muraglia cingeva la villa del Vesinet, Utrillo era sorvegliato dalla mattina alla sera: misantropo, taciturno, diffidente, quel vecchio in pigiama somigliava
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i pessimisti di ogni estetica, quel continuare «senza problemi»: difficile conservare una autenticità di ispirazione guardando una natura morta, una
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, quando non si impacciava, di diventare anche ricca e modulata, d’esser la voce di quel «Nabi très japonard», un profeta molto giapponese, cioè, come lo
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galleria «Der Sturm», e conobbe in quel tempo lo stato maggiore dada tra cui Schwitters. Verso il 1923 si stabili a Parigi (ricevette la cittadinanza
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bei pezzi di quel movimento (come ad esempio «Bagni» del 1915) arriva alla sua «sistemazione» definitiva tra gli ultimi impressionisti, è singolare
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la gamma dell’iride, quanto a colori adoperati, non rapportandoli più alla monocromia dei suoi fondi verdi e giallini, pur restando come costante quel
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assunto la Biennale fin dal 1948, la Mostra di Munch completava in modo esemplare il panorama dei valori dell’arte contemporanea in quel singolare momento
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meno «impressionista», se vogliamo, per quel radicale trapasso dai chiari agli scuri, per quel fantomatico trascorrere di figure sul notturno boulevard
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Diremo invece che la più costante caratteristica dell’opera del Maestro è la sua mutevolezza, quel trascorrere felice e vittorioso da «ismo» a «ismo
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, aggiungendo che Picasso avrebbe dovuto dipingere sempre a quel modo — sono stupende. Alcuni ritratti, come «Paolo figlio dell’artista a tre anni in
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da opera. Vi sono pitture di Picasso in cui è estraneo del tutto il senso del brutto, pur essendo «brutte» per quel tal fotografo, ed altre, invece
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, questa forza vitale di cui Picasso si è innamorato. E come non commuoversi nel quadro «Il figlio Claudio in carrozzina» dinnanzi alla vivezza di quel
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E che dire di quel trepido, favolistico viaggiatore tra vene di foglie e diagrammi d’acque, di Luciano De Vita, capace di guardare una goccia o una
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artista, dovettero razionalizzare lo choc, dare definizioni a quel senso di felice panico che li assaliva dinnanzi al fenomeno Picasso, escogitare
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: caminetti di marmo finto, legni finti, cornici e fregi di soffitti, sono ancor oggi simpatiche testimonianze di quel periodo artigiano nelle case
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«mostruoso» inventato da Picasso; però, a ben guardare, si scorge che la chiave del quadro non è, neppure in questa vicinanza picassiana, nel bestiale, in quel
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tal proposito la Composizione 1950 della Galleria ginevrina Benador, i contorni di quel continente vegetale, isola o foglia della Composizione Céladon
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modo della pittura, che all’apparenza presenta aspetti decorativi, è più ingenuo, in quel barbarico infittirsi degli avviluppi lineari come inseguito
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atmosferica, se pure sperimentale, è quella che il pittore scopre in «Composizione in grigio e azzurro», vasta, sognata, quasi surreale, in quel
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«giuoco» mentale; e il singolare «Fragranza», tra i quadri più belli della Mostra, per quel ricordo (filtrato senza annullarsi) dei modi
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recente avanguardia e sta dentro il binario di quel grande viaggio teorema, che partendo dagli Impressionisti, arriva fino a noi; così calibrato e
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amplissima e sofferta, trascinando fatti e figure, situazioni morali e psicologiche, che risalgono al dopoguerra, e che travalicano quel momento. È infatti
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dell’artista sono così percepibili, che l’idea di quel «ritratto» ci nasceva quasi come una tentazione.
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, da una parte, alla necessaria astrazione e, dall’altra, alla definizione puntuale, fisica, dell’oggetto: per quel loro fiducioso, eppure prudente
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Ma diventammo amici subito; dissi che Giacometti è un grande scultore, ma lo è proprio per le cose che non è riuscito ancora a dire, per quel senso
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«ritratto in posa», e metà impennamento di fantasia: in quel ribollire di segni, quasi travalicasse i limiti l’ammatassarsi della grafia, sia del lapis
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piedistallo, quel modellato grosso, cretoso, di una cadenza quasi artigiana, esprimono una emozione composita di meschinità, di gravità, e di debolezza
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del suo avvicinarsi al fondo; l’immagine non è più in quel punto, ma la retina la restituisce li: è il primo embrione della scultura, della
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così, dopo i suoi quarantacinque anni di attività e i suoi settantatré vegetissimi di vita) raramente conquista ed appaga; quel senso di «fatica
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fino a ieri, tra i più affascinanti che si potessero conoscere: giulivo, sereno, ilare perfino, agli incontri, con quel suo viso roseo, i capelli
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È la tenace e rinnovata virtù del moribondo, che ammiriamo nelle sue tele? È quell’addio mai definitivo, quel vespro fra rosso e nero, di un giorno
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ai due poli del realismo e dell’astrattismo cimentandosi in grandi quadri «sociali», in «mercati», in «osterie» o rinnegandosi in quel suo neo
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Si può dire che Mafai abbia combattuto la sua battaglia con poche perdite e molti punti all’attivo, in quel suo sperimentare generoso e avaro insieme
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Da un gran pezzo non ci accadeva di commuoverci tanto dinnanzi a un così modesto numero di quadri. E vorremmo che altre opere di quel periodo — se
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favorevole alla sua possibilità di «tenuta»: quel limite «distanziarne» in virtù del quale gli eroi della vita popolare romana sono visti da Ziveri
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silenzi d’intesa, le sue battute di mano sulle spalle degli amici «convinti», ai quali quel surrogato di consenso appare spesso solidale.
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vorremmo dire, critici: per quella ironia costante che li accompagna, per quel patetico che si fonde nel grottesco, per quel divagare e folleggiare che
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A vederlo disegnare c’era da stupire per la meravigliosa mobilità e la fantasia degli espedienti che gli suggeriva quel suo modo frenetico e
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Ma che cosa è il Prampolini migliore in sostanza? È la severità del purismo di Mondrian senza però la lucida anemia di quel cantore di equilibri, è
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, ora la mostra storica di quel periodo non è da meno per gli artisti italiani giovani e per gli studiosi dell’arte nostra fra le due guerre.
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fuoco di Scipione; e pure in quel fluire di oggetti de «Il pane di Parigi» (1931), in quel chiaroscurare in una morbosità tenera, responsabile, del «Nudo
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solitudine e in quel taglio patetico, modiglianiano dove impressiona la spoglia semplicità della esecuzione pittorica: dal «Profilo» (’29) alla parte
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lo sforzo di rendere un personaggio nel suo mondo è notevole e coraggioso; quel verde dei tetti, quella Roma allo spinacio e alla lattuga, quasi dal
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di un altro buon viaggiatore italiano, Francesco Menzio — compreso assai bene la lezione di Bonnard) scrive che in quel Mafai «c’è una specie di
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compresa meglio tra gli italiani eccetto Fazzini, in quel suo arcaico e romantico plasticismo. A Milano Guttuso se mai apprese quel tal modo irrequieto e
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pittore in quel suo eroicheggiare col bruto, in quel suo «coraggio» della ossessione sessuale — dalla macchia di rossa anilina posta ad hoc, alle forbici
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dei padri dell’astrattismo storico italiano; mentre Gerardo Dottori, fin dal 1915 dà la prova del suo Liberty, di quel cattivo gusto agitato e
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personalità di Leger), Antoine Pevsner (con una «testa di donna italiana» del 1915 di un lirismo pari alla intensità, in quel rosa arancio e rosso
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, (ma unico di quel livello) è il dipinto di Vedova che si trova collocato solo, sul pannello-paravento: nobile «andante mosso» in una armonia di
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appaiono lontanissimi da lui, il grande romantico si avvicina loro meravigliosamente. Quel momento inconfondibile di rottura che l’opera degli
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