Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 18 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Trattato di economia sociale: introduzione all’economia sociale

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Toniolo, Giuseppe 4 occorrenze
  • 1906
  • Opera omnia di Giuseppe Toniolo, serie II. Economia e statistica, Città del Vaticano, Comitato Opera omnia di G. Toniolo, voll. I-II 1949
  • Economia
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Che se in qualche regione civile circostanze accidentali e passeggere, ma abbastanza sensibili, riproducono certo disquilibrio sessuale, ivi ne ricomparirono le tristi conseguenze; come nelle colonie più recenti dell'Unione Americana, ove l'eccesso maschile che accompagna la forte immigrazione, insidia la saldezza dei vincoli familiari.

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Se il programma non arbitrario ma che sgorga dalla natura della nostra disciplina, sia mantenuto almeno nelle sue grandi linee in questa introduzione,ne giudichino i competenti, in ispecie i colleghi nell'insegnamento; ma colla benevolenza che invoco e che sempre accompagna il giudizio dei dotti.

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È una forza viva che accompagna il cammino storico dell'incivilimento, dalla quale il sociologo e l'economista non possono prescindere (Weiss, H. Pesch).

Pagina 2.180

Trattato di economia sociale: La produzione della ricchezza

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Toniolo, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1909
  • Opera omnia di Giuseppe Toniolo, serie II. Economia e statistica, Città del Vaticano, Comitato Opera omnia di G. Toniolo, vol. III 1951
  • Economia
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Ciò specialmente quando il grande possesso si accompagna a sentimenti opposti a quelli di solidarietà sociale, come fu il caso del feudalismo in Italia, rappresentato da invasori stranieri nemici del popolo. Laddove invece la grande proprietà si accoppia a coscienza della funzione sociale della terra, il malanno può convertirsi in beneficio. Così i ceti privilegiati ieratici e politici delle grandi monarchie orientali favorirono mercé lo Stato le mirabili trasformazioni fondiarie di que' territori. E così si spiega come le proprietà ecclesiastiche, specie monastiche, anticipassero dovunque i dissodamenti e le migliorie del suolo europeo. Era l'attuazione dei principi cristiani intorno ai doveri della proprietà privata; — per essi Iddio è il sovrano padrone della terra, che la destinò alla sussistenza e al benessere di tutti mercé la coltivazione, e la proprietà particolare è legittima anche per questo che essa è meglio adatta normalmente a rendere la terra più produttiva a beneficio individuale e sociale insieme. Cosicché rimane condannato moralmente (non sempre giuridicamente) il proprietario che disvia dalla naturale destinazione il terreno, lasciandolo incolto, appena ciò si traduca in un danno comune (Brants, Pesch, Cathrein). Questi stessi concetti della bibbia, del vangelo, del diritto canonico, ispirano i documenti (pubblicati da G. Ardant), per cui i papi dal sec. XVII al XVIII fino a Pio VI, per ovviare al danno del latifondo incolto, autorizzarono (pur troppo invano) i coltivatori a lavorare e seminare la campagna romana, anche riluttanti quegli inerti latifondisti.

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La vita religiosa nel cristianesimo. Discorsi

400198
Murri, Romolo 12 occorrenze
  • 1907
  • Murri, La vita religiosa nel cristianesimo. Discorsi, Roma, Società Nazionale di Cultura, 1907, 1-297.
  • Politica
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Il nostro punto di partenza è il senso di mistero e di divino che accompagna i processi della vita interiore e spirituale, appena essi abbiano raggiunto un certo grado di autonomia e di intensità. Questo primo istinto religioso è quasi un iniziale commercio fra noi e il divino, ed esso fa che una coscienza umana, quali che siano d'altra parte la sua fede e il suo rito, sia una coscienza religiosa: a chi non l'ha, inutilmente tenteremmo di ispirarlo. Anche la voce di Gesù e di Paolo non giungeva già all'animo di tutti, ma solo di quelli che il Padre chiamava; di quelli, cioè, la cui coscienza era già vigile ad una prima, remota, confusa voce di Dio, saliente a tratti dal profondo della coscienza.

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Il senso di piacere o di pena, di desiderio o di repulsione, che accompagna gli atti del conoscere, le rappresentazioni interiori e le idee, determina l'attenzione che noi prestiamo ad esse, il permanere loro più o meno a lungo nel foco centrale della nostra coscienza, e quindi il loro imprimere di sé, come un oggetto la lastra per una posa più o meno lunga, il nostro spirito, nelle perenni modificazioni che sono la sua vita.

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La fede deve essere per noi insieme un complesso di affermazioni teoretiche, di idee e di direzioni morali; ed abbiam visto come queste due cose sono fra di sé in intima relazione, e tanto più la fede si illumina di luce interiore quanto più essa si accompagna ai processi affettivi e volontarii del nostro spirito. Essa è, perdonatemi l'espressione melodrammatica, fiore che non si apre se non all'alito caldo dell'amore. Quindi, per educare la fede in noi, non basta introdurre nell'intelligenza e nella memoria, strati superficiali e labili del nostro spirito, alcuni concetti od idee, quelle, per es., della Trinità di Dio o della presenza reale: conviene associare ad esse sentimenti di piacere e di pace interiore, affetti buoni, direzioni pratiche dello spirito; metterle, insomma, in rapporto con tutta la nostra vita morale e trarre da esse il costrutto di buoni risultati su questa: allora l'anima assorbe più profondamente quelle idee, le fa vita della sua vita e si trasforma, in esse e per esse, di chiarezza in chiarezza.

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Noi viviamo, il più spesso, immersi nelle cose esteriori: lo spirito, quasi occupato per intiero da esse, ne accompagna o ne segue il flusso, con sensi interni di simpatia, di repulsione, di amore, di odio, di desiderio, di lotta che sorgono spontanei alla coscienza e determinano spontaneamente la nostra azione. In tali casi, se l'atto nostro è pur sempre dall'interno, e preceduto da rappresentazioni che lo fanno consapevole del suo termine, e taluni effetti di esso possono esserci imputati a merito o a colpa, sta pure nel fatto che la nostra persona morale, quasi indifferente ed assente, non agisce con deliberazione e quindi con una piena libertà; e noi siamo in qualche modo uno specchio od un'eco delle cose esteriori, viviamo in funzione di esse, trascinati senza resistenza dal abile corso degli eventi, vissuti quasi da questi, più che ricchi di una nostra vita interiore. Questo stato di infanzia, di sonno dell'anima, di servile dipendenza dalle cose esteriori è purtroppo, per la massima parte degli uomini, la condizione di tutta la vita; vita poco umana, ancora, e poco civile.

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In un popolo immigrato dall'Africa mediterranea, e fortemente stabilitosi nei paesi della Palestina, in mezzo ad altri popoli i quali, pur avendo raggiunto nella cultura e nell'organizzazione politica un grado più elevato, accoglievano un politeismo grossolano e fluttuante, la certezza che lo speciale disegno di un Dio spirituale, più forte di tutti gli altri, e che voleva essere gelosamente solo nel cuore di Israele e non avere imagini e rappre sentazioni sensibili, avesse vegliato sui suoi destini e gli confidasse una singolare missione storica, diviene, nei profeti, base di una vigorosa reazione contro il penetrare e il diffondersi dell'idolatria e del mal costume; ed alla predicazione del Dio unico si accompagna quella di un dovere di religiosità spirituale e di giustizia, in accenti che anche oggi, dopo tanti secoli, ci commuovono per la loro meravigliosa elevatezza; e questa fede nel Dio unico, nel dovere di servirlo spiritualmente e seguendo giustizia, si associa più strettamente alla fede in una grande missione religiosa del popolo ebraico e in un suo universale primato sulla civiltà e sulla storia, mediante una nuova e più visibile alleanza per la quale Uno sarà mandato che sia più grande di tutti i profeti.

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Innanzi tutto è noto che, mentre l'inettitudine al rimorso è triste carattere dei degenerati, di quelli che dicono delinquenti nati, o di anime intorpidite nell'apatia morale e nella colpa, le personalità morali più educate e più ricche sono sensibilissime al rimprovero della propria coscienza; il più spesso esse si astengono da ciò che credono colpevole e vizioso solo per la ripugnanza a quel senso di malessere e di oppressione spirituale che accompagna la consapevolezza del torto. Ad esse dà pace e gioia il senso di unità di luminosità di benessere spirituale che empie la loro coscienza; e se talora sentono sorgere dal fondo di questa tendenze o affetti ripugnanti a quella pace serena e al dominio del volere, e se questi li inducono ad atti che il volere disapprova, il dolore, la vergogna, il pentimento accompagnano spontaneamente questa constatazione della presenza d'un angolo della propria vita spirituale, inosservato prima, dove ancora il male si annida, d'una disarmonia interiore, d'un male commesso.

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Ma se questo sentimento accompagna, quasi riflesso freddo, la consapevolezza fugace della differenza e dell'antitesi che è nei vari stati d'animo; se chi ieri cadde e sente oggi il male di quell'essere caduto non scruta nella sua anima le origini presenti ancora, benché inosservate, di quel male e non tenta di sradicarle, il suo non è dolore vero; poiché non è atto di volontà opposta a quel male e rivolta quindi a dominarlo ed espellerlo, ma è semplice, direi quasi, registrazione della presenza di esso, accompagnata da uno sterile e fugace sentimento di pena. Ciò sarà forse avvenuto spesso ad ognuno di voi; ciò avviene tutti i giorni alle anime che non vivono in uno sforzo assiduo di progresso nella volontà del bene, nella unificazione morale della propria coscienza.

Pagina 215

Spesso al dolore si accompagna uno sforzo più o meno durevole ed efficace di mutazione; ma i motivi di tale fatto possono essere diversi. C'è nella vita di ognuno qualche cosa che egli vuole più fortemente; c'è una gradazione nelle cose desiderate o volute. Ora avviene spesso che il male rompa quest'ordine dei fini; l'avaro rimpiange un atto di prodigalità, l'ambizioso uno scandalo che gli nuoce, l'astuto un trasporto di collera che lo scuopre; e tale dolore e rimpianto è misurato, nel suo valore etico, dai suoi moventi e, nella sua efficacia, dalla intensità del volere positivo che detta la condanna del trascorso. Anche in questo caso noi abbiamo il contrasto di due stati di coscienza, diversi, oltreché pel contenuto loro, per il diverso atteggiamento del volere che spinge l'uno a premunirsi in qualche modo contro il ripetersi dell'atto che dispiace; ma non abbiamo ancora la voce della coscienza reclamante per il male compiuto e per il dovere offeso nel nome stesso del bene e del dovere, concepiti come norme estrasoggettive ed assolute della condotta.

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Ora non è dubbio che a tale classe conviene ridurre molte volte il pentimento che accompagna il colpevole alla penitenza cristiana. È il timore d'un danno fisico, d'un male soggettivo, il timore della pena minacciata per la vita di là, che rattiene molti dalla colpa o li fa ripugnanti ad essa dopo che vi sono caduti. Noi non abbiamo difficoltà di constatare l'inferiorità di un tale motivo, noi riconosciamo anche che spesso nel cristianesimo i nostri teologi e moralisti ne hanno troppo insistentemente e troppo largamente fatto uso, impiegando fantasia ed eloquenza a ritrarre e descrivere studiosamente l'orribilità delle minaccie divine, l'atrocità delle pene del purgatorio e dell'inferno, lo sdegno di Dio che scruta maniere ingegnose di tormentare le anime e ride della loro inesauribile pena. Noi possiamo anche e dobbiamo constatare alcuni dolorosi effetti che ciò ha avuto nella educazione delle anime, nei costumi umani, nella giustizia punitiva. Il timore, sia esso anche d'una pena gravissima ed eterna, per sé è forza morale che trattiene da certe colpe gravi ma non ispira l'affetto positivo del bene pel bene, l'amore che purifica e trasforma: esso ritrae dagli estremi del pervertimento morale ma lascia assai spesso sussistere ed agire nel profondo della nostra coscienza stimoli occulti e insidiosi, passioni mortali che poi a un certo momento divampano come incendio e soffiano come bufera e trascinano la volontà riluttante ma fiacca.

Pagina 216

Una parola di poeta, una voce di amico ravvivano talvolta meravigliosamente le nostre energie interne; dal profondo della coscienza salgono spesso voci insospettate, procedono conversioni improvvise; vi sono degli uomini singolari accanto ai quali noi sentiamo avvenire in noi mutamenti spirituali profondi, per un'intima forza di cui non ci riesce di renderci conto; il ricordo di un morto caro ci accompagna talora nella vita con una efficacia consolatrice e riparatrice che solo un ricordo sembra non potere avere; noi siamo, in qualche modo, una sorpresa per noi stessi nei momenti di vita interiore più intensa, perché sappiamo così poco di dove ci viene la luce che ci guida, la forza che ci muove a volere. Che cosa sappiamo noi, di noi stessi? Questo sappiamo, tanto meglio quanto più acquistiamo l'abitudine di vivere in noi, di ripiegarci sulla nostra coscienza, di educare la nostra personalità morale: che il nostro essere spirituale è infinitamente complesso. La profondità inesplorata riceve luce e forza da contatti misteriosi, naviga su di acque che sono insieme un veicolo misterioso di sentimenti e di impulsi spirituali. E nelle anime che più concentrarono il loro sforzo in questa vita interiore, tale senso di non isolamento, di continuità dell'essere spirituale diviene così intenso e profondo che esse sentono veramente l'immersione della loro coscienza in un più vasto elemento, sentono Dio intorno a sé, nel profondo di sé, sopra di sé: ed aspirano a quella definitiva condizione di cose in cui Dio sarà tutto in tutti, secondo S. Paolo, e si avranno, come dice un mistico, molti occhi ma una sola visione, molte lingue ma una sola parola, molti cuori ma una gioia sola.

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E questa considerazione ne conduce seco un'altra: il difetto e l'errore di valutazione religiosa che accompagna un simile farisaismo, anche nelle sue forme più larvate, così comuni. Il fariseo, ed in genere l'uomo pel quale la religione non è innanzi tutto questo amore vivo e pratico del bene, non sente, in realtà, religiosamente: nella migliore delle ipotesi, i suoi sistemi teologici portandolo a ritenere certa l'esistenza del mondo di là, egli vuole accaparrarvisi un buon posto e cerca di ingraziarsi il padrone; del quale quindi egli si fa un concetto assai falso, immaginando — appunto come i profeti dicevano del popolo ebreo — che egli ami ed apprezzi non l'animo semplice e buono, ma le veglie gli inchini le offerte i digiuni le giaculatorie; e che sia avido di queste, indifferente al resto; che ci premii, un giorno, di ciò che abbiamo fatto, non di ciò che facendo siamo spiritualmente divenuti in Lui. Spesso poi in questa religione gretta ed esteriore si insinuano sentimenti diversi: orgoglio di razza, come nell'ebreo, o di sangue, come nelle nobili vecchie aristocratiche dei faubourgs signorili di Parigi, o interesse politico, o gli altri interessi che sono il sustrato del «professionalismo» di tanti del clero, e del «dilettantismo» religioso di parecchi signori, e via dicendo.

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Essa porta a veder l'uomo soffrire, non come corpo fisico, ma come uomo; a dolersi dello stato d'animo (abbattimento, umiliazione, ansia dei beni fisici, desiderio di distrazioni violente e colpevoli, abbrutimento graduale) che accompagna la miseria e trae l'uomo al bruto, quasi soffocando le mirabili facoltà di elevazione spirituale e di vita morale che pur sono in ogni uomo; ad andare con l'aiuto più oltre del male fisico presente, raggiunger l'animo del sofferente e risvegliarvi le sopite energie spirituali. La povertà non angusta, serena, confidente, che ha quanto è necessario per la nettezza dell'umile casa, pel vestito decente e pel vitto, non è male nel cristianesimo: molti, anzi, al lume di questo hanno imparato ad amarla e se la son procurata volontariamente. Io ho pietà del marito che ha un salario insufficiente, perché percuoterà la sua donna, trascurerà i figli e passerà le sere all'osteria; ho pietà della fanciulla di genitori miseri, perché so che essa è quasi sicuramente votata al disonore ed all'infermità; ho pietà del bambino che cresce abbandonato sulla via, perché so che egli sarà un pessimo uomo; ed ho pietà del cencioso, dell'affamato, del derelitto, perché so che in tali stati alla miseria esterna si accompagna la depressione dello spirito e quindi l'abbrutimento. La pietà cristiana non può arrestarsi a lenire i mali fisici; per essere realmente pietà cristiana essa deve sempre mirare alla rigenerazione morale e spirituale del beneficato; l'elemosina gettata passando a un ignoto è solo scusabile quando altre e più adatte forme di beneficenza non appariscano possibili. Con ciò essa mostrerà anche di vedere nel beneficato un uguale, un essere che essa aiuta a riconquistare il suo posto nella società, e farà grato il dono che, altrimenti, provocherebbe dispetto ed odio.

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La stampa quotidiana e la cultura generale

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Averri, Paolo 1 occorrenze
  • 1900
  • Averri, La stampa quotidiana e la cultura generale, Roma, Società Italiana Cattolica di Cultura, 1900, IV-70.
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Alle volte sarà un programma politico, religioso o sociale netto e ben definito; alle volte sarà semplicemente il colore del giornale nato dalla selezione naturale di certe idee, inconscie forse e latenti da principio nella redazione e sviluppatesi poi nell'adattamento del giornale, sotto gli stimoli della concorrenza, in una progrediente differenziazione, e mantenuto poi dall'intolleranza che accompagna naturalmente ogni ideale politico e religioso.

Pagina 36

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