Pur condividendosi l'esito abolitivo della vicenda, non sembra che esso possa essere fondato sulla diversità strutturale tra le fattispecie in successione, né tantomeno sulla pretesa equiparazione fra disapplicazione comunitaria e abrogazione. In realtà, dobbiamo ritenere che la nuova versione dell'illecito penale, seppure strutturalmente omogenea rispetto alla previgente, non si ponga in continuità normativa e possa valere solo per il futuro (con la revoca, ex art. 673 c.p.p., delle sentenze di condanna definitive), perché l'ipotesi criminosa non esiste più come "tipo di illecito".
Distinguendo i due istituti sulla base del diverso o medesimo livello gerarchico su cui sono disposte le norme in conflitto: nella disapplicazione, antinomia tra norme di livello diverso (primauté del diritto europeo); nella abrogazione, antinomia tra norme dello stesso rango (lex posterior).
O abrogazione in parte qua dell'art. 570 c.p.?
L'art. 6 comma 1, d.lg. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011 n. 214 e recante "abrogazione degli istituti della causa di servizio, dell'equo indennizzo e della pensione privilegiata", detta una disciplina che si auspica sia sottoposta dallo stesso Parlamento ad una sollecita e radicale revisione non solo per la discutibile tecnica redazionale utilizzata per la sua compilazione, che già sta provocando interpretazioni non consentite da regole elementari di semantica giudiziaria, ma anche perché le norme che introduce pongono problemi di legittimità costituzionale, sia nella parte in cui privano i dipendenti pubblici della tutela previdenziale del lavoro di cui fruivano da oltre cinquanta anni, sia in quella in cui invece la conservano per talune categorie ancorché prive di un adeguato titolo giustificativo e, quindi, in violazione del principio costituzionale per il quale, a parità di condizioni lavorative, la tutela della salute deve essere garantita ai lavoratori su un piano di assoluta parità.
A dieci anni di distanza dall'entrata in vigore della disciplina sulla responsabilità amministrativa da reato degli enti di cui al D.lg. n. 231 del 2001, la Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite - chiamata per la prima volta a decidere in tema di responsabilità da reato dell'ente nelle ipotesi in cui il reato presupposto espressamente previsto nel novero dei reati ex n. 231 del 2001 sia abrogato e successivamente riscritto da altre disposizioni del decreto legislativo di abrogazione - ha osservato che il rinvio formale ad un illecito penale cui fanno riferimento le norme previste negli artt. 24 e ss. del D.lg. 231 del 2001, deve intendersi quale rinvio fisso, nel senso che occorre far riferimento alle norme incriminatici espressamente richiamate e non al loro contenuto (rintracciabile anche in altre disposizioni di legge) e ciò in quanto anche in tema di responsabilità da reato degli enti vige il principio di tassatività il quale preclude all'interprete l'individuazione discrezionale di aree di applicazione del D.lg. n. 231 del 2001. Più esattamente, il rinvio formale cui fa riferimento la norma inserita nel D.lg. n. 231 del 2001 deve intendersi tassativo ed operante solo con riferimento alle fattispecie ivi determinate e non può essere in alcun modo arricchito, se non dal legislatore. Pertanto, nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, l'art. 174-bis TUF (confluito nell'art. 27 D.lg. n. 39 del 2010) - evocato dal P.M. quale reato presupposto per affermare la responsabilità della società imputata poiché avente lo stesso contenuto dell'abrogato art. 2624 c.c. espressamente richiamato dall'art. 25-ter D.lg. n. 231 del 2001 - sia del tutto estraneo al novero dei reati di cui al D.lg. 231 del 2001: secondo le Sezioni Unite il richiamo a tale norma (art. 174-bis TUF) è privo di sostegno giuridico, dal momento che si tratta di una disposizione che non ha mai fatto parte del quadro normativo di cui al D.lg. 231 del 2001.
La semplice abrogazione delle Province, infatti, non risolve il problema di come garantire un efficiente ed efficace governo delle cosiddette funzioni di "area vasta". L'analisi della legislazione mostra che molte delle funzioni trasferite dal centro in periferia sono proprio quelle di "area vasta" e paradossalmente le Province, malgrado la loro cattiva reputazione, sono state destinatarie di molti e significativi nuovi compiti amministrativi.
La contestata abrogazione delle norme che punivano gli aderenti ad associazioni di carattere militare chiama a riflettere sui margini di cui dispone la Corte costituzionale per sindacare norme penali favorevoli al reo. Nessuno dei rilievi d'illegittimità sollevati nei confronti della norma abrogatrice è al riparo da obiezioni. Ma la sola circostanza che l'eventuale accoglimento delle eccezioni possa comportare la reviviscenza della disciplina abrogata non può impedire alla Corte di vagliare l'esistenza delle condizioni formali e dei presupposti sostanziali che le consentono di esprimersi sulla legittimità della norma censurata.
Lo studio analizza la portata di tale abrogazione e in particolare affronta la questione della compatibilità della fusione con le procedure concorsuali, individuando alcuni casi in cui, pur in assenza di un esplicito divieto, la società soggetta a fallimento non può partecipare alla fusione.
Per gli AA. questo significa che il divieto (generale) di interposizione risulta sostanzialmente sopravvissuto, escludendosi che l'espressa abrogazione, da parte dell'art. 85, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, della l. n. 1369/1960, abbia comportato il venir meno del divieto di interposizione di manodopera. In tale logica vengono quindi esaminati i presupposti di ammissibilità della somministrazione ed il relativo regime sanzionatorio, il sistema delle tutele nell'appalto non "genuino", la responsabilità solidale nella somministrazione e nell'appalto, la responsabilità nell'intermediazione vietata di manodopera.
Abrogazione, denaro (M1) ed entità istituzionali
Come si può conciliare l'idea di fondo cui s'ispira il senso stesso del diritto, la sua ragion d'essere, ossia la stabilità e la certezza delle regole, con l'altra idea opposta di mutamento continuo insita nella "manutenzione" dell'ordinamento giuridico? Porsi questa domanda significa entrare nell'ottica giusta per comprendere come i protagonisti della vita giuridica e politica-istituzionale dell'Antico Regime affrontassero il tema cruciale della manutenzione delle norme. In quel mondo, che sembra così lontano dalla forma mentis nostra e dei giuristi positivisti contemporanei, e del quale purtuttavia siamo tutti diretti eredi, il valore fondamentale era costituito dall'immutabilità dell'ordo juris in quanto esso era considerato espressione della Veritas e della Divina Voluntas. Queste ultime, com'è ovvio, non potevano, né l'una né l'altra, mutare. L'evoluzione dell'ordinamento, non potendo dunque essere realizzata attraverso la pratica riformatrice, doveva passare attraverso altri canali. Quali? Il saggio ne individua e ne analizza alcuni dei principali, focalizzando l'attenzione soprattutto sull'interpretazione giurisdizionale realizzata dalla magistratura nei suoi organi giusdicenti. Se ne conclude che quella dell'Antico Regime era una "manutenzione occulta" utilizzata dalle istituzioni giurisprudenziali come strumento arcano del governo politico dei giureconsulti, attraverso il quale la jurisdictio era convertita in sovranità politica. A provarlo è per un verso la frequente reiterazione (apparentemente insensata) delle leggi, per un altro il fatto che allo strumento dell'abrogazione palese delle norme obsolete l'establishment giuridico preferiva di gran lunga quello della desuetudine, che offriva agl'interpreti margini di manovra incomparabilmente più ampi. La svolta rivoluzionaria intervenne proprio per consentire il passaggio dalla manutenzione giurisprudenziale alla manutenzione legislativa, nella convinzione che ciò servisse a eliminare la mediazione patriarcale delle magistrature e ad affermare il primato della responsabilità politica nella gestione razionale, ordinata e controllabile dell'ordinamento giuridico.
Il contributo contiene una sintetica esposizione delle linee di fondo del disegno di legge di riforma del diritto della filiazione, già approvato dalla Camera dei deputati nel giugno del 2011. Punto centrale della riforma è l'unificazione dello stato di figlio con conseguente abrogazione di ogni distinzione e discriminazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio. Cade anche quella discriminazione in tema di parentela, che la giurisprudenza costituzionale continua a ribadire. La riforma non va intesa come un attentato al matrimonio, che rimane il presidio della stabilità e solidarietà del nucleo familiare, e che garantisce per ciò stesso una posizione di favore per i figli che ne fanno parte. Altra nota saliente della progettata riforma è la proclamazione dello statuto dei diritti del minore e, in particolare, del diritto di crescere nella propria famiglia: l'esigenza di rendere effettivo questo diritto reclama ulteriori interventi legislativi.
., prendendo spunto dal principio di diritto affermato dalla Suprema Corte, secondo cui l'inosservanza dell'obbligo di frequentare la scuola media superiore non costituisce reato, sottolinea l'abrogazione di fatto della fattispecie prevista dall'art. 731 c.p.
., dopo una attenta ricostruzione delle possibili varianti operative della buona fede oggettiva, si sofferma sull'applicazione dell'istituto al contratto di prestazione d'opera intellettuale tra cliente e avvocato, esaminandone le potenzialità ai fini della determinazione del compenso, anche alla luce della recente abrogazione delle tariffe forensi.