Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Numero di risultati: 9 in 1 pagine

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Documenti umani

244617
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Abbracciare un sistema, in arte, come in politica, importa negare certe cose e crederne delle altre, rinunziare a certe categorie di emozioni e di opinioni, non vedere più che in un modo determinato. Realismo e idealismo sono al tempo stesso delle dottrine etiche e dei metodi estetici, sistemi filosofici e partiti artistici. Un romanzo idealista nell'ispirazione e naturalista nell'esecuzione - o viceversa - non è possibile: Zola ci si è provato, ed ha fatto il Sogno.... Da un'altra parte, il pubblica generalizza troppo facilmente. Se in un libro si descrivono soltanto delle miserie, delle vergogne, delle crudità, che ragione ha la gente di rimproverare all'autore: "Voi rinnegate le nobiltà, le delicatezze, gli eroismi?" Se un altro libro è tutto pieno di queste cose che mancano all'altro, c'è ragione di pigliarsela con l'autore perchè spazia sempre nell'alto? A volere che uno scrittore dia un'adeguata imagine del mondo materiale e morale, bisognerebbe dargli, per lo meno, un po'di tempo! "Dio mio! - esclamò una volta Luigi Capuana - non si può mettere l'universo in sette novelle!..." Supponiamo che un pittore faccia un quadro rappresentante una tempesta; lo accuserete voi di negare il sole e l'azzurro? Tutto ciò che potrete domandare è che egli dipinga bene il suo quadro. Quest'altra volta egli farà un mare tranquillo... se non farà un'altra tempesta, per disposizione naturale dello spirito, per una preferenza tecnica, per una ragione qualunque che egli potrebbe anche non dire.... Discorrendo parecchi anni or sono col Capuana di queste cose - portavo allora intatta la mia verginità letteraria - pensando alla facilità con cui si formano i giudizii di questo genere, io feci all'amico mio una proposta. "Vi incolpano di non sapervi aggirare se non nei bassi fondi sociali? di non avere delicatezza, fantasia, simpatia? Scrivi un romanzo idealista, in cui siano soltanto passioni esaltate, caratteri nobili, azioni generose; in cui ritrarrai un ambiente elevato, i cui personaggi porteranno dei titoli sonori o rappresenteranno l'aristocrazia dell'ingegno; in cui non si sentirà l'odore del popolo zoliano, ma quello degli estratti doppii alla moda.... Scrivi un romanzo romantico, secondo vuole lo stile, dimostra come sia molto più facile che non lo scriverne uno naturalista; è probabile che, dopo, ti lascieranno in pace!" L'idea piacque al Capuana, e con la felice versatilità dell'ingegno che gli ha permesso di passare da Giacinta a C'era una volta, dallo Spiritismo ai Semiritmi, egli avrebbe sicuramente fatto del Feuillet da confondersi col genuino; la storia delle sue contraffazioni avrebbe contato un gustoso capitolo di più.... Altre cure gl'impedirono di porre ad effetto questo disegno; io lo ricordai quindi naturalmente dopo la pubblicazione del mio libro, allorchè accuse simili a quelle fatte al Capuana si fecero a me; allorchà Ella, dimostrandomi l'alta stima - furono sue parole - in cui teneva il mio ingegno, mi disse che avrebbe voluto vederlo impiegato in modo migliore. Ecco come è nata la prima idea di quei Documenti umani che le ho mandati. Come Ella avrà visto, la prima novellina dimostra le mie intenzioni. Documenti umani si sono chiamati i fatti che comprovano le realità miserabili e lamentevoli? Chiamiamo Documenti umani un libro di novelle ispirate alle più alte idealità. Forse i lettori non mi accuseranno più di rinnegarle, forse il signor Treves mi stamperà.... Non le nascondo - sarebbe inutile, Ella se ne sarà accorta da sè - che in quei racconti io ho un poco qua e là calcata la mano, con un partito preso di distinzione, di lindura, di levigatezza quand même. Vi è in questo un movimento di reazione giustificabile, se non giusta, dinanzi alle accuse che mi si fecero. Abyssus abyssum invocat, e le esagerazioni in un senso provocano naturalmente le esagerazioni in un senso opposto. Se vi sentirete rimproverare da ogni parte di appestare i vostri vicini con l'odore dell'aglio, sarete molto probabilmente tentati di procurargli un'accapacciatura a furia di opoponax.... Quando la nuda semplicità della Nedda sollevò, in un certo mondo letterario, quegli scandali che Ella conosce, Giovanni Verga ebbe la tentazione di una solenne canzonatura: un rifacimento arcadico della sua novella, nel quale il famoso e scandaloso raglio dell'asino doveva essere sostituito dai gorgheggi dell'usignuolo.... Questo non vuol già dire che l'autore dei Malavoglia non creda all'esistenza dell'usignolo; come le esagerazioni alle quali io mi sono lasciato andare non significano che io non creda all'esistenza dei sentimenti raffinati e dei caratteri scelti che ho rappresentati. Io credo che tutto possa essere - ma credo del pari che l'artista, in mezzo all'infinita varietà dei fatti umani, abbia piena ed intera la libertà della scelta e della interpretazione. Scegliere fra questi fatti quelli che rappresentano il lato seducente dell'umanità, è certo accaparrarsi un più largo consenso; se, dunque, molti artisti vi rinunziano, per appigliarsi a quegli altri fatti che rappresentano il rovescio della medaglia, più che il biasimo non crede Ella che meritino una lode per il coscienzioso disinteressamento di cui dànno prova? Ma, dirà Ella, perchè scegliere l'altro lato?... Arrivati a questo punto, le teoriche non hanno più che farci: la scelta, il modo di vedere, sono quistioni di temperamento, di gusti, di educazione, di disposizioni permanenti o transitorie, di attitudini speciali: tutti elementi personali, che non è possibile, e si potrebbe fino a un certo punto anche aggiungere non è lecito, di rintracciare. Se una dimostrazione filosofica o gli ammaestramenti di una esperienza mi inducono a credere che i sentimenti più alti e più rari si risolvono negl'istinti primitivi della bestia, io farò oggetto della mia rappresentazione artistica dei fatti dai quali questo concetto scaturisca. Se la mia esperienza mi avrà detto invece che gl'istinti meglio radicati sono domati da qualcosa di più potente e di più puro, io vedrò le cose in tutt'altro modo, la mia scelta sarà diversa. E la scelta è poi libera: - meglio: c'è vera scelta, o sotto l'illusione della libertà si nasconde una rigorosa predeterminazione?... Non passiamo i confini del campo letterario. Se i soggetti presi a trattare dai naturalisti non sono di quelli che più piacciono alla massa dei lettori, io vorrei dimostrare la ragione tecnica di questo fatto. Naturalista è chi vuol riuscire naturale, cioè chi cerca di dare alla finzione artistica i caratteri del vero. Ora, non tutti gli oggetti veri sono egualmente caratteristici, riconoscibili e starei per dire individualizzabili. È quindi evidente che lo scrittore naturalista darà la preferenza a quelli che, per avere dei tratti più salienti, un aspetto più distinto, più accidentato, assolutamente proprio, gli forniscono il mezzo di conseguire il suo intento. Ora, la virtù e la salute sono più uniformi, più semplici, più monotone del vizio e della malattia; questi offrono una più grande varietà ed una più grande particolarità di manifestazioni; e lo scrittore naturalista in traccia di fatti significativi, ne trova, negli ambienti corrotti, nei tipi degenerati, nei casi patologici, una più ricca messe. Questa è pure la ragione perchè, in una gran parte di casi, il mondo dei naturalisti è quello della povera gente. I lettori domanderebbero di assistere a scende della vita elegante, di vedere in azione delle grandi dame e dei gran signori; le descrizioni di catapecchie dove si aggirano dei miserabili in cenci sono, a priori, condannate. Lasciamo stare se questa antipatia è giusta o pur no, se essa risponde ai principii ispiratori della morale cristiana e dell'ideale democratico.... È così, e basta. Ma sa gli scrittori naturalisti non contentano questi desiderii, egli è che a misura che si scende nella gerarchia sociale, le differenze si accrescono e i tipi si determinano più nettamente. Un contadino, un operaio, un marinaio, un minatore hanno dei caratteri esclusivamente proprii, specifici, nella fisonomia, nell'abito, nel modo di fare e di parlare, da renderli riconoscibili a cento miglia lontano; la folla elegante che popola un salone è più uniforme, offre meno presa all'osservazione. Ella mi dirà che le preferenze dei naturalisti si risolvono così nella ricerca di ciò che loro riesce più agevole; nè io le darò torto. Fare della realtà elegante - l'espressione è di Edmondo de Goncourt, ecco l'impresa che si vorrebbe tentata. La quistione è, però, che molto probabilmente l'eleganza di un naturalista procurerebbe dei disinganni agli eleganti di professione. Non bisogna dimenticare che il fatto rettorico è connesso al fatto psicologico, che forma e contenuto s'impongono vicendevolmente; così, il naturalista avvezzo a veder brutto, troverebbe delle immagini brutte, per ritrarre le cose belle, come quell'eroe di Karl Huysmans agli occhi del quale i fiori più smaglianti si paragonavano naturalmente a piaghe, ad escrescenze, ad erosioni patologiche.... Tornando all'ordine di idee interrotto dianzi, un'altra accusa fatta ai nostri novellieri naturalisti è quella del regionalismo. "Voi mi date dei marinai di Aci-Trezza, dei mulattieri di Licodia, dei contadini di Viagrande: che geografia è cotesta? Come volete che io m'interessi ad una gente che non so neppure dove stia di casa?" La quistione è che se voi non potete interessarvi a questi ignorati, lo scrittore non può conseguire una fedeltà di rappresentazione se non mettendosi innanzi dei modelli; ora, se io sono vissuto in Sicilia, non posso pigliare i miei modelli nel Friuli! Ed una quistione strettamente connessa con questa, è l'altra dello stile che i novellieri regionalisti sono costretti a foggiarsi per la necessità di quel che si potrebbe chiamare il colore locale della rappresentazione artistica. I popolani di Sicilia parlano un loro particolare dialetto; quando io li introduco in un'opera d'arte ho due partiti dinanzi a me: il primo, che è l'estremo della realtà, consiste nel riprodurre tal'e quale il dialetto - come hanno tentato per le loro regioni il D'Annunzio, lo Scarfoglio, il Lemonnier - il secondo, che è l'estremo della convenzione, consistente nel farli parlare in lingua, con accento toscano e con sapore classico. Ora, se nel primo caso io rischio soltanto di non farmi comprendere dai lettori che ignorano il dialetto, nel secondo rischio addirittura di farli ridere tutti. Fra i due partiti estremi, io tento, con l'esempio del Verga, una conciliazione; sul canovaccio della lingua conduco il ricamo dialettale, arrischio qua e là dei solecismi, capovolgo dei periodi, traduco qualche volta alla lettera, piglio di peso dei modi di dire, cito dei proverbii, pur di conseguire questo benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella descrizione e nella narrazione ancora. Per venire ai presenti Documenti umani - Ella troverà che ho divagato un po' troppo - questa che io chiamerei localizzazione artistica vi manca. In alcuni racconti non è neppur detto il luogo dove l'azione si svolge; là dove è detto, potrebbe essere spostato impunemente. È naturale: se si vuole un modello che convenga a tutti, bisognerà sacrificare la precisione. E vede come la differenza dei punti di partenza si trascina dietro la differenza dei processi? Nelle novelle realiste della Sorte io dovevo descrivere delle varietà di costumi: i miei personaggi erano diversi, necessarii, tipici, l'osservazione esteriore era minuziosa; in queste novelle ideali ho dovuto notare delle gradazioni di sentimenti: i personaggi sono dei prestanome, si rassomigliano un po' tutti; l'analisi psicologica soverchia ogni cosa. L'analisi psicologica! Se ne ragionassimo un poco? In che cosa consiste essa? Essa consiste nell'esposizione di tutto ciò che passa per la testa ai personaggi, delle loro sensazioni, dei loro sentimenti e delle loro volizioni. Dato un personaggio con un certo carattere e messo in presenza di una certa situazione, l'analisi psicologica consiste nel rintracciare tutti i movimenti interiori di questo personaggio, come egli apprezzi questa situazione, che cosa essa gli suggerisca, quali partiti gli si presentino per uscirne, e per quale trafila di impulsi e di ragionamenti egli si apprenda all'uno piuttosto che all'altro. Alcuni scrittori eccellono in questo genere: Paolo Bourget specialmente, pel cui ingegno io professo una grandissima stima. Quando però si è letta una di queste pagine così precise, in cui l'azione del personaggio è legittimata da cento motivi uno più sottile e più profondo dell'altro, vien fatto istintivamente di domandare all'autore: "Come li avete saputi? Il vostro personaggio vi ha egli raccontato tutto ciò ch'egli ha provato, sentito, ricordato, previsto, trascurato, ponderato? Se no, come avete fatto ad entrare nel suo cervello ed a leggervi quel che vi si passava?..." Victor Hugo, nell' Homme qui rit, ha un'epica descrizione del naufragio di una nave di Baschi, nessuno dei quali però si salva. Ragazzo, appena finito di leggerla, io domandavo a chi ne sapeva più di me: "O come ha fatto Victor Hugo a risaper tutto quel che è avvenuto a bordo della Mattutina dal momento della partenza fino al naufragio, se nessuno è sopravvissuto per dargliene la notizia e se nessun altro poteva esser presente, in mezzo al mare?" E quelli che ne sapevano più di me, mi rispondevano: "È tutta forza di fantasia e di imaginazione!" Ora, l'analisi psicologica è anch'essa il prodotto di un particolar genere d'imaginazione: l'imaginazione degli stati d'animo. In un sol caso essa può essere il prodotto reale dell'osservazione immediata, ed è quando lo scrittore fa argomento della propria analisi sè stesso. Mettendosi direttamente in iscena, o prestando la propria coscienza ad uno dei suoi attori, egli potrà sviscerare gli stati d'animo più complessi, più delicati e più rari che nel campo di quella coscienza e sotto la propria diretta percezione si svolgono. Ma in tutti gli altri casi, quando studia dei caratteri dissimili dal suo, e specialmente in tutta la grande categoria dei caratteri femminili, ciò che cade sotto la sua diretta osservaiione non sono che gli atti, le parole, i gesti. Ora, se si riflette che non solamente il numero dei gesti, delle parole e degli atti non è proporzionato al numero infinito dei pensieri - che, per dir meglio, non hanno numero, essendo una successione continua ed omogenea - ma che i medesimi atti, le medesime parole, i medesimi gesti servono a diversissimi uomini, per diversissimi motivi in diversissime circostanze, si vede quanta poco probabilità di successo vi sia nel desumere dagli indizii esteriori il processo latente che si svolge nelle singole coscienze. Se si riflette ancora che noi stessi non ci sappiamo spesso dar conto di noi stessi, l'impresa apparisce in tutta la sua ingrata difficoltà. Lo ricostruzioni psicologiche dei romanzieri, pertanto, sembrano poggiate sopra una base poco solida e risultanti da induzioni più o meno possibili; e, in fondo, anche quando lo scrittore non parla di sè stesso, la sua analisi altruistica si risolve nel prevedere simpaticamente ciò che, nella pelle dei suoi personaggi, egli stesso proverebbe e penserebbe. I realisti, invece, presumendo di dar l'impressione del reale, fanno agire i loro personaggi, riproducono ciò che in essi è apparente, lasciando ai lettori l'imaginare quel che vi si passa internamente; tal'e quale come nella realtà, in cui noi vediamo degli uomini e delle donne che parlano e che si muovono, e non delle anime messe a nudo e starei per dire scorticate. Cercando di fare intravedere le modificazioni interiori dai segni esterni, rappresentando una situazione d'animo con un gesto o con una parola che la riassumono, si può ben dire che i realisti, invece dell'analisi psicologica, procedono per mezzo della sintesi fisiologica. Molte di queste cose, in forma diversa, sono state recentemente dette da Guy de Maupassant, con l'autorità che gli viene dalla forte produzione, nella prefazione di Pierre et Jean. Ma il Maupassant, pure ammettendo la legittimità dei varii metodi, tiene troppo al suo e lascia intravedere assai chiaramente le sue preferenze. Per essere veramente disinteressati, dopo la critica dell'analisi psicologica, bisognerebbe farne la difesa. Un analista, infatti, potrebbe rispondere: "Ciò che preme sopra tutto è l'anima umana. Noi non possiamo leggervi dentro, ma vale per noi infinitamente di più la ricostruzione verosimile di uno stato psicologico, che tutti i fatti e gli atti più veri. Il fatto, la parola, il segno esteriore non sono che dei momenti; il pensiero, che non è, ma diviene continuamente, è quello che caratterizza l'individuo e che importa conoscere. Ciò è tanto vero, che le azioni possono essere, e sono spesso, contrarie alle intenzioni: sono questi contrasti quelli che vanno studiati. Del resto, se voi presumete che i vostri lettori possano ricostrurre i processi intimi dagli indizii che voi ne date, noi non facciamo che metterci al posto dei vostri lettori, e scriviamo le nostre ricostruzioni. Del resto ancora, se è vero che ciascun uomo ha una psiche diversa, è ancor vero che la natura umana è una, ha un fondo uniforme, e che le differenze da uomo ad uomo non sono determinate se non dal diverso sviluppo che certe facoltà e certe tendenze prendono in seguito a circostanze speciali e riconoscibili. Nulla, in tutto ciò, che precluda la via all'analisi degli stati d'animo più disparati." E non sarebbero neanche necessarie tante dimostrazioni: basterebbe che gli analisti dicessero: "Noi siamo fatti in modo da analizzare!" Stendhal, che ha un'imaginazione psicologica, scrive la Certosa e Armanzia; Flaubert, che ne ha una tutta fisica, scrive Salambô e la Tentazione di Sant'Antonio.... Siamo sempre lì: i metodi sono molteplici, l'arte è una. Chi vuol rappresentare degli stati d'animo deve naturalmente ricorrere all'analisi psicologica; l'analisi psicologica essendo la narrazione del pensiero, ne deriva come nuova conseguenza che lo scrittore è costretto ad adoperare una forma tutta personale. Altra grossa quistione: Obbiettivismo, subbiettivismo; accademia forse!... Se la lasciassimo lì? Ella imagina già quel che io vorrei dire: si possono conseguire degli effetti di prim'ordine coll'un metodo e con l'altro, nè i metodi sono arbitrarii: lo psicologo sarà sempre subbiettivo; il naturalista, volendo limitarsi a riprodurre quel che vede, sarà necessariamente impersonale. Riassumendo perciò questo lungo discorso - era proprio tempo - se io potei prevedere i rimproveri che i critici avrebbero fatto alla mia Sorte, sono oggi ancor meglio in grado di indovinare le accuse che toccheranno a questi Documenti umani. Vuol vedere se sbaglio? Mi diranno che le favole sono troppo romantiche, che i personaggi sono troppo convenzionali, che lo stile è troppo artifìcioso. Nella Sorte s'incontravano troppi mastri, don e comari; qui vi saranno troppi artisti, cavalieri e contesse. Quelli erano troppo sciatti, questi saranno troppo preziosi. Lì ero troppo indifferente, qui esprimerò troppe opinioni. La Sorte era troppo vera; i Documenti umani saranno troppo inverosimili.... Si metta ora un poco nei miei panni e consideri che bell'impiccio! Lei mi dirà: "Non si preoccupi della critica!" Ma si fa presto a dire! I critici sono o non sono i giudici naturali di noi poveri autori? sono o non sono i supremi custodi della legge dell'Arte? Se cominciamo a discutere la loro autorità, sa come potrebbe finire? Che un bel giorno essi pianteranno lì la loro missione; e allora addio garbo, misura, buon gusto, buon senso: tati i freni saranno sciolti, a scempio del bello, del buono e del vero! Tolga Iddio cho io contribuisca a tanta sciagura! Io sono un autore timorato ed ossequente alla critica costituita. La Sorte era naturalista? Ecco qui delle novelle ideali. Sono troppo ideali? Ed io metto a scrivere un romanzo a modo mio.... Me lo stamperà? Mi stamperà, innanzi tutto, questa lettera? A discorrere solo, uno si persuade presto d'aver ragione; però, dopo aver riletto queste pagine, comincio a persuadermi che probabilmente le mie teorie non avranno persuaso niente affatto lei. Lasci correre lo stesso; tanto, a discutere, si finisce per confermarsi nella propria opinione. Guardi come il pubblice resta incrollabile nella sua, che è quella di non darci retta! Catania, Ottobre 1888. Di lei cordialissimamente F. DE ROBERTO.

Di lassù, la vista dev'esser più grandiosa, l'occhio deve abbracciare un orizzonte immenso, il respiro deve trarsi più profondo, l'anima deve spaziare liberamente....

Pagina 229

Il marito dell'amica

245157
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Maria si fermò un momento per abbracciare collo sguardo la bella solitudine. Lasciò che gli altri passassero avanti e sparissero dietro una svolta del sentiero, volendo sentirsi libera nella sua ammirazione, nello slancio che la spingeva verso la purezza della campagna. I suoi polmoni saturi d'aria cittadina si dilatavano, intanto che la sua mente uscendo dalle impressioni sensuali della vita, si ergeva leggera ai pensieri ideali. Per quanto l'occhio potesse vedere, non un richiamo alla materialità umana; nessun stimolo per la carne; solo e dappertutto una freschezza giovanile, una serenità innocente, come di mondo appena nato, svelantesi inconscio a quel mattino d'aprile. Sofia la chiamò per mostrarle il santuario che appariva intero sullo sfondo di un boschetto di abeti, e presala attraverso le spalle con uno dei suoi movimenti graziosi: - Quanto ti voglio bene! Maria sorrise, col cuore tranquillo, pieno di calma dolce e triste. Tutto era stato disposto per un asciolvere sull'erba, che non si volle differire neppure di un minuto. Il dottore dirigeva ogni cosa con una garbatezza, un buon gusto ammirabili. Emanuele non si era mai potuto trovare accanto a Maria, ma non ne aveva peranco cercata l'occasione, chiuso in un abbattimento che gli si rifletteva sul volto e gli allontanava la compagnia, tanto come egli cercava di sfuggirla. La Guidobelli disse piano alla Bonamore (alla quale, da che le aveva portato via l'amante, si mostrava molto affezionata): - Campo non è punto allegro. Avrà forse dei meriti, ma gli manca indubbiamente quello di essere simpatico. - Deve stare poco bene; Sofia mi ha detto che questa notte non si è coricato. - Amabile anche come marito. - Non occupiamoci di lui; è il meglio che possiamo fare. Sofia ce ne dà l'esempio. E sedettero allegramente sull'erba, gettando via il cappello. La Bonamore aveva in tasca uno specchietto, che fece il giro delle signore, intanto che gli uomini stappavano le bottiglie. L'aria frizzante e il vino buono accesero presto i cervelli: la conversazione, tumultuosa dapprima, si suddivise e si fece più intima. Gli uomini, quasi tutti, provarono il bisogno di confidare qualche cosa nell'orecchio della loro vicina. Maria si trovava un po' a disagio. Approfittando della confusione sorta da un brindisi si allontanò chetamente ed entrò in chiesa; una chiesuola rustica, primitiva, scrupolosamente pulita, con quell'odore indefinibile delle chiese abbandonate e quei lumicini spaventati tra l'economia e la divozione. Visitò i tre altari, esaminando i voti appesi e leggendo qualcuna delle ingenue dedicatorie; molte fra esse erano vecchie di due secoli, scritte con vernice bianca su rozze tavole di legno. Guardò le palme di fiori di carta piantate nei loro vasettini di vetro celeste, le tovaglie delle mense, gialline, ornate di pizzi all'uncinetto; la Via Crucis, con un Cristo gigantesca vestito di rosso, replicato quattordici volte; e poi si raccolse in un banco, senza pregare, assorbendo con tutta l'anima la calma mistica del tempio, meravigliata di trovarsi sempre nel cuore, accanto alla pace riconquistata, tin fondo di malinconia. Fuori, sul prato, trillava la vocetta acuta di Sofia in mezzo al cozzare dei bicchieri. Maria si mosse e senza sapere il perchè, guidata dal desiderio crescente della solitudine, passò davanti all'altare maggiore e uscì dalla porticina della sacristia. Là il silenzio era perfetto; sembrava di essere ai confini della terra. Un sentiero strettissimo girava dalla parte opposta della montagna, scoprendo i fianchi di un burrone irto di massi granitici, in fondo al quale, alla profondità di un duecento metri, scorreva mugghiando il torrente. Maria prese quel sentiero, a passi lesti come se qualcuno, la chiamasse. Una brezza freschissima, un po' umida, le scioglieva i capelli sulla fronte, le spianava i ringonfi dell'abito; un ramo spinoso le strappò il pettine, che cadde sui sassi e si ruppe. Ella sembrava non se ne accorgesse. Camminava, camminava, fuggendo il mondo, beata dell'aria pura e della libertà, compiacendosi di immaginarsi sola in quella natura incontaminata. A un tratto le apparve un uomo, ritto sul tronco di un albero rovesciato. Per un senso istintivo di pudore portò le mani nei capelli e alle vesti scomposte. L'uomo voltò la testa dalla sua parte; lo riconobbe, era lui. Egli la vide avvicinarsi senza pronunciare una parola, senza fare un gesto. Quando Maria gli fu accanto si accorse con terrore che il tronco dell'albero sporgeva dritto sull'abisso, ad una altezza vertiginosa. - Che fate? - gli domandò, sorpresa e spaventata. Non rispose subito; ma stette a mirarla con una disperazione negli occhi, con uno smarrimento di tutto il volto, fino a quando accostandosi ella vieppià, le disse a bassa voce: - Datemi la vostra mano. Maria credette che non potesse da solo rimettersi sul sentiero e fu pronta a tendergli la destra. Egli la baciò con affetto riverente e poi la sciolse. Il tronco scricchiolò, torcendosi sotto il peso del corpo che vacillava. Ella comprese tutto. Non ebbe che un grido: Emanuele! e slanciandosi forsennata lo prese nelle braccia, trascinandoselo sul petto, retrocedendo con quel corpo sempre stretto contro il suo, finchè caddero entrambi sulla roccia, quasi esanimi.

Pagina 150

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
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(gli amici lo burlavano e gli dicevano che erano sentimentalismi alla Tolstoi), non voleva che la sua figlioletta fosse una bastarda, senza nome, senza famiglia, senza diritti civili... sì, sentimentalismi, se volete, ma la sua anima, in cui era tanta alta idealità, e come una specie di misticismo, non aveva saputo abbracciare interamente le nuove idee, le nuove teorie sul libero amore, sull'abolizione della famiglia legale, quantunque, forse per un'eccentricità d'artista, le avesse qualche volta approvate, senza esserne convinto.... Ma all'atto pratico, dinanzi a quell'esserino bello, roseo, incosciente, non aveva saputo resistere e i suoi principî rivoluzionarî erano sfumati col sentimento di tenerezza indicibile provato per la soave ed umile fanciulla che si era abbandonata a lui, inconsapevolmente forse, ma sempre generosamente, che aveva poi tanto sofferto senza un lamento, senza un rimprovero; e dinanzi a quella piccina, sangue del sangue loro, vita della loro vita. Il pensiero di sposare la giovane contadina gli era venuto subito dopo la nascita della figlioletta, ma non aveva voluto pigliare una risoluzione tanta grave, senza ben ponderarla, senza esser sicuro del fatto suo, per non fare tre disgraziati. Si era perciò allontanato dal villaggio in cui era andato per certi studî, e dove era poi rimasto per più di un anno, non volendo lasciare la Maria in quello stato.... Era tornato in città, aveva ripresa la sua vita consueta, aveva riveduto gli amici, parlato con alcuni dei più serî del caso suo, e aveva chiesto loro consiglio. Tutti lo avevano distolto dallo sposare una donna di così umile condizione dicendogli che aveva degli scrupoli esagerati, una sentimentalità morbosa, cercando di persuaderlo che sarebbero stati infelici tutti e due.... Egli aveva tentennato, era stato ancora irresoluto, in lotta con la sua coscenza, ma una mattina, erano ormai passati sei mesi dal suo ritorno in città e non aveva mai avute notizie in quel tempo della Maria e della bimba, si levò sicuro di sé: aveva vinto una difficile battaglia, la sua anima si volgeva lentamente verso nuovi ideali, e le sorrideva un altro avvenire; si propose quindi di compire il dover suo, di sposare la ragazza e di legittimare la piccina. E mentre si avvicinava all'amena borgata toscana, posta sur una collinetta, rannicchiato nella vecchia carrozza che da tanti anni faceva il servizio postale, trascinata da un ronzino che sembrava il cavallo dell'Apocalisse, egli affrettava, ormai lieto della presa risoluzione, il momento di riabbracciare quei due esseri dai quali non si sarebbe mai più separato, che avrebbero formata la sua nuova famiglia, e ai quali voleva dedicarsi tutto... Immaginava la gioia della sua Maria all'annunzio del loro prossimo matrimonio!... Quante lagrime di consolazione non avrebbe versate!... Povera creatura, aveva sofferto tanto per lui... Aveva sopportato con rassegnazione veramente angelica, le impertinenze, le ingiurie dei fratelli e del padre, quando s'erano accorti del suo stato, mentre prima avevano chiuso un occhio e lasciato correre... E anche ora, chissà come la tormentavano... Con lo sposarla, tutto sarebbe riparato: le lagrime si sarebbero convertite in sorrisi, i tormenti in letizia... Dopo le pratiche necessarie, sarebbe stato celebrato il matrimonio, poi egli avrebbe condotto la sposa e la bimba a Firenze, nelle due stanze che abitava lui, da scapolo; intanto avrebbero cercato un quartierino per istallarsi un po' più comodamente... Invece tutto era sfumato dinanzi alla inaspettata resistenza di Maria, irremovibile alle preghiere di lui, alle minacce brutali del padre e dei fratelli. Ormai ella aveva disposto altrimenti della sua vita: aveva commesso un gran peccato, e doveva scontarlo con sacrifici e penitenze, se voleva salvarsi l'anima. Sposando lui, che l'aveva spinta al male, si sarebbe dannata e lei non voleva dannarsi l'anima; ecco ciò che diceva e ripeteva continuamente, senza ragionare. Per allontanare ogni ricordo del suo fallo aveva perfino data la bimba a balia, con la scusa di non aver latte. - Son tutti imbrogli di Don Anacleto, abbadava a dire uno dei fratelli, e di quelle teste fasciate delle monache, laggiù, di S. Chiara. Me n'ero accorto che quel figuro gironzolava da un pezzo intorno casa, come un uccellaccio di malaugurio... - Non parlate a caso, Sandro, e non incolpate nessuno... - Sì sì, se te lo inciampo in queste vicinanze, vedrai che bella giubba di legno gli ammannisco... Scommetto che gliene passa la voglia di convertiti... Sono stato militare io e non ho paura della scomunica... - Oh l Gesù mio, Madonna Santissima, perdonategli - diceva la Maria singhiozzando. Allora, Roberto Catalani volle rimaner solo con lei: era sicuro di persuaderla, e pregò il padre e i fratelli di allontanarsi. E le parlò con dolcezza, ricordandole il gran bene che ella gli aveva voluto, ciò che aveva fatto per lui, dicendole che il suo dovere di donna veramente onesta era appunto quello di cancellare la colpa, se colpa vi era, ma che il solo mezzo vero e santo per raggiunger ciò era di divenire sua moglie, e di far sì che la piccola Ghita avesse, come tutti gli altri bambini felici, i proprî genitori... La supplicò, la scongiurò a mani giunte, con le lagrime agli occhi: Ma dunque, non aveva cuore? Si era ingannato nel credere che gli fosse affezionata, che fosse buona, che volesse bene almeno a quella creaturina che era sangue suo... Lo facesse per lei, per lei... Che cosa era accaduto? Perchè la trovava tanto cambiata? Quando era partito, l'aveva lasciata affettuosa, innamorata, piangente... Come aveva potuto divenire tutt'altra in così poco tempo? - Volontà del Signore, volontà del Signore - ripeteva lei, senza versare una lagrima, senza commoversi a quei ricordi, fredda e dura come una statua. - Dunque è vero, Sandro ha ragione, è stato don Anacleto, sono state le monache, che t'han voltata contro di me. - È il Signore che m'ha toccata con la sua divina grazia, e mi ha fatto ravvedere... - Ma sciagurata, non capisci che condanni la tua figliuolina innocente ad essere una bastarda? Questo sì che è un peccato orribile... - Pregherò tanto, farò tante penitenze, che il Signore mi perdonerà... perchè io faccio tutto a fin di bene. E per quanto dicesse, Roberto Catalani non fu capace di sentire altre parole dalla bocca di lei... Esasperato, avrebbe preso quella creatura ignorante e ingenua, che degli esseri maligni ed astuti avevano pervertita fino a sconvolgerne il senso morale, e l'avrebbe stritolata con le sue mani, tanta era l'ira, I'angoscia, il disgusto che sentiva bollire dentro di sè. - Ma che intendi di fare? - le gridò alla fine - tuo padre e i tuoi fratelli non ti vogliono più in casa e han ragione: che farai? dove te ne andrai? - Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

Pagina 25

L'indomani

246093
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile. Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito. Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta. La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.

Pagina 15

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246687
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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Allora il signor Cesare andò in camera, si mise in testa il berretto da viaggio, si buttò sul braccio un plaid, prese in mano la valigetta sempre pronta pei suoi frequenti viaggi di affari, e finse d' abbracciare la moglie e le figliuole, dicendo loro: — Addio! addio ! Non tornerò più. Lulù, a tutto quell' apparato, aveva alzato la testa, fra incredulo e ansioso, cessando di piangere e di pestare i piedi. Il babbo indugiava troppo negli addii, e Lulù non voleva lasciarsi vincere da una finta partenza. Ma appena egli lo vide avviarsi per uscire e gli vide aprire l'uscio, mentre le figliuole e la moglie recitavano la commedia di pregarlo, di tentare di trattenerlo, togliendogli più volte di mano ora la valigia, ora il plaid, ora l'ombrello che quegli tornava riprendere mostrandosi inesorabile, fermissimo nella sua risoluzione, Lulù non stette più alle mosse. Si precipitò, spaventato, dietro il babbo, lo raggiunse sul pianerottolo, gridando : — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Aggrappato alla valigia, con gli occhi inondati di lagrime e spalancati dal terrore di quella partenza di cui ora non poteva più dubitare, egli pestava i piedi e strillava per un altro verso ; sdegnato che la mamma e le sorelle non lo aiutassero a trattenere il babbo, come avevano cercato di fare poco prima. — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Il signor Cesare non si lasciò commuovere , si svincolò e scese la prima rampa della scala, dove lo raggiunsero due delle figliuole fingendo di scongiurarlo, mentre le altre due sorelle e la mamma trattenevano Lulù che si rotolava per terra sul pianerottolo, continuando a gridare : — Non lo farò più ! Finalmente il babbo si era arrestato, era tornato indietro, quasi trascinato per forza, e Lulù gli s' era aggrappato alle gambe, singhiozzando da non poter dire una parola; tanto che il signor Cesare, per impedire che avesse una convulsione, aveva dovuto prenderlo in braccio, pur seguitando a rimproverarlo tra una carezza e l'altra, pur seguitando a minacciar di partire alla prima cattiveria, rassicurandolo intanto che quella volta sarebbe rimasto. E il ricordo di questa scena era diventato un vero spauracchio per Lulù. ***

Nel sogno

248220
Matilde Serao 1 occorrenze

Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.

Pagina 31

Una peccatrice

249693
Giovanni Verga 2 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Quando entrarono nell'Albergo di Francia, dove li aspettava la signora Brusio, questa corse ad abbracciare suo figlio con tutta l'effusione di un cuore di madre; ma rimase senza osarlo, colle braccia aperte, dinanzi lo sguardo fosco ed alla fisonomia cupa ed irritata del figlio suo. - Credevo, - disse questi aspramente, - di non essere più all'età di uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto tardi nel ritornare da scuola... La madre fu dolorosamente colpita da quelle parole, le sole che avesse udite in tal modo da quel figlio che I'idolatrava. L'istinto materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che in un'ora avea potuto dimenticare siffattamente il culto che nudriva della madre, e risponderle in tal guisa. - Andiamo, figlio mio, le tue sorelle ti aspettano... - diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo; - grazie, signor Angiolini!... S'incamminarono verso casa; e la madre osservò sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e camminava cupo, ed anche indispettito al suo fianco. Sulla scala corsero ad incontrarli le due sorelline ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano: - Mamma! mamma!... L'hai trovato!... È qui il nostro Pietro?!... Le loro festanti acclamazioni furono interrotte dalla voce dura del fratello. - Per l'avvenire, - esclamò questi, cercando di dare la possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione, - spero che le mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro... che mi costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui ho bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della porta, onde non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola finita!... E senza neanche prendere il lume si chiuse nella sua camera, sbattendone l'uscio con impeto. - Povero figlio mio! - singhiozzò la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: - ecco le prime lagrime che mi fai versare! Pietro passeggiò per la camera alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone. La calma serena di quella notte d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come giammai aveva odiato. - Son vile!... sì, son vile!... - esclamò strappandosi i capelli. - Oh! la testa... Dio mio!... Aprì l'uscio della sua camera senza far rumore, e camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la bussola della camera di sua madre, onde vedere se dormiva. La signora Brusio era ancora in piedi quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo figlio pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le suggerì anche che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo pentimento era che sua madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e finse di dormire. Pietro ascoltò, dietro il paravento, il respiro alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse davvero, e non potè frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance: lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire (che allora soltanto travedeva) per ciò che provava. - Povera madre! - esclamò singhiozzando; - povera madre mia! E la madre udì quei singhiozzi, e soffocò i suoi fra i guanciali. Pietro si ritirò in punta di piedi, come era venuto; e si rimise al verone. Colla fronte fra le mani, ed i gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra, dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore innanzi... carezzandosi la fronte ed i capelli con le mani di quell'uomo... Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò gli occhi, si avvide con sorpresa che il primo raggio di sole facea scintillare i vetri. - Diggià! - mormorò egli: - il giorno vien presto al presente!... Sua madre, entrando la mattina nella camera di lui, osservò con dolore che il letto era intatto, come era stato acconciato la sera innanzi. - Madre mia! - le disse il giovane prendendole una mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto di ottenere quello che domandava, - ti chiedo perdono di quello che ho detto e fatto ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà, che l'età mia ora richiede... - Fa come vuoi, figlio mio... - rispose la madre abbracciandolo. Io non temo che tu ne possa abusare, poichè sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In quanto a me... - e la povera donna sospirava tentando di sorridere, - in quanto a me cercherò di vincere le mie sciocche paure... - Grazie, grazie, buona madre!... - esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella mano che baciava. Però ogni sera quella madre, che numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire, aspettava sin alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che veniva; e piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua cera malaticcia. Raimondo non lo vedeva quasi più. Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o aI teatro dove la vedeva splendente di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che reca la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo piú oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscìo della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a se. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto a guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lestamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggiero di lei che saliva le scale accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva: udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuor del povero giovane. - Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!... Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con un'espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer, e faceva piangere con quelle del melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi di un trasparente vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. - Perdio! - disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, - non mi leverò mai d'addosso quest'accidente! Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso. - Che dite? - rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. - Parlo di quell'importuno che stà a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi... La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: - E che ci ho da fare io se quest'uomo è pazzo?... Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto; sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte; coi denti sbattentisi di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui e dal sinistro splendore dei sui occhi ardenti. Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. - Questa donna ha ragione! - momorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: - io son pazzo!... son pazzo!... sono stato vile anche!... E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: - Addio, signora!... Addio! Camminò tentoni barcollando come un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo. - Oh! questo valtzer! questo valtzer! - gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, - Dio! ... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!... E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come una invocazione disperata: - Narcisa!... Narcisa!... - E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quell vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perchè odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda della istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia, che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altravolta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo, coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissazione. Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorchè sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorchè sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorchè, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta della sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.

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Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole: - Perdonami, madre mia!... perdonami! Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle. L'aveva dimenticata? No! Egli aveva tal forza perchè viveva per lei, con lei, in lei; perchè tutta la sua vita era ormai Narcisa. Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito; con una lena che soltanto poteva dargli l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell'opera sua. Due mesi dopo aveva finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di lei. Quanto egli tu soddisfatto dell'opera sua, di sè stesso; quand'egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò. La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse. La cercò inutilmente otto giorni poi passeggi e al Teatro: ne domandò agli amici: nessuno l'avea più veduta. Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa. - A proposito, che n'è di lei? domandò. - Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita. - Partita! - Sì, da venti giorni. - E per dove? - Per Napoli. - Anderò, a Napoli! disse a sè stesso. Brusio.

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