Il contributo in principio accenna ad alcune ricerche circa la condizione giuridica della donna di fondamentale riferimento nell'ambito della storiografia romanistica. Poi, il tema della discriminazione femminile viene ricondotto alla dicotomia inclusione-esclusione nella storia romana, di cui si traccia una molto rapida sintesi. Quindi, si delineano i tratti essenziali dell'alterità-esclusione delle donne, alla luce di una veloce rassegna dei brani dei giuristi romani sulla logica dell'inferiorità femminile. Infine, si descrivono squarci di vicende politiche in materia di presunta emancipazione femminile tra l'età repubblicana e quella imperiale, per puntare l'obiettivo in conclusione sull'intreccio tra ruoli sociali e funzioni riconosciute sul piano giuridico alle donne, soprattutto alla luce del riesame innovativo da ultimo proposto dalla Giunti.
Nella parte finale, si accenna alla amministrativizzazione della legge e al dibattito sull'opportunità di introdurre la motivazione della legge.
Ancora dopo o, meglio, ancor più dopo questo arresto, "La storia dei medici specializzandi, la cui formazione é sostenuta dai contributi europei,non accenna a risolversi ", riconfermandosi quale vera e propria "neverending story": la Corte, infatti, rispetto a pronunce precedenti, ha sostanzialmente dilatato di ben tredici anni il termine prescrizionale delle pretese risarcitorie dei medici specializzandi per danni da tardivo recepimento di direttive comunitarie. In merito a tale dilatazione del termine prescrizionale viene condotta un'analisi in chiave critica dell'iter argomentativo posto a base della pronuncia della S.C.
Sostiene come l'abuso vada considerato sia dal punta di vista del ricorso strumentale alla tutela giurisdizionale, sia da quello - di pari incidenza sul funzionamento del servizio in cui il singolo processo s'inserisce - dell'impiego strumentale di attività interna al processo da parte dei vari protagonisti, ed accenna a quali possano essere le forme di reazione dell'ordinamento. Sottopone poi a critica l'utilizzo da parte della Corte di cassazione, segnatamente con riguardo al processo del lavoro, del principio di ragionevole durata del processo quale canone interpretativo della legge.