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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
Trento, 5 aprile 1925
Un discorso dell'on. Degasperi. I caratteri e l'azione del Partito popolare nell'attuale situazione politica
L’opposizione del Partito popolare al fascismo e all’attuale governo non si fonda su di un calcolo opportunistico riguardante il futuro né su risentimenti riguardanti il passato.
Non è vero, come si volle affermare di recente, che i popolari si lascino guidare dal proposito di ottenere col loro attuale atteggiamento una specie di contro-assicurazione contro l’anticlericalismo di domani, come è falso che li spinga il rancore per i torti e le violenze subite. Il calcolo e il risentimento giustificherebbero l’opposizione, ma non la spiegherebbero forse nella sua profondità e nella sua lunghezza. Non è nemmeno vero che ci manchi la serenità di valutare oggettivamente i provvedimenti del governo fascista, di alcuni dei quali fin da Torino abbiamo ammesso la bontà o la discutibilità; e di fronte ai quali in ogni caso già l’esperienza ha insegnato come una collaborazione di critica e di controllo potrebbe ottenere modificazioni e adattamenti. Anche l’antitesi dei principii non potrebbe venir invocata come ragione definitiva del nostro atteggiamento politico. Certo il popolarismo s’inspira alla legge evangelica della fraternità e della giustizia sociale, mentre il nazional fascismo si fonda sulla legge della forza; certo l’ideale pagano della nazione deificata contrasta col concetto cristiano della personalità umana. Ma questa innegabile antitesi può venir rinfacciata a chi spiritualmente, politicamente e organicamente si confonda col fascismo, non a chi, salvaguardando la propria fisionomia, collaborasse col governo fascista e molto meno a chi esercitasse in suo confronto una funzione critica. La solita distinzione fra tesi e ipotesi che fu invocata ieri in confronto del liberalismo e che vale oggi di fronte al socialismo, non può venir negata rispetto al fascismo.
Ma la ragione fondamentale della nostra opposizione sta nel sistema di governo attuato e coerentemente sviluppato dal fascismo. Il partito dominante governa contro il sistema rappresentativo, rinnegando in via di fatto il metodo democratico costituzionale e sostituendovi una dittatura pseudoplebiscitaria fondata sulla milizia di parte. È nella logica ch’esso tenda alla sostituzione degli organi elettivi con funzionari delegati dal potere esecutivo e ch’esso sia accentratore, antiautonomista, anticomunalista e antiprovincialista e che la spinta dell’idea iniziale lo porti a sopprimere la libertà di associazione e la libertà di stampa che sono corollari indispensabili del sistema rappresentativo. Il contrasto è profondo e insuperabile: sul nostro scudo sta scritto: «Libertas», nell’altro campeggia la «Scure». Ad inasprire il conflitto è intervenuta la cosiddetta questione morale, che è la sovrapposizione dei «diritti della rivoluzione» ai diritti della legge morale codificata. Ma anche se questa si potesse superare e l’esercizio della giustizia penale da una parte e quello della giustizia amministrativa dall’altra, fossero usciti illesi dalla rivoluzione fascista, basterebbe la «questione dello Stato» a spiegare l’odierno atteggiamento dei partiti. La questione dello Stato si è riaffacciata dopo la guerra, quasi in tutti i paesi europei, più incalzante naturalmente nei paesi di nuova formazione, ma preminente anche negli altri, tanto che, a larghi intervalli, ha soverchiata la questione delle classi, cioè la questione sociale che aveva dominato negli ultimi cinquanta anni. Il partito popolare ha lanciato il suo programma ricostruttivo fin dal ’19. È forse un caso che la linea del Partito popolare italiano collimi coll’indirizzo che i partiti d’ispirazione cristiana hanno affermato in tutti i paesi ove esistono?
Nella costituzione di Weimar, nelle assemblee di Praga e di Belgrado, negli statuti della repubblica austriaca, nelle grandi municipalità amministrative da Lubiana a Colonia, ad Anversa si appalesa un indirizzo eguale: istintivamente, logicamente i partiti popolari nel nostro senso della parola, messi di fronte al problema costituzionale, si affermano per la libertà e per la democrazia. È la logica della scuola cattolico-sociale. In verità le apparenze avrebbero forse potuto ingannare. Quando si trova che il corporazionismo fascista ha ereditato le formule di uomini nostri, come il Vogelsang e il De Mun e si ricordi che la rappresentanza dei sindacati nel Parlamento ebbe dei ferventi sostenitori proprio nelle assemblee cattoliche internazionali dell’Unione di Friburgo, si sarebbe tentati di credere che le linee della nostra ricostruzione sociale non dovrebbero passare lontane da quelle del sindacalismo fascista. Ma l’apparente identità riguarda solo le formule. Lo spirito che le anima e l’idea cui devono servire sono diverse: là il popolo in un rinnovato assetto d’eguaglianza giuridica e di fraternità sociale, qui lo Stato hegeliano nell’assolutezza del suo carattere e delle sue finalità. A questo passo l’oratore rileva come appunto la preminenza del problema costituzionale spieghi il fatto che i partiti a sfondo religioso possano trovarsi e si trovino sullo stesso fronte politico coi cosiddetti partiti di sinistra. Lo schieramento avviene però in modo del tutto diverso dal passato. Non si tratta più di blocco nel senso che gli individui si distacchino dal partito d’origine per assumere un colore più incerto e una rappresentanza più comprensiva né si vuol creare forme di transazione così care ai trasformisti di tutte le ore.
L’Aventino non produce il socialistoide, il clericaloide, non tende né a gentilonizzare né a massoneggiare. Mentre il fascismo crea il libero-fascista, il Clerico—fascista, e il demo—fascista, sgretolando e tentando di dissolvere il partito liberale, il partito popolare e il partito democratico, l’Aventino rispetta i limiti organizzativi e spirituali di ciascun gruppo e al blocco degli individui sostituisce la intesa dei partiti. Codesta non è una compromissione bloccarda vecchio stile, ma un patto federale che corrisponde ad un alto grado dell’evoluzione politica del nostro paese. Organicamente è un sistema di più difficile maneggio, ma moralmente rappresenta senza dubbio un progresso verso la maturità politica. È strano, esclama a questo punto l’oratore, che certi critici i quali hanno assistito impassibili all’imbarco della turba multicolore nell’arca governativa, menino ora tanto farisaico scalpore, perché i popolari, nel combattimento politico imposto dal fascismo, si trovano sulla stessa linea tattica dei socialisti. Qui nessuno, ha abbassato la bandiera, nessuno ha mai lasciato supporre che il mutuo patto di tolleranza civile comporti la transigenza nella dottrina o un minor impegno nell’applicarla. Quando i popolari hanno ospitato le opposizioni, non hanno avuto bisogno di tirare un velo sul Crocifisso appeso alle loro sedi; e la figura del Cristo ha dominato sulle assemblee che invocavano la libertà. La libertà di vivere e di battersi per un ideale politico, la libertà di riunirsi e di associarsi per il progresso sociale, la libertà di servire la patria secondo la propria fede, la libertà che, prima che dalle leggi al cittadino, fu garantita all’uomo dal cristianesimo il quale di fronte all’antico cesarismo rivendicò i diritti imperscrittibili della personalità umana. Se questa libertà non verrà riconquistata, la democrazia cristiana fu un sogno della nostra giovinezza che non ha ritorni, la riforma sociale una costruzione tolemaica e l’enciclica che ci parlò delle «Cose nuove» un epitaffio sulla tomba d’un’epoca ormai sepolta.
L’on. Degasperi dice a questo punto di non ignorare i rischi di questa lotta, alla quale i popolari non possono che parzialmente presiedere coi loro criteri di legalità e di moderazione: doversi quindi tener conto dei suggerimenti della prudenza. Ma qui d’altro canto conviene ricordare una grande parola di Montalembert: «Pour moi, ma conviction est que le plus grand des maux dans une société politique, c’est la peur...». L’adagiarsi spiritualmente e materialmente nel presente stato di cose equivale a divenirne complici. Un partito che rinunzia alla sua funzione politica è condannato alla morte. E bisogna considerare gli effetti della nostra azione su tutti i fronti. L’oratore ricorda quanto scrisse un autorevole giornale della destra socialista, tre giorni fa («Lavoro» di Genova, 31 marzo) in polemica con un giornalista cattolico che voi avete riferito l’altro ieri: «Noi non dobbiamo né possiamo commisurare la nostra attività su quella di organismi sociali non politici. Il partito ha una sfera d’azione particolare e dei doveri speciali. Sarebbe assurdo esigere da uomini che presiedono all’industria, all’economia, alla scuola o al culto quell’attivismo che è invece per il partito un inesorabile dovere civile». Recentemente un giornale fascista, non sappiamo se nei suoi termini esatti, riferiva un giudizio d’un alto prelato dell’America Latina sul partito popolare. Il giudizio non era lusinghiero e sovratutto non corrispondeva ad equità. Nessuna meraviglia in fondo, perché chi sa quali spropositi toccherebbe di dire a noi, se ci mettessimo a parlare del Brasile. Ma l’errore sta nel metodo, e per questo ne facciamo cenno. Che cosa si direbbe se, giudicando con [simili] criteri dell’atteggiamento degli uomini di Chiesa, ci mettessimo a classificarli l’uno come cardinal Federigo, l’altro come don Abbondio, il terzo come fra Cristoforo alla stregua dei loro atteggiamento in confronto di… don Rodrigo? Ma anche noi in fondo abbiamo diritto di venir giudicati come partito politico, in ordine alle nostre funzioni politiche; e il giudizio per essere equo deve considerare non il nostro atteggiamento di fronte ad un dato progetto governativo, ma la nostra posizione contro tutto un sistema e per tutto un programma. L’oratore ha finito eccitando a rimanere fedeli al programma del partito popolare, che è partito d’ordine, di legalità e di pacifico e democratico progresso.