La questione dev’essere esaminata e risolta alla luce dei principi affermati in materia dalle Sezioni Unite di questa Corte (9.7.1997, B.; 24.3.1995, C.; 18.6.1993, G.), per cui la categoria dell’abnormità risulta inapplicabile quando la regressione del procedimento dalla fase dibattimentale a quella precedente, pur definitivamente conclusasi con l’emissione del decreto che dispone il giudizio, non sia giustificata da invalidità incidenti sulla regolarità della stessa costituzione del rapporto processuale attinente al giudizio: qualora l’invalidità non attenga ad un “atto propulsivo” necessario alla progressione del procedimento, la rinnovazione della citazione a giudizio spetta al giudice del dibattimento giusta il disposto dell’art. 143 n. att. c.p.p. e non è consentita dall’ordinamento la restituzione degli atti al g.i.p.
In particolare i commi 260 e 261 dell’art. 1 della legge n. 662 del 1996, oggi impugnati, hanno dettato – secondo i principi, poi consolidati, affermati dalle Sezioni unite con la sentenza n. 2333 del 1997 – «una disciplina di carattere globalmente sostitutivo di quella previgente». Questa disciplina, transitoria e speciale, non si applica per il futuro (e perciò non innova il regime dell’indebito previdenziale posto, da ultimo, dall’art. 13 della legge n. 412 del 1991), ma regola esclusivamente gli indebiti già erogati dagli enti pubblici di previdenza obbligatoria prima del 1° gennaio 1996, collegando la loro irripetibilità o (limitata) ripetibilità alla sola misura del reddito imponibile ai fini dell’IRPEF nel 1995. E’ un criterio più semplice da gestire per gli enti previdenziali, rispetto a quello previsto dalla legislazione previgente che aveva creato non pochi problemi interpretativi, pur se è meno favorevole per i pensionati in quanto (come nelle fattispecie in esame) ha reso ripetibili indebiti erogati nel vigore di norme che ne garantivano l’irripetibilità.