Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbracciandola

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Il marito dell'amica

245070
Neera 2 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Una sera, abbracciandola stretta nel vano di una porta, le mormorò colla voce di un moribondo che implora un sorso d'acqua: Vieni... Non disse dove, non disse quando. Vieni, era l'anelito del suo cuore che soffriva, spoglio di ogni riflessione e di ogni calcolo. Vieni, parola sublime, senza senso, uscita dalle labbra di un uomo schiettamente innamorato. Scettico per temperamento e per teoria, Emanuele in pratica non conosceva la vita; da tale contrasto risultava l'ingenuità delle sue manifestazioni in una passione che provava per la prima volta. Questo era che commoveva tanto Maria. Essa aveva cercato invano per lunghi anni di portare i tesori del suo amore a quel cuore malato, ed ora, quando meno lo aspettava il cuore malato si metteva a battere, sorgeva, viveva, ed erano le sue lagrime che avevano compito il miracolo; era dal suo tenero affetto che germogliava tardivo l'affetto di lui; così Maria sentiva questo legame duplicato da una tenerezza quasi materna, fatta d'orgoglio e di pietà. Lei sola poteva farlo felice; lei sola ne aveva il diritto per tutte le lagrime e per tutti i dolori che le era costato quell'uomo. Dalle confidenze di Sofia, sapeva che Emanuele non dormiva più con sua moglie. Si era fatto portare un letto da campagna nel suo studio, col pretesto di veglie prolungate; infatti, fino a notte tarda, si scorgeva il lume attraverso le imposte socchiuse. Quando il silenzio era profondo, Maria appoggiata al davanzale della sua finestra, teneva fissi gli occhi su quel lume. Un rettangolo di giardino divideva le due finestre esternamente; all'interno vi stava di mezzo tutto l'appartamento. Dopo che egli le aveva detto vieni, sembrava a Maria che quel lume la chiamasse, con una dolce e tacita insistenza, invitandola col suo bagliore tranquillo. Altra volta, quando Emanuele chiedeva il primo bacio, ella non aveva esitato; ma portava allora una grande arme con sè, la propria innocenza. Ora la situazione era affatto cambiata; Maria sapeva ciò che Emanuele voleva. Nell'aria buia della notte, nessun rumore veniva a interrompere l'aspra battaglia ch'ella combatteva da sola, al davanzale della sua finestra; ma nel breve orizzonte dove sembrava alitare il respiro della città addormentata, una visione di fantasmi sfilava sorridendo con aria di scherno. Erano donne graziose, facili fanciulle, spose senza scrupoli; tutte la guardavano compassionevolmente attonite e meravigliate della sua solitaria follia - ed essa guardava loro, riconoscendo volti noti, amiche colle quali si era trovata nelle conversazioni, in casa, in chiesa; signore educate che parlavano di morale a proposito di tutto - e passavano, pudicamente ravvolte nelle cortine dell'alcova matrimoniale, nel bianco velo sparso di fior d'aranci, seguite dalla turba degli amanti discreti e prudenti. In un momento di chiaroveggenza quasi magnetica, Maria scorgeva i misteri di tutte quelle finestre chiuse; i mille misteri risolvertisi in uno solo, antico come il mondo, eterno come la giovinezza; il mistero delle città e delle selve, dell'uomo e della natura, il solo perchè dell'universo. - E dal fondo delle viscere le sorgeva una violenta protesta contro i rigidi principii che inceppavano il suo amore. Eccomi - mormorava colle braccia tese nell'oscurità, coll'occhio fisso sul punto luminoso - sono donna e ti amo; vengo a te. - Sì, sì, vengo - continuava a dire a bassa voce movendo appena le labbra - aspettami Emanuele, mio amore, mia gioia, dolor mio. Si mosse, come una sonnambula, a passi brevi o tremanti, sentendosi paralizzata dalle anche in giù, e tutto il corpo diaccio. Si fermò un minuto davanti allo specchio, un solo minuto. Era pallidissima, cogli occhi grandi, cinti di violetto; strinse le labbra, commossa; a Emanuele piacevano i suoi occhi così. Aveva un paio di stivaletti che scricchiolavano; li levò e si pose le pianelle. Nell'aprire l'uscio, una corrente d'aria le spense il lume. Dovette brancicare al buio, urtandosi contro i mobili, debole così da reggersi appena. Quand'ebbe riaccesa la candela, sulla soglia dell'uscio, esitò. Aveva nel petto un rodìo, come se due mostri ignoti si contendessero a colpi di zanna il suo cuore. Uscì finalmente, attraversando in punta di piedi il gabinetto dalla tappezzeria verde-mare, attiguo alla stanza di Sofia. Sul divanuccio c'era l'abito che Sofia aveva spogliato quella sera, lungo, disteso, colle maniche ancora gonfie e il corpetto che sembrava tiepido nella lieve evaporazione delle carni contenute. Maria, nel passare, lo smosse e l'abito cadde bruscamente per terra, con un fruscìo secco, come di risata sardonica. Al gabinetto seguiva il salotto, tutto ingombro di poltrone, di tavoli e di ninnoli eleganti, con due specchi altissimi, posti di fronte, che riflettevano simultaneamente la figura spettrale di Maria. Ella ne ebbe quasi paura e abbassò gli occhi, rifuggendo dal guardarsi, con un aumento di tremore nelle gambe e quel diaccio per tutto il corpo che le dava l'impressione di sentirsi irrigidire. Due camere ancora la separavano dallo studio di Emanuele; in una di queste, molto ampia, nuda, con un guardarobe altissimo, ella c'era stata appena una volta. Non ricordava bene se l'uscio era a destra od a manca; alzava il lume, per vedere meglio, quando un respiro robusto di persona dormente la inchiodò nel mezzo della stanza, sbigottita. La bambinaia dormiva su un lettuccio, dietro un paravento, colle coltre di filugello giallo tirata sugli occhi, o accanto a lei, la culla di Guido biancheggiava, nello sfondo latteo delle trine, sospese e drappeggiate intorno. Maria pose una mano davanti alla fiamma e guardò, al di sopra della luce smorzata, trattenendo il fiato. La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un'ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de' suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana. Dall'altra parte, l'uscio spalancato scopriva l'incerto nereggiamento di un corritoio, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell'uscio di Emanuele. Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all'uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando. Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido delle membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa. Non posso - mormorò, quasi per giustificarsi, con un terrore angoscioso - non posso! E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta. Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.

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Le si avvicinò , abbracciandola stretta stretta: Oh se io fossi tua madre! La civettina, tenendo per mano il bel ragazzo dal collo alla Richelieu, propose il giuoco dell'ambasciatore. Sei bambini da una parte, sei bambini dall'altra. Avanti i primi: «È arrivato l'ambasciatore. «Tam tirum, lirum, lera... - È un giuoco stupido - disse la brunetta. - Quando si fa la sposa no - rispose la bimba linfatica. - Io non la faccio mai la sposa. La civettina si avanzò trionfante, perchè l'ambasciatore era venuto a prenderla «vestita di raso bianco» con centomila lire di dote. - Che miseria! - esclamò il bel ragazzo - almeno cento milioni ! - Cento milioni è più che centomila lire? - domandò uno dei piccini. Ma nessuno gli rispose. La campana della scuola avvertì che l'ora della ricreazione era trascorsa. La maestra si levò in piedi dignitosamente e i fanciulli tornarono ad aggrupparsi, spingendosi verso l'uscio, gridando con un rinforzo di acuti, quasi per esaurire nell'ultimo momento di libertà le forze ginnastiche dei loro polmoni. Che noia! - mormorò la civettina dal busto imbottito, scuotendo le gonnelline. Il bel ragazzo dalla tunica verde, sfogò il suo malcontento con un gesto di sfida, dietro le spalle della maestra. Qualcuno era rassegnato, e tra questi la fanciulletta intelligente. I piccini non capivano nulla, continuando a trastullarsi in mezzo alla terra, finché fossero venuti a levarli di peso. In breve il cortile restò deserto, sparso di buccie di mele, di briciole di pane, di pezzi di carta e di qualche pezzuola dimenticata; nell'angolo dei piccini, sotto il cipresso, c'era una scarpetta, larga come un guscio di noce, piena di sabbia. Maria si fermò un istante ancora, assaporando l'amarezza delle sue memorie. Era invasa da quel pensiero mesto fra tutti, della indistruttibilità del passato. Si domandava perché mai la vita è divisa sì crudelmente in parti che non attaccano l'una all'altra? Perché si passano dieci, vent'anni, in un dato ambiente, con persone e con affetti che sembrano eterni, e poi tutto cambia; per altri dieci, per altri vent'anni, per sempre, nuove persone, affetti nuovi, più nulla di quello che è stato, nulla, tranne il rimpianto pungente nei cuori che non sanno dimenticare? E se tutto cambia, se tutto muore, perché solo non muore il triste dono della memoria? Comprese alla fine che era necessario partire: e lo fece con rincrescimento, a brevi e lenti passi, mormorando fra sè: Addio, addio: come si staccasse da persona viva. Le vocine dei bimbi, in alto, sotto la volta cupa del salotto ripetevano in coro: Ba - Bo - Bu.

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