Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La Stampa

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AA. VV. 5 occorrenze

Non sono mancati gli incidenti: il più grave è accaduto nel bresciano dove sono morti 4 bosniaci che si trovavano in Italia per lavorare.

degno d'essere conosciuto - e non solo dai piemontesi - più di quanto non sia finora accaduto. Il volume appena pubblicato non fa che confermare il profilo di une letteratura ad alta vocazione civica. Proprio a cominciare da Edoardo Ignazio Calvo, il medico giacobino (quest'anno ricorre il secondo centenario della sua morte), le cui Favole morali convocano nibbi, poiane, tacchini, pidocchi, sanguisughe e tafani per pungere duro i francesi traditori e accaparratori. Una lezione che s'esalta nelle Canzoni piemontesi del Brofferio (senza trascurare la più discreta presenza del valsusino Norberto Rosa) in un domestico esercizio di critica politica e di agrume morale. Sor Baron, Crudel destin, L'educassion, La prima vòlta, Ij buratìn. La carafin-a rota, Ij bogianen. Canzoni che hanno avuto interpreti anche recenti, da Gipo a Fausto Amedei. Per non contare il polveroso salotto della marchesa Irene in cui Massimo d'Azeglio versa nei suoi Ricordi il sale di un'agile ironia che passerà al Gozzano di Nonna Speranza. Presenza forte, la non occasionale rinascita del teatro legata ai nomi di Giovanni Toselli, Luigi Pietracqua, Giovanni Zoppis, Federico Garelli (e naturalmente del Bersezio delle Miserie 'd monsù Travet), che fece scuola ad altri teatri regionali e che fu una fucina incredibile d'attrici talentuose, da Adelaide Tessero a Mariangela Morolin. Non tutto qui, perché un altro passaggio cruciale (di secondo Ottocento) è segnato dai poeti della cosiddetta stagione «birichinòira», che prende il nome dal periodico in piemontese ‘L Birichin, un giornale che durò per quarant'anni e che raccolse il meglio de tempo che sta tra fin de siede e belle époque. Capitolo minore ma non trascurabile è poi la presenza nella letteratura in piemontese di tanta prosa di romanzo popolare, dal Pietracqua a Carlo Bernardino Ferrerò alla stessa Carolina Invernizio (è stato Viglongo a scoprirne e a pubblicare il romanzo Ij delit ed na bela fija). Dopo tutto ciò chi vorrà ancora sostenere che la letteratura in piemontese sia frutto di pura scommessa?

Il direttore Renato Palumbo ha messo in evidenza con vigore questa forza che stupì, all'epoca, il pubblico napoletano; a differenza di quanto era accaduto la sera prima nel «Tancredi», qui l'orchestra ha acquistato il ruolo di un personaggio, in continuo dialogo con ì cantanti in scena. Dialogo che potrebbe essere più raffinato, nella stratificazione delle sonorità, ma che appariva, comunque, sempre vitale. Anche lo spettacolo di Daniele Abbado, con le scene e i costumi di Giovanni Carluccio, mirava opportunamente, grazie alle luci di Guido Levi, a suggerire la cupezza di fondo che caratterizza la partitura, per molti versi sperimentale, di «Elisabetta»: un'incastellatura metallica fatta di colonne d'acciaio, con piani sovrapposti, pedane, corridoi, occupa la scena dall'inizio alla fine, mentre l'argento del metallo lampeggia sul nero. Nel fondo si disegnano tanti riquadri, nei quali i personaggi prendono posto con ieratica fissità: un effetto che piace lì per lì, ma che viene progressivamente a noia, perché la scena è sempre la stessa, ed è movimentata solo da uno scorrere di grate, con una vera e propria ossessione per il motivo quadrettato: troppo poco per alleviare l'ascolto di un'opera che non ha certo l'immediatezza e la tenuta dei grandi capolavori buffi né la continuità inventiva di una «Semiramide». Se lo spettacolo non aiuta molto l'ascoltatore, spicca ancor più il merito dell'esecuzione musicale. Accanto alla Ganassi che, oltre alla coloratura di forza, sa cogliere anche i lati umani di Elisabetta e, in particolare, la straordinaria dolcezza dell'ultima aria, molto bene hanno fatto Mariola Cantarero (Matilde), Antonino Siragusa (Norfolc) Bruce Sledge (Leicester): tutti sono apparsi consapevoli delle esigenze stilistiche imposte dal belcanto rossiniano, e accumunati, alla fine, da applausi scroscianti.

Al Qaeda, dunque, dopo avere usato negli ultimi dieci 10 anni soprattutto camion-bomba, come accaduto per le ambasciate americane in Africa e il parcheggio sotterraneo del World Trade Center, si sta attrezzando per diversificare le proprie forme d'attacco. Tra le possibili strategie, anche l'uso a New York di motoscafi super-veloci e sommozzatori pronti ad attaccare dall'acqua la città. A tutto questo vanno ad aggiungersi le minacce di morte che negli ultimi sette giorni hanno raggiunto diversi membri del Congresso Usa, come confermato dal capo della polizia di Washington, il capitano Charles Ramsey. Secondo un funzionario della «Homeland Security», l'«intenzione dei terroristi è sicuramente quella di colpire gli Usa prima delle elezioni presidenziali del 2 novembre». I responsabili dei servizi di intelligence - aggiunge Newsweek - sono convinti che diversi uomini di Al Qaeda si trovino già sul territorio degli Stati Uniti, pronti a colpire. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, è tornata intanto a difendere in un'intervista alla Nbc la scelta della guerra in Iraq: il legame fra Saddam e Al Qaeda, ha insistito, «è evidente». «Saddam voleva la destabilizzazione del Medio Oriente. Noi l’11 settembre 2001 siamo stati attaccati in maniera brutale - ha spiegato -. Il legame tra Al Qaeda e Saddam è evidente: se anche non esiste prova del legame materiale, entrambi volevano la destabilizzazione della regione».

È così accaduto che, al tempo della prima Guerra del Golfo, quando Saddam tentò di invadere l'Iran e quel conflitto durò ben otto anni, mai gli sciiti iracheni tradirono la loro nazionalità per un astratto dovere di obbedienza religiosa; essi, sciiti, combatterono al fianco del sunnita Saddam contro gli sciiti iraniani, e nessuno allora se ne stupì. Certo, non v’è dubbio che un'alleanza di interessi tra le due componenti sciite sia immaginabile, pur nell'ambito delle diversità di concezione dottrinaria; ma da questa alleanza, a immaginare poi una fusione - quello che Bush senior temeva al tempo del Guerra del Golfo, quando gli sciiti iracheni si ribellarono a un Saddam in fuga dietro l'avanzata di Schwarzkopfil percorso è assai più lungo di quanto sembrino temere gli analisti del dipartimento di Stato americano. Quello che, piuttosto, strettamente coinvolto in questo quadro di destabilizzazione, e di alleanze che si fanno e si disfano, è il ruolo che l'Iran intende svolgere in una nuova sistemazione del potere nel Golfo. Washington, con il lancio di una guerra presuntamente preventiva, ha manifestato con chiarezza al mondo intero che il suo progetto politico è la definizione di una sua egemonia nell'area (sostanzialmente, il controllo del rubinetto del petrolio arabo); però Washington non aveva tenuto conto della deriva amara che avrebbe preso la sua «vittoria», e perciò l'Iran - che inizialmente, alla caduta di Saddam, sembrava ritrovarsi schiacciato in un angolo, pesantemente bollato per la sua rischiosa partecipazione a un Asse del Male messo sotto tiro - ha potuto progettare una nuova strategia «regionale», che sfrutta la debolezza del potere militare americano per guadagnare a Teheran ima nuova liberta di movimento nello scacchiere del Golfo. Quanto più i marines piombano nel pozzo delle difficoltà, e i loro «protetti» iracheni si mostrano incapaci di prendere un controllo decente della vita quotidiana del Paese, tanto più la destabilizzazione premia tutti coloro che si sono chiamati fuori dal progetto americano. Perciò l'interesse di Teheran è anzitutto appoggiare chiunque protesti contro Allawi e contro la sua banda di «servi di Washington». Però, nello stesso momento in cui infiltra in Iraq agenti provocatori, o attizza la rabbia e i rancori di quanti vorrebbero vedere i marines partirsene oggi stesso dall'Iraq, fa di tutto perche questa sua attività «clandestina» non sfugga troppo all'attenzione della Cia. Il messaggio è chiaro: senza di noi, il vostro progetto di pacificazione sarà soltanto un sogno di carta. In questo gioco spregiudicato dei servizi segreti e degli analisti di crisi, il molo di Muqtad Al-Sadr è strumentale, perché - legato alla lotta tra fazioni sciite irachene- serve soltanto ad accentuare la destabilizzazione politica interna, ma non incide sul progetto globale della risistemazione dell'area. La partita che si sta ormai giocando in Iraq è assai più importante della scelta di un nuovo governo a Baghdad. Sul tavolo del confronto c'è un disegno strategico che dal Giordano arriva fino al Caucaso, passando per il Golfo e le nuove rotte del petrolio del Caspio. L'Iran, che sente stringerglisi addosso l'accerchiamento dei marines da Ovest e da Est, da Baghdad e da Eandahar, vuol rimescolare le carte. Chi gli ha rapito il console, ieri, ha lanciato un segnale preoccupante per tutti: i giochi, ora, si fanno allo scoperto. Il ragno è avvisato.

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