Nella ristrutturazione dei gruppi societari, può accadere che una società appartenente al gruppo deliberi di incorporare la propria controllante (c.d. fusione inversa) invece di essere incorporata, come avviene di regola, nella controllante medesima. In tali casi, per effetto dell'incorporazione della società controllante, il cui attivo patrimoniale comprende la partecipazione nella società controllata, la società controllata medesima si trova a detenere un cospicuo numero di azioni proprie. Con frequenza anche maggiore, accade che una società, destinata ad essere incorporata dalla propria controllante, detenga azioni proprie in portafoglio. In entrambi i casi, si pongono complessi problemi interpretativi, risolvibili con una corretta applicazione delle norme dettate dal codice civile in tema di azioni proprie.
Può accadere, infatti, che certe letture della norma, apparentemente fedeli riproduzioni del semplice dato normativo, collidano palesemente con il significato logico-formale dell'espressione legislativa. E' quanto si vuole dimostrare con riferimento all'art. 5, comma 2, del T.U.I.R., relativo all'imputazione ai soci dei redditi derivanti dalle quote di partecipazione agli utili, la cui interpretazione ufficiale, lungo la quale si allineano dottrina ed istituzioni, alimenta forti dubbi.
Nonostante l'esercizio dell'opzione per la tassazione consolidata di gruppo sia irrevocabile per la durata di tre esercizi sociali, può accadere che in detto periodo venga meno il requisito del controllo richiesto dalla norma. In tal caso è prevista la neutralizzazione dei benefici derivanti dalla tassazione consolidata di gruppo negli esercizi precedenti a quello in cui è venuto meno il rapporto di controllo. Per quel che riguarda gli effetti sugli acconti derivanti dall'interruzione del consolidato, sia la società controllante, sia le controllate che fuoriescono dal consolidato, sono tenute a rideterminare, sulla base del proprio reddito imponibile, l'eventuale maggior acconto dovuto e ad effettuare un versamento integrativo entro 30 giorni dal venir meno del requisito del controllo.
E poiché questo può accadere soltanto a partire dalla valorizzazione del ruolo del singolo parlamentare, appare assolutamente opportuna la definizione di uno "statuto del parlamentare", quale complesso di facoltà autonomamente esercitabili dal singolo deputato e senatore.
Da quando ai Comuni è stato riconosciuto un autonomo potere sanzionatorio, non è raro imbattersi in interessanti questioni di principio da ricondurre tutti alla sempre ricercata "certezza del diritto" ovvero all'esigenza pubblica di conoscere i comportamenti consentiti dall'ordinamento e le misure che conseguono alla violazione degli obblighi di civile convivenza. Siamo abbastanza convinti che l'esercizio del potere sanzionatorio individua e distingue una norma giuridica da una norma morale o, vieppiù, da una comune norma consuetudinaria o di locale uso, se non da un mero comportamento umano, capace comunque di produrre effetti. Ma siamo ancor più convinti che se l'esercizio del potere passa per le mani della p.a., tramite l'attività di verifica e controllo degli agenti pubblici, la misura delle sanzioni o delle pene che possono essere applicate a chi viola le norme, è stabilita dalla legge ed applicata dall'Autorità, in modo tale da garantire una misura afflittiva idonea a determinare in maniera equanime una "pressione giuridica" sulle coscienze. Altri ritengono, invece, che la scelta del legislatore che ha emanato e novellato il testo unico delle leggi comunali e provinciali di inizio secolo, è andato nella direzione di riconoscere più ampi poteri alla p.a. locale, quasi a determinare una sorta di Stato formalmente unitario, ma sostanzialmente frammentato in microgiurisdizioni, nell'ambito delle quali l'applicazione delle misure sanzionatorie può variare anche notevolmente a seconda che il comportamento illecito sia avvenuto in un territorio comunale piuttosto che in un altro. Esemplificando, potrebbe accadere che chi passeggia con il cane privo di guinzaglio e attraversa un ponte che collega due Comuni, per una stessa violazione, possa essere sanzionato con misure afflittive sostanzialmente diverse, in quanto da un lato del fiume ciò comporta un fatto grave e, dall'altro, un fatto di poco conto: questa è certezza del diritto?
Quando una società detiene, direttamente o indirettamente, la maggioranza assoluta dei diritti di voto in un'altra società vi è una presunzione relativa che la prima controlli la seconda a meno che il diritto di voto non attribuisca il controllo al soggetto partecipante. Una relazione di controllo esiste tutte le volte che un soggetto, pur detenendo solo la maggioranza relativa dei diritti di voto in un'altra società, è in grado di imporre la nomina della maggioranza dei membri del consiglio d'amministrazione della società partecipata. Ciò può accadere in presenza di un azionariato particolarmente diffuso e frazionato, quando la partecipazione alle assemblee sociali è insufficiente ad impedire che la volontà dell'azionista di maggioranza relativa prevalga. Si tratta di una fattispecie simile a quella disciplinata dall'art. 2359 co. 1 c.c. italiano. Secondo altri osservatori il concetto di controllo che lo IAS 27 si propone di disciplinare è limitato alla nozione di controllo di diritto. Pertanto il controllo può risiedere solo nelle mani dell'azionista di maggioranza assoluta. A causa delle diverse interpretazioni della nozione di controllo dello IAS 27 le parti coinvolte nel dibattito hanno sollecitato l'intervento dello IASB (Board Decisions on International Financial Reporting Standards), il quale ha emesso un comunicato in materia di controllo di diritto e di fatto. Lo IASB dichiara che la nozione di controllo dello IAS 27 è un controllo di fatto. L'individuazione di una relazione di controllo non presuppone la verifica dell'esistenza di un accordo formale tra soci che attribuisca l'esercizio del diritto del potere di governo all'azionista di maggioranza relativa.
Questo può accadere anche se l'organo di governo è collegiale, esattamente quando lo statuto contiene la clausola "simul stabunt, simul cadent", ammessa apertis verbis dalla riforma societaria. Benché siano da compiere unicamente operazioni di ordinaria amministrazione (che, in concreto, impegnano più delle straordinarie), il carico non è lieve, in quanto i sindaci - in aggiunta alla continuità del controllo - sono tenuti ad assicurare l'ordinato svolgimento del lavoro aziendale e la conservazione del patrimonio. L'articolo amplia il panorama che si intravede al quinto comma dell'art. 2386 c.c., esponendo indicazioni dettagliate sui comportamenti "gestori", senza ignorare gli adempimenti "societari". Avvertimenti utili anche per i sindaci all'inizio del loro mandato (per i quali è utile esaminare prontamente le norme statutarie sulla "governance".
Può accadere che una società operativa in un paese a fiscalità ordinaria sia posseduta dalla capogruppo italiana per il tramite di una "subholding" in un paese a fiscalità privilegiata, soggetta al regime CFC. L'Agenzia delle entrate conferma l'operatività dell'esenzione sui dividendi, fiscalmente imputati alla capogruppo italiana in base al regime CFC quando distribuiti alla "subholding" nel paese a regime fiscale privilegiato. Tuttavia, esclude che il dividendo distribuito dalla "subholding" alla controllante italiana, come tale escluso dall'esenzione in quanto proveniente da paese "balck listed", possa considerarsi "già tassato" per l'intero ammontare in virtù della sua precedente imposizione per trasparenza. L'agenzia ritiene invece che il collegamento tra il dividendo percepito dalla controllante italiana e i redditi della società a fiscalità ordinaria debba essere provato volta per volta, presentando apposito interpello.
Peraltro, contrariamente all'opinione prevalente, parrebbe ragionevole ritenere che il concetto di prevedibilità di cui all'art. 1225 c.c. no equivalga a quello di probabilità (e non coincida, quindi, con un giudizio di facilità ad accadere del danno), ma vada piuttosto letto nel senso della irrisarcibilità delle sole conseguenze patrimoniali davvero eccezionali e perciò imprevedibili dell'inadempimento, in analogia a quanto previsto dall'art. 1467 c.c. per i casi di eccessiva onerosità sopravvenuta che giustificano la risoluzione del contratto. È nel momento in cui la risoluzione del contratto viene richiesta che l'inadempimento di controparte, divenendo definitivo, fa sorgere il diritto al risarcimento del danno. A tale momento va dunque riferito il calcolo sulla differenza di valore commerciale del bene non trasferito rispetto al prezzo pattuito nel contratto preliminare.
La Corte di cassazione si occupa ancora una volta del c.d. principio di in frazionabilità della domanda relativa alle tutela risarcitorie, puntualizzando in quali casi esso trovi ordinariamente applicazione e in quali ipotesi, invece, può accadere che le parti intendano da esso derogare, individuandone le relative condotte in proposito rilevanti.
In tale ambito, può accadere che i profili di diritto interno si scontrino con quelli propri del diritto internazionale il quale detta una serie di regole per dirimere i conflitti tra le disposizioni dei singoli Stati. In ogni caso ancora oggi l'accertamento della residenza fiscale di un individuo pone delicati problemi, sia per quanto attiene all'individuazione dell'onere della prova, sia, più specificamente, in merito ai mezzi utilizzabili per fornire la dimostrazione dello "status" soggettivo di residenza. Proprio per la delicatezza del tema sarebbe forse auspicabile un radicale mutamento di prospettiva e che l'accertamento della residenza fosse preventivo rispetto al comportamento; in questi termini, quindi, Amministrazione e contribuente potrebbero analizzare di comune accordo la situazione per giungere ad una definizione degli elementi richiesti per giustificare il trasferimento della residenza all'estero.
Il Regolamento della Comunità Europea n. 593/2008 dà indicazioni sulla legge da applicare alle obbligazioni contrattuali in caso di conflitto di leggi di Stati diversi: evento che oramai può accadere molto spesso a fronte di un mercato europeo integrato. Tale disposizione però non si ferma alla mera regolamentazione di questi casi, ma, alla luce dei più importanti principi dettati dalla Costituzione della Comunità Europea, approfondisce la tutela della parte più debole: il consumatore, ma anche il lavoratore individuale. L'Unione, infatti, si deve adoperare per un'Europa improntata ad uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica equilibrata e sulla giustizia sociale, in un contesto di mercato unico e libero.
Può accadere che, per i motivi più vari ed anche per mero accidente, un datore di lavoro si astenga dall'esercitare la rivalsa sui contributi previdenziali ed assistenziali che di per sé dovrebbero gravare su un dipendente. Ciò comporta inevitabilmente conseguenze, sia ai fini IRPEF, sia del reddito d'impresa, ma, a ben considerare, forse le stesse non vanno esagerate. Rimangono però da considerare le eventuali ricadute specialmente sulla base della commisurazione del TFR; in questo caso dovrà pur farsi riferimento, oltre che alla disciplina civilistica, anche alla disciplina contrattuale che lo regola.
L'attenta analisi critica dei pronunciati delle S.U. sul delicato tema del nesso di causalità evidenza l'adesione ad una concezione giuridica dell'evento, della condotta e del nesso causale, sintesi tra quel che è accaduto e quel che sarebbe dovuto accadere. Si constata l'adesione scientifica alla teoria dell'umana dominabilità della situazione effettuale e della concreta impedibilità dell'evento. La variante è processuale: all'accertamento penale rigoroso, al di là di ogni ragionevole dubbio, si oppone l'accertamento civile probabilistico, secondo il criterio del più probabile che non.
a) Il diritto agli alimenti legali. La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie sono concordi nel fondare l'obbligo alimentare legale sulla solidarietà familiare e rintracciano la funzione dell'istituto nella tutela della vita (dignitosa) del congiunto in stato di bisogno. Tuttavia non vi è uniformità di opinioni a proposito della natura del diritto. C'è accordo nell'individuare nella pretesa alimentare un diritto soggettivo ma manca una qualifica unitaria all'interno di questa categoria generale. b) Il momento della nascita dell'obbligazione alimentare. Anche in merito al momento della nascita dell'obbligazione alimentare legale si registrano opinioni discordi. La principale contrapposizione è tra chi ritiene che il diritto agli alimenti nasca al ricorrere dei presupposti soggettivi ed oggettivi previsti dalla legge, e, chi, invece, sostiene che tali elementi non siano sufficienti, ma sia necessaria anche la domanda della persona in stato di bisogno. c) Il concorso di più obbligati alla prestazione alimentare. Rispettando l'elenco e l'ordine degli obbligati, tassativamente previsti dalla legge, può accadere che, più persone, siano contemporaneamente tenute a corrispondere gli alimenti a chi si trovi in stato di bisogno. In tali circostanze si pone il criterio di ripartizione della prestazione alimentare tra più obbligati: ovvero se l'obbligazione sia solidale o parziaria (con prevalenza della tesi della parziarietà). Inoltre, in presenza di più obbligati, può accadere che uno di loro adempia l'intera prestazione con il conseguente problema di individuare gli eventuali strumenti di ripetizione a sua disposizione. d) Le modalità di adempimento dell'obbligazione alimentare. L'art. 443 c.c. rimette all'alimentando la scelta in ordine alle modalità di adempimento dell'obbligazione alimentare, consentendo al medesimo di optare tra la corresponsione di un assegno periodico anticipato e l'accoglienza ed il mantenimento, nella propria casa, dell'alimentando (salvo l'intervento dell'autorità giudiziaria previsto dal 2 co.). In mancanza di un accordo tra le parti o di un intervento del giudice, ci si domanda se il pagamento delle rette della casa di cura, effettuato direttamente da uno degli obbligati, integri una modalità di adempimento dell'obbligazione alimentare.
Naturalmente, può accadere, è auspicabile accada che democrazia popolare e democrazia giudiziaria coincidano, o almeno divergano di poco. Ma questo sovente non avviene e con il confessionismo laico il potere del giudice viene sospinto al suo apice. Il magistrato diviene insieme sacerdote e giudice, non attua solo il diritto, plasma anche la morale. E' interprete unico ed arbitro del confessionismo che regge lo Stato, senza che nessuna Chiesa o formazione religiosa sia legittimata ad interferire. Si libera perciò anche del crocefisso, che ricorda la possibilità dell'errore giudiziario.
Trattasi di applicazioni pratiche alle quali, poste le loro ripercussioni, occorre porre particolare attenzione, auspicando, innanzitutto, un revirement da parte degli uffici di procura e, ove ciò non dovesse accadere, il celere intervento del legislatore, che può porvi rimedio attraverso incisive, poche e settoriali riforme.
Infine, si analizza il caso della "Single Business Tax" del Michigan, che come noto ha ispirato il legislatore italiano per l'introduzione dell'irap [imposta regionale sulle attività produttive] e che nel 2008, anticipando ciò che da anni si proclama anche in Italia, è stata abrogata; ne emergono spunti di interesse per quel che potrebbe accadere con l'irap se davvero si giungesse alla sua eliminazione.
E' forse prematuro dire se in futuro vi sarà una maggiore attrattività di tali strumenti finanziari emessi da intermediari italiani, ma di certo oggi sussistono le premesse normative ed interpretative perché ciò possa accadere.
Può accadere che, prima della dichiarazione del fallimento, l'imprenditore ponga in essere atti dispositivi della propria azienda, ai quali la legge ricollega l'adempimento di formalità pubblicitarie: in primo luogo, il deposito per l'iscrizione nel registro delle imprese, previsto dall'art. 2556, secondo comma, c.c. Considerata la disposizione di cui all'art. 45 l. fall., ci si chiede a quali condizioni l'atto di cessione di azienda compiuto dall'imprenditore prima del fallimento sia opponibile alla massa dei creditori. Si cercherà di dare una soluzione al quesito partendo dall'analisi della natura della pubblicità commerciale, passando attraverso l'interpretazione dell'art. 45 l. fall., fino a giungere al raccordo degli elementi in tal modo acquisiti.
In primo luogo, se la maggioranza è coesa, potrebbe accadere che lo scioglimento anticipato sia disposto, su proposta del Governo di fatto vincolante per il Capo dello Stato, nell'esclusivo interesse della maggioranza. In secondo luogo, anche lo scioglimento successivo è coerente con la qualificazione giuridica dell'atto come atto complesso, con i principi generali della forma di governo parlamentare e con il principio democratico, riletto alla luce del fatto maggioritario.
Ne consegue che l'obbligo si estingue quando la prestazione non sia più idonea a realizzare il risultato dell'affrancamento economico dei figli: il che può accadere quando il comportamento di quest'ultimi faccia degradare l'obbligo genitoriale a mera prestazione patrimoniale.
Può quindi accadere che la cessione della pertinenza sia soggetta a Iva, imponibile o esente, a fronte di una cessione del bene principale, precedente o contestuale, fuori del campo applicativo dell'Iva, oppure che la cessione della pertinenza sia esente da Iva a fronte di una cessione dell'abitazione imponibile allo stesso tributo o viceversa.
Nell'operatività delle imprese può accadere che una società residente conceda ad una società controllata estera un finanziamento infruttifero di interessi. L'Agenzia delle entrate, in sede di accertamento, ritiene che, in tale ipotesi, trovi applicazione la disciplina in materia di "transfer pricing", di cui all'art. 110, comma 7, del T.U.I.R. [Testo unico delle imposte sui redditi] e, conseguentemente, tende a contestare l'omessa contabilizzazione di interessi attivi, determinandone la misura sulla base del saggio di interesse che sarebbe stato pattuito per un prestito fruttifero contratto tra imprese indipendenti.
L'esecuzione delle sentenze della Corte EDU può richiedere interventi di vario genere, di natura legislativa o giudiziaria, da un lato per porre rimedio, sul piano normativo, alle carenze ordinamentali riscontrate e, dall'altro, per reintegrare sul piano individuale il diritto leso. Per quest'ultimo scopo occorrono strumenti processuali che consentano al giudice di rimuovere il giudicato e di intervenire sul processo o sulla sentenza in modo da eliminare la violazione riscontrata dalla Corte EDU. Il legislatore però non ha approntato gli strumenti necessari e alla lacuna ha dovuto porre rimedio la giurisprudenza, sia della Corte di cassazione, sia della Corte costituzionale. Questa Corte in particolare ha dovuto prendere atto dell'inerzia del legislatore e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p., creando un procedimento duttile, "un diverso caso di revisione", in grado di rispondere alle varie esigenze applicative relative all'esecuzione delle sentenze della Corte EDU. Questioni diverse si pongono a seconda che l'esecuzione riguardi la persona cui si riferisce la sentenza della Corte EDU o terzi che abbiano subito il medesimo trattamento convenzionalmente illegittimo. Secondo l'A. nel primo caso, se la violazione dipende da una norma interna, non occorre che l'esecuzione sia preceduta dalla dichiarazione della sua illegittimità costituzionale, perché il giudice non è più tenuto ad applicare tale norma ma deve ricercare e trovare la regola cui attenersi nella stessa sentenza. Nel secondo caso invece, non riguardando questa direttamente la persona che ne chiede l'esecuzione, si pone per il giudice, nei confronti della norma che ha dato causa alla violazione e dalla quale non può prescindere, l'alternativa tra l'interpretazione conforme e la questione di legittimità costituzionale, essendo esclusa la possibilità di disapplicazione. Può però accadere che alla regola convenzionale violata faccia riscontro, anziché una norma contrastante, una lacuna dell'ordinamento nazionale, e occorra perciò, anziché una dichiarazione di illegittimità costituzionale, una interpretazione conforme additiva, con l'aggiunta nel sistema processuale di un'ulteriore garanzia che mancava. L'A. ricorda infine che per dare esecuzione alle sentenze della Corte EDU è necessario nella maggior parte dei casi far cadere il giudicato e che secondo la giurisprudenza, sia della Corte di cassazione, sia della Corte costituzionale, non solo nei confronti della persona cui si riferisce la decisione, ma anche nei confronti delle altre persone che si trovano nella medesima situazione, la rimozione della lesione ancora in corso di un diritto fondamentale non può essere impedita dall'esistenza di un giudicato.
Proprio per salvaguardare quest'ultima funzione, essenziale "garanzia assicurativa" dei livelli adeguati di tutela confermati dalla Costituzione, l'A. propone che, comunque, nel considerare la rendita la si equipari ai redditi mobiliari, in analogia a quanto dovrebbe accadere per le somme percepite dall'invalido quale indennizzo in capitale per danno biologico.
Ma cosa può accadere, quando è lo stesso legislatore a rifiutarsi, o comunque a mostrarsi palesemente incapace, di esercitare la propria funzione politico-rappresentativa?
Ciò non significa che il controllo sia sempre esercitato; tuttavia può anche accadere che venga svolto con particolare assiduità. Proprio per tale ragione nel 2007 si è reso necessario l'intervenuto del Garante della Privacy, a seguito del quale anche la giurisprudenza di merito e di legittimità si è più volte espressa nel senso di un generale ripensamento circa l'ampiezza dei poteri di controllo prima attribuiti al datare di lavoro attraverso il sistema dei c.d. "controlli difensivi".
La Corte di cassazione affronta il tema della natura giuridica dell'accollo "interno", sottolineando come l'obbligazione dell'accollante, di sollevare l'accollato dal peso economico di un suo debito pregresso, non comporti alcuna successione nell'obbligazione originaria (a differenza di quanto può accadere nell'accollo esterno), rimanendone sostanzialmente autonoma: questo conduce a fare alcune considerazioni sulla possibilità che i "vizi" del contratto fonte dell'obbligazione originaria possano "propagarsi" al contratto che realizzi un accollo interno. Salva l'ipotesi che quest'ultimo non sia a sua volta nullo per impossibilità o indeterminatezza dell'oggetto, sembra che il rimedio si possa trovare, sul piano risolutorio-risarcitorio, nella "exceptio doli generalis", colpendo l'eventuale comportamento abusivo del debitore accollato, che scorrettamente pretenda di essere tenuto indenne da un'obbligazione (in tutto o in parte) inesistente. La Suprema Corte si sofferma anche sulla natura giuridica dell'accollo esterno, qualificato come contratto a favore di terzo, sottolineando come il creditore acquisti immediatamente il diritto contro l'accollante in virtù dell'accordo tra questi e l'accollato, senza che sia necessario alcun consenso da parte dello stesso accollatario, nemmeno come "condicio juris" d'efficacia dell'accollo nei suoi confronti: il consenso dell'accollatario serve solo a rendere irrevocabile la stipulazione a suo favore. La soluzione, condivisibile, appare però difficilmente conciliabile con l'idea, introdotta da Cass. n. 9982/2004, secondo cui, nell'accollo esterno cumulativo, l'obbligazione dell'accollato degradi sempre a sussidiaria rispetto a quella dell'accollante: se così fosse, sembrerebbe impossibile prescindere dal consenso del creditore, quantomeno come condizione di efficacia dell'accollo nei suoi confronti (in questo senso, infatti, la sentenza del 2004).
È quello che dovrebbe accadere nel caso di una fattispecie di "transfer price" interno, laddove esistono già degli strumenti per affrontarlo all'interno del TUIR senza, per tale motivo, ricorrere alla figura dell'abuso del diritto.
Rispetto alla "Grande migrazione" sono riscontrabili: 1) un'inettitudine, perché questo fenomeno, pur se preconizzato da più di quarant'anni dai demografi, si è lasciato accadere per agnosticismo e mancanza di strategie; 2) uno scandalo iniziale, perché non avendo aiutato i poveri dei Sud della terra in casa loro, per l'effetto calamita ce li troviamo in casa nostra, con implicazioni imprevedibili; 3) un secondo scandalo, costituito non dall'immigrazione in sé, ma dall'immigrazione incontrollata, delle porte aperte. Con la disumanità del traffico dei mercanti di uomini e dei terroristi islamici, dell'ecatombe lungo le carovaniere del deserto e nei fondali marini. E una pseudo accoglienza, costituita al più da un lavoro schiavizzante o dalla non dignità di una vita di accattonaggi, prostituzione, criminalità. Senza integrazione, presupponendo questa un lavoro regolarizzato e una casa. E quindi derelitti senza futuro e senza speranza; 4) un terzo scandalo del passaggio di un crescente numero di Paesi europei dalla disumanità delle "porte aperte" alla disumanità delle "porte chiuse": ai profughi dello spietato terrorismo mediorientale. La fine o il contenimento della Grande migrazione sta, anche se a tutt'oggi improbabili: a) se fuga da guerre e persecuzioni nella ripacificazione delle aree mediorientali destabilizzate da tante colpe; b) se fuga dalla povertà, in programmi di aiuti in casa loro. Per la lotta contro la povertà e non per l'acquisto di armi per guerre fratricide.
La Cassazione, dunque, ha ritenuto che la disposizione ex art. 38 comma 6 d.p.r. 600/1973, pur non prevedendo esplicitamente la prova diretta che determinati redditi siano stati utilizzati per coprire determinate spese contestate dal fisco, richiede d'ora innanzi una mera prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere. Viene così accantonato il nesso eziologico ovvero la prova diretta tra provvista patrimoniale e spesa contestata. Una congrua valutazione del rapporto tra entità e durata della provvista, in relazione alla spesa contestata, costituisce sufficiente elemento fattuale e circostanza probatoria atta a superare la presunzione sintetica.
In ambito filosofico e nella epistemologia medica si sta ormai abbandonando l'idea di un modello unitario di spiegazione causale e lo stesso sembra accadere, sebbene per via autonoma, nel diritto penale, dove va emergendo la consapevolezza che lo standard probatorio esigibile vari a seconda degli ambiti di indagine ed anche delle caratteristiche del fatto concreto. L'A. conclude richiamando l'attenzione sull'importanza di costruire correttamente le premesse del ragionamento causale, selezionando soltanto evidenze di qualità ed evitando i più frequenti "biases" conoscitivi.