Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbracciare

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219899
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Mitchell, Margaret

221409
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Rossella si lasciò abbracciare perché era troppo stanca per lottare; perché le parole di lode erano un balsamo per il suo cuore e perché, nella cucina piena di fumo, aveva provato un immenso rispetto per sua cognata, e uno stretto senso di cameratismo. «Bisogna ammettere» disse fra sé rimuginando «che è sempre presente quando c'è bisogno di lei.»

Pagina 471

In cammino per Mimosa, e ansiosi di giungere a casa, si fermarono un attimo per abbracciare le ragazze e diedero la notizia della resa. Tutto era finito; e sembrava che avessero poca voglia di parlarne. Volevano soltanto sapere se Mimosa era stata incendiata. Sospirarono con sollievo nell'udire che la loro casa era stata risparmiata e risero quando Rossella raccontò loro la selvaggia cavalcata di Sally e come aveva scavalcato la loro barriera. - È una ragazza in gamba - affermò Toni; - ed è proprio una disgrazia per lei che Joe sia stato ucciso. Avete un po' di tabacco da masticare, Rossella? - Ho solo un po' di tabacco da pipa: lo fuma il babbo... - Ah, non sono ancora arrivato cosí in basso! Ma probabilmente ci arriverò... - E Dimity Munroe come sta? - chiese Alex con avidità ma con un leggero imbarazzo; e Rossella ricordò vagamente che egli si era sempre mostrato premuroso verso la sorellina di Sally. - Sta bene. È dalla zia, a Fayetteville. La loro casa a Lovejoy è stata incendiata; e il resto della famiglia sta a Macon. - Ma non capite - fece Toni, divertendosi delle occhiate furibonde che gli lanciava suo fratello - che vuole soltanto sapere se Dimity ha sposato qualche bravo colonnello della Guardia Nazionale? - Ma no; non si è sposata affatto - rispose Rossella divertita. - Forse avrebbe fatto meglio - brontolò Alex. - Come diamine... Scusate, miss Rossella; ma come può un uomo chiedere a una ragazza di sposarlo quando non ha piú la croce di un quattrino, non ha uno schiavo, non ha nulla di nulla da offrirle? - Sapete benissimo che Dimity non ci farebbe caso - rispose Rossella. Non le costava nulla dir bene di Dimity, perché Alex Fontaine non era mai stato un suo spasimante. - Fa lo stesso. Se non ci fa caso lei, ci faccio caso io... Mentre Rossella discorreva coi giovinotti nel porticato anteriore, Melania, Súsele e Carolene erano scivolate silenziosamente in casa, appena udita la notizia della resa. Rientrando, dopo che i Fontaine si erano avviati attraverso i campi verso Mimosa, Rossella udí le ragazze singhiozzare; erano tutt'e tre sedute sul divano nello studio di Elena. Tutto era finito: crollato il bel sogno che avevano amato e per cui avevano sperato; perduta la Causa che aveva portato via amici, innamorati, mariti, e aveva ridotto in povertà le loro famiglie. Ma per Rossella, non vi erano lagrime. Il suo primo pensiero era stato: «Ringraziamo Dio! Ora nessuno potrà piú rubare la mucca. Il cavallo è salvo. Possiamo togliere l'argenteria dal pozzo e tutti possono avere un coltello e una forchetta». Che sollievo! Non avrebbe piú il batticuore sentendo uno scalpitar di zoccoli. Non si sveglierebbe piú la notte trattenendo il respiro e tendendo l'orecchio chiedendosi se era realtà o sogno il tintinnar di finimenti che sentiva nel cortile, il tramestio e gli aspri comandi degli yankees. E, soprattutto, Tara era salva! Il suo tremendo incubo non si avvererebbe mai piú. Sí; la Causa era perduta; ma la guerra le era sempre sembrata una follia e la pace era assai migliore. Ella non aveva mai contemplato con gli occhi sbarrati le Stelle e le Strisce che salivano su un'asta, e mai aveva provato un brivido sentendo suonare «Dixie». E nelle sue privazioni non era stata sostenuta dal pensiero della Causa per la quale si poteva sopportare qualsiasi sacrificio. Tutto era finito! Finita la guerra che sembrava interminabile, che aveva spezzato la sua vita con una frattura cosí netta da rendere difficile perfino il ricordare i giorni precedenti, liberi e sereni. Non le sembrava di esser lei, la graziosa Rossella con gli scarpini verdi, con cento schiavi, con la ricchezza di Tara accumulata dietro di sé, e coi genitori pronti a soddisfare ogni suo capriccio. La giovinetta di quattro anni prima era scomparsa e al suo posto era una donna con gli occhi verdi penetranti, che contava il denaro e costringeva le sue manine a molti lavori faticosi, una donna a cui dal naufragio non era rimasto nulla, se non la terra rossa su cui posava i piedi. Mentre ascoltava i singhiozzi delle ragazze, la sua mente lavorava attivamente. «Pianteremo molto piú cotone. Domani manderò Pork a Macon a prendere altra semente. Il cotone arriverà alle stelle, quest'anno!» Entrò nello studio e, senza guardare le ragazze piangenti, sedette alla scrivania e prese la penna per calcolare il prezzo della semente e quanto denaro contante rimaneva in cassa. «La guerra è finita!» pensò; e a un tratto lasciò cadere la penna, sentendo un'ondata di felicità correrle per le vene. Era finita; e Ashley... Se Ashley era vivo, ora tornerebbe a casa. Chi sa se Melania aveva pensato a questo, nel suo dolore per la Causa perduta! Ma i giorni e le settimane passarono senza notizie di Ashley. Il servizio postale era malsicuro; e nei distretti rurali non esisteva affatto. Un viaggiatore occasionale proveniente da Atlanta portò un biglietto piagnucoloso di zia Pitty che chiedeva alle ragazze di tornare. Ma nessuna notizia di Ashley.

Pagina 491

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222794
Misteri del chiostro napoletano 5 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Pagina 103

Il dolore di non averla potuta abbracciare, neanche vedere un solo istante prima ch'ella si separasse da questo mondo, mi fece sentir viepiù il pentimento di un voto diametralmente opposto all'indole mia. È nondimeno ben vero che mutata coll'andar degli anni trovavasi la mia condizione. Avendo ormai raggiunta l'età maggiore, poteva già io reputarmi arbitra sicut in quantum di me stessa: oltre di che, possedendo più d'una pensioncella, avrei potuto cercarmi un altro ritiro, meno forzato del monastico e più conveniente alle mie inclinazioni, ove pure non avessi preferito ricorrere all'ospitalità del secondo marito di mia madre. Questa, vedendomi in preda alla disperazione, mostravasi dolentissima, nè di tratto in tratto dissimulava il rimorso di avermi la prima volta fatta entrare nel monastero; mi promise adunque la sua cooperazione in ogni tentativo che sollecitar potesse la mia più o meno larga liberazione, e mantenne fedelmente la promessa. Ma anche nell'interno del chiostro lo stato mio erasi modificato. Una malattia di pochi giorni mi aveva strappata la seconda zia, quella che funzionato avea per lungo tempo come badessa. Gaetanella non era più al mio servizio. Dopo il fatto d'Angiola Maria, fatto nel quale aveva ella dimostrato nutrire affetto scarsissimo per me, e niuna umanità per gli altri, io l'aveva ceduta a mia zia, ed in cambio m'era, provveduta d'una giovinetta, entrata poc'anzi nel convento, e nativa d'un piccolo paese nelle vicinanze di Napoli. Chiamavasi essa Maria Giuseppa: aveva diciassett'anni, ed era di fisonomia insinuante. Benchè la sua famiglia, avesse fatto molta spesa per chiuderla, e che essa non provasse ancora la nostalgia della personale libertà, pure aveva fin dal principio concepita siffatta devozione per me, che protestava tutto giorno d'esser pronta a seguirmi dovunque le combinazioni mi avessero potuto condurre. Ne' contorni della mia prigione trovavasi una casa alla cui finestra spesso vedeva io una giovine monaca in amichevole conversazione colle parenti. La mirai, la rimirai, ne interrogai l'abito: non v'era dubbio, apparteneva ad un qualche convento di clausura, la non pareva addetta a quella classe di bigotte che chiamansi monache di casa. Per quale mezzo aveva ancor essa ricuperato l'impareggiabile benefizio di ricalcare la soglia paterna? La brama di trapelare alcun che intorno a quel portento mi preoccupò vivamente. Seppi alfine, dopo lunghe indagini, ch'era essa di clausura d'un monastero di Nola, e stava da lungo tempo fuori del chiostro, avendo addotto de' motivi, e rinnovando il permesso d'assenza ogni sei mesi, per modo da ottenerne un prolungamento indefinito. Quale raggio consolante di luce nel buio del carcere! Perchè, profittando del messaggio, che forse la provvidenza mi mandava, perchè non avrei battuto anch'io la stessa via? Non era forse vero, non era evidente il pessimo state di mia salute? Non andava io soggetta ad accessi nervosi, ad emicranie, a spasimi, che logoravano sempre più l'ingracilita mia complessione? Pingui, fresche, rubiconde, piene di brio e di beatitudine erano la maggior parte delle altre mie compagne: la spensieratezza, l'ozio, l'apatia conferivano loro, come il pollaio conferisce alle galline. All'incontro io diveniva sempre più pallida e smilza: le gote mie si affossavano, gli occhi si spengevano, i capelli mi cadevano a ciocche. Uno dei medici della comunità mi fece il rispettivo certificato, che unito alla supplica spedii senza indugio a Roma. Era tanto sicura del buon esito, che dal giorno stesso della spedizione cominciai a contare le ore e i minuti del tempo che mi restava ancora da patire. Diceva fra me stessa: - Ora il corriere consegna la mia supplica: ora Pio IX la sta leggendo con animo disposto al favore: ora sarà già fatta la grazia, firmato l'atto, sigillato il foglio, passato alla rispettiva autorità perchè lo mandi a Napoli: fra due giorni sarà di ritorno il corriere: oggi è giovedi; sabato mattina per tempo, a rivederci! Ah! ma queste due giornate saranno per me più lunghe di due secoli!! Frattanto il canonico non sapeva darsi pace di questo mio passo, e cercava d'infiacchire la poesia delle mie speranze con tutti i colpi che in sua disposizione mettevano lo scetticismo della logica ed il cinismo della professione. Non mancò peraltro di lagnarsi coll'abbadessa delle sciocche persecuzioni a me fatte soffrire dalle monache, dicendole in conclusione: "La mia penitente è donna di fermo carattere, sebbene di poche parole. Siate certa che se si prefigge di uscire ne uscirà!" "San Benedetto non lo permetterà. Chiunque ha indossato una volta il suo abito, non uscirà più di qua dentro nè viva nè morta," rispondeva la povera donna. Ma se mi sapeva mill'anni di andarmene da quel luogo detestato, assai, ciò non ostante, dolevami di lasciarvi una ragazza in cui si erano concentrate le mie premure, ragazza ch'io amava come figlia od unica sorella. Discendeva essa da un'onesta ed agiata famiglia napoletana, ed erami stata distintamente raccomandata un anno prima de' sovraccennati avvenimenti. Chiarina (avea tal nome) era stata da principio affidata ad una zia, monaca da quarant'anni nello stesso monastero, ed in quel tempo rimbambita per eccessiva vecchiezza. Attristata dall'orrendo abuso che la conversa faceva della debolezza di lei, la povera vecchia mi aveva supplicata di prendere la nipote sopra di me, e farle da madre. Ogni educanda aveva per maestra una monaca; Chiarina fu dunque data in custodia a me, ed io l'accolsi caritatevolmente. Nata di sette mesi, quella giovinetta era viva per miracolo; aveva sedici anni, ma ne mostrava appena, dieci. Perduti entrambi i genitori in tenera età, era, rimasta con due soli fratelli; il minore studiava in altra città, ed il maggiore, per la natura delle pubbliche funzioni che esercitava, era costretto a trovarsi sempre in viaggio. Chiarina aveva il volto di un angioletto: sembianze regolari, guardatura attraente, profondamente patetica. Era impossibile, anche alle persone del suo sesso, averla veduta una volta alla sfuggita, e non sentirsi la voglia di pascer la vista nella contemplazione de' suoi sguardi incantevolmente languidi. Quegli occhi mandavano fuori tale un influsso di carità, che avrebbero sull'istante placata la più gran collera. - Ma, se vago aveva il sembiante, era pero deforme di corpo e malaticcia. Affetta da un'aneurisma che le aveva dilatata la regione cardiaca, essa era tormentata da tosse ostinata e da palpitazioni di cuore frequentissime che le rendevano affannosa la respirazione e velata la voce. Nè meno bello del volto era l'animo suo, animo ingenuo, cortese, mansueto e dotato di mirabile pazienza. Possedeva quella ragazza la facoltà di ben giudicare quali cose fossero da fare, quali da evitare, facoltà ch'io, superiore a lei di molti anni, ammirava, ma non sapeva imitare. Lì nel chiostro però, oltre la mancanza della salute, aveva la poveretta due grandi malanni: l'essere allieva mia, e l'aver per cameriera una conversa che facevale non dirò da matrigna, ma da tiranna. Era ben naturale che l'odio, dalle giovani monache giurato alla maestra, si riflettesse altresì sulla discepola. In quanto alla conversa, era essa un mostro di brutalità, una belva feroce a faccia umana. Essendo la giovinetta piuttosto ricca per eredità, aveva preso a covare il reo progetto di non lasciarsi scappare di mano quella preda, ma di perpetuarne il possedimento, obbligandola con ogni sorta di coazione a pronunziare i voti, e volendola accostumare bel bello al suo despotico dominio. A questo scellerato disegno ostava però la malattia della padroncina; faceva dunque mestieri occultarla a tutti, per quanto era possibile, acciocchè le monache non avessero esclusa nel Capitolo la sofferente. Ma come potevansi nascondere la tosse e l'affanno? - A forza di villanie e di sgridate! Se essa la udiva tossire pel corridoio, la sgridava tosto colle maniere le più plebee, od anche, per reprimere il suono della tosse, le chiudeva colla sua mano la bocca. Se l'avesse veduta per le scale in colloquio con qualche monaca, subito le imponeva di risalire facendo cento scalini senza riposarsi. La poverina diveniva livida e ansava, in modo, che sembrava lì lì per dare l'ultimo fiato. Io non mancava talora di sgridare la conversa per siffatte brutaltà, ma Chiarina dicevami, che, dopo le mie sgridate, i maltrattamenti che da sola a sola facevale soffrire la conversa erano maggiori. Per tale riguardo mi convenne più volte ora raffrenare lo sdegno, ora di non dar corso a proteste, le quali non avrebbero fatto che viepiù inferocire l'animo naturalmente spietato della cameriera. Saltò alfine in testa a questa megera l'idea di raddrizzare il corpo alla mia discepola, per meglio nascenderne la deformità; ed a raggiungere tale scopo, le pose un busto colle stecche di ferro. La povera Chiarina, non sì tosto entrata la mattina nella mia camera, buttavasi mezza incadaverita sulla seggiola a bracciuoli, e con un fil di voce morente mi diceva: "Signora Enrichetta, per pietà, allargatemi il busto: io mi sento soffocare." La menava allora in luogo appartato, il più sovente nel noviziato, ove di soppiatto le allentava la stringa; la sera però io doveva tornare a strignerla per non farne accorto il cerbero. Io diceva sovente alla pupilla: "E fino a quando, cara mia, sarai tu la schiava d'una servaccia? Se vuoi vederla finita, io ne conosco il modo: lascia fare a me! "No, no, per carità, non lo fate," rispondeva quella, giungendo le mani supplichevolmente, e tremando alla sola idea della collera di quel mostro. Questa creatura interessante, tanto piena di candore, di religione, d'amorevolezza, quanto maltrattata dalla natura e tartassata dal destino, nutriva un affetto singolare per gli animali, e specialmente per le rondini. Seduta nel vano della finestra, col capo appoggiato alle braccia incrociate, passava parte della mattinata a seguitare le aeree scorrerie di quei volatili, ed a contemplate la gioia delle loro piccole famiglie annidate sotto il tetto, o ad ascoltare i loro garruli preludii nel punto di dare l'imbeccata ai neonati. I costumi e gl'istinti delle rondinelle la rapivano in estasi, nè mai si saziava di udirne il racconto. Ogni qualvolta io le narrava qualche novello aneddoto intorno alle loro maravigliose trasmigrazioni, essa, interrompendo il discorso, soleva dirmi con mestizia: "Esse almeno se ne vanno d'autunno per ritornare la primavera nello stesso nido..... E noi?" A dispetto però di tali requisiti, le giovani monache non la trattavano meno duramente della conversa. Allorquando l'udivano recitar l'ufficio nel coro (cosa ch'io le voleva sempre inibire, ma per la quale essa era appassionatissima), facevansi beffe del suo affannoso respiro, oppure, dileggiando il suo zelo, sclamavano ad alta voce: "Che seccatura!" Il chirurgo della comunità, signor Giampietro, aveva assistita la madre di Chiarina, quando si era sgravata di lei. Costui, che per tale ragione amava paternamente la ragazza, non cessava di raccomandarla alle mie cure, ripetendomi le mille volte di non imporle fatica, e di evitarle qualunque molestia. Ma, perchè tali raccomandazioni non gradivano troppo alla conversa, ebbe Chiarina l'avvertimento di schivare la presenza del chirurgo. Io era già da qualche tempo rientrata nelle funzioni d'infermiera. Un giorno, mentre Giampietro trattenevasi nella porteria, io e Chiarina vi giungemmo per caso. La prese egli per la mano e fattasela sedere sulle ginocchia, tese l'orecchio alla mia relazione sulla salute dell'educanda, i cui palpiti crescevano d'intermittenza, e più forte manifestavasi il battito violento del cuore. La fece alzare in piedi, e nel posarle una mano al dorso, l'altra al petto, per esaminare il ritmo de' battiti che questo dava, le sue dita toccarono le stecche di ferro. "Che cosa è questo che porti nel busto?" le domandò. E la ragazza, facendosi rossa, rispose: "Niente." Io feci segno con gli occhi al chirurgo di procedere all'indagine, perlochè, spezzando egli la stringa del corsaletto di lana nera, mise il busto alla luce. "Misericordia!" gridò con furia. "Chi è stata quell'infame che ha messo a questa disgraziata una corazza di ferro?" "È stata la mia conversa," rispose Chiarina. "Chiamatemi subito quella scellerata," riprese il chirurgo. La fanciulla, divenuta pallida e tremante, mi pregò di calmarlo; ed egli, vedutala così costernata, si fermò un poco, poi, voltosi alla portinaia, e alle altre monache presenti, "Gli omicidi," disse, "non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. Mettere un tal busto a questa malata, è lo stesso che volerla uccidere: comprimendo il suo cuore, voi la mandate alla tomba." Parole gettate al vento. Chiarina continuò a portare le stecche di ferro; non valsero nè le ammonizioni del chirurgo nè le mie preghiere. Suo fratello trovavasi negli Abruzzi. Gli scrissi una lettera in cui a chiare note gli dissi come il ritenere più lungamente la sorella nel monastero equivaleva a volerla abbandonare a morte sicura. Venne egli subito in Napoli, e disse a Chiarina che si apparecchiasse a seguirlo. Essa mostrossi dolente di lasciarmivi, sebbene convinta d'altronde ch'io stessa non vi sarei rimasta più a lungo, perchè la mia domanda non poteva incontrare in Roma alcun ostacolo. Uscì adunque del chiostro, condotta dal fratello, e le giovani monache in segno di ringraziamento, accesero delle candele alla Vergine. Senonchè, il rio destino non avea cessato di perseguitare quella miserella. Era d'inverno. Il freddo degli Abruzzi, dove il fratello dovette ritornarsene, recò grave pregiudizio alla salute di Chiarina, e come d'altra parte il tempo fa dimenticare le passate sofferenze, credette questa di trovarsi più riparata nel chiostro, che non viaggiando col fratello. Di lì a qualche tempo facea ritorno in Napoli, e domandava di essere ripristinata nel suo pesto di educanda. Quale idea! Le feci osservare l'incauto proponimento, non degno della sua provata prudenza: le rammentai i passati patimenti, le diedi il consiglio di scegliersi piuttosto un ritiro, prendersi una cameriera: e viver tranquilla e indipendente. Mi rispose: "Voglio starmene, amica diletta, appresso di voi: non voglio rientrare che per voi sola." "Ma io sono in procinto di lasciare San Gregorio." "Son già passati dei mesi dacchè siete pronta a partire, ma chi sa se ve lo permetteranno?" Il giorno che per farla rientrare fu convocato il Capitolo, volli mettere in salvo la mia coscienza. Nell'atto di dare il mio voto, alzai la mano, e feci vedere a tutte quante che nell'urna bianca io gettava la pallina nera. L'ammissione riuscì coi soli voti delle monache vecchie: le giovani lo diedero contrario. Entrò adunque, ma poco dopo si pentì di non avere seguíto il mio consiglio. La sua tosse, esacerbata durante la notte, disturbava i sonni della conversa. Per evitar le rampogne e le imprecazioni che per tale motivo ne riscuoteva, la povera malata cacciava il capo sotto le coltri, e vi rimeneva immota e quasi sepolta. Una mattina la conversa andò a svegliarla: pareva immersa nel sonno. La chiamò a nome, la tornò a chiamare: non diè risposta. La scosse: non si muoveva Rimosse allora la coperta che le nascondeva il volto..... Era morta! Sedici volte sono ritornate da quel tempo le rondinelle, ma lo spirito angelico di Chiarina non farà più ritorno in questa valle di lagrime!

Pagina 192

Alfine mia madre spirò col dolore di non aver potuto abbracciare negli ultimi momenti la più sventurata delle sue figlie. Su questo fatto io scrissi a mia zia una lettera pregna di lagrime, ch'essa, destra e solerte, fece leggere a parecchi cardinali. Lo stile patetico del foglio scosse la sensibilità di quei dignitari, i quali vicendevolmente si dissero che le durezze di Riario non erano che l'effetto d’una persecuzione personale. Poco appresso veniva rimessa da Roma all'arcivescovo la fede surriferita dei medici colla solita domanda del suo parere. La risposta fu al solito negativa; ma come la vela della mia barchetta cominciava a pigliar vento, da persona di quella corte a me propizie gli venne ingiunto, che scegliesse egli medesimo un medico di sua fiducia per fare un'altra fede. - Il suo rapporto veniva per tal modo notabilmente scompaginato. Eppure questo prelato stava allora acquistando una singolare popolarità. In tempo del cholera, da cui fu nuovamente flagellata allora la capitale, egli seppe affettare siffatta tenerezza pei malati, che la nostra plebe, più d'ogni altra gente della penisola propensa al maraviglioso, spinse l'ammirazione fino ad attribuirgli il dono dei miracoli. Quell'anima caritatevole, quel vaso di elezione bastava che imponesse la destra sul capo del coleroso, per discacciar tosto il morbo dal corpo infetto, e ancora da quella casa. Il Riario allora s'avvide che per aver io trovato alfine qualche buon appoggio in Roma, la mia fortuna cominciava a sorgere; e non sembrandogli omai prudente di opporre altri serii inciampi, tergiversò traccheggiò; ma finalmente messo alle strette, decise che il certificato dovesse essere steso o dal professore Ramalglia o dal Giardini. Il primo se ne scusò, venne il secondo. "Non una sola, ma cento fedi farei, simili a quelle del vostro curante," disse costui dopo avermi minutamente e a lungo esaminata. "L'inumanità, di cui siete vittima, desterebbe orrore anche ad un barbaro. Se la mia fede potesse procacciare un sollievo alle vostre pene, siate certa di conseguirlo in breve. L'aria libera è necessaria a voi quanto il pane. Dove vorreste andare?" E stava sospeso colla penna in mano nell'atto di scrivere. Per sottrarmi dalla diocesi di Riario, proposi i bagni di Castellamare, e il medico approvò la scelta. Lo stesso giorno mandai la fede all'arcivescovo, il quale non sapendo più che fare, dovette forzatamente inviarla a Roma; non sì però che non l'accompagnasse con una sua lettera, piena di velenosi dubbi ed insinuazioni. La persona, che in Roma aveva preso l'incarico di salvarmi, stava in cerca d'un qualche appiglio per condurre la pratica a buon fine. Ora nel rileggere quest'ultima lettera dell'arcivescovo vi notò una frase, che per la sua ambiguità mirabilmente prestavasi a mio favore. Dicendo di temere per la mia salute, Riario intendeva la salute dell'anima; il rescritto prese motivo dall'interpretazione opposta, ossia dalla supposizione che il cardinale avesse inteso la salute del corpo. Iddio dunque decretava che avessero fine una volta le mie tribolazioni, e incominciasse il periodo del respiro nell'espettazione di quello del trionfo. Tre giorni dopo ch'io ebbi mandato il Breve al cardinale, mentre lavorava tutta sola nel mio umile abituro, fu bussato con forza alla porta. Mi disse una conversa: "È venuto il cardinale, e domanda di voi: spicciatevi!" Mi ritornarono in mente le vessazioni, le promesse mancate, i tradimenti, la lunga oppressione, la trista scena dell'arresto. Avrei voluto licenziarlo, scaricargli addosso col congedo la pienezza del mio risentimento: ma dissi fra me: "È presto ancora: cogl'ipocriti ci vuol politica." Lo trovai nel salotto. Non l'aveva veduto da quattr'anni: mi parve invecchiato di dieci. Le gagliarde convulsioni che in Italia agitarono e la Chiesa e lo Stato avevano solcato la sua fronte di geroglifici, indizio di prematura vecchiezza. Riario, non era più quello di prima: mi parve non lui, ma l'ombra sua. M'avanzai senza inginocchiarmi, sedetti senza chiederne il permesso. "Voi ricordate il passato e non potete lasciare il broncio," mi disse con sorriso sforzato. "Confesso d'essermi male regolato talvolta; sono uomo anch'io -homo sum- e ogni uomo può sbagliare. Dopo tanti disinganni, lasciarsi riprendere all'esca sarebbe stata una pazzia. "Solamente" risposi dopo lungo silenzio, "solamente per un rispetto al vostro sacro carattere, e perchè credo al vostro ravvedimento, condiscendo a gettare un velo sul passato. "Siete dunque irremovibilmente risoluta di uscire del chiostro, ove vi richiamano voti solenni?" "Ubbidisco alla voce di Dio, che mi richiama alla vita." "E vi proponete inoltre uscirmi di mano, trasferendovi in altra diocesi: lo so. Deh non lo fate, per l'amor del cielo! Non vogliate ripudiare la casa che vi ha visto nascere, il padre che vi allevò, e tuttavia vi sostiene! Sì: voi siete figlia mia; è vero che foste un pochino maltrattata, ma siate sicura che da oggi in poi userò con voi tutta l'amorevolezza e la carità d'un padre amoroso." Queste parole mi svelarono lo scopo della sua visita; gli doleva di sopportare agli occhi del mondo l'affronto di vedermi strappata alla sua giurisdizione. L'avversario, se umiliato e ravveduto, desta pietà: ma larvato d'ipocrita svisceratezza, rinfoca l'ira smorzata. "Fidatevi," sclamai vivamente "fidatevi alle promesse, credete alla mallevadoria di persone, che sanno mantener la parola come voi la manteneste al padre Spaccapietra, relativamente all'arresto mio!" "Quand'io prometteva di non farvi arrestare dai birri, e ricondurre in clausura, voi, cara mia, non avevate fatto quello che faceste poi. Chi mai si sarebbe immaginato che avreste aspirato alla secolarizzazione, che vi sareste portata al pubblico passeggio, appoggiata al braccio di liberali, inscritti nel libro nero? "Scommetto che domani, se m'incontraste per la via Toledo fareste altrettanto!" "Ora le cose hanno preso un aspetto differente: anche volendolo fare, non potrei." "Dite piuttosto, come disse all'agnello il lupo, che ho turbato l'acqua dove i vostri maggiori solevano abbeverarsi!.... Eh, cardinale, quando col segno della redenzione in mano calpestavate un'orfana ed inerme donzella, pensaste mai all'ora supreme, della morte, al giorno del giudizio?" "Non parliamo del passato; posso aver peccato per cattivi consigli, o per debolezza, ma in fede mia, neppur voi siete immune da torti: voi, che sotto il velo di monaca, voleste nascondere infami trame di demagoghi e repubblicani.... Ma, ripeto, deponiamo i vicendevoli rancori; vi userò da ora in poi la più inalterabile carità." "Eminenza, vi ho conosciuto per lunga esperienza e durissima.... In avvenire vi bacierò anch'io la mano, se vorrete, ma non permetterò che in ricompensa mi regaliate un morso!" Quell'archetipo di simulazione sarebbe, credo, rimasto impassibile al più grave oltraggio, purchè avesse potuto accalappiarmi di nuovo. - Propose di scegliermi un altro chiostro, incompatabilmente più comodo che non era il presente: di accordarmi il permesso d'uscire ogni giorno: di procacciarmi un nuovo e più largo assegnamento. Gli troncai le parole in bocca dicendo: "No, no, buon padre; voi qua, io là.... Ognuno al suo posto. Determiniamo chiaramente fin da questa conferenza, che sarà l’ultima, il posto che a ciascheduno di noi conviene.... Patti chiari, amicizia lunga." "Verrò di tanto in tanto a visitarvi..... lo permetterete?" "Non lo sperate!" dissi in tuono fermo; ed alzatami per uscire, con un'aria di sovrana, che avrebbe ricordato Elisabetta nell'atto di congedare sdegnosa l'arcivescovo di Cantorbery: "Troppo lunga durò, troppo oppressiva mi tornò la vostra tutela. Vorrebbero ch'io vi chiedessi conto del passato: non lo farò. Ma è tempo ormai che, ritornato in pace alla vostra sede, vi prendiate cura della propria salute ben altrimenti che non avete fatto per la salute della vostra pupilla! Se non volete esser incolpato di snaturatezza, se all'onore che vi è dovuto credete necessari il rispetto mio e il rispetto del pubblico; tornate, monsignore, tornate tosto alla vostra sede, e in avvenire liberatevi da quella smania d'intrigo e di prepotenza che, mettendo a repentaglio la vostra riputazione, distrugge di giorno in giorno la vostra autorità!" Il cardinale, accortosi oramai che, per accalappiarmi e tenermi, troppo vecchie e sdruscite erano le sue reti, mi prese pel lembo dello scapolare, dicendo: "Un'ultima parola! Spero che a Castellamare abiterete in un ritiro." "Farò come al mio nuovo vescovo piacerà." "Spero che terrete il volto coperto con un velo nero....." "Il bruno non è ancora finito: lo porterò." Si alzò allora anch'egli, e al suo passare le monache tutte si gettarono a terra genuflesse; questa, per devozione, palpava la falda della sua porpora, quella coll'estremità delle dita gli toccava la mano, indi si baciava la propria: non una che non gareggiasse per ricevere prima dell'altra la sua benedizione. Disceso all'ultimo scalino, si volse addiettro per dare alle monache l'ultima benedizione. Ravvisatami nella prima fila di esse

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Ma per ragioni non abbastanza note, i monasteri di donne abbandonarono la regola di san Basilio, per abbracciare l'altra non molto dissimile ed omogenea di san Benedetto, ancor prima che i conventi di monaci Basiliani si fossero del tutto latinizzati: fatto avvenuto dopo quelle tre potenti e consecutive crisi della Chiesa occidentale: la riforma, il gesuitismo, ed il concilio di Trento; crisi successe nel XVI secolo. Nella facciata della chiesa di san Gregorio, Napoli e sue vicinanze. Tomo I, p. 228. sopra un alto basamento con tre archi di fronte, costrutto a bugne, si elevano due altri ordini di costruzioni, il composito sul dorico. Pochi scalini conducono all'atrio spazioso retto da quattro pilastri, su cui poggia il coro grande delle monache. In fondo è l'ingresso principale della chiesa; ed entrandovi, trovasi una sola navata con quattro cappelle in ciascun dei lati, e due vani, di grandezza eguale alle cappelle, occupati al davanti per metà da due organi: di quei vani uno serve al passaggio della sagrestia e della minor porta, l'altro per i confessionali. Un balaustro divide la nave dal presbiterio, dove si erge l'altar maggiore, fra quattro archi simili che sorgono per sostenere la cupola. L'ordine architettonico dell'intera fabbrica è il composito, ma oltremodo ripieno di cornici, fogliami, decorazioni ed ornamenti d'ogni genere, tutti dorati, e nelle superficie piane dorati a foggia di damasco; e non è spazio vuoto che non sia coperto di pittura a fresco: cose tutte le quali certo meglio si addicono al fasto de' ricchi palagi baronali (o dei teatri), anzi che alla devota semplicità della casa del Signore. La porta grande è costrutta di legno di noce con buoni intagli in rilievo, rappresentanti i quattro Evangelisti, ed in mezzo i due santi Stefano e Lorenzo, circondati da ornamenti. La soffitta, che è di legno intagliato e dorato, dividesi in tre grandi quadri principali, in cui sono tre pitture di Teodoro il Fiammingo, figuranti san Gregorio in vesti pontificali con libro aperto nelle mani fra due assistenti all'altare; lo stesso santo che riceve le monache nel suo ordine; ed il battesimo del Redentore; suddividesi poi in tanti piccioli compartimenti di forme diverse, i quali contengono una pittura di esso Teodoro, se non mostrano un rosone intagliato. I due organi collocati con le orchestre ne' due vani sono ricchi de' più bizzarri intagli, dorati ad oro fino. Ornano poi le cappelle molti lavori a commettitura di marmi scelti e svariati, ed han tutte un balaustro di marmi, parimente commessi in forma di fogliami a traforo; e sopra, altri lavori di bronzo a getto, con in mezzo un cancellino composto dello stesso lavoro e metallo. Delle pitture, i tre quadri sulla porta, nei quali è rappresentato l'arrivo in Napoli e l'accoglimento qui avuto dalle monache greche; come parimente quelle collocate tra' finestrini, che sono pur de' fatti della vita. di san Gregorio; quelle dei piccioli scompartimenti sopra gli archi, le altre della cupola, e quelle infine del coro grande, che figurano storie di san Benedetto, son tutte di mano del Giordano. Ed è a notare, che, dei tre quadri sulla porta, in quello che è a sinistra dell'osservatore, nel volto dell'uomo in atto d'indicare un luogo alle monache arrivate al lido in una barca, il pittore dipinse sè medesimo dell'età di circa cinquant'anni, quanti allora ne contava. Dietro l'altar maggiore, che è costrutto con disegno di Dionisio Lazzari, mirasi la gran tavola dell'Ascensione del Signore, opera di Bernardo Lama. Nella prima cappella del lato destro della chiesa è il quadro dell'Annunziata di bel colorito, dipinto da Pacecco De Rosa. La terza cappella è dedicata a san Gregorio Armeno, ed è più grande e meglio ornata delle altre; sull'altare, in mezzo a due colonne di rosso di Francia, si vede un assai pregevol dipinto di Francesco di Maria, e rappresenta il santo vescovo assiso e corteggiato dagli angeli; su i muri laterali è figurato in due composizioni il Santo, mentre se gli fa d'avanti tutto umiliato il re Tiridate col viso trasformato in porco; e nell'altra, nel momento di esser tirato fuora del lago di Ararat, dove era stentatamente vissuto per quattordici anni: questi due quadri, dipinti con robustezza e verità di colorito e con bell'effetto di luce, sono usciti dal pennello di Francesco Fracanzano, discepolo dello Spagnoletto. Di Cesare Fracanzano, fratello del primo, son le due lunette sovrapposte a' descritti quadri, che rappresentano due maniere di martirii dati al santo. La volta di questa cappella è divisa in più partizioni, dove in picciole figure sono istoriati vari fatti della vita di san Gregorio dallo stesso Francesco di Maria; le quali pitture a fresco richiamaron l'attenzione dello stesso Giordano, che narrasi averle molto ammirate e lodate. Nella quarta cappella, la tela della Madonna del Rosario è di Niccolò Malinconico, scolaro del Giordano. Delle cappelle del lato sinistro, la prima ha una tavola della Natività, della scuola di Marco da Siena; la terza, la tavola della decollazione del Battista, di Silvestro Morvillo, detto il Bruno; e la quarta, una tela, in che è dipinto san Benedetto, adorante la Vergine che apparisce dall'alto, attribuita allo Spagnoletto. Nel mattino del tre di marzo 1443, essendo giorno di domenica, re Alfonso I d'Aragona cinse il capo del suo figliuolo Ferrante d'un cerchio d'oro, e posegli nella man destra una spada ornata di gemme, confermandolo in tal guisa Duca di Calabria e suo successore nel regno, siccome un giorno avanti era stato acclamato dal general parlamento nella sala del Capitolo in San Lorenzo. Una tal solenne cerimonia fu compiuta con regal pompa, in presenza de' baroni e di tutta quanta la corte del re, nell'antica chiesa già demolita, di cui si è fatta menzione poc'anzi. In quella stessa chiesa conservavansi fino al 1574 le sepolture delle monache, e le ossa d'altri defunti, in monumenti che rimontavano fino alle primitive età del monastero, siccome risulta dalla cronaca di donna Fulvia Caracciolo, una delle mie antenate e monaca nel detto monastero, vissuta intorno all'epoca in cui venne introdotta la clausura. Commovente è la descrizione ch'essa ci lascia del trasferimento delle surriferite reliquie dalla chiesa antica a luogo più sicuro, avvenuto sotto l'abbadessato di Lucrezia Caracciolo: «Restavano, scrive essa, solo nella chiesa le sepolture, nelle quali erano posti i corpi morti delle sorelle, e d'altri defonti: e perchè rimanevano scoverte, pungeva a noi il core estremo dolore, avvenga che non havevamo luoco atto, dove potessimo riserbare l'osse de' nostri antecessori, tanto più che di fresco erano morte alcune, che a volerle tor via, poichè erano i corpi jntieri, n'inducevano a tanto ramarico, che di pietà ogn'una di noi si sentiva venir meno; all'ultimo una notte, seguente a' 20 d'ottobre di detto anno 1574, per non dare spavento et horrore alle sorelle, jo, insieme con donna Beatrice Carrafa, donna Camilla Sersale, donna Isabella, e donna Giovanna de Loffredo, chiuse prima le parte della chiesa, e dicendomo l'officio de' morti, fecimo in nostra presenza votare tutte le sepolture, usando ogni diligenza possibile, che fossero ben nettate, e riponemmo l'ossa in un'altra cantina, con quest'ordine: fecimo far tante casse de' morti quante erano le sepolture, et havendo di quelli riposte le già dette osse, fecimo ad ognuno un scritto di fuori, acciò che si conoscessero di chi fossero.» Questo passaggio, che ho letto più volte nello stesso manoscritto, mi ha fatto ogni volta rabbrividire, pel timore che le mie ossa, destinate a restare in consegna alle mie compagne di reclusione, non subissero un giorno le medesime vicende. Egli è pur da questa cronaca che siamo informati del vestire antico delle monache Benedettine e del loro ufficiare ne' libri longobardi: «Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò, che andavamo vestite di bianco; però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano oggidì le donne vidue, ma di panni fini e bianchissimi; in testa portavamo una legatura greca, ornata con molta modestia; leggevamo a' libri longobardi, e perciò la maggior parte della vita spendevamo ne i divini uffici, per esserno in quei tempi assai lunghi e da noi con molta solennità celebrati. Le moniche ch'entravano in questa religione in tre diverse giornate, usavano tre modi di cerimonie. Primieramente si monacavano per mano dell'abbadessa, un giorno dopo dette le Vespere, ove ne troncava le trezze. Dopoi alcuni mesi, o anni, secondo l'età, pigliavano il secondo ordine, ch'erano alcune dignità nel coro. Il terzo ordine si pigliava nell'età perfetta, da quindici anni in su, e nel pigliar questo ordine si diceva primieramente la messa dello Spirito santo; e mentre quella si celebrava di nuovo, ne tornavamo a tagliare i capelli. In questa guisa cavavamo nella fronte una ghirlanda de capelli, la quale spartita in sette fiocchi, nell'estremo di ciascun di quelli l'abbadessa poneva una ballotta di cera bianca e così stavamo finchè si celebrava; ma poi finita la messa, la medesima madre tagliava i fiocchi e copriva la fronte d'un bianco velo, e ne ponevano una veste negra sopra la bianca che fino a quel tempo portavamo, e la negra era più corta della bianca mezzo palmo, senza la quale non era lecito a veruna di comparir nel coro nei giorni festivi. Questa veste adunque era la prerogativa, che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero. Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura. I giorni feriali si ufficiava in coro con un manto nero, senza di cui non si poteva dire un picciolo verso in quel loco, e questo s'osservava tra noi in quel tempo.» Malgrado questi rigori, vero è che le monache di quel tempo andavano liberamente alle ville e possessioni del monastero per trattenervisi parecchie settimane, uscivano dalla mattina alla sera, previa licenza della badessa, e per giorni ed anche mesi rimanevano in casa dei loro parenti, siccome fino ai nostri giorni, ad onore dell'ordine monastico, è praticato ne' chiostri della chiesa greca, presso la quale l'autorità de' canoni tridentini non è riconosciuta. Sono custodite nel santuario del monastero parecchie reliquie di santi e martiri, cui le monache e la volgare superstizione attribuiscono la virtù di operare miracoli. Tranne il capo di san Gregorio l'Illuminatore, che vuolsi importato dalle profughe greche, vi sono pure la testa di santo Stefano e quella di san Biagio, coverte di argento; parte del legno della santa Croce; due bracci, uno di san Lorenzo e l'altro di san Pantaleone; la catena di san Gregorio Armeno e le strisce di cuoio con cui il Santo fu battuto: entrambi oggetti che, per prerogative soprannaturale, sanano gl'indemoniati; il sangue di santo Stefano e quello di san Pantaleone, il quale, se perpetuamente è liquefatto, pure non si fa vedere in tre diversi colori, siccome quello del medesimo martire che è venerato in Roma nella chiesa di santa Maria in Vallicello e nella cattedrale d'Amalfi. Questo Santo gabinetto di anatomia dà motivo a feste, che non mancano d'essere periodicamente segnalate da fatti miracolosi. Vastissimo è il monastero costruito intorno alla chiesa. Entrandovi dalla porta esterna, scorgesi una comoda scalinata che mena ad una seconda porta, su cui veggonsi delle pitture a chiaroscuro di Giacomo del Po, e donde si va ne' differenti parlatorii. Ricco poi di fregi, d'inesauste comodità, di principesca magnificenza è l'interno del monastero, albergo di donne, tanto altiere della nobile loro discendenza, da non voler accogliere per sorella nella congrega nessuna giovine, la cui prosapia non sia stata almeno aggregata in uno de' quattro seggi di Napoli. Grande e pur belle e il dormentorio; non meno bello il refettorio, spazioso il coro che risponde nella chiesa; largo il chiostro, con in mezzo una fontana e due statue, Cristo e la Samaritana, scolpite da Matteo Battiglieri; immensi e deliziosi specialmente i terrazzi elevati sopra il convento, ornati di fiori e di dipinture, donde si gode una delle più belle prospettive di Napoli, poichè da quei belvederi spazia lo sguardo su i monti e le colline circostanti, su parte della sottoposta città, sul mare, sul paesaggio ameno de' contorni. - Tranne queste costruzioni, vedonsi poi nel monastero la cappella di santa Maria dell'Idria (corruzione del vocabolo greco Odigitria), con l'immagine bizantina della Vergine venerata sotto questo nome, con dipinture di Paolo de Matteis: cappella ridondante di sontuosità; e finalmente la sala dell'archivio, ove fra gli altri storici monumenti è conservata la cronaca summenzionata della Caracciolo, documento di non poco rilievo. Ma è tempo di ritornare alle mie vicende. La novità del luogo, delle persone, degli oggetti, dei costumi, mi divagò un poco. Era quello un mondo nuovo a me del tutto sconosciuto. Durante quella prima visita al convento, m'imbattei in molte religiose per la via: tutte quante mi fecero la stessa domanda: "Vuoi farti monaca?" Io rispondeva di no. A questo detto, sorridendo in atto di suprema convinzione, ripigliavano: "San Benedetto non ti lascerà scappare, quando avrai indossate le sue lane!" Qualche giorno prima di entrare nel monastero, era venuta la domestica di mia zia a comunicarmi, come una giovine monaca, chiamata Paolina, desiderava di farsi mia amica e confidente inseparabile, non appena avessi posto il piede nel chiostro. Mi vi trovava intanto da più ore, nè vedeva al mio fianco altre monache, che le due sorelle, da mia zia pregate di guidarmi nella visita. Chiesi a codeste quale fosse la monaca nominata Paolina: risposero essere una giovine, solita sempre a ricrearsi in compagnia di due educande. M'avvidi infatti d'averla incontrata nel mezzo di due giovinette, passeggianti nel chiostro; ed anzi mi maravigliai, che di tutte le monache fosse stata l'unica a non avvicinarmisi. Fatti altri pochi passi lungo l'arcato corridoio del pianterreno, la incontrammo novellamente; atteggiatami d'ilarità, le mandai da lungi il saluto con un sorriso, ma parvemi d'osservare che, in risposta, essa e le sue compagne si fossero scambiate sotto voce qualche parola in tuono beffardo: questo mi mortificò assai; ma non basta. Concettina mi domandò perchè avessi voluto sapere quale monaca fosse nominata Paolina, e dove l'avessi conosciuta: raccontai dell'ambasciata ricevuta. Si rammentò allora Checchina, che essendosi quella Paolina disgustata colle sue amiche, alcuni giorni prima, mi aveva mandato tale messaggio non per altro che per indispettirle, ma che poscia, rappattumatasi con esse loro, aveva lor promesso di non mai avvicinarsi a me, essendone le educande di già gelose. "Gelose!" esclamai stordita: "vi sono dunque delle gelosie fra voi!" "Eh, pur troppo, signorina! così non ve ne fossero!" risposero le sorelle in coro. "Misericordia!" soggiunsi: "ci sarà anche la discordia, inseperabile dalla gelosia." Strana infatti mi sembrò la gelosia fra donne, stranissimo e volgare il pettegolezzo della monaca Paolina, pestifera la discordia in una casa ermeticamente chiusa e non beneficata dagli influssi della rimanente umanità. Da quel primo sintomo di corruzione mi accorsi che avea da far con donne, le quali, benchè nobilissime per nascita, pur tuttavolta non avevano che l'educazione negativa delle loro proprie domestiche. Io aspettava la sera con ansietà per dare libero sfogo all'inquietudine che mi rodeva, credendo di avere una stanza tutta per me. Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere il mio letto collocato nella camera stessa della zia badessa, con al fianco un terzo letto destinato alla sua conversa! - Mi veniva pure intercettato il conforto della solitudine e delle lagrime! Mentre mia zia spogliavasi recitando delle preghiere sotto voce, io dovetti soffrire il tormentoso interrogatorio della converse. Questa donna, Angiola Maria di nome, aveva 32 anni in circa, era d'una costituzione ferrea, di voluminosa corporatura; tarlata dal vaiuolo, con bocca larghissima e denti neri; a questo insieme disgustevole aggiungeva, ora un riso agro e smodato, ora una cupa fissazione, con un rotar senza posa di due occhi squilibrati che sembravano pronti a balzare fuori dell'orbita. D'altronde scortese, disattenta colla mia vecchia zia, e molto petulante, allorchè questa interrompeva il suo eterno cicaleccio con un qualche rimbrotto. Finalmente si pose in letto, e prese sonno per lasciarmi sola coi miei tristi pensieri, sola nel mezzo d'un silenzio, da altro rumore non turbato che dall'isocrona battuta d'un orologio a pendolo. Io era di poco addormentata, vinta più dall'oppressione morale che dal sonno, quando sul far del giorno fui svegliata da Angiola Maria che voleva sapere da me se io voleva assistere alla prima o alla seconda messa. "Ormai sono desta," risposi traendo un sospiro: "assisterò a quella messa che piacerà a te." La conversa mi diè mano a vestirmi, non cessando sempre di ciarlare: poi, presami confidenzialmente per la mano, nel modo che è menato un cieco, mi fece scendere al comunichino, dove trovai riunite parecchie monache nell'atto d'ascoltare la messa e di comunicarsi. Alle 10 venne mia madre: la ritrovai assisa nel parlatorio. Al primo vederla proruppi in pianto stemperato. Le dissi essere infelicissima in un luogo, la cui inoperosa e stupida reclusione era, a parer mio, più insoffribile della stessa prigionia: tremendo martirio per me dover esser quello di convivere con gente non meno ignorante, che ineducata: che già parlavano di farmi monaca: ch'io presentiva di dover perdere la salute, com'era in procinto di perdere la libertà, dovendo dipendere finanche dal capriccio della conversa di mia zia, la quale mi voleva far alzare prima di giorno, per trattenermi un'ora in chiesa, esposta ad un freddo insopportabile, ad un disagio che m'avrebbe fatta prendere a noia la preghiera stessa. Stava per rispondermi la madre mia, quando entrò la portinaia, ed in seguito accorsero altre monache per salutarla. - Dopo di avere scambiati alcuni termini di cortesia, diss'ella di voler andare ad ascoltare la messa in san Lorenzo, e che più tardi sarebbe ritornata. Uscì dunque del parlatorio, ed io, attendendola, mi trattenni fuori del corridoio, immersa nel sentimento dell'abbandono, in cui slanciata mi aveva una dura fatalità. Scorse un'ora, un'ora e mezza, ne scorsero due, mentre io misurava a passi lenti il pavimento del corridoio, e frattanto non la vedeva ritornare. Dolente del suo ritardo, mi volsi alla portinaia, pregandola di mandare alla vicina chiesa di San Lorenzo una delle tante donne che se ne stavano oziose all'atrio del monastero, per sapere la ragione che impediva mia madre di ritornare. La portinaia, presami la mano, mi disse: "Abbi pazienza, cara mia.... per amore o per forza bisogna trangugiare questo calice...." "Di qual calice parli?" le chiesi spaventata, e col presentimento di qualche nuova sventura. "Ti dico che mia madre tarda a tornare, e vorrei conoscerne il perchè." "Inutilmente l'aspetti." "Perchè?" "Tua madre è già partita alla volta di Reggio." Se la portinaia non mi avesse sostenuta pel busto, sarei caduta in terra. Per lunga pezza restai pietrificata. Ben sapeva io che la madre doveva lasciarmi, ma perchè mai partiva l'indomani della mia chiusura? perchè partiva senza avvertirmene? I miei nervi, scossi già di troppo da tanti dispiaceri, non poterono resistere a quest'ultimo colpo. Fui assalita da convulsioni. Quand'ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l'ozio, la curiosità, l'apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dell'altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne mi confinò in letto per più d'una settimana. Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a, persuadermi ch'era pur troppo reale anche l'abbandono di Domenico. Nutriva, sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma, sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l'affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell'umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenm della mia verace e costante devozione poteva nell'animo suo, più che il vile interesse, come avrebb'egli tollerato ch'io cadessi vittima, della giuratagli fedeltà? Quanta volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quanta volte dall'alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall'andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto. Ma, ohimè! nè egli direttamente m'indirizzava due linee, nè mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella, non faceva ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L'infiermità alla gamba, provocata, dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talchè, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie. Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l'amante, gli amici, non si rammentavano più dell'orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de' concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l'animo mio. Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

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Esse, concordi in questo disegno, davano la colpa al mio confessore che, a loro dire, non sapeva, persuadermi ad abbracciare la vita claustrale. "No, non è buono per te quel confessore," mi andavano ripetendo; "e la prova patente della sua incapacità fassi vedere nella brevissima durata della sua operazione. Egli ascolta, e non parla; dunque, privo di spontanea attività, si contiene in uno stato di passiva udizione. Ti ha egli, per esempio, significata la diversità che passa fra la vita dei mondani, la cui maggior parte piomba nell'ombre eterne, e quella dei religiosi, che quasi tutti si salvano?" Le monache non si davano pace: questa mi esortava di qua, quella mi catechizzava di là, tutte dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione tiravano argomenti, onde esorcizzare lo spirito maligno che m'ispirava avversione insormontabile per la loro società. Una fra le altre, chiamata Maddalena, la più fanatica, veniva ogni sera nella stanza della zia Lucrezia, coll'intento di convertirmi a tutto costo. Poichè vide anche questa tornati infruttuosi gli assalti sofistici della sua logica, "Vuoi farmi un piacere?" mi disse. "Parla," risposi. "Attendo domani il mio confessore; quel canonico ha la dottrina di san Tommaso d'Aquino e le virtù di san Francesco Caracciolo tuo progenitore. Una conferenza con lui ti strapperebbe certo dall'ostinazione che t'abbrutisce." "Ma, santo Dio! che cosa dovrò dirgli?" "Gli esporrai le ragioni per cui abborrisci lo stato monastico, e udrai le sue risposte." Conoscendo ch'io non aveva intenzione di arrendermi, "Sai tu," soggiunse, "che Iddio, avendoti allontanata dal mondo per farti entrare in questo santo rifugio, ti ha data una prova di bontà, affinchè molte altre donzelle tue pari ne possano profittare? Egli un giorno ti chiederà conto del disprezzo mostrato all'immenso suo benefizio. D'altronde, non è egli meglio purgare la coscienza dagli scrupoli, consigliandoti coi servi di Dio? Almeno, compito quest'ultimo dovere, la Provvidenza non ti biasimerà d'incuria, se persisterai nel tuo proponimento." Cotesti ragionamenti reiterati tutte le sere con crescente incalzare di loquacità, l'atmosfera oppressiva del chiostro, la mia giovanile età, l'ignoranza della pretesca e della monacale impostura, infine l'educazione, che mi rendeva pieghevole ai superiori e cortese con tutti, mi fecero condiscendere alle sue premure. La mattina seguente Maddalena mi conduceva gongolante di gioia dal suo dotto reverendo. L'esultanza e la sollecitudine di quella monaca mi parvero un indizio rassicurante. - Se nelle sue relazioni col prete, mi dissi, vi fosse per avventura alcun che d'equivoco, m'avrebbe ella fatta di sì buon grado compartecipe della sua felicità? - "Non sei curiosa di vedere l'effetto d'un'efficace confessione?" mi domandò essa, qualche momento prima d'introdurmi nel gabinetto. "Curiosa in superlativo grado!" risposi sorridendo. Ed infatti, la situazione mia somigliava a quella d'una sepolta viva, che, ridesta dal letargo, va brancolando intorno alle tenebrose catacombe, ove si vede chiusa, in cerca d'un'eventuale uscita. Il canonico era un uomo di 40 anni, e aveva un aspetto pieno d'espressiva mobilità. Se non era un gesuita, nessuno più di lui sarebbe stato degno di divenirlo. Dopo molti complimenti e riverenze, mi domandò flebilmente il nome, l'età, la condizione, e simili altri particolari. Poi, piegando l'una gamba sull'altra e stropicciandosi le mani, mi disse: "Suppongo, signorina, che abbiate deliberato di farvi monaca." "No, reverendo." "E perchè?" "Perchè la clausura m'opprimerebbe soverchiamente." "Coll'andar del tempo vi abituerete a questa dolce prigionia per modo da non potervene più separare. Non siete dunque entrata di vostro piacere nel convento?" "No; forzata da mia madre." "Ah, forzata dalla mamma! (breve pausa, durante la quale il prete sembrò immerso in profonda meditazione). Ditemi un po', signorina, avete mai fatto all'amore?" "Due volte." "Qual era il vostro fine nell'amoreggiare?" "Sposare l'oggetto amato." "Questo, e null'altro? Vogliate aprirmi senza riserva il vostro cuore." "Non ho avuto per mira che il solo matrimonio." "Avete inviate o ricevute lettere da' vostri amanti?" "Mai." (mi ricordai del viglietto di Domenico) "Avete avuto ambasciate verbali?" "Neppure." (oziose interrogazioni!) "Come dunque hanno avuto termine i vostri amori?" "Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

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