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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
Trento, 11 settembre 1905
Il Congresso degli universitari cattolici a Borgo
Gli amici m’hanno detto: «Tieni un discorso popolare, dell’accademia gli uditori sono stucchi e ristucchi». Ed ho risposto di sì, anche perché io stesso, almeno in teoria, sono nemico acerrimo dei cosiddetti oratori elevatissimi, dei quali si sa dire, quando hanno finito, che son della gran brava gente, appunto perché non era stato proprio possibile di capirli. Cicerone era piuttosto tra questi ultimi ma noi invidiamo la fortuna di Demostene, perché la chiusa delle sue filippiche era coronata dall’entusiastico grido: «guerra, guerra a Filippo!» Così oggi, sia pure ch’io non sono Demostene né voi gli ateniesi, vorrei tuttavia che alla fine del discorso non dobbiate dire: «Veramente ho capito poco, un bravo oratore però!». Ma invece che siate condotti a dire: «Le ha dette giuste, convien proprio fare così!». Una cosa però non hanno precisato i colleghi di direzione: s’io dovessi cioè tenere questo discorso popolare al popolo in nome loro o viceversa se avessi a parlare in nome del popolo agli studenti. Mi perdonerete, quindi, se, per cavarmi d’impiccio, parlerò un po’ agli uni e un po’ agli altri. Se vi sarà qualcuno che a un certo punto non comprenderà, stia tranquillo; in quel momento non mi rivolgo a lui, ma ad altri.
Questa mattina al vedere tanta piena di popolo che ci accompagnò qui quasi in trionfo, mi tornava alla memoria un dialogo breve ch’io ebbi al congresso di Caldonazzo con un professore universitario della Germania. Il professore, avezzo a vedere gli studenti aggirarsi in quell’atmosfera di birra e di fumo, già descritta dalla Stael, guardava attonito a tutto quell’affollarsi di popolo sotto le loro bandiere, a quel confondersi di tutte le classi cogli universitari. Veda, interruppi allora la sua esclamazione di meraviglia, il popolo è grato agli studenti! Gli studenti hanno dichiarato d’essere col popolo e per il popolo. Le opere non hanno smentito le promesse, e il popolo se ne ricorda. Così dicendo, accentuavo un punto fondamentale del nostro programma. La storia nostra è breve. Venuti su, quando nel campo studentesco era già sorta un’organizzazione, noi, un manipolo appena, ci trovammo subito di fronte a buon numero di antichi discepoli o amici. Era l’ora, in cui la tendenza di dirigersi al popolo ringagliardiva nei giovani cuori: l’urto era inevitabile. Ricordate i destini del Faust? Il Faust, stanco di sé e della vita di piacere, gettò un giorno lo sguardo sul mare, lo vide sterile esso medesimo, divenire fattore di sterilità per le terre, suoi confini una volta, ora sommerse o ridotte a micidiali paludi; e decise in cuor suo di ricacciare entro se stessa la prepotenza del mare, di risuscitare alla verde vita le terre morte. Il piano grandioso, venne eseguito, innumeri braccia umane scavarono canali, alzarono dighe, strapparono giorno per giorno all’elemento divoratore nuove conquiste e in breve Mefisto può mostrare a Faust una verde distesa di prati e di campi là dove prima stagnava l’acqua morta. Ma il Faust non è contento ancora. Lassù, sulla collina, baciata dal mare, sotto i tigli sta una capanna baciata da due vecchietti, e più in là una cappelletta, santuario dei poverelli, e speranza un tempo dei naufraghi. Il Faust vuole anche la collina, la vuole per compire i suoi piani, ma i due vecchi non vogliono abbandonare la zolla avita, e il Faust, padrone del mondo, sente ogni giorno la squilla argentina e il profumo dei tigli venirgli a ricordare nel suo palazzo l’ostinazione del povero. Una notte serena, il demonio Faustiano Mefistofele, mette in fiamme capanna e chiesa, e i vecchietti vi vengono arsi dal fuoco. Perché vi ho ricordato l’allegoria di Volfango Goethe? Il Faust è l’umanità moderna che, infatuata di quello ch’ella chiama progresso, si precipita inanzi seminando sul sentiero cadaveri, e l’uomo trascinato da un’idea nuova, indiscutibile, che calpesta i sentimenti conservativi, è il pazzo che condanna irremissibilmente e totalmente il passato, per imporre un avvenire, creato dalla fantasia e dalla sua ambizione. Così erano quelli studenti che dieci anni fa dichiaravano di fare del Trentino una bragia rossa. Per loro il Trentino passato non era che il paese degli errori, delle menzogne convenzionali, delle infamie. E il loro avvenire che volevano imporre colla spada e col fuoco, era tolto di peso da paesi stranieri era impastato delle idee, chiamato socialismo. Che eri mai tu, o popolo trentino ai loro occhi? — Mandra di pecore sotto le sevizie di pastori superbi e ignoranti, ciechi brancolanti nelle tenebre. La secolare catena delle tue tradizioni doveva venir spezzata e tronca per sempre.
Non così noi, o signori! Anche la nostra associazione, appena nata, si rivolse al popolo. Ma noi venivamo anche dal popolo, e, attraverso i solchi bagnati dal suo sudore, e a traverso le selve risonanti i colpi delle sue asce avevamo ascoltato la sua voce sincera, intonante una fervida preghiera ed eravamo caduti in ginocchio con lui, mentre le campagne dai nostri gioghi alpini mandavano giù giù per la valle il loro richiamo. Siamo tutti fratelli di Cristo! Ecco la prima espressione della nostra democrazia. La nostra azione popolare doveva basarsi sulla continuità della fede e dei buoni costumi. Noi ci siamo guardati d’attorno e abbiamo ammirato le nostre superbe cattedrali, i nostri santuari, le croci splendenti sulle torri della città, le croci enormi piantate sulle cime delle nostre alpi, e abbiamo sentito che esse non sono semplici testimoni del passato, ma che sono promesse, profezie per l’avvenire. I cattolici hanno piantato le tende sul campo del Trentino storico e chi ha per sé la storia di un popolo, ne ha in mano anche le sorti future! Non altrimenti avvenne già entro questo breve giro di tempo. Quei giovani che volevano distruggere le antiche capanne e le chiese o sono degli uomini stanchi e disillusi o, ridotti alla semplice negazione di tutto, sentono già, come il Faust, lo scricchiolio delle zappe delle Lemuri che scavano la fossa, dove seppelliranno la loro vita pubblica. Le relazioni invece del popolo coi nostri studenti si fecero più intime. Noi vivemmo della vostra fede fortissima, voi aspiraste il nostro entusiasmo. Io vi riconosco, o visi abbronzati dal sole, vi rivedo, o bandiere della buona battaglia! Con voi abbiamo acclamato le prime volte alla democrazia cristiana, sotto di voi abbiamo attraversato le città e le valli in nome del vangelo, con voi e sotto di voi, uniti in un sol pensiero, abbiamo trascinato dietro la fiumana dei dubbiosi, verso la croce. Qualcuno mi rimproverava oggi che gli studenti cattolici non votino, come altri, lapidi e monumenti ai nostri grandi. Lasciali fare, ho risposto, i nostri erigono nel cuore del popolo un monumento più duro della pietra, più longevo del bronzo. La scienza sola, ha scritto in un sonetto pochi giorni prima della sua morte, Lope de Vega, non esca che nebbie pel capo, è il cuore, l’amore che ci vuole. Sì, o amici, l’amore grande a Cristo, alla nostra patria infelice. Quest’amore fu grande in voi negli anni trascorsi; non venga meno nell’avvenire!
La relazione del nostro presidente m’ha detto che s’è lavorato anche quest’anno. È vero, ma l’azione pro università, — una questione triste, su cui in un giorno d’entusiasmo non voglio parlare — ha distolto un po’ la nostra attenzione dalla propaganda popolare. Ebbene, ripigliamo il cammino, o amici, coll’entusiasmo primiero, colla fede antica nel cuore. Nulla è mutato, né i presidii né le benedizioni ed approvazioni di un giorno. Nelle nostre società operaie freme il desiderio della ripresa; a che tardiamo? E perché non si dica che ci cacciamo in questo lavoro con la presunzione di giovani ricordiamo pure che noi non siamo che una parte dell’esercito che avanza e che è più facile criticare che fare. E qui l’oratore racconta popolarmente, fra ilarità generale, la parabola di Hans Sachs su S. Pietro e la capra. La morale gli serve per ripigliare come segue. Al lavoro dunque con tutte quelle cautele che ci preserva dalle frasi vuote, dalle pose inutili, al lavoro, che esca in noi e nel nostro popolo una coscienza positiva. Promettiamolo qui e oggi, amici e colleghi, di fronte a questo popolo industre, di fronte a questo castello diroccato, testimonio d’una gente non serva, ma fattrice dei propri destini. Gli anni che verranno sarà tempo di battaglia, le nostre energie giovanili cozzeranno giorno per giorno coi tempi ostili. Che importa! Siamo con Cristo e il suo popolo. Andiamo!