Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 1 occorrenze

Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Parlamento e politica

401993
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Di un partito e un programma radicali in Italia

402709
Murri, Romolo 1 occorrenze
  • 1908
  • Murri, R., La politica clericale e la democrazia, I, ne I problemi dell’Italia contemporanea, Ascoli Piceno-Roma, Giuseppe Cesari–Società Naz. di Cultura, 1908, 192-206.
  • Politica
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Giolitti ha abdicato ai suoi gusti, pur di restare al potere; l'on. Sonnino si è rivelato insufficiente ad imporlesi e governarla: sperare nell'on. Di Rudini, che non fu mai, lo osserva anche il N., uomo di combattimento, ed in un suo ministero, par cosa da uomo poco avveduto.

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