 15 dicembre)
Migliaia e migliaia d’anni rizzano al cielo le cime loro, le superbe mon-tagne del Tibet: migliaia e migliaia d’anni le squarciano i fulmini, le fendono i ghiacci, le tormentano le bufere e pare quasi che quei giganti sotto l’ira secolare del cielo, stretti, soffocati dalle nubi che eternamente s’accumulano intorno al loro capo, soffrono di un immenso e disperato dolore e piangono da tutti i pori dalle grandi ferite del tempo, per le quali esce l’acqua copiosa, a rivi, a torrenti, a fiumi. E l’acqua continua l’opera di distruzione sulla china, alle falde, alle basi, raccoglie a valle i frammenti, i detriti, il fango strappato alla montagna nella lotta eterna degli elementi, scende il declivio, s’avvia alla pianura e qui distende pacifica il famoso limo della «terra gialla», depone quegli strati uniformi, che sono i più fertili, i più fecondi del mondo. Gli uomini vi seminano, vi fabbricano e benedicono alle acque generose. Nella pianura dell’Hoango nasce il benessere, la ricchezza, la civiltà. Ma lassù il lavoro, la distruzione continua, senza tregua; finché un giorno l’ira del cielo imperversa più forte, i frammenti della montagna precipitano al basso, spinti dal diluviare delle acque e il fiume ove l’ingordigia umana gli rizzò una diga proprio di contro oppure ove la cecità dell’uomo lo volle costringere ad una direzione opposta al naturale andare dell’elemento, abbatte argini ed ostacoli, invade e distrugge la campagna e l’abitato, porta ovunque desolazione e morte... Poi il cielo e i giganti del Tibet si concedono tregua, altri uomini traggono sul limo nuovo, nuovo benessere e nuova vita, finché non risuoni ancora il rombo del tuono e il diluvio susseguente non trovi uomini non ancora ammaestrati dalla storia delle generazioni passate. Così da millennio a millennio, da secolo a secolo. Signore e signori! La storia del fiume giallo e della sua terra è la storia della cultura umana. Anche questa ha la sua evoluzione eterna, il suo fatale andare. Nel corso delle ere più remote, nello svolgersi delle epoche più vicine, in tutte le fasi e i tempi presenti, possiamo figurarci il progresso della cultura come una dispersione dei frammenti di queste masse enormi e rozze ancora, di quella vergine montagna ove stanno accumulate tutte le energie umane: materiale greggio che viene mano mano usato dai popoli nella fattura della civiltà. E anche qui, talvolta sopravvengono dispersioni violente che interrompono la pacifica evoluzione. Sono inondazioni morali che abbattono e distruggono chi vi si pone di contro perché ignaro del limo che le acque travolgono sotto o chi senta di dar direzioni artificiose all’elemento che cammina, com’è natura sua.
Eppure, io credo che agli uomini, anche a noi moderni, niente manchi più facilmente che il concetto di questo eterno evolversi anche della nostra vita intellettuale, niente più riesca difficile che il crearsi una coscienza chiara di questo moto incessante che ne sospinge. E se è difficile essere consapevoli del moto che esiste, quanto più faticoso non dovrà essere lo stabilire le dimensioni della parabola, il conoscere dove siamo, fin dove siamo arrivati! Non è vero, o amici, che noi stessi troppo di frequente parliamo di «tempi nuovi», degli «ultimi orientamenti», dell’oggi, della cultura nostra, senza essere mai penetrati addentro nel midollo delle cose ed esserci chiesti veracemente che cosa in concreto corrisponda alla nostra troppo agevole fraseologia? Ma non è il compito mio questa sera di fissare i termini e il contenuto della nostra fase, riassumendo lo stato attuale della scienza, della letteratura, dell’arte; questo vorrei, però, o cortesi uditori, che il mio dire volesse a confermare: essere giunti noi nello sviluppo della cultura al limitare di un nuovo periodo, dover quindi noi da questa coscienza evolutiva della nostra epoca cavare quegli ammaestramenti che ci facciano non attraversare ciecamente la corrente col pericolo d’esserne travolti ma di rizzarla nei vasti campi, ove il limo del progresso fecondi gli antichi e saldi principi a forme nuove di civiltà.
Signore e signori! Ciascuno di voi si sarà per naturale effetto del nostro egoismo che fa del nostro io il centro del tempo e dello spazio che ci circondano — si sarà disegnato un proprio orizzonte al di là del quale è un passato che si propende più a compatire che a studiare, entro il quale è un presente che si adula volentieri e confina con un avvenire, a cui non si pensa. Ma proviamoci un po’ a rompere questo orizzonte: figuratevi che risorgano i nostri padri antichi e camminino per le contrade d’oggi dì. Li meraviglierà anzitutto il progresso meccanico, la macchina a vapore, la macchina elettrica, il telegrafo, il telefono, il fonografo. Ma fino che osservino più addentro la vita sociale. Troveranno anzitutto mutata essenzialmente la nostra vita economica.
Non la quieta stabilità della mano d’opera nelle piccole ed alacri officine, ma il rumore assordante della grande industria, non l’artigianato laborioso e modesto dei secoli anteriori, ma operai e padroni, con libero contratto di lavoro — forze l’una contro l’altra armate. E vedranno l’antico droghiere, il piccolo negoziante che vendeva di tutto a tutti, a combattere anch’esso la lotta già perduta dall’artigianato contro i grandi negozi specialisti, i bazars, l’unione e la cooperazione dei consumatori e grande sarà la loro meraviglia di non trovare più nemmeno il contadino signore della terra che coltiva, ma soggetto anche egli a tener conto del raccolto di paesi remoti e ai prezzi che il grande mercato, la borsa, detteranno. Ed ecco la loro conclusione: I rapporti economici sono essenzialmente mutati.
Ebbene, signori, coi rapporti economici si trasformano anche i rapporti nella famiglia, nella società, nello stato. Il cozzo della rivoluzione con quanto era tradizionale ha dato nuove forme politiche agli stati; l’evoluzione economica di oggi ci darà una nuova costruzione della società, la quale del resto è già cominciata. Ma non è tutto, ancora, signore e signori. «Colui che ha studiato la cosa a fondo dice de Saint Bonet sa che dopo il primo impulso dato all’uomo da Dio, l’uomo ha creato il suo suolo, il suolo ha creato il clima; il clima ha creato il sangue; il sangue ha moltiplicato le nazioni e le nazioni hanno innalzato le anime. E quegli che ha passo passo seguito i popoli sa che quando le anime si sono affievolite le nazioni perirono, il sangue ridivenne povero, il clima inabitabile, il suolo ingrato e la rude natura che ci aveva insegnato ad usare delle nostre forze, occupò di nuovo la terra». Dio vi guardi dall’interpretare il mio pensiero, quasi a cessione al materialismo storico. No, non si tratta di una dipendenza assoluta dello spirituale dal materiale, ma di una meravigliosa cooperazione del corpo e dell’anima. Ricordate le tristi regioni d’Italia, funestate dalla malaria? Là l’uomo aveva vita breve e inferma sempre. Si risanò il suolo ed il clima parificato scacciò il linfatismo dalle vene; una fibra più robusta aumentò il volume dei muscoli, allargò i polmoni, rinvigorì la polpa cerebrale. Ma tutto questo si raggiungeva solo mediante l’energia spiegata dall’anima; così essa si sviluppava, si perfezionava nell’uomo in proporzione che egli si formava e perfezionava tutte le cose intorno a sé. Signori, possiamo dunque conchiudere: i tempi nostri sono nuovi... i tempi nostri sono nuovi non per i rivolgimenti economici soltanto, non solo per gli ordinamenti sociali, ma nuovi per le trasformazioni della nostra vita morale ed intellettuale. O padre Dante, se tu scendessi dal tuo piedistallo e muoveresti per entro la città nostra non ti meraviglieresti tanto dei rinnovamenti tecnici e meccanici, né del mutato aspetto delle abitazioni umane, né delle mura abbattute, delle vie, delle piazze allargate fuori verso l’aria, il sole, quasi senza confine. Ma i tuoi occhi profondi penetrerebbero nella mente e nei cuori dell’uomo del secolo ventesimo e tali sarebbero le cose nuove e tanti i mutati aspetti e diverse le forme e misure scoperte dagli occhi tuoi che sdegnoso scoteresti la polvere dai tuoi calzini e ritorneresti lassù, di bronzo, quasi ripetendo: …E non c’era altra via Che questa, per la quale io mi son messo
Ma Dante, o signori, veste il lucco fiorentino, è l’uomo, il grande uomo del Trecento, noi vestiamo più o meno secondo l’ultimo figurino di Parigi e siamo uomini del secolo ventesimo. Altra via è la nostra, benché eguale sia la meta e grave errore sarebbe assumere incondizionatamente dal passato e meta e via. Siamo, ripeto, uomini del secolo ventesimo! Siamo e dobbiamo esserlo: va detto e ripetuto specialmente a noi cristiani che onoriamo l’Alighieri perché ha incluso nelle sue rime divine tutte le credenze nostre, il tesoro delle tradizioni e quanto nell’eterno trasformarsi delle cose sta fermo come sillaba di Dio che non si cancella. Siamo e dobbiamo esserlo: va detto in ispecie a quei cattolici che da una concezione statica della vita traggono la motivazione della loro inerzia: siamo e dobbiamo esserlo, perché solo una concezione dinamica — mi si passi la parola di voga — ci porta a conoscere i nostri tempi ed a muoversi entro il moto loro, verso gli ideali eterni ed immutabili del cattolicismo. O vogliamo noi meritarci il rimprovero di Gesù ai Farisei: «Quando scorgete alzarsi la nube da ponente, dite subito: la pioggia è vicina e così accade. E quando vedete soffiare il vento di mezzodì, voi dite: farà caldo e così avviene. Dissimulatori, voi sapete distinguere l’aspetto del cielo e della terra: come dunque non conoscete i tempi in cui ci troviamo?» Ed ecco, o signore e signori, quello che volevo dirvi oggi, quello stigma di sana modernità che vorrei le mie parole quasi un ferro rovente avessero impresso nella nostra mente, prima di accennare alla funzione del giornale nella vita quotidiana, come suona il tema mio. Dico, accenno soltanto perché non voglio ripetermi, che un anno fa avevo l’onore di parlare diffusamente e con molta ampiezza della stampa e dei suoi compiti alla quale conferenza giacché io mi sento anzitutto propagandista mi rimetto oggi per tutto quello che non abbia oggi valore di effetto immediato.
Non v’ha dubbio, cortesi uditori, per tutto quello che ho detto e avrei potuto aggiungere attingendo all’attenta osservazione delle cose nuove, che oggi siamo giunti — nel flusso continuo della storia — ad un periodo di inondazioni, di piena. I frammenti dell’energie umane si staccano dalla grande massa greggia che la nostra fantasia trasporta lontana, ma che in realtà è dentro di noi, si staccano in una esuberanza mai più vista, perché mai come oggi il cozzo delle idee e delle anfrattuosità della vita sociale fu tanto forte, tanto frequente. La caratteristica del nostro periodo è, e diverrà maggiormente, la grandiosa dispersione di tali frammenti, cioè l’immensa propagazione delle cognizioni, la diffusione della cultura moderna. Come nella vita pubblica e negli ordinamenti politico—sociali si accentua, predomina la democrazia, la quale non è che diffusione di diritti e di doveri politici, così nella vita intellettuale s’impone sempre più la popolarizzazione, la decentralizzazione della cultura fino agli estremi punti della periferia.
Ebbene, signori, quello che è nella democrazia il parlamento, è nella cultura la stampa moderna. Il parlamento è l’organo e la palestra della democrazia, la stampa è l’organo e la palestra per la diffusione della cultura. Quando parlo di stampa, intendo in ispecie la stampa quotidiana, il giornale. Ho tutto il rispetto che si conviene per il libro, il volume; ma chi lo usasse o raccomandasse quale organo della diffusione della cultura si troverebbe di fronte al giornale come s’è trovato il piccolo artigiano di contro alla grande industria di oggidì. La stampa quotidiana anzitutto è il canale per il quale si riversa l’immensa colluvie della moderna cultura, in cui come nei flutti del Hoango sta vita nuova o morte. Non basta; la stampa non è solo un canale, è più ancora, un cribro per il quale la corrente deve assolutamente passare. Ed ora è facile stabilire l’enorme valore del giornale nell’età nostra. Il giornalismo è un parlamento, ossia detta le leggi della nostra vita intellettuale, la stampa è un canale, ossia l’organo che trasmette la moderna cultura, la stampa quotidiana è un cribro che lascia passare dalla vita privata a quella pubblica questo o quello, secondo l’arbitrio suo. Ebbene? È naturale che quanti hanno interesse a indirizzare la corrente ad una meta voluta, è naturale che quanti sentono la forza e la bontà delle proprie convinzioni, è naturale che quanti vogliono dare la diffusione più larga al patrimonio delle proprie idee, tentino l’impadronirsi della chiave dell’avvenire, della stampa quotidiana. È naturale ma l’abbiamo fatto noi, cristiani, noi cattolici? Mentre gli avversari ci hanno preceduto nelle aule parlamentari e in tutte le manifestazioni della democrazia, noi stavamo attoniti a codesto diluviare delle forme e delle cognizioni nuove; mentre gli avversari s’impadronivano della corrente avvenire, noi stavamo ancora inerti nella considerazione del passato. Nel parlamento, nella vita pubblica ci siamo entrati finalmente, a fatica, dopo che gli altri ebbero compiuto il loro esperimento; si può dire altrettanto per la cultura contemporanea?
Il grande giornalismo è in mano dei nostri più accaniti avversari; nella stampa loro, ch’è la più diffusa e la più influente, vengono dettate le leggi della vera cultura, e chi non s’inchina a loro non è ammesso né come scienziato né per uomo colto. Questa stampa, trascina l’opinione pubblica, la gran folla che legge e non riflette, verso la distruzione e la rovina dei campi ubertosi, fecondati dalla civiltà cristiana, questo giornalismo sopprime la notizia che porterebbe onore e gloria ai nostri principi, ai nostri uomini e, cribro fatale, fa passare le calunnie, le menzogne contro la verità di Cristo, della Chiesa, nelle menti dell’impressionabile volgo del secolo XX.
Enorme, fatale è la sua potenza. In Italia propaga una serie di pretesi scandali clericali che vanno dalla falsa monaca di Monza fino alle orribili calunnie contro i salesiani di Varazze. Le notizie vengono smentite colle prove, impossibile a persona onesta il dubitare ancora. Eppure la campagna della stampa fa seguire una campagna di discorsi, comizi, di violenze. Perché? Perché il cribro fatale non lascia passare le prove delle smentite, le condanne dei calunniatori, sì che il gran pubblico è ancora sotto l’ossessione della calunnia lanciata, descritta, diffusa fino alla suggestione. In Austria, dopo il congresso cattolico, la Neue Freie Presse propaga la paura del pericolo clericale alle università; tutti i giornali, tutti i professori, con poche eccezioni, gran parte dei deputati, seguono l’allarme e la riduzione della cosa ai suoi veri termini a nulla approda, perché il cribro fatale non la lascia passare. Che più? Tutta la nuova era è ossessionata da questa stampa: Che è per essa la Chiesa, se non una società per l’oppressione, per i roghi? Che vale contro codesto mostro dagli infiniti tentacoli un volume poderoso, una raccolta di documenti che smentisca il concetto della Chiesa dato, impresso dal giornalismo?
Il potere del giornale anticlericale è giunto a tanto, che non occorre faccia nemmeno cenno di provare quanto asserisce. Basta una delle solite frasi stereotipate, perché l’effetto voluto segua incontrastato. Gesuitismo, clericalismo, manomorta sono le parole-spauracchi che servono a dirigere la folla dove si vuole; laicizzazione, libera scuola, incameramento sono le parole briccone, che legittimano e contestano per i più lo scristianizzamento, l’ateismo nella scuola, la confisca della proprietà, il ladroneccio. A che giova la pastorale del vescovo, la protesta dei cardinali, l’enciclica del pontefice se questa stampa o le sopprimerà o le storpierà a piacer suo? I cattolici, dopo lunga inerzia nella vita politica, si sono scossi ed hanno i loro deputati al parlamento. Ma che giova il loro discorso se, ignorato dalla stampa, rimarrà sepolto negli archivi parlamentari. Perché i cattolici sono rimasti indietro Riscuotiamoci dunque, o amici della causa cristiana, creiamo una stampa forte, rispettata, che s’imponga. Perché abbiamo dormito finora? Io ritorno logicamente là, donde sono partito. Perché non abbiamo compreso l’evoluzione dei tempi nostri, perché della vita che ci trascorre dinanzi non abbiamo avuto la concezione dinamica e reale. Perché noi cristiani, noi credenti abbiamo formato la grande massa inconscia fra i lettori, gli abbonati di siffatti giornali? Perché non avevamo compreso il compito fatale della stampa, quale organo della cultura contemporanea.
Ditelo, voi, signore, che avete avuto la compiacenza d’ascoltarmi fino qui; esagero forse la colpa dei cattolici? O non furono proprio le donne, le madri, le spose, le sorelle, le quali lasciarono introdurre o introdussero nelle famiglie certi giornali, solo perché avevano in appendice romanzi sensazionali, racconti interessanti? O non vi siete accorte ancora che per voi, tutrici della famiglia, educatrici delle generazioni venture, è una degradazione d’accontentarsi di un’appendice, mentre il capo, il resto del corpo tutto è avversario dei vostri principi, inocula il veleno nei vostri figli? Donne, siate madri, sorelle, spose del vostro tempo; ponetevi nell’agone della cultura contemporanea, sorreggendo, aiutando una stampa che la conduca alla verità di Cristo.
Vorrei oggi che qui in questa sala fossero raccolti tutti i trentini, non indegni delle loro tradizioni, fedeli ai principi immutabili del nostro vangelo, fidenti che tali principi dovranno vincere anche nella civiltà avvenire; e vorrei dir loro: Rammentate che i vostri avi difesero, propagarono le loro idee coi mezzi dei loro tempi: voi tale patrimonio l’avete raccolto ed avete il dovere di tramandarlo ai vostri figli; ebbene conservatelo, difendetelo coi mezzi dei nostri tempi; propagate, fortificate la vostra stampa, affinché l’immensità delle novelle energie che sviluppa il cozzo della vita moderna serva ad aumentare la celerità del nostro moto verso il trionfo del vero, del bello e del buono. Oh! Mentre il nemico è così alacre, mentre l’avversario ne precede a gran passi, non ristate, non sostate voi, né impacciate il piede con piccini interessi, con egoistiche ritenutezze. Non considerate il giornale come una impresa o un affare di alcuni, di pochi: è l‘impresa di tutti voi che ne professate le idee, il programma. Lo so, il progresso costa fatica, la cooperazione richiede lavoro. Anche nel campo intellettuale domina incontrastata la legge dello sforzo. La prima civiltà è nata dalla lotta dell’uomo contro le difficoltà della natura: il montone, a cui crebbe la lana sul dorso, non progredì, l’uomo che dovette contrastare e cibo e veste a potenze nemiche creò la civiltà: ed era la prima fase. Le lotte per la civiltà avvenire si dovranno combattere non più sul terreno materiale, quanto nel regno dello spirito. Ebbene sia la stampa cattolica nel campo della cultura quello che fu al principio della nostra era la vanga dei Benedettini nei paesi del Nord. Strappi i rovi dell’errore, asciughi le paludi del vizio, prepari i solchi per il seme della nuova civiltà essenzialmente cristiana, pienamente evangelica. Ai tempi, in cui questo seme fiorirà rigoglioso pensava Leone XIII, quando nel 1894 (enciclica Praeclara) scriveva: «Noi vediamo laggiù nel lontano avvenire un novello ordine di cose, e non conosciamo niente di più dolce che la contemplazione degli immensi benefici, che ne saranno il naturale effetto». A tale primavera guardava l’antico la lezione che si legge proprio ora nel veggente della Scrittura, quando, secondo l’Avvento, annunziava: «In quel giorno il germe della radice di Jesse (il Messia) sarà posto quale stendardo davanti ai popoli: a lui le nazioni offriranno le loro preghiere e il suo sepolcro sarà glorioso... La terra è ripiena della cognizione del Signore, come le acque coprono il mare».