Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: accentratore

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Un discorso dell'on. Degasperi. I caratteri e l'azione del Partito popolare nell'attuale situazione politica

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

È nella logica ch’esso tenda alla sostituzione degli organi elettivi con funzionari delegati dal potere esecutivo e ch’esso sia accentratore, antiautonomista, anticomunalista e antiprovincialista e che la spinta dell’idea iniziale lo porti a sopprimere la libertà di associazione e la libertà di stampa che sono corollari indispensabili del sistema rappresentativo. Il contrasto è profondo e insuperabile: sul nostro scudo sta scritto: «Libertas», nell’altro campeggia la «Scure». Ad inasprire il conflitto è intervenuta la cosiddetta questione morale, che è la sovrapposizione dei «diritti della rivoluzione» ai diritti della legge morale codificata. Ma anche se questa si potesse superare e l’esercizio della giustizia penale da una parte e quello della giustizia amministrativa dall’altra, fossero usciti illesi dalla rivoluzione fascista, basterebbe la «questione dello Stato» a spiegare l’odierno atteggiamento dei partiti. La questione dello Stato si è riaffacciata dopo la guerra, quasi in tutti i paesi europei, più incalzante naturalmente nei paesi di nuova formazione, ma preminente anche negli altri, tanto che, a larghi intervalli, ha soverchiata la questione delle classi, cioè la questione sociale che aveva dominato negli ultimi cinquanta anni. Il partito popolare ha lanciato il suo programma ricostruttivo fin dal ’19. È forse un caso che la linea del Partito popolare italiano collimi coll’indirizzo che i partiti d’ispirazione cristiana hanno affermato in tutti i paesi ove esistono?

Parlamento e politica

388115
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Trattato di economia sociale: introduzione all’economia sociale

393883
Toniolo, Giuseppe 6 occorrenze
  • 1906
  • Opera omnia di Giuseppe Toniolo, serie II. Economia e statistica, Città del Vaticano, Comitato Opera omnia di G. Toniolo, voll. I-II 1949
  • Economia
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Tutte invocano la ricomposizione (senza offesa della eguaglianza personale e libertà civile) della società in classi giuridicamente costituite,come organo intermedio fra la individualità e lo Stato, per impedire così il dissolvimento atomistico o l'assorbimento accentratore politico dell'essere e della vita collettiva.

Pagina 1.280

In oriente e nell'Egitto, dove per favori di suolo e clima si moltiplicano rapidamente le popolazione, e si rende quindi più necessaria la potente forza unificatrice della sovranità politica,e questa per anticipata cultura intellettuale e morale si trova sorretta da poderose classi sacerdotali e di pubblici ufficiali, anticipano e grandeggiano le monarchie dinastiche e le costituzioni gentilizie di classe, interrompendo la genesi intermedia che dal villaggio va allo Stato accentratore. Dove invece per la dispersione di piccoli gruppi demografici,come fra gli arii migranti all'occidente, non si sente bisogno di un grande potere centrale, né si adergono in esse classi di alta cultura etico-giuridica, che rafforzino l'autorità dall'alto, lo Stato svolgesi dal basso attraverso forme intermedie, che sono una evoluzione dei primi nuclei delle gentes e delle tribù. Il duplice procedimento si delinea nettamente come due leggi sociologiche di civiltà.

Pagina 2.145

Lo stato accentratore. ‒ Antichità orientale e classica. – 1. Il saggio tipico di un grande Stato unitario è offerto dalla Cina, ove un imperatore, figlio del cielo, si aderge ab immemorabili al di sopra di una moltitudine di minuscole comunità familiari e di villaggio; ed ivi l'atrofia degli organi sociali sembra completa. — Similmente in Egitto, ove le dinastie dei faraoni si innalzano e si perpetuano sul dorso di remotissime e poderose classi sacerdotali guerriere e burocratiche, le quali sostentano la massima potenza accentratrice che conosca la storia. — L'organizzazione giuridica (di diritto consuetudinario) delle classi in India con genesi storica, che va da 1400 a 500 anni a. Cr. (dopo la conquista aria sopra la razza negra) perviene anzi, sotto l'azione penetrante religioso-ieratica, al regime di casta.E questo regime col triplice carattere, di specificazione in gruppi distinti di popolazione per funzioni pubbliche e professioni private, del divieto dei matrimoni fra i vari gruppi, e di ereditarietà delle rispettive condizioni sociali e civili, — si insinua dappertutto, dalle caste dei sacerdoti e dei guerrieri scendendo con ramificazioni minute fino alla base del popolo (esclusi i sudra), e si protrae attraverso i secoli modificandosi di continuo ma perpetuandosi nella sostanza, sicché anche oggi ogni località conta più decine di caste, e Madras oltre 300 (censi. ingl. 1872). Ma tale complesso sistema cristallografico di caste, se ivi difficulta l'unità del grande Stato, sicché una volta l'India ebbe un impero, rimanendo del resto divisa in più Stati e regoli («rajah») come oggi sotto l'alta dominazione inglese, esso compose pure quel poderoso organismo giuridico-sociale di classi, da cui non si staccò mai lo Stato. E del resto somiglianti organizzazioni di classi superiori politiche (se non interamente chiuse in caste), facenti capo per lo più ad un monarca accentratore, incontransi fra assiri, medi, persiani, negli imperi antichi del Messico e del Perù, e fino ad ieri nel Giappone.

Pagina 2.146

Tale trasformazione, che attinge la sua maturità fra Alessandro Severo e Diocleziano, aveva riprodotto per autorità dall'alto, lo Stato accentratore dell'oriente. (Mommsen, Schmoller).

Pagina 2.148

Le antiche assemblee nazionali d'ora in poi menomate e combattute (in Inghilterra da Enrico VII alla rivoluzione gloriosa,1688) e talora del tutto sospese (gli Stati generali in Francia dal 1614), fecero luogo all'assolutismo accentratore, trionfante con Luigi XIV («l'état c'est moi»).

Pagina 2.177

V) ma col loro individualismo ne disgregano e stritolano la corpulenta compagine; gradualmente, per impotenza e inanizione, l'autorità di Roma imperiale si spoglia di ogni suo potere accentratore e al suo posto si sostituiscono prima regni barbarici informi, federativi e deboli (fino al sec. VIII), e più tardi dopo il dissolvimento dell'impero carolingio (dal sec. X) le sovranità feudali spezzate, graduate e decentrate in tutta Europa; e parallelamente cresce e si propaga il bisogno di individui e popoli di ricorrere e soggettarsi all'unica forza tutrice essenzialmente morale della Chiesa, la quale nelle diocesi, nei monasteri, sui territori ecclesiastici, ne assume la tutela, il raggruppamento e la unificazione. Fatti storici coordinati, che condussero definitivamente a questo, che è uno dei maggiori risultati sociologici che annoveri la storia, — la ricostituzione ab ovo di un ordine civile, il quale ricomincia la sua genesi embriologica dell'individuo dalla vita interiore e poi s'alza ed amplia sino alla vita sociale multiforme, vivace e universale del tempo delle crociate e dei Comuni (secoli XI-XV); — mentre fra questo prorompere di energie personali e sociali, i governi e i loro congegni politici si dimostrano e mantengono incerti, mobili, relativamente esigui. L'artificioso, pletorico Stato pagano era sparito; e di ricambio la costituzione organica della società (in largo senso) era assicurata. Nuove tendenze politiche (o piuttosto rinascenza delle antiche) nei sec. XV e xvi, e più recenti esigenze sociali maturarono la più robusta formazione dello Stato moderno del sec. xix-xx; — ma esso, salvo l'apostasia completa dalle tradizioni cristiane di civiltà o l'avvento passeggero del socialismo al potere, poggerà sempre sopra l'autonomia dell'individuo e della società.

Pagina 2.74

Rivoluzione e ricostruzione

398691
Sturzo, Luigi 6 occorrenze
  • 1922
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 264-308.
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Queste parole, rileggendole oggi, dopo circa un anno e alla luce degli avvenimenti, mi ricordano tutta la passione e la fede messa nel fare del partito popolare italiano una forza giovane e rinnovatrice, e nel darvi l'impostazione centrale, quale è nel nostro primo appello diretto ai liberi e ai forti: ove era bene affermata la nostra posizione contro lo stato democratico, con le note parole: « ad uno stato accentratore tendente a limitare ogni potere organico ed ogni attività civica ed individuale, vogliamo, sul terreno costituzionale, sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali (la famiglia, le classi, i comuni), che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private » (*) (*) Cfr. in questo volume, pag. 67..

Pagina 267

Nel mio discorso di Firenze del 18 gennaio di quest'anno affermavo che « nel decadimento del pensiero liberale democratico, questo stato atomistico, centralizzatore, burocratico, portato oggi alla esasperazione, viene assalito da tre forze: il socialismo, che, fatto forte dai dolori della guerra, assunse una ideologia mitica, apocalittica, internazionale: la dittatura economica e politica del proletariato, e predicò e predisse la rivoluzione; le sue predizioni e la sua predicazione sono cadute, ma la forza negativa è ancora salda nella fiducia delle masse organizzate; il popolarismo, che sorse e si affermò come partito di centro e di massa, saldo e vigoroso; negò la rivoluzione, ammise la costituzionalità dello stato, ma ne volle la riforma organica, dal centro alla periferia, dal sindacato al senato; il fascismo, che negò lo stato liberale e la sua autorità, creò l'organizzazione e l'azione della forza anche con le armi, più per sostituirsi allo stato borghese contro comunisti e socialisti, che come costruttore di un pensiero, che fino ad oggi sembra essere orientato da forze liberali e conservatrici pur nella fase anarcoide; comunque tenda a svolgersi ed a consolidarsi questa forza giovane, è anch'essa contro lo stato democratico, parlamentarista, accentratore. E tutte e tre queste forze, nelle contese e nei contatti, maturano nuovi atteggiamenti che accelerano i fenomeni della crisi dell'oggi, tendono a variare le basi dell'ordinamento statale, nella sua costruzione economica, giuridica e organica, nello sviluppo di nuove forze e di nuove idealità, nel fermento di una gioventù che si rinnova » (*) (*) Cfr. in questo volume, pag. 245..

Pagina 267

Sono quegli stessi che fecero la politica dello stato democratico e del socialismo di stato, accentratore e ipertrofico, e oggi non hanno più nulla da difendere del loro passato, delle loro idee, del loro programma, nulla più da sostenere degli elementi strutturali di quello stato che essi avevano formato e governato per tanto tempo; non resta anche ad essi, gli spodestati del governo di ieri, che unirsi alcoro degli osanna per i vincitori di oggi.

Pagina 270

Se la democrazia scompare come funzione di classe di governo e come partito per sé stante, rimane però ancora lo stato democratico, parlamentarista, accentratore che essa ha costruito. Se i colpi di piccone dei fascisti si fermeranno solo alla impalcatura della democrazia e non arriveranno alla costruzione statale, mancherà il contenuto storico e reale alla rivoluzione che essi avranno tentata. Certo il parlamento del novembre non era lo stesso e nel potere e nella forza del parlamento del luglio; e la concessione dei pieni poteri non ha avuto il significato di una delega tecnica, come per la riforma dei codici o come per gli omnibus finanziari; la partecipazione sia pure morale e indiretta dell'esercito per l'avvento fascista, il rapido consenso regio, contro la proposta di stato d'assedio, al governo di Mussolini, e l'aspettativa del paese per generali riforme, delle quali si sente la possibilità senza valutarne la portata, dànno alla vita politica di oggi un clima forzato, un'aspettativa nervosa, un senso di trasformazione, che deve sboccare ancora in un tentativo di abbattimento e di ricostruzione statale.

Pagina 270

Questa critica ho già mosso nei miei discorsi dell'ultimo triennio, ed oggi la posso ripetere con altri argomenti, aggiungendovi il mordente degli avvenimenti presenti, per arrivare alla conclusione che il difetto del nostro istituto parlamentare non è solo nella camera dei deputati, nella sua formazione rappresentativa, e nella sua funzionalità politica, ma è il vizio organico sostanziale del parlamentarismo soverchiante in uno stato accentratore e burocratico. E quando Mussolini chiama questa camera sorda e grigia e la svaluta col suo gesto, ha ferito una rappresentanza ma ha colpito l'effetto e non la causa.

Pagina 272

Così segnamo a nostro favore la campagna contro lo stato accentratore e monopolistico come battaglia nostra, la prima. Quando era in auge il socialismo di stato, la nostra voce era la sola a echeggiare; la stampa faceva il silenzio attorno a noi, ma il paese sentiva la novità e ci seguiva. Se oggi si arriverà a smantellare tale accentramento, ricordiamoci e gloriamoci che ne siamo stati noi i pionieri. Così per le libertà organiche e le autonomie; oggi i fascisti negano le autonomie, non le sconoscono; la battaglia continua, e verrà il momento del trionfo; anche se altri ne avrà il merito, che importa? La prima medaglia è la nostra. Con decreto-legge, forse fra giorni sarà istituito l'esame di stato. Due mesi fa, al congresso di Napoli, un fascista che credeva di averne l'anima e invece parlava con la vecchia voce dei democratici e dei socialisti, negava l'esame di stato; oggi l'esame di stato verrà. Chi potrà mai negarci il merito della battaglia? Noi plaudiamo al ministro Gentile, ma ricordiamo la crisi ministeriale del febbraio scorso, ove si raggiunse con la democrazia liberale il patto sull'esame di stato, sulle linee del progetto Anile, di quell'Anile che lo sostenne al nostro congresso di Napoli nel 1920.

Pagina 306

La costituzione del partito (1. Appello al Paese, 2. Programma)

398875
Sturzo, Luigi 1 occorrenze
  • 1919
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 66-71.
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Ad uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali — la famiglia, le classi, i comuni — che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali, e il più largo decentramento nelle unità regionali.

Pagina 66

Crisi economica e crisi politica

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Sturzo, Luigi 1 occorrenze
  • 1920
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 132-161.
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Non è la prima volta che manifesto pubblicamente e vivacemente anche la mia opposizione irriducibile contro lo stato accentratore e contro la burocrazia da esso nata, e che, come il mostro della favola, da esso è divorata. E non è per rilevare deficienze tecniche e organiche di un ordinamento, nel quale tanti ottimi elementi cercano d'imprimere un ritmo più rispondente ai tempi con lodevole ma inane sforzo, che io ne fo qui un cenno; ma per completare un quadro di analisi della crisi politica, della quale l'accentramento statale è uno dei fattori di più lenta ma di maggiore dissoluzione, inficiando tutta la tela organica sulla quale si regge l'attuale ordinamento pubblico.

Pagina 148

La regione

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Sturzo, Luigi 1 occorrenze
  • 1921
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 194-231.
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Certo noi non neghiamo, anzi confermiamo la nostra tendenza politica espressa nell'appello al paese del 18 gennaio 1919 in questi termini: «Ad uno stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali — la famiglia, le classi, i comuni — che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il senato elettivo, come rappresentanza diretta degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione; invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali».

Pagina 205

La vita religiosa nel cristianesimo. Discorsi

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Murri, Romolo 1 occorrenze
  • 1907
  • Murri, La vita religiosa nel cristianesimo. Discorsi, Roma, Società Nazionale di Cultura, 1907, 1-297.
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E poi ancora, quando la vita politica si va penetrando, sotto le pressioni delle cose, di tendenze laiche ed illiberali, e i comuni si mutano in signorie e il potere centrale diviene rapace ed accentratore, il cattolicismo, respinto dalla vita pubblica, oppresso dal peso delle ricchezze terrene e del privilegio accumulato dai suoi, manifesta tuttavia, in più umili e forse anche più generose famiglie di eroi della carità e dell'abnegazione cristiana, l'interna vitalità del suo spirito; e noi vediamo, dal secolo XIII al nostro, accanto all'asceta che chiude ed isola i conventi e accanto alle spurie misture di semplicità cristiana e di dominazione pagana, sorgere frequenti istituti mirabili di vita comune e, più, di azione sociale comune, adeguarsi a tutte le necessità, raggiungere tutte le miserie, organizzare i più svariati servigii spirituali. E anche oggi, sotto i nostri occhi, in società le quali sembrano divenute così inette a tutto quello che sappia di sacrificio o rinunzia cristiana, noi vediamo meravigliati aumentare il numero di coloro ai quali, come già ad Antonio, giunse la voce del Cristo che invita ad uscire dalla casa paterna, a lasciar tutto ciò che si possiede, a rinunziare alla propria volontà ed entrare in vita comune, dedicandosi a questo elevato ufficio di salute e di redenzione spirituale degli uomini.

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Il primo anno di vita del Partito Popolare Italiano

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Sturzo, Luigi 1 occorrenze
  • 1920
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 357-368.
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Il nostro partito appena sorto al di fuori di ogni appoggio politico e di ogni intrigo burocratico, staccato dagli organi di azione cattolica, non confuso con le organizzazioni sindacali, forte solo di un programma vitale, ha lanciato il grido di « libertà » contro lo stato accentratore, contro il monopolio economico, contro il socialismo comunista, contro l'asservimento estero, e lo mantiene quel grido, come la sua fede, la sua forza, il suo programma, in una nazione che ha bisogno di ritrovare in una grande idea la forza di sé e del suo avvenire.

Pagina 367

Crisi e rinnovamento dello Stato

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Sturzo, Luigi 5 occorrenze
  • 1922
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 232-263.
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Nel nostro appello del 1919 si legge: «Ad uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo, sul terreno costituzionale, sostituire uno stato veramente popolare,che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali — la famiglia, le classi, i comuni — che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'istituto parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto alle donne, e il senato elettivo come rappresentanza diretta degli organismi nazionali accademici amministrativi e sindacali; vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione; invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli enti provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali».

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Dall'armistizio ad oggi, nel decadimento del pensiero liberale democratico, questo stato atomistico, centralizzatore, burocratico, portato oggi alla esasperazione, viene assalito da tre forze: — il socialismo, che, fatto forte dai dolori della guerra, assunse una ideologia mitica, apocalittica, internazionale: la dittatura economica e politica del proletariato; e predicò e predisse la rivoluzione: le sue predizioni e la sua predicazione sono cadute, ma la forza negativa è ancora salda nella fiducia delle masse organizzate; — il popolarismo, che sorse e si affermò come partito di centro e di massa, saldo e vigoroso; negò la rivoluzione, ammise la costituzionalità dello stato, ma ne volle la riforma organica dal centro alla periferia, dal sindacato al senato; — il fascismo, che negò lo stato liberale e la sua autorità, creò l'organizzazione e l'azione della forza anche con le armi, più per sostituirsi allo stato borghese contro comunisti e socialisti, che come costruttore di un pensiero che fino ad oggi sembra essere orientato da forze liberali e conservatrici pur nella fase anarcoide; comunque tenda a svolgersi e a consolidarsi questa forza giovane, è anch'essa contro lo stato democratico, parlamentarista, accentratore. E tutte e tre queste forze, nelle contese e nei contatti, maturano nuovi atteggiamenti che accelerano i fenomeni della crisi dell'oggi, tendono a variare le basi dell'ordinamento statale, nella sua costruzione economica, giuridica e organica, nello sviluppo di nuove forze e di nuove idealità, nel fermento di una gioventù che si rinnova.

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Questa costruzione organica della vita nazionale, deve essere animata dal principio di libertà che oggi, come cento anni addietro, viene elevato e bandito come conquista del vivere civile, quella libertà morale, economica e organica che è negata in nome dello stato panteista, amministratore e accentratore. Questo principio di libertà è l'anima, il fulcro, la ragione della riforma, il fondamento e lo spirito animatore del partito popolare italiano.

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Perciò noi partiamo da una negazione forte, imponente: noi neghiamo lo stato moderno democratico, accentratore, fornito di un potere assoluto; noi neghiamo il socialismo di stato, come ultimo termine economico e politico di questa ragione panteista; noi neghiamo le direttive etiche a questo potere di accentramento. Così la nostra posizione ideale, logica, ci fa arrivare ad una costruzione di riforma non accidentale e di temperamento, non esteriore e di formalità, non transattiva e di evoluzione, ma ad una riforma antitetica e sostanziale.

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Questo metodo di realizzazioni lente, sul terreno costituzionale (che ci ha fatto essere contrari nel 1919 alla propaganda per la costituente, che i socialisti volevano e che alcuni democratici ritenevano fatale); questa fiducia nel lavoro di penetrazione e di trasformazione (che ci fa sicuri della nostra concezione e del nostro metodo) non sembra a molti rispondente e proporzionata al programma di lotta contro lo stato accentratore e alla visione che noi abbiamo della crisi e della paralisi statale. O la visione è inesatta, essi dicono, e i termini sono ingigantiti; ovvero occorre il metodo chirurgico della rivoluzione.

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 1 occorrenze

Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Introduzione alla sez. "Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922)

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  • 1923
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 101-131.
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Perciò oggi la lotta dei popolari è contro lo stato accentratore, monopolista, burocratizzato, assoluto. Non per disintegrarlo, ma per ridurlo nei termini di equazione con la società nazionale, che dopo aver acquistata la sua unità sente il disagio, l'impaccio, la paralisi dell'organizzazione centralista, e vuole sviluppare meglio le sue energie individuali, locali e spirituali, in rispondenza al loro interno dinamismo.

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.: essi vanno dalla prima affermazione, chiara e sintetica, della posizione presa contro lo stato accentratore, alle manifestazioni più concrete di queste idee programmatiche nello svolgersi della lotta politica.

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