Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbracci

Numero di risultati: 37 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Fisiologia del piacere

170471
Mantegazza, Paolo 3 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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La forma più semplice di questa espressione di gioia è un segno fatto con qualunque parte del corpo, ma per lo più con la mano; e può nelle forme più complesse associarsi alle parole o agli abbracci più o meno espansivi. In ogni modo, quando è sincero, l'uomo che lo riceve ne valuta subito il valore morale. Il saluto si esprime anche tacitamente con un leggero chinare del capo e un increspare lieve del labbro al sorriso. Il togliersi dal capo il cappello, residuo di un uso cavalleresco del passato, è ora sostituito dal tendere deciso del braccio in alto, gesto che sostituisce pure la comune stretta di mano. Dopo il saluto l'uomo si fa vicino all'uomo e lo interroga sulle sue vicende, e seguendolo coll'occhio intento dell'affetto a vicenda con lui sorride e con lui piange. Quante volte due uomini, che pur non si videro mai, incontrandosi col cuore gonfio d'affetti, si diedero una formidabile stretta di mano e si intesero! Quante volte con una solo parola fusero insieme i loro cuori in un ineffabile delirio d'affetti; quasi due torrenti impetuosi che, correndo dapprima solitari nel loro letto irto di rupi, incontrandosi si calmarono, scorrendo lenti nel pacifico fondo di un lago! Quante volte quattr'occhi umani, che pur non si erano mai incontrati, rimasero a lungo fissi gli uni sugli altri, leggendo a vicenda in mezzo a un velo di lacrime la storia del cuore e rimandandosi torrenti d'affetto nell'estasi più soave! Talora uno dei due è oppresso dal dolore, e viene confortato dalle parole dell'altro: egli riceve un vero soccorso morale, un'elemosina di parole che viene chiamata consolazione. Le gioie che in questo caso si provano da chi esercita, consolando, il sentimento sociale, possono essere molto diverse di natura e di intensità. Un egoista che, senza soffrire col compagno, pronuncia a fior di labbra e per puro convenzionalismo una parola di conforto fredda e stentata, che non gli costa alcun sacrificio, non può provare che una gioia pallida, perchè egli non sodisfa alcun bisogno del cuore. L'uomo generoso, invece, che, commosso profondamente, stringe forte la mano al fratello che soffre, dicendogli con voce commossa, ma energica, una parola di sollievo, prova una profonda emozione. Più d'una volta una parola sola o una stretta di mano meglio alleviano un profondo dolore e rendono amici due uomini che non si erano mai conosciuti.

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Le espressioni più frequenti con le quali si manifesta ad un amico la gioia di vederlo, sono gli abbracci, i baci e le strette di mano. Quest'ultimo segno credo che sia il più naturale, e che meglio d'ogni altro esprima questo sentimento. Nella stretta di mano si può far sentire tutta la forza dell'affezione, e nello stesso tempo non si esce dai limiti di una calma dignitosa. Il bacio è per l'amicizia troppo sensuale, e dovrebbe essere riservato soltanto alle grandi occasioni. Il bacio non è comprensibile che quando è caldo, impetuoso, non ragionato. In tutti gli altri casi non è che il ridicolo cozzo dei nasi o le precauzioni architettate ad evitarlo, l'umido contatto delle labbra che spesso dà un senso di disgusto.

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Le esclamazioni di gioia possono giungere sino al delirio, e possono accompagnarsi a strette di mano e ad abbracci affettuosi. In tutte queste espressioni si vede una tendenza all'espansione e al moto. Rarissimi sono i sospiri e il pianto. Nella musica patetica invece tutto ispira al raccoglimento e all'emozione. I gesti sono poco estesi, rari e lenti; i sospiri sono prolungati e frequenti, più d'una volta la tensione nervosa ristabilisce l'equilibrio col pianto. Nei gradi massimi del piacere il volto impallidisce, gli occhi sono smarriti, il corpo è assalito da fremiti, da sussulti tendinei, da veri brividi di una voluttà misteriosa. Altre volte il corpo è immobile, quasi colpito da catalessi, e l'uomo sembra rapito in una vera estasi. Questi pochi tratti esprimono la fisonomia generale dei piaceri musicali, ma il quadro non è completato che dalle espressioni di tutti i sentimenti nobili e bassi, buoni e cattivi, i quali tutti, alla loro volta, possono essere suscitati dalle delizie dell'armonia. Ben di sovente noi non pensiamo più alla musica che ci inebbria, ma, trasportati dalla fantasia in regioni lontane, ricordiamo liete memorie o piangiamo sulla terra del cimitero; siam trascinati nel turbine d'una vita operosa o sognamo una vita solitaria e tranquilla. Ora odiamo profondamente, o immensamente amiamo, a seconda dello stato della mente e della natura della musica che ci commuove. Tutte queste fisonomie però verranno studiate nei piaceri del sentimento. Qui mi basterà di aggiungere che tutto l'asse cerebro-spinale può essere tratto in commozione dai piaceri dell'udito, e che indirettamente anche la circolazione e il respiro vi possono prender parte. Il cuore pulsa spesso più forte, e talvolta è preso da accelerate palpitazioni; il respiro si fa lento o affannoso. L'alternar del rossore o della pallidezza del volto e il senso indefinito che ne risentono talvolta le viscere, provano infine che anche il sistema gangliare può entrare come fattore nell'espressione di piaceri dell'udito. Il campo che divide la fisiologia dei piaceri dell'udito dalla loro patologia non ha confini ben determinati. Nei piaceri più intensi dell'armonia si accordano quasi tutti gli uomini: mentre ciò non succede per i piaceri minori o per quelli prodotti dai rumori. Certamente i gusti più bizzarri dell'orecchio non possono influire sulla salute del corpo; ma molti di essi si possono moralmente chiamar patologici, perchè si allontanano dal tipo di perfezione estetica che noi riceviamo dalla natura nascendo. Così possiamo chiamar morbosi i piaceri di quelli che si compiacciono delle strazianti armonie d'una lima stridente, d'una forchetta che si striscia sul piatto, dello scrocchiare delle articolazioni delle dita, dell'abbaiare di un cane, e soprattutto di quelle selvagge disarmonie del sincopato, che il pessimo gusto degli Americani ha portato fra noi.

Pagina 68

Sull'Oceano

171753
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Pagina 410

Come devo comportarmi?

172967
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Quando prende l'umor nero, che rende dispettosi, svogliati, e butta in braccio a seccature e a dispiaceri, si corra a la bicicletta, la si abbracci come una amica generosa e sincera; e via frrrr !... l'umor nero lo lasciate dietro la strada, e tornate a casa con il desiderio ragionevole di essere buone, compiacenti, per fino amabili ! Evviva la bicicletta !... O se le fanciulle della mia età conoscessero i vantaggi che vengono, da questa semplice, semplicissima macchina a due ruote, come rinuncerebbero volentieri a i vestiti sfoggiati, ai gingilli, a tante e tante belle e inutili cose per provvedersi d'una bicicletta, che è salute, allegria, bontà e voglia di lavorare! Bicicletta mia! andiamo ! (incamminandosi per uscire) fuori a l'aperto, i capelli al vento, la gioia nel cuore (esce e dal di fuori) Su! hop !... ah l'emozione della corsa!... Frrrr !... Si vola come le rondini !

Pagina 425

Si fa non si fa. Le regole del galateo 2.0

180374
Barbara Ronchi della Rocca 1 occorrenze
  • 2013
  • Vallardi
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Quindi lui accetterà di buon grado di indossare giacca e cravatta e l'immancabile camicia bianca (se non addirittura lo smoking) in paesi in cui sfoggiare abiti sportivi - anche se firmatissimi - a cena o a teatro è un gesto di grave maleducazione; lei si coprirà il capo con un foulard e indosserà maniche al gomito e gonne sotto il ginocchio o ampi pantaloni in paesi con un diverso concetto di pudore; ambedue eviteranno di ostentare baci e abbracci in pubblico, e anche di camminare mano nella mano se è un atteggiamento non bene accetto (nella nordica Finlandia non lo è affatto!). La parola d'ordine è «rispetto»: non cerchiamo di modernizzare o peggio di scandalizzare («Così capiscono subito») chi è all'antica, non correggiamo chi ci sembra che sbagli, non facciamo paragoni con casa nostra, non lamentiamoci. Quando siamo a quattr'occhi con il nostro partner, evitiamo frasi che suonino come una critica o una presa in giro al modo di vivere locale e ai valori della sua famiglia. Inutile illuderci dicendo: «Tanto ormai è più italiano/a di me». Il ritorno a casa coincide senz'altro con un rafforzamento del legame affettivo proprio con quella realtà che razionalmente sente ormai lontana. Una prova di garbo nei confronti dei «suoceri» o di chi ci ospita sarà lo sforzo di imparare poche parole nella lingua locale (bastano «Buongiorno», «Per favore» e «Grazie»), e di usare sempre (se è possibile) una lingua che loro comprendono, per non dare l'impressione, parlando in italiano con il nostro amore, di parlare «di loro», o peggio «contro di loro».

Pagina 49

Il Galateo

180975
Brunella Gasperini 2 occorrenze
  • 1912
  • Baldini e Castoldi s.r.l.
  • Milano
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Davanti alla chiesa esplodano pure gli auguri, i flash, i commenti, gli abbracci, le cascate di riso, tutto quel che volete. Ma senza tirarla troppo lunga. Gli sposi diano il via salendo per primi in auto, da soli. Gli altri seguano come capita.

Pagina 30

In pubblico, i saluti dovrebbero essere semplici e sobri, senza gesticolamenti o eccessive espressioni di giubilo, senza urli, fischi, boati, pacche giganti sulle spalle, appellativi allarmanti o sibillini, baci e abbracci da ritorno in patria. C'è chi può esserne imbarazzato. Secondo il galateo, sarebbe gentile aggiungere al buongiorno o al ciao un appellativo qualsiasi: «Buongiorno signora», «Buonasera ingegnere», «Ciao Rossi». Ma se va bene dire a una donna: «Buongiorno signora», è ridicolo dire a un uomo: «Buongiorno signore». Fa maggiordomo. Se non sapete il nome, dite buongiorno e basta. L'importante è che il tono e l'espressione siano spontanei. Per una persona normale, diciamolo ancora una volta, il saluto è una cosa spontanea.

Pagina 53

Il saper vivere

185912
Donna Letizia 1 occorrenze
  • 1960
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Ognuno avrà una frase gentile per la sposa, ma non ci si dilungherà troppo, né si esagererà con gli abbracci che le sgualcirebbero il velo e rischierebbero di lasciare inopportune tracce di rossetto. Non mancherà, probabilmente, la solita esclusa che, approfittando dell'euforia generale, mormorerà alla coppia: « Cattivi, vi siete dimenticati di invitarmi al rinfresco! ». Verrà naturalmente invitata, e tanto peggio per lei se poi si troverà relegata in fondo alla tavola, con i bambini.

Pagina 76

Galateo per tutte le occasioni

187848
Sabrina Carollo 1 occorrenze
  • 2012
  • Giunti Editore
  • Firenze-Milano
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Generalmente si usano le parole sbagliate, mentre ciò che più conta, l'affetto e il sostegno, si esprimono in modi diversi, che passano molto meglio per gli occhi e per gli abbracci. Presenziare a un funerale non è un dovere, ma una cortesia di forte significato e grande peso emotivo. Sentirsi circondati da persone che ci tengono a essere vicini a chi se ne è andato - come a chi è rimasto - è di enorme conforto ai familiari, aiuta a condividere il peso della separazione. In realtà in momenti del genere il bon ton dovrebbe lasciare quanto più possibile spazio all'autenticità di ognuno. Di fronte agli eventi fondamentali della vita, cercare di seguire delle regole di comportamento è infatti abbastanza stonato. Dunque nella misura in cui meglio vi riesce, sforzatevi di non giudicare, né l'orchestrazione dell'evento, né il comportamento altrui. A ogni modo, sia che la cerimonia preveda un buffet all'americana, sia che si tratti di un più sobrio incontro religioso o civile, cercate di accettare il fatto che per una volta non siete voi i protagonisti, e comportatevi in modo discreto. Arriverà il vostro turno. Siate puntuali: non è una festa in cui apparire sul più bello, quindi abbiate rispetto anche dell'ora. Così come non è carino allontanarsi prima della fine delle esequie, sgattaiolando via furtivamente. Affrontare simili momenti è faticoso per tutti, ma abbiate il coraggio di andare fino in fondo. Non trattandosi di un momento di gioia, è meglio evitare gli abbigliamenti chiassosi e i colori sgargianti. Da quando il nero è stato sdoganato dalla moda siete facilitati nel compito. Comunque anche le altre tonalità più scure andranno bene. Se siete facili alle lacrime cercate di piangere il più sommessamente possibile; ma se siete soliti nascondere le vostre emozioni, non giudicate chi secondo tradizione usa il fazzoletto. Il momento delle condoglianze è quello più difficile: si tratta di trovare validi argomenti in poche frasi, capaci di esprimere quanto vorreste. La cosa migliore è riportare alla memoria un ricordo piacevole della persona scomparsa, per aiutarvi a trasmettere ai suoi cari la sua vicinanza attraverso ciò che ha fatto e detto. Più facile è redigere un biglietto di condoglianze per scritto. Farete piacere a chi lo leggerà se ricorderete con stima e affetto chi non c'è più e aiuterete a mantenere viva la sua persona nel cuore di chi è stato vicino al defunto. Cercate dunque di evitare le solite formule che sanno di abitudine e di poca sincerità, e sforzatevi di trovare in voi un sentimento autentico. Se i familiari vogliono pubblicare un necrologio, scelgano per tempo il quotidiano cittadino più diffuso e adoperino una formula asciutta, in cui annunciare il giorno del decesso e quello del funerale, con l'orario e il luogo. Gli amici e i conoscenti che vorranno pubblicare il proprio cordoglio, potranno scegliere la formula che preferiscono, sempre nell'ambito della sintesi. Lasciate la fantasia correre in altri ambiti. Una gaffe in simili occasioni è più difficile da tollerare. Sempre necessario, da parte dei familiari, ringraziare per scritto le persone che hanno partecipato al dolore della famiglia. Che disponiate di biglietti personalizzati o vi affidiate alla fornitura delle società che si occupano delle esequie, rispondete ai messaggi di cordoglio anche solo con un saluto, ma sempre necessariamente a penna.

Pagina 138

Nuovo galateo

189953
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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Questa gentilezza facchinesca fa le veci degli abbracci de'Francesi e degl'Italiani.

Pagina 169

IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

190965
Schira Roberta 1 occorrenze
  • 2013
  • Salani
  • Milano
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Nel parlare moderiamo la voce e negli approcci i «giochi di mano» (toni alti, rumori, abbracci e pacche sulle spalle) sono poco graditi. Tuttavia sono rimasta davvero stupita durante la mia ultima visita a Londra da quanto sono rumorosi i ristoranti anche stellati della città. Non affrontate i soliti discorsi tabù, e il fatto che gli inglesi amino parlare del tempo non è solo un luogo comune: serve per rompere il ghiaccio. Ricordate che gli inglesi sono British e non English, imparate a distinguere irlandesi e scozzesi dagli inglesi. Non è obbligatorio portare doni ai padroni di casa, ma sarà gradita una bottiglia di vino. L'invito per un dinner può essere alle 19 oppure alle 18.30 per un tea time a base di abbondanti piatti freddi. Lo slurping (trangugiare, bere rumorosamente) va assolutamente evitato anche da loro. Vietato anche «pucciare» in tutto il Regno Unito in qualunque liquido, dal tè all'uovo à la coque. Le mani vanno in grembo se non sono utilizzate, come vedremo. L'abbigliamento deve essere sobrio e i jeans non sono apprezzati, così come le cravatte regimental che indicano l'appartenenza a un club. Gli inglesi amano consumare formaggio a fine pasto e gli stuzzicadenti, al supermercato, non sono mai nel reparto casalinghi, ma in quello degli articoli da party (servono per infilarci le olive e non per pulirsi i denti). Il pane non viene servito a tavola, tranne che imburrato come accompagnamento al salmone. In molte famiglie vige ancora l'uso antico di dividere i due sessi alla fine della cena: le signore sono invitate a powder their noses (incipriarsi il naso) e bevono sherry, mentre gli uomini rimangono seduti a tavola a sorseggiare porto e fumare sigari. Se il porto viene servito in tavola viene passato in senso orario e non si versa mai al proprio vicino: ognuno si serve da solo. Nei paesi del Centro e Sud America le persone di un certo riguardo metteranno Don e Doña davanti al vostro nome. La cena inizia sicuramente dopo le 21 e il ritardo accettato può arrivare anche a un'ora. Ecco, in questa cultura è meglio mandare fiori il giorno dopo e non portare nulla di commestibile, facendo pensare che il menu debba essere rinforzato: è considerato offensivo. Fanno eccezione prodotti come souvenir di un paese straniero. Urge una parentesi. Anche qui, come negli Stati Uniti e nel Regno Unito, tra una portata e l'altra si tengono le mani in grembo. Il francese (come l'italiano) le appoggia sul tavolo fino al polso, mentre l'inglese beneducato le tiene in grembo. Il galateo a tavola, come noi lo conosciamo oggi, si sviluppa in Francia, in un'epoca di veleni e tradimenti, perciò si impose la regola: entrambe le mani ben visibili ai commensali, quindi sul tavolo. L'Inghilterra non poteva accettare un'imposizione francese, era ancora bruciante la perdita dei territori sul suolo continentale dopo la guerra dei Cent'anni (1337-1453). Ecco perché gli isolani decisero per la mano in grembo, anziché appoggiata al tavolo, ben visibile: spirito di contraddizione! Ricordo, a proposito, il motto di una severissima anziana anglofila baronessa fiorentina che diceva: «Jamais, parfois, toujours» e cioè «Mai, qualche volta, sempre», dove ogni avverbio si riferisce a una posizione, rispettivamente: gomiti sul tavolo, avambracci appoggiati e mani in grembo. Tornando al Sud America, l'abbigliamento di sera è piuttosto formale, quindi sono gradite giacche e cravatte e per le signore sconsigliati i pantaloni in alcune cerimonie ufficiali. Ricordate cosa abbiamo detto dello spazio personale e della prossemica: in questi paesi le distanze sono ravvicinate ed è normale che quando qualcuno vi rivolge la parola si avvicini molto; non ritraetevi. Ho potuto verificare di persona; più si va a sud più le distanze si accorciano, più si va a nord più aumentano. Lo stesso avviene tra abitanti di campagna e di città: i primi, insieme a chi vive in montagna, staranno più scostati e vi daranno la mano restando arretrati con il corpo, mentre chi vive in una grande città (abituato a tram e metropolitana affollati) accorcia le distanze. In Sud America evitate, se siete voi che invitate, di cucinare coniglio: è considerato un animale da compagnia. Nei paesi islamici si salutano con rituali lunghi e si baciano più volte; con gli occidentali usano la classica stretta di mano. Tra uomo e donna non deve avvenire alcun contatto fisico. Nella presentazione evitate di tenere lo sguardo fisso sul volto, molto meglio uno sguardo basso e reverenziale. Nella conversazione non ci si informa mai dello stato di salute delle mogli; è considerata un'invasione di campo, così come ogni battutina sulla condizione femminile. Il pranzo è intorno alle 14 e la cena alle 22: siate puntuali. Non intestarditevi a voler pagare il conto, è offensivo, paga chi fa l'invito, come da noi. Di norma non si porta nulla e ovviamente, se il dono è d'obbligo, sono vietatissimi gli alcolici e prodotti che contengano carne di maiale. Se siete voi a invitare, informatevi sul Ramadan che cade in mesi diversi ogni anno. In questo caso ogni convivio slitterà dopo il tramonto. Ricordate che canottiere e pantaloni corti sono un insulto al buon gusto anche se indossati dai maschi. Val la pena aprire una parentesi sull'abbigliamento. L'occidentale che, nell'immaginario di certi paesi, è ricco e stimabile, se arriva seminudo si comporta come un indegno, come uno di una casta inferiore che non può permettersi una camicia. «Questo provoca un vero e proprio cortocircuito mentale in chi lo accoglie nel suo paese» dice anche Barbara Ronchi della Rocca nel suo libro dedicato al galateo del viaggiatore. Lo stesso, come abbiamo visto, vale per i jeans, che da noi sono ormai sdoganati come abbigliamento per tutte le occasioni; in molti paesi non vengono compresi. In Australia, per esempio, sono considerati una divisa destinata ai lavori più umili della campagna, quindi guai a indossarli anche per una cena tra amici. Iran, Siria e molti paesi islamici considerano i jeans un abbigliamento maledetto, per via dell'origine americana. Un po' come camicie e pantaloni stile militare in Zimbabwe, Zambia e Botswana. Se cercano di convincervi che nei paesi islamici è accettato un rutto a fine pasto come segno di gradimento non credeteci, è un gesto al limite tollerato, ma non incoraggiato. In questi paesi, come nel sud dell'India e in Indonesia, la sinistra si usa per la pulizia del corpo, fate quindi attenzione a passare le portate al vostro vicino con la mano destra. In Giappone evitate il più possibile il contatto fisico, anche la stretta è inusuale; meglio l'inchino. Se siete invitati mostrate deferenza e ammirazione verso i piatti che vi vengono offerti. I giapponesi adorano che la propria tavola venga ammirata; infatti le presentazioni dei cibi sono attentissime alle proporzioni, ai colori e alla composizione: I commensali si presentano con il cognome e usano sun davanti al vostro, che significa onorevole. Il che non è un'offesa, come sta diventando nel nostro paese. Usate i biglietti da visita, lì sono indispensabili, e porgeteli con entrambe le mani: è un segno di deferenza. Starnutire, soprattutto a tavola, è uno dei gesti più maleducati che potreste fare, cercate di ricordarlo. Vige l'assoluta puntualità e, se entrate in casa d'altri, toglietevi le scarpe in segno di rispetto. Non portate fiori, tipico dono del corteggiamento; ben graditi i dolci, avvolti nella carta rossa, segno di gioia. Mai però nel numero di quattro e nove, considerati numeri nefasti. A tavola non si usano tovaglioli, ed è apprezzato l'uso delle bacchette per portare il cibo alla bocca; tuttavia, per evitare pasticci potrete chiedere una forchetta, in mancanza di meglio usate le dita. Nella conversazione siate sempre calmi e pacati e soprattutto sorridenti. Non versate nulla sul riso e cercate di non avanzare nulla, sarebbe maleducato. Non servite prodotti caseari fermentati se avete al tavolo giapponesi o cinesi; non li gradiscono e sembra che non siano digeribili per loro a causa dell'assenza di alcuni enzimi intestinali. Nell'abbigliamento, le donne evitino vestiti sgargianti e profumi intensi. Lo stesso vale nell'occidentalissimo Canada, dove il profumo infastidisce quanto una sigaretta. E, per finire, non lasciate la mancia, sarebbe un'offesa, dal momento che il lavoro per loro è una missione. Anche in Cina è molto apprezzata ogni forma di autocontrollo. Durante le presentazioni si osservano rigidamente le regole e le gerarchie, che vedono al primo posto sempre l'uomo più anziano e la persona di maggior prestigio. La cosa vale anche per la conversazione: vietato toccare argomenti delicati. Gli inviti sono rari e di norma sono intorno alle 18, perché dopo le 21 i trasporti pubblici sono scarsi. I regali sono graditi, ma devono essere estesi a ogni componente della famiglia. A tavola si aspetta sempre che sia chi invita a dare i tempi. Accanto al vino ci sarà una coppetta per il tè, mentre l'acqua non è prevista. In Israele usate i biglietti da visita, vi serviranno, ci tengono molto a ruoli e cariche. Gli anziani godono giustamente di grande rispetto e, quando entrano in una stanza, ci si alza in piedi. Nella conversazione tutto è permesso, tranne ovviamente riferimenti alla questione palestinese. Sono apprezzati i fiori e una bottiglia di vino come regali per i padroni di casa.

Pagina 149

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192048
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 1 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
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Pagina 56

Signorilità

199287
Contessa Elena Morozzo Della Rocca nata Muzzati 1 occorrenze
  • 1933
  • Lanciano
  • Giuseppe Carabba Editore
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I futuri suoceri e il fidanzato ricevano stando sull'uscio del salotto o del primo salotto; la signora abbracci la futura nuora, mentre il marito e il figliolo di lei le bacino la mano. Poi la signora la presenti agli invitati, mentre il marito e il figliolo presenteranno i genitori di lei. Il contegno della sposa sia semplice, naturale, senza esagerate proteste o smancerie. Ella dica a tutti la gioia sua nell'entrare in quella famiglia, e non si dia mai delle arie, anche se proviene da un ceppo più antico o porti una grossa dote. In questi due casi, o in consimili, gli invitati mostrino d'ignorare tanti dessous di tanti matrimoni. E così non succederà come successe alle nozze di una signorina nobile con un milionario, rappresentante una grande industria automobilistica, quando, a un tale che diceva sprezzantemente esservi in aria un grande odore di benzina, un parente dello sposo rispose che la benzina era necessaria per levare certe macchie... della vecchia nobiltà... ... Poi la futura suocera accompagni la fidanzata e la madre di lei al buffet, e le offra di sua mano la prima coppa di Champagne; infine entrambe si mescolino ai vari gruppi, conversando cortesemente con tutti. Il fidanzato allora stia nel gruppo della sua futura, senza mai appartarsi con lei. Pel ricevimento nuziale in casa della sposa vanno le norme date per quello del fidanzamento. Torno a ripetere che val meglio uno modesto, ma in casa propria, che un suntuoso fuori di casa. Ma, certe volte, questo non è proprio possibile; allora la famiglia della sposa scelga un albergo non di genere criard, ma di genere signorile, e la madre e la sposa stessa curino la disposizione dei fiori sulla tavola da thè, thè ricco, con assortimento di liquori e di Champagne. Simpaticissimo, per chi sposa nella buona stagione e possiede una villa, è un ricevimento in giardino e un thè servito su piccole tavole, come fu offerto a Villa Torlonia dal Duce per le nozze di sua figlia Edda nell'aprile 1930. Talvolta in albergo, si vedono esposti anche i doni... ma ciò non è molto simpatico, nè pratico. I doni vanno esposti in casa propria, in un salotto o in un angolo di salotto, a seconda della loro quantità. E in quanto ai doni, viene naturale di osservare che molte cose oggi vanno commercializzandosi, con vantaggio forse della borsa, ma non certo della signorilità... Se in passato, quando il dono era una sorpresa, non era piacevole per una sposa vedersi capitare quattro ventagli eguali, non è bello oggi udirla chiedere in dono assegni di banca e solo assegni di banca... ed è volgare udirla telefonare a chi ha chiesto le sue preferenze: «Vada nel negozio tale; troverà tre oggetti che ho fatto mettere da parte. Uno costa tanto,l'altro tanto, il terzo tanto. Ma, se insiste molto, potrà aver il 10 % di sconto...»... In quanto ai doni più graditi, essi, se gli sposi non hanno ormai una casa montata, sono sempre quelli in argenteria, mobiletti, tappeti, soprammobile nello stile prescelto; e anche, se gli sposi non sono ricchi sfondati, quelli consistenti in valigie di lusso, valigiette-nécessaire, pelliccerie, scialli, servizi di Murano da tavola ecc. Se lo sposo è nobile o titolato, l'argenteria sia marcata colla corona; non così, se lo è la sposa. E in quanto alla cifra con cui sarà marcata la biancheria da casa e l'argenteria che la sposa porta con sè, per amor di Dio, che sia quella del marito!... Una ragazza che abbia un'ombra di delicatezza, non vorrà infliggere, vita natural durante, al marito, la mortificazione di vedere che, a tavola, nulla è proprietà di lui. La famiglia della sposa metta, magari, un articolo del contratto comprovante la provenienza di tovaglie o posate, per ogni eventualità della vita, ma lasci che il padrone di casa almeno figuri padrone della roba di casa!... La Principessa Mary d'Inghilterra dimostrò la sua alta signorilità e intelligenza, volendo, che sulla meravigliosa argenteria e sui gioielli che ebbe in dono, non figurasse più la corona reale, ma quella del visconte di Lascelles.

Pagina 384

Come presentarmi in società

199930
Erminia Vescovi 4 occorrenze
  • 1954
  • Brescia
  • Vannini
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Una forma più espansiva di accoglienza sono gli abbracci e i baci. Ma vanno lasciati solo al caso in cui due persone che sinceramente si amano, si rivedono dopo una lunga assenza. Tali espansioni sono però più comuni fra le donne che tra gli uomini, e ve ne sono talune che veramente ne fanno abuso. Ora, il dare e ricevere abbracci da chi non ci è particolarmente caro è cosa assai noiosa, e in quanto al bacio, ch'è l'espressione più alta dell'amore, è bene eliminarlo dalle accoglienze puramente formali. Al tempo nostro, poi, si è iniziata e ferve una lotta contro il bacio, anche per motivi igienici. I bambini belli e freschi attirano i nostri baci, si sa; ma oltre il considerare che per quelle povere creaturine è spesso un vero fastidio, e specialmente... da certe bocche!... si pensi che col bacio c'è il pericolo della trasmissione di qualche brutto germe. Ad ogni modo, il bacio si posi sulla fronte e sui riccioli morbidi, al più sulle fresche gotine, mai sulla bocca. Qualcuno suggerisce di baciar al bambino la manina grassa e morbida; e le mamme davvero non si privano di questo piacere, ma una persona estranea non farà bene a usar quest'atto che, dopo tutto, è da inferiore a superiore. Dopo la presentazione volendo intavolare il discorso, si suole usar talvolta una frase di rispetto e benevolenza, di lode o congratulazione, di augurio o anche di condoglianza secondo il caso, che si vuol chiamare complimento. Si fanno poi complimenti in molti altri casi, ai superiori dagli inferiori, alle signore dai cavalieri, e anche tra buoni amici che si rispettano nel tempo stesso che si amano. L'arte di fare un complimento non è molto facile: bisogna che sia opportuno, breve, arguto, che abbia tutta l'aria della spontaneità, anche quando è lungamente elaborato. Chi non ricorda il povero Don Abbondio, quando si stava stillando il cervello per trovare una frase adatta per l'Innominato convertito? Ebbe però il buon senso di respingere quella che gli era venuta in mente: «Me ne rallegro» perché era come dire «che essendo stato finora un demonio vi siate finalmente deciso di diventar un galantuomo come gli altri». E pensa e ripensa gli venne in mente che poteva dirgli: «Non mi sarei mai aspettato questa fortuna d'incontrarmi in una così rispettabile compagnia». Ognuno vede come il complimento non fosse corrispondente allo speciale stato d'animo in cui il poveretto si ritrovava... ma via, dopo tutto non era mal rigirato. E sia detto a sua lode che seppe risponder molto bene alle umili parole del Cardinale Federico, il quale lo pregava di dirgli se nella sua condotta trovava eventualmente qualche cosa di riprovevole: «Oh, monsignore, che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?» - Benché il briccone aggiungesse poi tra sé: «Anche troppo!». E' un fatto che il complimento sgorga facilmente dal cuore e riesce bene quando si dirige a persona che veramente lo meriti. Ma talvolta invece i meriti sono scarsi, e nel complimento si pecca di enfasi, di esagerazione, e si cade anche spesso nell'adulazione. Se proprio non è necessario, allora è meglio tacere: se il dovere impone una frase cortese, si cerchi d'esser semplici il più. possibile. Riescono poi molto spiacevoli alle persone di buon senso quelle che si profondono in vani complimenti, senza misura, senza opportunità, e come spesso accade, senza sincerità. Le donne si lodano reciprocamente il vestire, la casa, i figli, i lavori femminili; fatte con garbo, queste lodi possono andare. Ma è brutto scaraventar in faccia frasi come queste: - Lei possiede perfettamente tutte le lingue. - Lei suona stupendamente. - Lei è un grande artista... - Quando non si tratti che di poveri dilettanti e di persone appena modestamente colte. Un genere di complimento molto volgare e molto usato è quello che riguarda l'aspetto esterno della persona. «Com'è ingrassata! - Come sta bene! - Che bel colorito! - Ha la faccia proprio tonda!..» - Molto usato, come ho detto, ma tutt'altro che fine, e spesso anche tutt'altro che opportuno. C'è chi lo dice per abitudine a persona che non vede da qualche tempo, c'è chi lo dice badando solo a un momento di apparente floridezza, c'è chi lo dice sempre. E allora c'è il caso che il complimento sembri ironia, o ferisca anche più direttamente le più delicate fibre dell'anima. A una signorina che aveva perduta la madre da quindici giorni, e si trovava in visita confidenziale presso un'intima amica, toccò sentirsi dire da una conoscente sopraggiunta a caso, la testuale frase seguente: Non l'ho mai trovata così bene... Alle signore, in generale, non piace mai di sentirsi dire che sono ingrassate, ad altre invece può dispiacere che si dica il contrario. Lasciamo dunque da parte simili osservazioni o limitiamole alle strettissime conoscenze di cui sappiamo il gusto. Chi poi riceve il complimento, deve mostrare garbo e modestia nella risposta. Certe lodi si possono gentilmente respingere: è opportuno poi, spesso, ricambiare al lodatore, e sviare il discorso riportandolo su di lui. Ad ogni modo si cerchi di rispondere più brevemente che sia possibile, e soprattutto di non far in modo che la risposta sia appicco a nuove lodi. Alle congratulazioni, alle condoglianze, è bene rispondere con affettuosa semplicità, affermando la propria gratitudine e mostrando di credere alla sincerità di chi parla. Talvolta il complimento è il preludio di una domanda di qualche servizio: talora consiste anche in un'offerta... Spiace anche qui l'affettazione e l'esagerazione, e ci ritiene dall'approfittar di quell'offerta che non riputiamo sincera. Benchè si sappia però, come dice il Manzoni, che ai complimenti bisogna far la tara... Un modello perfetto di cortesia è nello scambio di complimenti che il Divin Poeta pone sulle labbra reciprocamente di Beatrice e Virgilio. Ella che ha bisogno d'un favore lo interpella così:

E veramente a leggere nell'Osservatore nei Sermoni quel che scrive egli stesso dei salotti eleganti del suo tempo, a rievocar le scene del Goldoni, in cui mostra gli abbracci e i baci che mal celano la voglia di mordere, a ricordar anche quel che scrive il Parini nel suo Giorno (per contentarsi dei più noti) bisogna proprio concludere che allora il cerimoniale veniva considerato come una moneta falsa, che tutti accettavan per buona, per reciproca necessaria convenzione. Ed egli stesso, il Gozzi, conclude più volte che è molto meglio così, anziché lasciarsi andare ai moti naturali, i quali un po' alla volta tramuterebbero questo mondo in una selva di arrabbiati, come a lui fu mostrato in una specie di visione, dove interviene alla fine madama Civiltà, con le sue donzelle Cerimonie a frenar gli uomini che si azzuffano con pietre e bastoni. L'animo è rimasto lo stesso, ma almeno la vita diventa possibile. «Non ho mai potuto rimuovere il tale dalla sua opinione, e con tutto ciò egli mi ha pure favellato con molta gentilezza; che importa a me? Io avrei voluto piuttosto che desse una negativa aperta. - E s'egli l'avesse data, non gli saresti tu forse stato attorno con mille altri stimoli? Egli se ne sarebbe adirato, e tu ancora. A questo modo, udendo così belle e buone parole, tu non hai avuto cuore di andar più oltre, anzi fosti tu medesimo forzato dalla civiltà a fargli altrettante cerimonie, ed ecco un bell'effetto, che senza punto essere d'accordo, vi siete partiti l'un dall'altro in pace tuttedue, e rivedendovi di nuovo l'un l'altro, vi traete di testa vicendevolmente il cappello, vi fate baciamani e siete quegli amici di prima, se non in sostanza, almeno in pelle...». Filosofia bonaria, spicciola e pratica, come ognuno vede: dei due mali scegliere il minore. Amare sono invece le riflessioni di Melchiorre Gioia: «Siccome è più facile fare degli inchini che dei sacrifizi, atteggiare la testa e le gambe che coltivare gli affetti dell'animo, largheggiare nelle proteste con parole vuote di sentimento che essere pronti ad eseguirle, non pochi sembrano convinti che la maschera sia un rimedio alla bruttezza, perché riesce a nasconderla alcuni istanti». E c'è nell'aria la persuasione, anche ai nostri giorni, che la finzione regni in tutte le proteste di cortesia. - Senta, - diceva una giovinetta di mia molto intima conoscenza a un suo professore, - non è forse una menzogna dir a una persona di cui non c'importa nulla: Sono contentissimo di far la sua conoscenza? - Si mente, e si fa male! Il male, - rispose il professore, il quale non era solo un valente cultore delle matematiche e delle scienze, ma anche una nobile anima sacerdotale, - il male non consiste già nel dirle, quelle parole, ma nel non sentire quello che esprimono. Poichè si dovrebbe sempre essere contenti di conoscere una creatura di Dio simile a noi... - Egli aveva risolto sapientemente la difficile questione, considerandola nel suo intimo valore morale. Bisognerebbe dunque fare che i nostri atti esterni, tutti, rispondessero a sentimenti virtuosi o, meglio, bisognerebbe aver tanta dovizia di bontà e benevolenza che tutti i nostri atti esteriori ne fossero impregnati. Ora, per essere giusti, dobbiamo riconoscere che se non sempre tutti hanno tanta nobiltà d'animo, non è vero però che gli atti di cortesia esterna siano sempre un'odiosa finzione. E non è vero nemmeno che sempre corrispondano a una convenzione reciproca, basata sull'opportunità, e a cui non si dà nessun valore intimo. No, la cortesia dei modi risponde, in generale, a moti e bisogni dell'anima umana, di natura, grazie al cielo, assai più pregevole. E' il bisogno di riuscir graditi agli altri e di guadagnarsi la loro stima, è il desiderio di far loro piacere, è l'estrinsecazione naturale di una schietta generosità, è una istintiva antipatia per tutto ciò che si presenta come vile e grossolano, è la tendenza a pareggiar in decoro di modi e in opportunità di parole coloro con cui ci troviamo in qualche relazione. E nessuno dirà che sia ignobile l'amor proprio che si manifesta così, e nemmeno che sia da biasimarsi l'imitazione che tende a livellare, almeno in questo, le classi sociali. Queste tendenze dell'animo umano sono ormai diffuse per opera della civiltà odierna in tutto il nostro ambiente, ma sono anche innate e spontanee figlie della natura. Vedete due sorelle: hanno avuto la medesima educazione e i medesimi esempi: lo stesso sangue scorre nelle loro vene, eppure l'una ha modi e linguaggio di spontanea cortesia, l'altra conserva in tutto una irriducibile impronta di volgarità. E nelle campagne, si veggon talvolta vecchierelle amabili, servizievoli, cerimoniose persino... Chi ha insegnato loro ad esser tali?... E chi invece ha formato o sformato, l'animo dei loro figli e delle loro figlie, che vediamo spesso così petulanti, indiscreti, rumorosi, intrattabili? Cerchiamo dunque in fondo all'animo umano l'istinto di far piacere altrui, anche a costo di qualche sacrificio, il ragionevole desiderio di ottenere l'altrui gradimento, e, quando l'avremo trovato, le offerte cortesi, le istintive ripugnanze ad ogni atto basso e spiacevole. Tanto che la gentilezza, considerata nel suo scopo e ne' suoi mezzi, dice benissimo Melchiorre Gioia, non differisce dalla morale fuorchè nella gradazione. E infatti, salvar la vita a un pericolante, dar del denaro a un bisognoso, sono germogli della stessa radice da cui viene che si porga un mazzo di fiori, una sigaretta, un dolce. Mentre l'aggredire e il rubare sono fratelli maggiori di quei pessimi istinti che ci spingono a dir villania, o a sciupar un libro che ci venne prestato. E come per praticar la virtù bisogna spesso far violenza a noi stessi, così il galateo ci impone spesso di far tacere le nostre inclinazioni e sacrificare i nostri gusti, se vogliamo che la nostra compagnia riesca gradita agli altri. Taluno potrà negare questa intima connessione di fatti: taluno potrà dire che mentre le persone più cerimoniose son talvolta le più malvage, invece le più rozze sono spesso quelle che hanno più buon cuore. E si citerà per esempio il famoso Burbero benefico di Carlo Goldoni. Ebbene, che cosa vuol dir questo? Rispondiamo anzitutto che casi simili, benché esistano generalmente, sono la' minoranza. E del resto non ne consegue punto che debba essere così, né che sia bene così. Molto meglio se il Burbero benefico non facesse tremar tutto il palcoscenico..., molto meglio se potremo, coll'educazione continua dell'animo nostro, metter in valore le qualità reali, e renderle attraenti agli altri. Chè cogli altri dobbiamo continuamente vivere, e spesso la società giudica l'uomo più da come si presenta, che da come egli è realmente. E in certi casi è più difficile farci perdonare una sconvenienza che un vizio. Vi sono regole di convenienza che variano col tempo, vi son quelle che non possono variare mai, perché hanno, come dicevamo, la loro base nella stessa legge morale. Cambierà la forma del saluto; si potrà star a destra o sinistra d'una persona, secondo i casi, si discuterà se la moglie deve appoggiarsi al braccio del marito o (come si fa ora da più d'uno) se il marito deve tener il braccio della moglie... ma sarà sempre villania non rivolgere il saluto, non curarsi della persona che ci cammina accanto, offendersi tra marito e moglie. Importa dunque persuadersi che la cortesia non è propriamente un cerimoniale. Vi sono anche dei casi in cui le regole precise non si possono dare; e allora?. Allora un istinto ci guida a scegliere il tratto, la parola, il gesto più opportuno, se l'animo è abitualmente gentile, o ci induce a commettere goffaggini e inurbanità se non abbiamo la norma interna del buon gusto e del ben volere. L'arte di piacere agli altri è in gran parte quella di saper esercitare un costante dominio sopra noi stessi. Ecco perché le persone impulsive hanno raramente finezza di modi, ecco perché molti trovan più comodo andar avanti come piace a loro, e dichiarano che non vogliono seccarsi... Ma, a conti fatti, che cosa risulta? La loro scortese incuranza vien ripagata dall'antipatia che generalmente destano, e dalla privazione di molti vantaggi. Al contrario, coloro che si sorvegliano costantemente, che si frenano, che sanno opportunamente tollerare e dissimulare, si guadagnano simpatia, stima, affezione, si trovano facilitato dagli altri l'aspro cammino della vita. Quando noi leggiamo nel Vangelo: «Beati i mansueti perchè possederanno la terra» noi troviamo certo un insegnamento di alto valore mistico. Ma noi vi troviamo anche una constatazione pratica di ciò che accade realmente: coloro che hanno soavità di modi sanno rendersi padroni del cuore altrui e spesso foggiare la propria fortuna. E, del resto, in quel codice supremo di verità, noi possiamo trovar anche altre conferme a quanto abbiamo detto. Non si accompagna forse alla legge severa di non portar odio e di non recar danno alla persona del nostro prossimo, anche la proibizione di dirgli raca? E non è forse prescritta la cortesia del tratto quando vengono biasimati coloro che vogliono i primi posti nelle adunanze e nei banchetti? E quando ci viene insegnato a dir semplicemente si e no, oltre che la menzogna, non viene sbandita anche l'enfasi antipatica, la scortese diffidenza? E non ci viene imposto di mostrar un volto sorridente e aperto, anche quando ci siamo imposti qualche privazione, mentre gli ipocriti, senza curarsi di rattristar gli altri, vanno attorno con viso ostentatamente malinconico? Quando il Fariseo volle criticar la donna che aveva versato il balsamo odoroso sui piedi del Salvatore, egli si sentì da questo un tranquillo rimprovero perché nel riceverlo aveva trascurato con lui gli atti di urbanità in uso presso il loro popolo. Ma tutto si riduce, in fine, al gran precetto: Fate agli altri quello che vorreste fosse fatto a voi stessi - non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi. - Su questa salda base si può edificare l'edificio intero del Galateo. E anche, per prevenire ogni pericolo di finzione, bisogna tener presente l'altro precetto: «dell'abbondanza del cuore parla la bocca». Di qui la necessità di educare l'animo a sentimenti gentili: di qui la cura che devono avere i genitori per cominciar presto coi loro figlioli. La padronanza di sè, lo spirito di sacrificio necessario tante volte nelle relazioni sociali, non si improvvisano. E può darsi talvolta che un generoso impulso dell'animo spinga ad atti eroici, in qualche occasione straordinaria, ma è difficile che l'autoeducazione giunga a tempo con cambiar il carattere d'un uomo che da piccolo non venne ben formato. D'altra parte riflettiamo che se l'eroismo e la generosità non sono sempre alla portata di tutti, la gentilezza, invece, la cortesia, la discrezione sono le necessità quotidiane della vita sociale. L'opportunità e finezza del tratto suppliscono spesso alla mancanza d'istruzione, dissimulano molti difetti, rendono più amabili le stesse virtù, come la grazia dà pregio alla bellezza; mentre la bellezza dura, fredda, sgarbata non ha potere sugli uomini. «Se tutti gli uomini conoscessero il loro interesse sarebbero tutti onesti» disse Spencer. E si può anche aggiungere: sarebbero sempre reciprocamente gentili. I genitori che insegnano per tempo ai loro figli questa grande arte della gentilezza, che la fanno diventar parte intrinseca del loro carattere, fanno loro uno dei doni più preziosi, poiché danno loro la possibilità di farsi degli amici dappertutto, e di vincere senz'urti molte delle grandi lotte della vita. E l'amico che dà a questo proposito un buon consiglio all'amico, merita tutta la sua riconoscenza; appunto come quel tal vescovo Matteo Gilberti di Verona, il quale mandò un dono prezioso al suo ospite, un certo conte Riccardo, con l'avvertimento che fra tutti i suoi modi così belli e costumati, disdiceva «un atto difforme colle labbra e colla bocca, masticando alla mensa con uno strepito molto spiacevole a udire». E il bravo conte, invece d'aversene a male, ringraziò il vescovo con tutta l'effusione per quel suo dono che tenne vera prova d'amicizia. Così ci racconta Monsignor Della Casa, il quale dice che l'ambasciatore scelto all'ufficio un po' difficile e delicato, era appunto quel tal Galateo che lo indusse a scrivere il fámoso trattato che porta tal nome. Cerchiamo dunque di far tutto quello che ragionevolmente può far piacere agli altri e ricordiamoci che la gentilezza è il fiore dell'umanità, e nel tempo stesso il profumo della virtù.

Se vi è qualche sua coetanea, il saluto può essere più espansivo; non sono però consigliabili i baci e gli abbracci davanti ad altra gente. E' naturale che la conversazione sarà più animata tra signorine, ma non è lecito far gruppo a sè, e dimenticar quasi le altre visitatrici. La signorina bene educata sa mescolarsi ogni tanto nella conversazione generale, sempre con qualche frase gentile, e senza mai permettersi (Dio guardi!) osservazioni maligne e inopportune, tratti di spirito di cattivo gusto. Se viene offerto il thè il caffè, tocca a lei far girare le tazze, porger lo zucchero, la panna, i biscotti. Ella poi accompagnerà le visitatrici alla soglia del salotto, e, in mancanza di persone di servizio, aprirà loro la porta, badando bene di non rinchiuderla finchè non sente che sono scese di qualche scala. Nei trattenimenti di maggior importanza, la fanciulla ha una parte assai notevole. Tocca a lei preparar con buon gusto i fiori nei vasi, i dolci e i biscotti nelle coppe, tocca a lei sorvegliare il servizio dei domestici nel giro dei rinfreschi, o sostituirlo addirittura. Per questi ricevimenti, indosserà un vestito chiaro ed elegante, ma non mai troppo sfarzoso, per non aver l'aria di sopraffare le sue ospiti. Se c'è un po' di ballo in confidenza, la signorina suol aprirlo con qualche giovanotto intimo di casa; ma se vedesse scarsezza di cavalieri, dopo di questo, saprà rinunziare con bel garbo, ed esortare invece gli amici del fratello a invitar le signorine, presentandoli all'occorrenza. A tavola, se ci sono invitati, terrà d'occhio che non manchi nulla a nessuno, e rivolgerà specialmente ai bambini o a fanciulli timidi le sue gentili premure. S'intende poi che la preparazione della mensa, con tutte le eleganze permesse dalla condizione della famiglia, suol essere opera delle brave fanciulle di casa. E spesso è opera loro anche qualche pietanza speciale, qualche dolce; del quale però si guarderanno bene d'annunziare: - L'ho fatto io! - Tocca ai genitori, se sono in confidenza, procurar loro questa piccola soddisfazione d'amor proprio. Se vi sono ospiti in casa per qualche giorno, la giovanetta si unisce alla mamma per preparare tutto il necessario nelle loro camere, e nel far passare più gradevolmente che sia possibile il tempo in cui si tratterranno. Naturalmente, si compiacerà di più nella compagnia delle sue coetanee, ma sapendosi sacrificare all'occorrenza anche per qualche signora anziana, o per qualche vecchio un po' fastidioso. Le signorine generalmente non fanno visite da sole, e da sole non ne ricevono, quando si tratta di visite di etichetta, mentre scambiano le normali visite di amicizia, secondo le convenienze, e prendono normalmente parte a riunioni, sia fra loro che con amici. Talvolta queste riunioni hanno uno scopo benefico. E benedetta pure quella carità che prende nuova attrattiva dalla grazia femminile. Ma attente alla beneficenza che prende l'aspetto di un divertimento, e diventa una esposizione di novità! Meglio non far le cose buone che profanarle e snaturarle. La signorina che esce colla mamma le cede sempre la destra e così fa coll'istitutrice. Naturalmente se esce col babbo o coi fratelli, la destra è sua. In altri tempi, una signorina non doveva mostrarsi mai per la strada con uomini che non fossero suo padre o suoi parenti. Al giorno d'oggi questa regola è più che superata; una giovane farà però bene, nell'accompagnarsi a giovanotti, a tener conto dei possibili pettegolezzi ed a non esporvisi troppo. Solamente se fosse un vecchio rispettabile o persona molto a lei superiore che la trattenesse, potrà farlo liberamente. Un ultimo avvertimento. Per quanto alla sua età sia lecito amare il divertimento, e se le condizioni della sua famiglia lo permettono, si guardi bene dall'intervenire a ogni spettacolo, a ogni ballo, a ogni trattenimento. Di una fanciulla che si vede dappertutto, si suppone ch'ella voglia mettersi troppo in mostra, e questa opinione sfavorevole si traduce spesso (chi lo crederebbe? non certo le signorine che in tal modo pensano appunto a trovar più felicemente marito) si traduce, dico, nel far cadere le intenzioni matrimoniali in qualche giovane di buona volontà.

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La strada non è il luogo delle espansioni esagerate: abbracci e baci in pubblico sono sconvenienti e qualche volta un po' ridicoli. Incontrando un amico che da molto tempo non si rivedeva, e la cui presenza improvvisa ci reca una gran gioia, si cerchi tuttavia di non dare spettacolo al pubblico: basta una viva esclamazione, una calorosa stretta della mano o anche di ambedue le mani, e si serbi il resto (lo dico specialmente alle donne che sentono assai più il bisogno di baciarsi e di stringersi) a luogo più opportuno. E non si facciano lunghe fermate per via: talvolta ciò disturba il conoscente, a cui pretendiamo invece, in tal modo, di mostrar affetto e premura, e disturbano gli altri passanti, specialmente se queste fermate si fanno lungo i marciapiedi e sulle cantonate. Camminando in più persone, bisogna aver riguardo alla reciproca dignità. Se sono in due, il posto d'onore è a destra o lungo il marciapiede. Se sono in tre, il più degno starà nel mezzo; a destra verrà chi gli viene appresso per grado o età, a sinistra l'altro. Se la brigata fosse di quattro o più favoriranno dividersi per non ingombrare tutto il marciapiede. Dovendo attraversare un passaggio stretto, è ovvio che si lasci prima passare il superiore; ma se fosse un passo un po' pericoloso o difficile, come può accadere in campagna, il più giovane preceda l'altro per esser pronto a porgergli la mano. Discorrendo coi nostri compagni di passaggio, si abbia cura di non alzar soverchiamente la voce, di non rider troppo, di non far cenno che sembri offesa o scherno a chi si trova sul nostro cammino. E' poi molto scortese, come già si è detto, fermarsi, nell'enfasi del discorso, sul marciapiede e costringer così anche gli altri a fermarsi. E' un perditempo e poi un intoppo alla circolazione. La persona bene educata tiene, o sola o accompagnata che sia, un contegno serio e riservato; una donna poi peccherebbe troppo gravemente d'imprudenza se si allontanasse dalle norme più severe. Essa in tal modo incoraggerebbe i bellimbusti e gli avventurieri, i quali non mancano mai, specialmente nelle grandi citta. Ma può capitare anche alla fanciulla più riservata, alla signora più rispettabile d'aver a fare qualche volta con un mascalzone (altro titolo non merita) che si ponga a darle molestia. Se il contegno più austero, se il silenzio più sprezzante non bastano a scoraggiare colui, la donna seria e prudente non si abbassi a rimproveri nè a minacce; faccia cenno al primo vigile che le capita, e gli affidi l'incarico di dare al malcreato la debita lezione. E' il mezzo più semplice e il più conveniente. Davanti agli avvisi, alle vetrine, alle curiosità d'altro genere, non si facciano lunghe fermate, il che è indizio di curiosità eccessiva e di poco riguardo agli altri. Se poi è uno spettacolo sconcio, come una lite, un ubriaco, o altro, si ricordi il severo rimprovero che si buscò Dante dal suo maestro Virgilio e Maestro Adamo. E il povero Dante ne rimase così umiliato, così vergognoso, che non sapeva nemmeno trovar parole per scusarsi: tanto che il buon maestro ebbe compassione di lui e, concedendogli tosto il suo perdono, gli aggiunse un prezioso consiglio che fa anche per noi e per tutti:

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Come si fa e come non si fa. Manuale moderno di galateo

201065
Simonetta Malaspina 1 occorrenze
  • 1970
  • Milano
  • Giovanni de Vecchio Editore
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E parlate a voce bassa, senza manifestare la gioia dell'incontro con gridolini, abbracci e baci. Il senso della misura non guasta mai. I bambini devono imparare a salutare le persone adulte e anche i coetanei: con gentilezza, senza mai porgere per prima la mano ma limitandosi a dire "buongiorno" e a inchinare leggermente la testa in segno di rispetto. In alcuni casi, però, salutare sarebbe molto indelicato. Se vedete un amico in una situazione un po' imbarazzante (per esempio in compagnia di una donna che non è sua moglie e in un atteggiamento un po' compromettente) non andategli incontro con la mano tesa: fate finta di non averlo visto, lasciandogli il beneficio del dubbio. Non salutate con la mano inguantata, soprattutto se vi trovate in un luogo chiuso. Questa regola dovete rispettarla soltanto quando togliere il guanto non vi obbliga a buffe acrobazie o a far aspettare l'altra persona con la mano tesa. È sempre una donna che tende la mano all'uomo: ma oggi si è diventati meno intransigenti e si tende ad agire contemporaneamente. Le mani non devono incrociarsi, se siete in quattro; c'è qualcuno superstizioso. Dalla superstizione, comunque, è nata una regola di galateo che è bene rispettare. Si saluta tendendo la mano con cordialità e in questo gesto la mano non deve essere né rigida né troppo rilassata. Una stretta di mano, insomma, non deve essere troppo energica ma nemmeno troppo fiacca: stringere certe mani che si abbandonano nell'altra come se fossero prive di vita fa quasi impressione. Ma neanche stringete la mano con troppa violenza, quasi voleste stritolarla. Non scuotete la mano altrui. Non tenetela troppo a lungo nella vostra. Non lasciatela cadere di colpo come se vi scottasse tra le dita. Non tendete la mano sinistra. Non dimenticate di stringere prontamente la mano che vi viene tesa: lasciare una persona con la mano inutilmente tesa significa metterla in imbarazzo, anche se non l'avete fatto apposta. La mano va tesa intera: e questo vuol dire che non si tende pigramente un dito, quasi con aria di degnazione. Gli errori in un semplice gesto come il saluto sono tantissimi. Basta che vi guardiate intorno per accorgervi dei peccati altrui e forse anche dei vostri. Osservate quel signore che saluta con la sigaretta in bocca, quell'altro che non toglie la sinistra dalla tasca dei pantaloni, quell'altro ancora che tiene il cappello ben calcato sulla testa. Per non calcolare, poi, gli esempi di cattiva educazione (i saluti gridati a distanza, i "ciao" mormorati con la bocca piena, i frizzi idioti, e così via). Se siete affacciato alla finestra non mettetevi a urlare per salutare un amico che sta passando per la strada. Non date pacche sulla schiena. Il saluto deve essere esplicito. Molte persone hanno il vezzo di salutare con un lieve sorriso, anzi una piccola inclinazione delle labbra che potrebbe anche essere una smorfia. Il "buongiorno" a voce alta si usa ancora. Non è passato di moda, anche se certe persone che si credono snob decidono da un giorno all'altro di licenziare come "superate" certe vecchissime regole di buona educazione. Non salutate con "ciao" o "salve" una persona con la quale non siete in rapporti di amicizia confidenziale o che comunque, per età o altre ragioni, merita rispetto. E se vi trovate in un salotto, non rivolgetevi a tutti con esclamazioni sciocche come "tesoro!" "amore mio!" "carissimo!" "carissima!". Se salutate una persona, quando siete in compagnia di un'altra, e il saluto precede lo scambio di qualche parola, a necessario fare le presentazioni. Se viceversa il saluto consiste in un semplice "buongiorno", non è assolutamente necessario informare la persona con la quale si è in compagnia sul conto di quello che si è appena salutato.

Galateo della borghesia

201708
Emilia Nevers 2 occorrenze
  • 1883
  • Torino
  • presso l'Ufficio del Giornale delle donne
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Poi la cosa finiva con baci ed abbracci e singhiozzi sinceri da tutte le parti... e gli sposi andavavo a casa loro. Oggi invece le nozze si celebrano in diverso modo. Secondo l'uso più moderno, o, se volete, l'uso recentissimo, vi sono poche feste. Chi ha una villa e si sposa in mesi a ciò adatti, preferisce celebrar le nozze colà.Naturalmente allora gli inviti sono ristretti, le nozze si celebrano prima al Municipio del villaggio, poi nella propria cappella (o nella chiesa parrocchiale). Si dà una colazione ai pochi invitati dopo la quale sposi ed ospiti partono. Ora il genere più chic non è di fare un viaggio. I gran signori, e quelli che vogliono imitarli, si ritirano in una loro villa qualunque, oppure in qualche casina solitaria e passano colà, a loro scelta, uno o due mesi di luna di miele. Non posso dire che questa idea mi spiaccia. Ma a chi ha pochi mezzi ed è trattenuto solitamente in città dalle proprie occupazioni, consiglio di preferire il viaggio che a quell'epoca potrà fare, mentre più tardi le cure di famiglia o gli affari glielo vieterebbero. Comunque, segnalo l'uso, perchè chi non vuole viaggiare capisca che può con tutt'onore esimersene. In città, la fashion preferisce recarsi al Municipio di sera; celebrate le nozze civili, la sposa torna a casa e si ricevono gli amici. Alla mattina, lo sposo viene a prendere la sposa per andare in chiesa, poi, dopo una colazione, a cui non assistono che i parenti ed i testimoni, la giovine coppia parte pel viaggio nuziale. Due o tre giorni prima delle nozze, certuni danno un gran pranzo. Per lo più il contratto si firma in famiglia con piccola riunione di intimi. Nei giorni che precedono le nozze, la sposa va a prender congedo dalle amiche che le rendono subito la visita, se intime. I regali, nonchè il corredo, vengono esposti in apposita stanza, e tutti quelli che vengono, possono vederlo; non si toglie che dopo le nozze. Al Municipio la sposa porta un vestito di raso o damasco di tinta chiara, sì che serva per la susseguente veglia, ma metterà il cappello, un cappellino di fantasia, tutto fiori; sceglierà di preferenza il rosa o l'azzurro; le signore di famiglia, che sole avranno accesso al recinto speciale, chiuso da sbarra che isola gli sposi ed il magistrato dalla folla cui è lecito penetrare nel salone del Municipio, metteranno anch'esse toletta da veglia e cappellino; recheranno in mano un gran mazzo di fiori. Ai parenti la famiglia manda le carrozze del Municipio. La veglia non si protrarrà oltre alla mezzanotte, non vi vi si farà musica; il trattamento sarà quello solito: acque gelate, sorbetti, the, punch, paste, confetti. Per la chiesa, il vestito sarà quello consueto: tutto \ bianco, con velo e corona di fiori d'arancio; lo sposo sarà in marsina, o, per parlare italianamente, in giubba a coda di rondine. Tornando dalla chiesa per la colazione, la sposa metterà il vestito da viaggio. Dopo il matrimonio, si spediscono gli avvisi, concepiti come segue: Mario e Rosa Veri hanno l'onore di annunziare alla S. V. il matrimonio di loro figlio PAOLO con la signorina ANGELA MONTI, seguìto a Padova il 20 aprile 1880. Luigi e Pierina Monti hanno l'onore di annunziare alla S. V. il matrimonio della loro figlia ANGELA col signor PAOLO VERI, avvenuto a Padova il 20 aprile 1880. Agli amici si spedisce poi, non più una scatola di confetti, ma un sacchettino di raso bianco, rosa o ceruleo, con suvvi, a scelta, il nome di battesimo della sposa in oro, oppure il nome ricamato con intorno una ghirlandina. Al ritorno, e quando la loro casa è in ordine, gli sposi vanno a visitare quelle persone con cui vogliono rimaner in relazione. In parecchie città d'Italia, è uso che gli sposi al ritorno siano visitati da tutti i conoscenti della loro famiglia; se accettano la relazione, restituiscono la visita, altrimenti, mandano soltanto il loro biglietto. Però l'uso di non aspettar la visita degli sposi è contraria alle norme del galateo ed all'uso di Francia. In Francia, il matrimonio in chiesa si fa con più pompa che quello al Municipio. Se c'è ballo, alla sera del contratto, la sposa balla prima col fidanzato, poi col notaio. Per le nozze in chiesa, lo sposo viene a prender la sposa e le reca un mazzo di fiori bianchi. In sagrestia, nel ricever la penna per firmare dopo di lei sul registro, le dice: Merci, madame. Dopo il matrimonio, spesso si fa la questua in chiesa. Chiamano in Francia la signorina, amica o parente che accompagna la sposa, demoiselle d'honneur, ed il giovane, che è con lo sposo, garçon de noce. Dev'esser un celibatario. Per la questua si sceglie la demoiselle ed il garçon de noce. Il padre della sposa, o chi ne fa le veci, le dà la mano per condurla all'altare. Poi vengono, lo sposo con la propria madre, la madre della sposa col padre dello sposo, la demoiselle ed il garçon de noce, i testimoni coi parenti. I congiunti ed amici dello sposo si collocano a destra dell' altare, quelli della sposa a sinistra. La sposa deve camminar raccolta e non guardar intorno, però deve anche frenar la sua commozione se fosse eccessiva, essendo poco lusinghiero pello sposo una signorina che singhiozzi e sembri trascinata all'altare. La sposa si toglie il guanto per ricever l'anello. Gli sposi si recano poi in sagrestia, e colà gli amici ed in genere tutti gli invitati vanno a salutarli. Se sono amici dello sposo, questi li presenta alla moglie: se della sposa, sono i genitori di questa che fanno la presentazione. Ben inteso che non è luogo di lunghi complimenti: una stretta di mano, un augurio, ecco tutto. Nell'uscire, la sposa dà il braccio al marito. Una volta essa saliva in carrozza colla suocera e qualche parente, ora invece va nella stessa carrozza del marito. Alla veglia per le nozze si invita, secondo l'importanza che si vuol dare alla festa, tutti i conoscenti proprii e dello sposo o soltanto gli amici, oppure solo le amiche della sposa e le due famiglie. Vi si aggiungono sempre certe persone considerate come intime, come i professori o le maestre della signorina, il medico di casa. Bisogna evitar più che possibile le esclusioni che potessero offendere e dar luogo a rancori. Nessun parente, per quanto povero e vecchio e difforme, va lasciato da parte. Tocca a lui stesso a rifiutare l'invito se, per gli anni e gli acciacchi, gli pesa uscir di casa e trovarsi in società. Non si dica mai per scusa del non aver invitato un amico o congiunto: Sapevo che quella persona non poteva venire..., temevo di imporle una seccatura, ecc., ecc. Un invito è una cortesia: e la persona che lo riceve ne è sempre lusingata. Tocca a lei il decidere se verrà o no. In caso di nozze si faccia l'invito anche ai lontani. Sul contegno della sposa dopo il ritorno vi sarebbe molto da dire. Nulla, per esempio, è più brutto che il veder una sposina che sembra inebbriata della sua emancipazione ed invece di ricordare i doveri del nuovo stato, non si mostra felice che di potersi esimere dagli antichi, esce sola per metà del giorno, compera gingilli senza discernimento, legge romanzi poco morali, corre ai teatri ed alle veglie, ricercando l'occasione di farsi vedere ed osservare, risponde con leggerezza ai discorsi leggeri dei giovanotti, ed insomma, per farla breve, si presenta sulla scena della società come una stordita, una vanerella, una testa vuota. Quella sposina non si curerà della casa, ed il povero marito non troverà mai il desinare pronto, nè cotto a punto, perchè - s'abbiano pur cuochi e maggiordomi - nulla vale l'occhio della padrona; quella sposina sprecherà e sciuperà in un momento, o lascierà rubare tutte le belle cose avute pel matrimonio; non saprà crearsi un nido, insomma, e senz'avvedersene, perderà l'amore del marito e la pace. Poichè, se l'amore tra fidanzati si nutre di chiari di luna e profumi e sospiri, l'amore coniugale esige alimento più solido; ci vogliono per esso delle cure pazienti, dei riguardi delicati: la sposa deve da ideale diventar realtà, da dea diventar moglie, senza perdere per ciò il proprio fascino - anzi, nella trasmutazione, deve saper acquistar nuovi diritti all'affetto dello sposo - meritarsi la sua stima e come l'ha ammaliato per mezzo degli occhi, ammaliarlo poi per mezzo del cuore. Le sposine dovrebbero tutte leggere e meditare quell' episodio del libro di Dickens, David Copperfield, in cui l'autore, trascrivendo una pagina della sua vita, dipinse Dora, la moglie-bimba, che ama, ma presso cui non trova nè appoggio, nè pace - la moglie-bimba, che non è una compagna. Ma se è un errore la trascuratezza, va biasimata anche la prosopopea, il rifiutare ogni consiglio, il volersi emancipare affatto dalla tutela affettuosa dei genitori e degli suoceri; l'aussumere un far d'importanza ed il trascurar come troppo modesti gli antichi conoscenti della casa paterna. La sposina dovrà mostrare deferenza ed amorevolezza alla suocera, la quale, dal canto suo, avrebbe gran torto se censurasse con acrimonia o malignità la sua inesperienza. Pur troppo, questo torto non è raro! Vi ha una specie di gelosia materna, la quale spinge spesso la suocera a trovar mal fatto ciò che la nuora ha stabilito ed a metter in evidenza la superiorità del suo criterio. Spesse volte l'avvenire di una famiglia dipende dai primi mesi del matrimonio; la sposina deve assolutamente in faccia ai nuovi parenti ed alla società condursi in modo da meritar lode, tener conto dell'opinione che è spesso ingiusta, ma che una volta che ha pronunziato il suo verdetto, ben difficilmente lo ritratta. Vi sono donne che a quarant'anni scontano ancora le conseguenze della loro leggerezza giovanile.

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Baciamani ed abbracci sono poco in uso ormai, grazie all'ottima moda inglese della stretta di mano: shake-hand. Taluni si lagnano che si stringa la mano a tutti troppo alla leggera. Eh! Dio buono! Non era peggio forse baciar la mano alla leggera, o, fra signore, buttarsi ogni momento le braccia al collo? Ora il baciamano non lo usano più i signori in Italia (in Germania, sì); poco gli inferiori. in Germania, a cominciar quasi dalla stazione della ferrovia è un seguito di baciamani da far disperare; a momenti ve la baciano i fattorini! salvo ad ingiuriarvi un momento dopo se giudicano la mancia scarsa. Le signore abbraccieranno i parenti ed intimi partendo o tornando da viaggio, i bimbi sera e mattina, qualche antica prediletta, ma non tutte le visitatrici e men che meno lo persone non intime. Ricordo, poco tempo fa, essermi trovata chiusa nel tenero amplesso di una signora che conoscevo sì poco, che tra per la rarità dei nostri incontri ed il mio esser poco fisionomista, rimasi immobile ed allarmata sotto la pioggia dei suoi baci senza profferir parola. I bimbi altrui vanno abbracciati con moderazione. A molte mamme spiace che i loro freschi bebés vengano troppo bacciucati e non hanno torto. Baciare i cani, i gatti, i pappagalli, è cosa di cui non parlo; esce, secondo me, dall'ordine naturale delle cose e temo che la ripugnanza mi renda troppo severa contro le numerose signore cani e gatto-file, che se ne compiacciono, per cui mi contento di dire... che in nessun galateo si parla di quest'uso, ma che prego tutti quelli che si appassionano per gli animali, di reprimer la loro passione quando hanno visitatori che temono i cani, odiano i gatti e davanti ai pappagalli ripetono la facezia di quel tale che udiva un flauto: - Che cos'havvi di più insopportabile di un flauto? Due flauti! - Che di più importuno di un pappagallo? Due pappagalli! Le limosine vanno date senza ostentazione, e non in modo da umiliare chi le riceve. Vanno date eziandio con discernimento, in modo da giovare al povero e da studiarne l'indole; se biancheria, roba usata, pane e lavoro vengono accettati con gratitudine, siete in diritto di supporre d'aver a che fare con buona gente; ma se i poveri insistessero, con pretesti, per avere denaro, potete essere quasi certi che si tratta di viziosi o di oziosi. In generale, chiedere degli oggetti a prestito è poca discrezione: però, per musica e libri è lecito. Ma non bisogna trattenerli a lungo, e se per caso si sciupano o si macchiano non valgono le scuse: convien farli rilegare o surrogarli con altro esemplare. Chi poi chiede dei vestiti o dei cappellini per campione, veda di non sgualcirli, di non comprometterne la freschezza e di non copiarli troppo fedelmente. Rifiutare un oggetto che si domandi a prestito è scortesissimo: se anche dà un po' di noia il privarsene, è mestieri nasconderlo e concedere la cosa domandata. Però una signora che chiedesse un oggetto di vestiario, appena comperato, costoso e di genere nuovo e bizzarro, farebbe una vera sconvenienza. *** Vi sono in società due manie opposte da cui bisogna guardarsi e che ci nuocciono molto tutte e due nell'opinione. L'una è la mania del così detto chic. L'altra la mania del così detto sans-façon.. Quelli che sono afflitti dalla prima di queste manie fanno sul perenne studio per non offender il decoro.... e temono sempre di averlo offeso, mentre, per quel ticchio, offendono perpetuamente la creanza. In istrada camminano impettiti, evitano gli amici o parenti meno agiati di loro, e se uno di questi li ferma, arrossiscono, si turbano e si credono perduti nell'opinione degli altri caporioni del chic. Non vanno in omnibus, nè in tramway; a teatro non vogliono che palchetti; non si servono che dai primi fornitori; non vogliono frequentare che duchi, marchesi, milionari e gente celebre; amici della ventura, trovano tutti quelli che non appartengono a quelle categorie altrettanti zeri; immaginate un po' che zero sarebbe stato per loro Colombo quando parlava dell'America, Galileo quando, a dispetto dei pezzi grossi, si ostinava a dire che la terra si muove! Sono i fautori del successo, gli ammiratori dei bei pastrani, delle vesti di velluto e dei guanti nuovi. Non conoscono che una legge, il chic; un ideale, il blasone; un nume, il denaro... I protagonisti del sans-façon però, se moralmente valgono meglio, in realtà vi affliggono anche di più: Se - sudici, senza guanti, con le unghie in lutto - incontrano un amico, gli si appiccicano, dandogli del tu, sbraitando; richiamati all'ordine, affermano di non avere aristocrazia, confondendo così l'amor dei pettini e del sapone con la superbia e la creanza con l'ostentazione, e tirano via; a volte invitano l'amico a desinare alla buona, sans-façon. Se il malcapitato accetta, sta fresco! Piove in una stanza disordinata, dove tra una nidiata di bimbi, che, sudici come il babbo, si trascinano carponi, appaiono una sguattera, immusonita ed una padrona di casa arruffata, che lancia occhiate fulminee al marito. Il desinare è pessimo: minestra lunga, lesso affumicato, arrosto in miniatura; la serva butta la roba in tavola alla rinfusa, accompagnando il servizio col ciac-ciac delle ciabatte, i bimbi (nessun lusso! grida l'ottimo babbo sans-façon) i bimbi tuffano nei piatti delle mani da spazzacamino, dei nasini... umidi, oppure, se piccini, fanno delle scorrerie sulla tavola stessa; la mamma, stizzita perchè l'intruso la vede senza il vestito della festa, non smette il broncio; l'intruso... sventuratissimo, non può mangiare, un po' perchè il sans-façon in tavola non gli va, un poco per le invasioni dei bimbi: soltanto il signor sans-façon è contentone. A teatro, sans-façon ciarla e schiamazza sì da farsi zittir dalla platea. Al caffè grida, conta i fatti suoi, interpella tutti quanti senza conoscerli, strapazza i camerieri: in visita dice alle ragazze dei complimenti veristi... che fanno arrossire e stizzire le mamme, ed alle mamme invece dice delle verità... d'ogni specie, evoca date, calcola quanti anni ponno avere, e le fa diventare verdi di bile dopo averle fatte diventar rosse. Ma il suo trionfo è l'invitarsi in casa d'altri, il piombare ospite... di chi non lo vuole, criticando tutto, dando su tutto il suo parere: il suo trionfo è il perseguitare chi desidera stare quieto, mettersi a tu per tu con persone ragguardevoli, l'immischiarsi in ogni discorso, sempre col suo famoso: - non ho aristocrazia, io! non fo complimenti! - sulle labbra. Nulla lo frena, nulla lo umilia. Ai militari parla di strategia, dando senz'altro dell'asino ai generali; ai diplomatici di politica, dando del babbeo ai ministri; alle signore per bene, di ballerine o di celebrità del demi-monde. Se gli si affida una notizia che deve rimaner segreta la dice in piazza. Insomma, se i falsi chic fanno ridere la gente intelligente e superiore, i sans-façon fanno piangere tutti.

Pagina 160

Eva Regina

203159
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
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Sia riservata nel contegno e procuri che lo sposo la secondi, giacchè nulla di più antipatico, di più ridicolo, di pii banale, dello spettacolo che spesse volte gli sposi in viaggio di nozze dànno di sè agli altri coi baci, gli abbracci, le carezze e non di rado le sguaiataggini. Ma sia tenera, serena e dolce: sopratutto dimostri al suo compagno una grande fiducia, per il presente e per l'avvenire: non gli sia d' impiccio nel viaggio, ma lo aiuti dove può; dimostri subito la gentilezza del suo animo femminile con quelle piccole premure, quelle piccole avvedutezze in cui le donne — quando vogliono— sono maestre. Non è già più una signorina da essere guidata e protetta: è una signora, è la compagna d' un uomo : ed ella dovrà subito dimostrargli che divide la sua esistenza, i suoi gusti, i suoi desideri, anche nelle più lievi occasioni della vita pratica, la vita in due che s'inizia appena.

Pagina 63

Lo stralisco

208639
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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In ciò, oltre al chiaro servizio che forniva a sé e alle voglie di coloro, forse uno piú grande ne fece, seguendo quella sua idea suggestiva, alle infinite coppie degli amanti defunti, che divenuti spirito volano eternamente, tentando abbracci e amplessi, e non avendo corpi e figura non li possono fare, e si dolgono molto: e in quei disegni segreti, in quelle scene furtive, potevano finalmente, come al bel tempo della vita, tornare in lizza col loro desiderio. Ma è tempo di avviarsi a narrare la storia, senza la quale il racconto non sarebbe cominciato: qui la parola, in confronto a prima, fornirà necessari dettagli, scendendo lo sguardo, per così dire, dalle altezze dell'aquila a quella dell'oca, del rondinotto, o magari, in ordine al canto, dell'usignolo. Lo stile, pur restando leggero, si terrà lontano dal frivolo, poiché a storia piena e compiuta di cose umane meglio s'addice affettuosa e prudente allegria che spreco di lazzo.

Pagina 152

Su molte cose, in verità, il pio uomo doveva allora chiudere gli occhi, o faticare per trovarne il valore, o praticare pazienza, giacché non mancavano a Prato, come in nessun luogo del mondo per chi le vada cercando, donne da guardare e da desiderare, e a cui lanciare con gli occhi complimenti ed elogi, domande infocate, giuramenti di desiderio, promesse di piacere: e non mancavano quelle che, per scarso calore della vita o di chi la doveva loro scaldare, a tali sguardi esitavan poco a rispondere, incendiate: e da sguardi a messaggi, a incontri, ad abbracci, con Filippo si disponevano a correre, per qualche tratto almeno, la bella via della passione: e poiché quella via assai di rado passava vicina ai luoghi delle pitture, con lento piede avanzavano pale ed affreschi, e lunghe ore di preghiere e di attesa toccavano a Diamante, incerto e pauroso a proseguire da solo i santi e gli angeli che Filippo trascurava. E poiché le cose del piacere restan segrete e protette meglio finché il piacere dura, accadde presto che in Prato si sapesse e dicesse delle gran gioie e corse del frate: e pure se la notizia non nasceva da favorevoli labbra, né si riferiva a cose commendabili, per la misteriosa natura della fama per niente nuoceva, anzi qualcosa aggiungeva al nome del nostro pittore. Né mancarono casi in cui, curiose delle diverse arti, piacenti madonne chiamarono il frate, o convinsero ignari mariti a chiamarlo, per opere previste o impreviste in casa loro: di quelle doti facendo in breve sazievole prova. Ma dall'opera del monastero, come si è detto, Filippo si teneva lontano: certo per una tenace antipatia verso l'aria conventuale, e per propensione di lui a non cacciare in boschi prossimi, quel lavoro era sempre rimandato: sempre si mandava a dire che sarebbe fatto alla fine del corrente, e poi invece si spostava oltre uno nuovo, generato per questa o quella bravura del pittore. Finché accadde che un giorno, di ritorno dalla chiesa di San Domenico, dove eran finite due tavole, andando verso il Ceppo, casa di un certo Francesco di Marco, per accordarsi su un ritratto, Filippo e Diamante furono sorpresi da un temporale di quelli che non si crederebbero se non si vedessero: quelli che si raccontano a lungo, fino ad uno peggiore: che sembrano mandati da Dio per avvertire gli uomini che il gran diluvio non è passato ma solo sospeso, e dunque siano preparati. Colpiti da quel crollo fresco del cielo in mezzo a una piazza, i due frati corsero a tonache alzate a ripararsi sotto uno sporto di bottega, largo abbastanza da proteggere il grosso, mentre vi arrivavano dalla parte opposta, cieche nell'acqua, tre monache in corsa: e ci fu un mezzo scontro, un arruffío di stoffe brune, un ridi e grida da ragazzi sotto quella tettoia. Ma poiché sembrò ai convenuti che l'acqua di fuori fosse peggio che stare lì stretti, e alle monache di non dover temere nulla da quei due servi di Cristo, ridivisi alla meglio in partibus generis, i cinque se ne restarono là sotto, mentre il cielo precipitava a scrosci sul largo selciato, e il mondo si bagnava. Un rimbombo fresco, totale, avvolgeva quella nicchia del creato: un'intimità struggente, da pulcini intanati, mescolandosi ai reciproci odori sollecitati dalla pioggia, regnava nel riparo. Tutti tacevano, senza guardare altro che il fosco sciacquar dell'aria davanti: ma il complessivo respiro, adeguato a ritmo comune, univa i corpi piú di un pieno toccamento: e certo quel contatto sentiva piú chi di corpo ancora era fatto: meno chi, almeno in parte, lo aveva perso o scordato nel passeggio dei chiostri. - Se continuerà abbastanza, - disse Filippo a voce alta per farsi sentire sopra il fruscio violento, rivolto alle teste chine delle monache, - se continuerà abbastanza, tutta quest'acqua se ne andrà per passi e caverne, e scenderà all'inferno, e lo spegnerà! Frate Diamante, alla destra di Filippo, il quale chissà come aveva nel mischio iniziale trovato posizione piú esposta alle donne, abituato alle uscite del compagno, rise in modo convenevole e discreto. Delle tre rifugiate, rise un po' quella vicina a Filippo, però tenendo la testa abbassata, come ridendo d'altro. Quella al centro si chinò a farsi riparo, oltre che del potente sgocciare, del sapore eretico che usciva di bocca al frate sconosciuto. La terza, che nella tresca d'inizio era finita, o stata spinta, piú lontana dai frati, alzò invece la testa a guardare Filippo: e lui la guardò, per nessun'altra ragione che non c'è al mondo cosa migliore da guardare che un volto di donna. Ora v'è chi crede che un uomo da donne, nel senso in cui Filippo era, di quelle senta e prenda comunque e sempre il facile e il leggero: cose degli occhi, di pelle, di polpe, di ventraia: non sappia insomma vedere e desiderare altro che corpo di piacere: il quale, per quanto bene se ne pensi e dica, è delle donne una parte soltanto. Senza discutere troppo questa opinione, diciamo che ogni cosa dipende da quanto quell'uomo sia rimasto uomo, e non divenuto solo, ormai, vogliosa bestia automatica. Filippo era pittore, un poeta d'immagini: quanto basta per mantenere mente ed anima capaci di viste e desideri alti, complessi, e anche sublimi. Persino in quelle sue opere giovanili meno destinate alla Musa che alla foia dei guardatori, pur accettando la regola triviale dei soggetti, egli l'aveva giocata con tali arguzie e qualità di figura, che se quei lavori, nati nascosti e poi chissà come dispersi, fossero ancora noti, non nutrirebbero meno degli ufficiali le sapienti chiacchiere dei critici d'arte. Dopo la premessa, il fatto: sotto quella tettoia di bottega, davanti a quel diluvio di Calvana, in quel fumo d'acqua saltante e monaci avvaporati, ciò che Filippo vide nel volto della novizia non fu cosa che potesse dimenticare né subito né mai: e lo lasciò a bocca proprio aperta, occhi fissi, respiro interrotto e cuore in capriola. Piú che la sola bellezza, straordinaria davvero, non avendo lei alzato lo sguardo per vedere che tempo faceva, ma curiosa di colui che pronunciava simili frasi sull'inferno, e parlava del suo spegnimento, gli occhi verdi e la bocca tornita mostrarono un sorriso, piú annunciato che vero, subito spento alla vista dello sguardo del frate: ma non talmente in fretta che lui non lo cogliesse, e diventasse innamorato. Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.

Pagina 158

Davvero assorto nel suo lavoro, nulla sembrava importargli del tumulto, di nulla sembrava inquieto: sazio delle sue gioie, di abbracci: intento a fare quello che quasi come l'amore amava: la pittura.

Pagina 193

La freccia d'argento

212534
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Ora si scambiano gli ultimi affettuosi abbracci tra i ragazzi che partono e i genitori e i compagni che restano. - Stucchino, fatti onore! - Non dubiti, signor cappellano! - Ecco anche il grasso Segantino! Quello che ci paga i francobolli. Il nostro mecenate! - Arrivederci, Stucchino! Mi raccomando, non ti far male in gara! - Mi porto apposta il San Cristoforo! La hostess, tutta elegante nella sua divisa, avverte: - Salgano, per favore! Si parte fra pochi minuti. Il cappellano impartisce la benedizione ai trentun ragazzi della tribù che se ne vanno, e questi si arrampicano su per la scaletta dell'aereo, mentre risuona la travolgente canzone delle casse da sapone, intonata dai cinquanta di San Michele sotto la direzione del cappellano. Ora i partenti agitano le braccia in un ultimo saluto... Lo sportello della carlinga si chiude, e il canto penetra attenuato nell'interno dell'aereo. - Gente! Che lusso! Tutte poltrone imbottite! Magnifico! - Par d'essere in una reggia! Il rombo dei motori del DC-6 si fa quasi insopportabile. Gli hangars arretrano lentamente, poi più rapidi, sempre più rapidi. Un lieve rullio: l'aereo si è staccato dal suolo. E ora sale in alto, sempre più in alto! Ecco sotto il velivolo la prima casa, ecco il primo riquadro verde di un campo... Il DC-6 fa un'evoluzione sopra l'aeroporto. - Guarda laggiù, quel formicaio! È la tribù di San Michele. E là quel puntino nero, e quello verde: il cappellano e il Segantino. Che stiano ancora salutando? L'aereo vira un'altra volta. Ora le eliche lo sollevano a tutta forza, ed esso prende quota. Ecco che punta diritto verso occidente! Verso l'America! - Ehi, Stucchino! - Che c'è, Hai? - Io io sono proprio felice! - Anch'io, Hai! E improvvisamente la gioia di Stucchino esplode: - Che gioia volar tutti insieme! Che gioia essere della tribù di San Michele! Com'è bella la vita! Nessuno ride di questo sfogo improvviso e nessuno dice più una parola. Tutti sono pervasi da un fremito ancora più intenso del rombo dei potenti motori. È un fremito di gioia, di felicità profonda e di gratitudine. Gratitudine per la bontà di Dio! Intanto l'aereo solca il cielo, rapido come una freccia...

Pagina 129

L'uccellino azzurro

213520
Maeterlink, Maurice 2 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Vuoi che abbracci la Gatta?... MYTYL (alla Gatta) E tu, Tylette?... Non ci dici nulla?... LA GATTA (fredda, enigmatica) Io vi voglio bene a tutti e due, secondo i vostri meriti.... LA LUCE E ora, bambini miei, tocca a ma di darvi l'ultimo bacio.... TYLTYL e MYTYL (aggrappandosi alle vesti della Luce) No, no, no, non andartene, cara Luce!... Rimani qui con noi!... Il babbo non dirà nulla, vedrai.... Diremo alla mamma che sei stata tanto buona con noi.... LA LUCE Non è possibile, purtroppo.... A noi non è concesso di oltrepassare quella porta, e debbo TYLTYL E dove andrai, così sola sola?... LA LUCE Non andrò molto lontano, cari bambini: vado laggiù, nel paese del Silenzio delle cose. TYLTYL No, no, non voglio!.... Veniamo con te.... Dirò alla mamma.... LA LUCE Non piangete, cari piccini.... Io non ho la voce, come l'Acqua; ho soltanto il mio splendore, che l'Uomo non sa vedere.... Ma veglierò lo stesso su di lui fino alla fine del mondo.... E a voi parlerò da ogni raggio di luna che si diffonde all'intorno; sarò in ogni stella che vi sorriderà, in ogni aurora che si alzerà nel cielo, in ogni lampada che si accenderà, in ogni pensiero buono e luminoso che sboccerà nella vostra anima.... (Suonano le otto, dietro il muro). Sentite!.. Scocca l'ora.... Addio! La porta si apre!... Entrate, entrate, entrate!... (Spinge i bambini nel vano della porticina che si è aperta, e che ora si richiude dietro di loro. Il Pane si asciuga una lacrima furtiva: lo Zucchero, l'Acqua, tutta in lacrime, e gli altri fuggono a precipizio e spariscono a destra e a sinistra, fra le quinte. Urla del Cane, da un angolo. La scena rimane per un istante vuota; poi il fondo, che rappresenta il muro entro il quale si trova la porticina, si apre nel mezzi. e scopre l'ultimo quadro).

Lascia che ti abbracci.... NONNO TYL Bene, bene. Te ne dò un altro, se ti fa tanto piacere.... (L'orologio suona la mezza). TYLTYL (con un sussulto) Le otto e mezzo!... (Getta via il cucchiaio). Mytyl, abbiamo appena il tempo di andare.... NONNA TYL Via, restate ancora un minuto.... Non brucia mica la casa.... Ci vediamo così di rado.... TYLTYL È impossibile.... La Luce è tanto buona.... E le ho promesso.— Andiamo, Mytyl, andiamo.... NONNO TYL Dio, come sono noiosi i Vivi con tutte le loro faccende e le loro agitazioni!... TYLTYL (prendendo la gabbia e abbracciando tutti in gran fretta) Addio, nonnino.... Addio, nonnina.... Addio fratellini, sorelline, Pierino, Roberto, Paolina, Maddalena, Entrichetta!... E addio anche a te Kikì!... Non possiamo proprio trattenerci di più.... Non piangere, nonnina, torneremo spesso.... NONNA TYL Tornate ogni giorno!... TYLTYL Sì, sì !... Torneremo più spesso che sia possibile.... NONNA TYL È la nostra sola gioia, è una festa per noi quando venite a trovarci col vostro pensiero!... NONNO Tu, Non abbiamo altre distrazioni.... TYLTYL Presto, presto!... Datemi la gabbia! NONNO TYL (porgendogli la gabbia) Eccola!... In quanto all'uccello, però, non garantisco nulla: se il colore non è buono.... TYLTYL Addio! Addio!... I FRATELLINI E LE SORELLINE Addio, Tyltyl!... Addio, Mytyl!... Ricordatevi dello zucchero filato!... Addio!.. Tornate!... Tornate presto!... (Tutti agitano i fazzoletti, mentre Tyltyl e Mytyl si allontanano lentamente. Ma già durante le ultime battute la nebbia si era gradatamente fatta più densa, e il suono delle voci si era affievolito: in modo che alla fine della scena tutto sparisce nel fitto della nebbia. Quando sta per calare il sipario, si scorgono ai piedi della quercia soltanto Tyltyl e Mytyl). TYLTYL Passiamo di qua, Mytyl.... MYTYL Dov'è la Luce?... TYLTYL Non lo so.... (guardando l'uccello dentro la gabbia). Oh bella!... L'uccellino non è più azzurro!... È diventato nero!... MYTYL Dàmmi la mano, fratellino.... Ho tanta paura.... Ho tanto freddo.... CALA LA TELA.

Quell'estate al castello

213889
Solinas Donghi, Beatrice 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Mi buscai un sacco di baci e di abbracci, anche dalla contessa, che piangeva addirittura mentre me li dava; ma quel che mi fece piú piacere fu di sentirmi dire da Remigio: - Però, che brava! alla seconda volta l'ha proprio indovinata lei -. Mi ci voleva, questa soddisfazione, dopo che mi ero tanto mortificata quando invece non l'avevo indovinata affatto. Le feste, come si vede, non erano mica solo per Ippolita ritrovata sana e salva. Anche per me, ex vipera, ex verme, ma ora amica eroica, che era andata a salvarla nel centro della terra. Be', quasi.

Tutti per una

214927
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Ci fu uno scambio frenetico di carezze, leccatine, abbracci e zampettate. Poi Argo, all'improvviso, sembrò ricordarsi di qualcos'altro. Si liberò dalla stretta del suo padrone, saltò giù e s'infilò tra il frassino e il muro, puntando qualcosa come un cane da caccia. Stava ritto sulle quattro zampe e fremeva in tutto il corpo, frustando l'aria con la coda inquieta, - Argo, qui! - chiamò invano il professore. - Argo... Ma che ti prende adesso? - Vieni un po' a vedere anche tu - l'invitò Melchiorre compiaciuto. - Il tuo cane ci ha portato una sorpresa. Virgilio Zambelli scorse sotto l'albero qualcosa che sembrava un fagotto di stracci. Si avvicinò e diede un'occhiata dentro. - Oddio, ma è... un bambino! - Sssst! Parla piano.., non vedi che sta dormendo? Comunque non è un bambino. - Ah, no? - il professore alzò la testa, interdetto. - E cosa sarebbe, allora? - È una bambina - sorrise Melchíorre. I suoi occhi, adesso, mandavano lampi di allegra furbizia. - Una bellissima bambina. Guarda, guarda anche tu: due piedini, due braccine, le orecchie, il nasino, la boccuccia, tutte le dita al posto giusto... Insomma, non le manca niente di niente. È perfetta. Un vero capolavoro. - Sì, è proprio bella - ammise il professore, tenendo indietro il cane, per timore che potesse spaventarla. - Povera piccola creatura! - Perché, povera? - protestò Melchiorre, quasi risentito. - Come perché? Sua madre l'ha abbandonata, sì o no? Dunque... - Fortunata, invece. Perché il tuo Argo l'ha portata da noi e noi possiamo prenderci cura di lei. Noi possiamo anche amarla. Ti sembra una cosa da poco? - Noi? Qui? Ma cosa dici... È impossibile! - Impossibile! Impossibile... Non ti pare che dovremmo almeno almeno provarci, prima di dirlo? - Sarà difficile. E anche rischioso. - Lo so. E allora? La lasciamo qui? Avvisiamo la Maria Spia? La portiamo dritta dritta in un orfanotrofio? È questo che vuoi, professore? - No, certo che no. Tuttavia... secondo me... Virgilio Zambelli si dibatteva tra i due partiti, senza potersi risolvere. Si rivolse ad Argo, come per chiedergli sostegno, e ne ricevette in cambio uno sguardo di deluso scontento.

Gambalesta

216223
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
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E continuò a battergli forte quando si trovò tra un centinaio di persone, tutte armate - un'altra Squadra più numerosa - che festeggiavano con abbracci e strette di mano i nuovi arrivati. - E questo carusu? - domandò uno con barbone e cappellaccio a larghe tese. Sembrava il comandante. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

Pagina 106

Quartiere Corridoni

216444
Ballario Pina 2 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
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Spalanca le braccia e non sa da chi incominciare con gli abbracci. - Dentro, dentro! - Li spinge in cucina e tira fuori i bicchieri dall'armadio. Il figlio e la nuora sono andati al villaggio per la funzione religiosa, ma per merenda saranno di ritorno. Intanto, fatti gli onori di casa, mostra le stanze, i magazzini, le stalle, il fienile, il pollaio, tutto nuovo, come ha voluto il Regime. - Ti ricordi, Caterina - domanda alla figlia - quando si viveva tutti insieme, uomini ed animali, trenta, vent'anni fa? Adesso lavorare è una benedizione. Riconoscente, egli ha voluto che sul portone della sua casa fosse scritto: «La mia casa è piccola, la mia fede è grande». Fede nel Signore e nei destini della Patria. Tutti i rurali italiani devono avere una casa vasta e sana. MUSSOLINI

Pagina 23

Noi non possiamo certo invidiare i fanciulli della Palestina che godevano dei teneri abbracci di Gesù, poichè lo stesso Gesù viene a noi nella Santa Comunione, Ospite divino delle nostre anime. Un fanciullo che fa la Santa Comunione, fosse pure il più povero e dimenticato, ha l'altissimo onore di ricevere dentro di sè il Signore del cielo e della terra, il Padrone del mondo.

Pagina 241

Il ponte della felicità

219004
Neppi Fanello 1 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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- Vieni qua, benedetta, che ti abbracci, - rispose nonna Bettina, attirando sul suo cuore la giovinetta e invitando in pari tempo la madre a sedersi sopra uno sgabello. - Ieri sera Alvise non venne a trovarci, - disse subito Lucrezia Sagredo, ansiosa di calmare Loredana. Un'ombra passò sul viso bianco di nonna Bettina. - Da qualche giorno a questa parte non capisco più mio nipote, - sospirò. - Lo sento incerto e nervoso, e ieri lo vidi appena: stette quasi sempre e fuori. - Sarà forse in pensiero per l'imminente partenza di suo padre. - Temo che nutra anche lui la, passione del mare, come il suo nonno e come suo padre. - Per fortuna egli non ha ancora l'età richiesta, altrimenti sono certa che vorrebbe prendere parte alla lotta contro i Turchi, e voi, nonna Bettina, restereste sola. - Se non fosse che questo! - sospirò di nuovo la vecchia. - Sono ormai abituata a certi distacchi. Giovane sposa, ebbi lunghi periodi di solitudine; poi Dio mi mandò Zuambattista, che mi riempi la casa e la vita con i suoi sorrisi e il suo chiacchierio. - Ma appena fu grande, anche vostro figlio vi lasciò. - Che volete; madonna Lucrezia, la passione del mare è irresistibile, e nessuno lo sa meglio di me, che sono figlia, sposa e madre di naviganti. Ma, ora mi sento vecchia e ringrazio il Cielo di avere al mio fianco Alvise. - E la partenza di vostro figlio per quando è decisa? - La Santa Cattarina dovrebbe salpare dalla riva degli Schiavoni domattina. Essa farà parte della grossa squadra veneziana comandata da Sebastiano Veniero e diretta verso i mari di Levante. - Donna Lucrezia non rispose, ma due grosse lacrime caddero dagli occhi spenti di lei, e nonna Bettina le vide. - Poveretta! - mormorò, accarezzando le bianche mani della giovane donna. - Quanto avete patito! Ma Dio è misericordioso e avrà infine pietà di voi. Abbiate fiducia in Lui. - Se non nutrissi la certezza del suo aiuto, come potrei vivere ancora? - Madonna Lucrezia, Dio vi ha dato per consolazione la vostra Lori! - Avete ragione, nonna Bettina; mia figlia è un angiolo! - Mentre le due donne chiacchieravano, Loredana era uscita nel minuscolo orticello attiguo alla casa, tenendo sempre infilato nel braccio il paniere che conteneva l'acquarello eseguito all'alba. Voleva attendere lì Alvise, per andare poi con lui, come tutte le mattine, a fare la spesa: ella sostituiva in ciò la madre cieca, e lui, la nonna troppo avanti negli anni. In mezzo all'orto i larghi rami del tiglio, fioriti e olezzanti, si stendevano sul murmure soave del rio che scorreva tra i muriccioli di cotto rossigno. Oltre il secondo muricciolo si stendeva l'altro orto, fremente di sottili acacie col tronco avvinto di vite vergine, come la facciata della casa che s'intravedeva laggiù in fondo, tra l'intrico dei rami. Quanti ricordi le tornavano alla mente rivedendo il luogo dove la sua bella infanzia era trascorsa! Non avrebbe mai potuto dimenticare quel lembo sereno di terra. C'era ancora, lì a sinistra, appoggiata al muricciolo, la trave tutta verde di museo che Alvise gettava come un ponte sul rio per poter passare nel suo orticello dove lei lo attendeva trepidante nel timore di vederlo cadere nell'acqua quieta ma profonda! Ricordava quel lontano giorno d'estate in cui era finalmente accaduto il fattaccio!... Anche adesso risentiva il brivido provato allora al tonfo del corpo che cadeva nell'acqua, e le pareva di rivedere l'orco barbuto che era passato con la chiatta carica di doghe e aveva minacciato (che fosca luce in quegli occhi che si erano voltati a guardarla!), di gettarla in mezzo alla laguna. Tutto, per fortuna, era finito bene, ma Loredana non aveva mai potuto vincere la paura che le faceva quel passaggio da un orto all'altro. E anche ora, che erano trascorsi quattro anni e la casa e l'orto non le appartenevano più, vi ripensava con un tremito per tutta la persona. Chiari mattini di primavera, quando i rami cominciavano a rinverdire e le rondini volavano gioconde, chiamandosi l'un l'altra; lunghi pomeriggi estivi, quando ogni cosa intorno taceva come annientata dalla calura, e gli alberi e le zolle emanavano un profumo che stordiva; malinconiche sere autunnali, punteggiate dai richiami dell'assiolo nascosto chissà dove e dal fruscio delle foglie ingiallite che il vento e l'acqua trascinavano via, come sembravano lontani al ricordo nostalgico di Loredana! Oltre i tronchi delle acacie rivedeva la serena figura del padre, che con lo sguardo rivolto in alto mirava il cielo sconfinato sul quale erravano nuvolette vagabonde. E laggiù, intorno all'aiuola fiorita, non era forse la mamma che si aggirava leggera, cogliendo le rose olezzanti, come era solita fare, per portarle a Gesù? Ahimè, no! Era soltanto un raggio di sole che scherzava tra i rami agitati dalla brezza marina che giungeva dal largo e s'insinuava fra le strette calli con un lieve brusio! - Ebbene, Lori, stai forse contando le foglie degli alberi? - La fanciulla era tanto assorta nel ricordo di quei giorni lontani che non aveva udito l'avvicinarsi dell'amico, e sussultò al suo richiamo. Volse verso di lui il chiaro viso incorniciato dagli aurei capelli, e gli sorrise, festosa. - –.... stai forse contando le foglie.... Alvise aveva ora diciassette anni, ma era alto e robusto come un giovane di venti. Ben fatto, bruno di carnagione e di capelli, con le pupille nere e lucenti, possedeva una innata finezza di modi che lo rendeva simpatico a tutti. Aveva ereditato dal padre, Zuambattista Benedetti, capitano della Santa Cattarina, la passione per la vita di mare, passione che preoccupava la vecchia Bettina, la tenera nonna che gli aveva fatto da madre e lo adorava. Anche Lucrezia Sagredo aveva amato maternamente il piccolo orfano, e Loredana era stata per lui una sorellina affettuosa e piena di premurose attenzioni. La vicinanza delle loro casette aveva favorito quell'atmosfera di familiarità che per l'orfano Alvise era stata di grande aiuto e conforto. A sua volta egli aveva dato molta parte di se stesso alle due Sagredo allorchè la disgrazia le aveva colpite. Avrebbe desiderato perfino di ospitarle nella sua casetta; ma Lucrezia non aveva voluto recare tanto disturbo ai suoi buoni vicini, ben sapendo quanto fosse piccolo il loro nido e quanto modesto il loro tenore di vita. - Oh, Alvise, mi hai fatto paura! - Il giovane capi che Loredana era immersa in malinconiche reminiscenze e volle distoglierla subito con alcune frasi scherzose. - Tornando a casa ho veduto il tuo protetto, anzi i tuoi protetti. Tutti e due erano più eleganti del solito! - Dove erano, Alvise? - chiese Loredana, mentre - gli occhi le brillavano di gioia. - Stavano dietro campo San Barnaba, vicino al rio Malpaga. - E che facevano? - Come al solito, stavano deliziando i timpani dei passanti. Si trattava del vecchio senatore girovago e del suo inseparabile compagno, il cane lupo. La scimmietta era morta da tanto tempo, con grande rimpianto del vecchio che si era trovato privo di una vivace compagnia, nonchè di una fonte di guadagno. Loredana, nonostante le sue crescenti ristrettezze, aveva sempre trovato il modo di venire in soccorso del povero senatore; e questi, che con gli altri era ispido e scontroso al pari del suo cane, aveva per la fanciulla delicatezze veramente commoventi. Quante volte, di ritorno dai suoi giri in terraferma, aveva portato a Loredana fasci di fiori còlti lungo le prode dei fossi o sulle rive del Po, Il fiume superbo che bagna tanta parte di terra Italica! E la fanciulla gradiva molto quel dono, anche se, dopo tante ore di cammino sotto il sole e nella polvere, i fiori del buon vecchio avevano perduto la loro freschezza. - Bravo Alvise! Tu parli del Màuria, - (il sonatore girovago veniva chiamato così dal nome del suo paese di origine, «il Passo della Màuria», l'ampio valico erboso che si estende tra il bacino del Tagliamento e quello del Piave ed è vigilato dalle cime austere delle Marmarole e dell'Antelao), - e non mi dici perchè non venisti da noi, ieri sera. - Un'ombra scese sul viso di Alvise. - Ho bisogno del tuo aiuto, Lori, - disse rapidamente, conducendo la fanciulla nell'angolo più remoto dell'orto. La fece sedere sul muricciolo del rio e le si pose accanto.

Pagina 63

Mitchell, Margaret

220956
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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E poi le congratulazioni e gli abbracci e i baci e i brindisi e il ballo... tutto, tutto come un sogno. Anche la sensazione del bacio di Ashley sulla sua guancia, anche il dolce sussurro di Melania, «Ora siamo veramente sorelle» erano irreali. Perfino l'eccitazione cagionata dalla serie di svenimenti della rotondetta ed emotiva zia di Carlo, Miss Pittypatt Hamilton, sembrava un incubo. Ma quando il ballo e i brindisi finalmente terminarono e sopraggiunse l'aurora, quando tutti gli invitati di Atlanta che fu possibile ospitare a Tara e nella casa del sorvegliante si furono coricati nei letti, sui divani e sulle balle di cotone disposte sul pavimento, e tutti i vicini furono tornati alle loro case per riposarsi in vista del matrimonio del giorno seguente alle Dodici Querce, allora quello stato di catalessi simile a un sogno s'infranse come un cristallo dinanzi alla realtà. La realtà era Carlo che usciva pieno d'emozione dal suo spogliatoio in camicia da notte evitando lo sguardo sgomento che ella gli rivolgeva dal letto. Certamente ella sapeva che le persone sposate occupano lo stesso letto; ma non aveva mai pensato a questo. La cosa sembrava naturalissima nel caso di suo padre e di sua madre ma non le era mai venuta l'idea di applicarla a se stessa. Ora, per la prima volta, dopo il banchetto, si rese conto di ciò che aveva fatto. Il pensiero che quel giovane estraneo che ella non aveva mai desiderato sposare, dovesse venire nel suo letto, mentre il suo cuore era pieno d'angoscia e di rimpianto per la sua azione troppo frettolosa e di desolazione per avere perduto Ashley per sempre, era insopportabile per lei. Mentre egli esitava ad avvicinarsi, ella mormorò con voce rauca: - Se vi avvicinate griderò forte, griderò, griderò con tutta la mia voce. Andatevene! Non mi toccate! E cosí Carlo Hamilton trascorse la sua notte di nozze su una poltrona in un angolo, senza sentirsi troppo infelice perché comprendeva, o credeva di comprendere, la verecondia e la delicatezza della sua sposa. Era disposto ad attendere finché i suoi timori svanissero; soltanto... soltanto... sospirò mentre si voltava per cercare una posizione comoda, fra breve bisognava partire per la guerra. Per quanto le proprie nozze avessero avuto per Rossella un carattere di incubo, quelle di Ashley furono anche peggiori. Nel suo abito verde-mela del «secondo giorno», ella stava nel salotto delle Dodici Querce, tra lo splendore di centinaia di candele e stretta nella stessa folla della sera prima; e vide il visino insignificante di Melania Hamilton risplendere fino a sembrar bello nel momento in cui diventò Melania Wilkes. Ora Ashley era perduto per sempre. Il suo Ashley. No, non piú il suo Ashley. Ma era mai stato suo? Tutto era confuso nella sua mente, e il suo cervello era stanco e pieno di sgomento. Le aveva detto che le voleva bene, ma che cosa li aveva separati? Se almeno riuscisse a ricordare... Aveva imposto il silenzio ai pettegolezzi della Contea sposando Carlo, ma qual era il risultato? Allora le era sembrato importante, ma ora non lo era affatto. Tutto ciò che importava era Ashley. Ed ora egli era diviso da lei per sempre, ed ella era sposata ad un uomo che non solo non amava, ma per cui aveva un vero disprezzo. Oh, come rimpiangeva tutto! Aveva sentito parlare di gente che si tagliava il naso per far dispetto al proprio volto, ma finora questa non era stata che una figura retorica. Adesso comprendeva ciò che voleva dire; e insieme al desiderio frenetico di liberarsi di Carlo e tornare sana e salva a Tara, ancora signorina, aveva coscienza di dover biasimare solo se stessa. Elena aveva cercato di trattenerla, ed ella non aveva voluto ascoltare. Ballò tutta la sera come abbagliata e parlò meccanicamente e sorrise meravigliandosi della stupidaggine degli altri che la credevano una sposa felice e non vedevano che aveva il cuore spezzato. No, grazie a Dio, non lo vedevano! Quella sera, dopo che Mammy l'ebbe aiutata a svestirsi e se ne fu andata, e Carlo emerse timidamente dallo spogliatoio chiedendosi se doveva passare una seconda notte in poltrona, ella scoppiò in lagrime. Pianse finché Carlo si arrampicò sul letto accanto a lei e cercò di confortarla; pianse senza parole finché non ebbe piú lagrime, e rimase a singhiozzare tranquillamente col capo sulla sua spalla. Se non vi fosse stata la guerra, si sarebbe avuta una settimana di visite attraverso la Contea, con balli e conviti in onore delle due coppie di sposi, prima che esse partissero per Saratoga o White Sulphur per il viaggio di nozze. Se non vi fosse stata la guerra, Rossella avrebbe avuto da indossare abiti per il terzo, quarto e quinto giorno, ai ricevimenti dei Fontaine, dei Calvert e dei Tarleton in suo onore. Ma non vi furono né ricevimenti né viaggi di nozze. Una settimana dopo il matrimonio Carlo partí per raggiungere il colonnello Wade Hampton; e quindici giorni dopo anche Ashley e lo Squadrone si misero in moto, lasciando tutta la Contea deserta di giovani. In quelle due settimane Rossella non ebbe mai occasione di vedere Ashley da solo, né di scambiare una parola con lui. Nemmeno nel terribile momento della partenza, quando egli si fermò dinanzi a Tara mentre si recava a prendere il treno, ella poté dirgli una parola. Melania, in cuffia e scialle, tranquilla nella nuovamente acquisita dignità di donna, era al suo braccio; e tutto il personale di Tara, bianco e negro, uscí per salutare Ashley che andava in guerra. Melania disse: - Devi baciare Rossella, Ashley. Ora è mia sorella; - e Ashley si chinò e le sfiorò con le labbra fredde il volto rigido e impassibile. Rossella non ebbe alcuna gioia da questo bacio: non era soddisfatta perché era stata Melania a suggerirlo. Melly la soffocò in un abbraccio, dicendole: - Verrai ad Atlanta a fare una visita a me e alla zia Pittypatt, no? Cara, desideriamo tanto di averti con noi! Desideriamo conoscere meglio la sposa di Carlo. Trascorsero cinque settimane durante le quali vennero dalla Carolina del Sud lettere di Carlo, timide, estatiche, innamorate, piene del suo amore e dei suoi progetti per il futuro, dopo la guerra; del suo desiderio di essere un eroe per amor suo, e della sua adorazione per il suo comandante Wade Hampton. Nella settima settimana giunse un telegramma del colonnello stesso e poi una lettera, una bella e dignitosa lettera di condoglianza. Carlo era morto. Il colonnello avrebbe voluto telegrafare prima, ma Carlo credendo che la malattia fosse cosa da nulla, non aveva voluto preoccupare la famiglia. Il disgraziato ragazzo non era soltanto stato truffato nell'amore che credeva di aver conquistato, ma anche nelle sue alte speranze di onore e di gloria sul campo di battaglia. Era morto ignominiosamente dopo una breve polmonite, a seguito di una rosolia, senza essersi neanche avvicinato agli yankees. A suo tempo nacque il bambino di Carlo; e siccome si usava dare ai figlioli il nome del comandante del loro genitore, egli fu battezzato Wade Hampton Hamilton. Rossella aveva pianto di disperazione quando aveva saputo di essere incinta e aveva desiderato di morire. Ma portò la sua gravidanza con un minimo di disturbi, mise al mondo il bimbo con poche sofferenze e si ristabilí cosí rapidamente da far dire a Mammy che questa era una cosa volgare, perché una signora doveva soffrire di piú. Provò poco affetto per il bambino, pur cercando di nasconderlo. Non lo aveva desiderato e non era contenta della sua venuta; ed ora che lo aveva, le sembrava impossibile che fosse suo, parte di lei. Benché fisicamente si fosse rimessa molto presto, mentalmente era stordita e sofferente. Il suo spirito era depresso, malgrado gli sforzi di tutta la piantagione per sollevarla. Elena aveva la fronte aggrottata e preoccupata e Geraldo, bestemmiando piú del solito, le portava da Jonesboro inutili doni. Perfino il vecchio dottor Fontaine ammise di essere imbarazzato dopo che il suo tonico composto di zolfo e di erbe non le aveva giovato. Disse a Elena in via privata che era il dolore che rendeva Rossella cosí irritabile e a volta a volta indifferente. Ma Rossella, se avesse avuto voglia di parlare, avrebbe potuto dire che si trattava di un dolore assai diverso e piú complesso. Non disse che era la noia, lo sgomento di essere madre e soprattutto l'assenza di Ashley che le dava quell'espressione cosí addolorata. La sua noia era acuta e continua. La Contea era priva di ogni divertimento e di ogni manifestazione di vita sociale, da quando lo Squadrone era andato alla guerra. Tutti i giovanotti interessanti erano partiti: i quattro Tarleton, i due Calvert, i Fontaine, i Munroe e tutti quelli di Jonesboro, Fayetteville e Lovejoy che erano giovani e attraenti. Erano rimasti soltanto i vecchi, gli invalidi e le donne; queste passavano il loro tempo a far la maglia e a cucire, a coltivare con piú abbondanza cotone e grano e ad allevare maggior numero di maiali, pecore e mucche per l'esercito. Non si vedeva mai un vero uomo, eccetto quando una volta al mese veniva il commissario dello Squadrone, il maturo corteggiatore e di Súsele, Franco Kennedy, a rifornirsi di viveri. Gli uomini dei commissariati non erano molto eccitanti, e il timido corteggiamento di Franco la infastidiva fino a renderle difficile l'essere cortese nei suoi riguardi. Se almeno lui e Súsele si fossero decisi! Ma se anche il commissario dei viveri fosse stato piú interessante, ciò non avrebbe mutato la sua situazione. Ella era vedova, e il suo cuore era nella tomba; per lo meno tutti ne erano convinti e pensavano che ella dovesse agire in conformità. Ciò la irritava perché, per quanto cercasse, non riusciva a rammentare nulla di Carlo se non la sua espressione di vitello moribondo, quando ella gli aveva detto che lo avrebbe sposato. E anche questa immagine andava scomparendo. Ma era vedova e doveva sorvegliare il proprio contegno. I divertimenti delle ragazze non erano piú per lei. Doveva ormai essere grave e seria. Elena glie lo aveva fatto capire il giorno che aveva trovato il luogotenente di Franco che gironzolava con Rossella nel giardino e la faceva ridere di cuore. Profondamente colpita, Elena le aveva detto come era facile che si chiacchierasse sul conto di una vedova. La condotta di questa doveva essere assai piú circospetta di quella di una donna con marito. «E Dio solo sa» pensò Rossella mentre ascoltava ubbidiente la dolce voce di sua madre «che le donne sposate non si divertono affatto; dunque per le vedove tanto vale morire.» Una vedova doveva portare degli orribili vestiti neri senza neanche una guarnizione per ravvivarli, né fiori né nastri né pizzi e neanche gioielli: soltanto spille di onice o collane fatte coi capelli del defunto. E il velo di crespo nero che portava sulla cuffia, doveva arrivarle alle ginocchia e poteva essere accorciato solo dopo tre anni di vedovanza, per giungere all'altezza delle spalle. Le vedove non potevano chiacchierare vivamente né ridere forte. Anche quando sorridevano, il loro doveva essere un sorriso triste e tragico, e - questa era poi la cosa piú terribile - non potevano in nessun modo mostrare di provar piacere nella compagnia maschile. E se qualche uomo fosse cosí indelicato da mostrare dell'interessamento, ella doveva ghiacciarlo con un dignitoso riferimento al ricordo del proprio marito. «Oh, sí,» pensava Rossella tristemente. «Vi sono delle vedove che si rimaritano, ma quando sono vecchie e raggrinzite. E Dio solo sa come vi riescono, con tutti i vicini che si occupano sempre di loro! E di solito è con qualche vecchio vedovo desolato, il quale deve badare a una grande piantagione e a una dozzina di bambini.» Il matrimonio era già una brutta cosa; ma la vedovanza... Oh, allora la vita era finita per sempre! Come erano sciocchi quelli che le dicevano che il piccolo Wade Hampton doveva esserle di gran conforto ora che Carlo non c'era piú, e com'erano noiosi dicendole che ora aveva uno scopo nella vita! Tutti affermavano che doveva essere assai dolce per lei avere questo pegno postumo del suo amore; e naturalmente ella non li disingannava. Ma questo pensiero era il piú lontano di tutti dalla sua mente. S'interessava pochissimo a Wade e qualche volta stentava perfino a ricordarsi che era suo. La mattina, quando si svegliava, nei primi momenti di dormiveglia era ancora Rossella O'Hara; il sole brillava tra i rami della magnolia dinanzi alla sua finestra, i merli cantavano e il piacevole odore del lardo fritto saliva alle sue narici. Era di nuovo giovane e spensierata. Quindi udiva un vagito affamato, e vi era sempre in lei un attimo di sorpresa durante il quale pensava: «Ma come, c'è un bambino in casa!» E allora si ricordava che era suo. E Ashley! Oh, piú di tutto Ashley! Per la prima volta in vita sua ella detestò Tara, detestò la lunga strada rossa che conduceva dalla collina al fiume, detestò i campi purpurei coi verdi germogli del cotone. Ogni palmo di terreno, ogni albero ed ogni ruscello, ogni viale ed ogni sentiero le ricordavano lui. Egli apparteneva ad un'altra donna ed era andato alla guerra, ma il suo spirito vagava ancora sulle strade nel crepuscolo e le sorrideva coi suoi occhi grigi e sonnolenti nell'ombra del porticato. Ogni volta che lo strepito di zoccoli le giungeva dalla strada delle Dodici Querce, per un dolce attimo ella pensava: Ashley! Ora odiava le Dodici Querce, che una volta aveva amato. Le odiava, ma vi era trascinata, per poter udire John Wilkes e le ragazze parlare di lui; udir leggere le sue lettere dalla Virginia. Le facevano male ma voleva udirle. Le erano antipatiche Lydia cosí rigida e Gioia scioccherella e chiacchierona, e sapeva di essere ugualmente antipatica a loro. Ma non poteva rimanerne lontana. Ed ogni volta che tornava a casa dalle Dodici Querce, si metteva a letto di malumore e rifiutava di alzarsi per andare a cena. Questo rifiuto di mangiare era quello che maggiormente preoccupava Elena e Mammy. Mammy le portava dei vassoi pieni di cibi allettanti, insinuando che adesso che era vedova poteva mangiare quanto voleva; ma Rossella non aveva appetito. Quando il dottor Fontaine disse gravemente a Elena che il dolore spesso può minare un temperamento florido e condurlo alla tomba, la signora O'Hara impallidí, perché questo era il timore che ella nascondeva nel profondo del cuore. - E non si può far nulla, dottore? - Un cambiamento d'aria sarebbe la miglior cosa per lei - rispose il dottore, ansioso di liberarsi di un'ammalata cosí restia. E cosí Rossella, senza entusiasmo, partí col suo bambino, prima per recarsi a visitare i suoi parenti O'Hara e Robillard a Savannah e poi per andare presso le sorelle di Elena a Charleston. A Savannah furono gentili con lei, ma Giacomo e Andrea e le loro mogli erano vecchi e amavano sedere tranquillamente a parlare di un passato che non aveva alcun interesse per Rossella. Lo stesso fu coi Robillard; e Charleston fu addirittura terribile. Zia Paolina e suo marito, un piccolo vecchio pieno di una cortesia formale e volubile e con l'aria assente di una persona che vivesse in un altro secolo, abitavano in una piantagione sul fiume, molto piú isolata di Tara. I loro vicini piú prossimi abitavano a una distanza di venti miglia che bisognava percorrere attraverso foreste vergini, paludi, boschi di cipressi e di querce. Le querce, con i loro drappeggi di musco grigio, davano sempre i brividi a Rossella, e le ricordavano le storie di Geraldo di spiriti irlandesi erranti fra le nebbie color di cenere. Non vi era nulla da fare tutto il giorno se non lavorare a maglia; e la sera ascoltare lo zio Carey che leggeva ad alta voce le opere istruttive di Bulwer Lytton. Eulalia, nascosta in un giardino dalle alte mura in una grande casa presso la Batteria di Charleston, non era piú divertente. Rossella, abituata all'ampio paesaggio di colline rossastre, ebbe l'impressione di essere in prigione. Vi era qui piú vita sociale che presso zia Paolina; ma Rossella non provava alcuna simpatia per i visitatori, con le loro tradizioni, le loro arie, le loro enfasi a proposito della famiglia. Sapeva che tutti la ritenevano il prodotto di una «mésalliance» e che erano ancora stupefatti che una Robillard avesse sposato un volgare irlandese. Rossella sentiva che la zia Eulalia la scusava dietro le spalle; cosa che la irritava perché, come suo padre, ella non teneva affatto all'aristocrazia della famiglia. Ed era fiera di ciò che Geraldo era riuscito a fare senz'altro aiuto se non il suo astuto cervello d'irlandese. E anche quelli di Charleston se la prendevano tanto per il Forte Sumter! Dio mio, ma non capivano che se non fossero stati loro a commettere la sciocchezza di sparare le prime fucilate che avevano portato alla guerra, vi sarebbero stati altri pazzi che lo avrebbero fatto? Abituata alle voci acute della Georgia dell'altipiano, le voci gravi e strascicate della pianura le davano noia. In certi momenti aveva voglia di urlare. Durante una visita di cerimonia giunse a un tal punto di esasperazione che ricorse al dialetto di Geraldo, con gran scandalo di sua zia. Allora decise di ritornare a Tara. Meglio essere tormentata dal ricordo di Ashley che dall'accento di Charleston. Elena, occupata giorno e notte a raddoppiare il prodotto della piantagione per aiutare la Confederazione, fu terrorizzata quando si vide tornare a casa la figlia maggiore, magra, pallida e inasprita. Aveva avuto ella pure il cuore spezzato; quindi, coricata accanto a Geraldo che russava, passava la notte a cercare che cosa potrebbe fare per alleviare il dolore di Rossella. La zia di Carlo, Pittypatt Hamilton, aveva scritto parecchie volte chiedendole di permettere a Rossella di recarsi ad Atlanta per un lungo soggiorno; ed ora, per la prima volta, Elena considerò con serietà la proposta. «Sono sola con Melania nella vasta casa - scriveva Miss Pittypatt - senza protezione maschile ora che il caro Carlo è morto. È vero che c'è mio fratello Enrico, ma non abita con noi. Forse Rossella vi ha parlato di Enrico. La delicatezza mi vieta di scrivere lungamente sul suo conto. Melly ed io ci sentiremo piú tranquille e sicure con Rossella in casa. Tre donne sole stanno meglio di due. E forse Rossella troverà un po' di sollievo al suo dolore, curando - come fa Melly - i nostri bravi soldati negli ospedali di qui... E poi, Melly ed io desideriamo tanto di vedere il caro piccino...» Cosí il baule di Rossella fu chiuso di nuovo con dentro i suoi abiti da lutto, ed ella partí per Atlanta con Wade Hampton, la sua bambinaia Prissy, una quantità di avvertimenti sul suo contegno da parte di Elena e di Mammy e cento dollari in biglietti della Confederazione datile da Geraldo. Non desiderava particolarmente di andare ad Atlanta. Riteneva zia Pittypat la piú noiosa vecchia che dar si potesse; e l'idea di vivere sotto lo stesso tetto con la moglie di Ashley le ripugnava. Ma la Contea, con tutti i suoi ricordi, era un soggiorno impossibile; e qualsiasi mutamento era il benvenuto.

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A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci. - Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. - Oh babbo, queste sono idee del tuo paese! - E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro; tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentí a disagio. - Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà. - No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa. - Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. «Lo ha avuto il pensiero» disse fra sé Rossella dolorosamente. «Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!» Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo. - Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava. - Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mr. O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere. - Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. - Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli - borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. - Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto. Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividí al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva. Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo. - Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo - sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lí accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salí lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata piú strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai sua padre, cosí rumoroso e cosí poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone piú lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.

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Il marito dell'amica

245001
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Rimediò nel solito modo, eccedendo sempre, con una valanga di abbracci. - Povera Maria, perdonami! Oh! ma dimmi, sei stata felice? - Secondo ciò che s'intende per felicità. - Hai trovato un marito almeno che avesse i tuoi gusti, le tue abitudini; che amasse quello che tu ami e abborrisse quello che tu abborri? un marito tenero, appassionato, previdente, compiacente... Maria ebbe un accesso di schietta ilarità. - Che ritratto fantastico! Questo, mia cara, non è un marito, è un amante. - Ah! - fece Sofia trionfante - lo confessi dunque, i mariti non sono così. - Senza dubbio... ma essi sposano; è il gran merito che hanno sugli amanti. I sospiri, le dichiarazioni, i madrigali di tutto coloro che ci fanno la corte, non valgono il solo, semplice sì di colui che ci dà il suo nome. È il poema in confronto del sonetto; non si può giudicarli alla stessa stregua, e non si può pretendere dal poema il ritmo grazioso e leggero di un sonettino. - Tanto grazioso! - sospirò Sofia. - E tanto leggero - appoggiò l'amica - Perchè, infine, qual'è lo scopo di questi corteggiatori, che ci si assiepano intorno? (Ella pensava in quel momento al signor Bandini). Vi amo, essi dicono, ma noi siamo giovani, siamo avvenenti, che gran sacrificio l'amarci! Le nostre poltrone sono soffici, morbido il tappeto, il salotto tiepido; non pagano essi le toelette che ci fanno eleganti, nè l'accordatura del nostro piano che li delizia. Vorrai pure ammettere, senza peccare di superbia, (sorrideva) che abbiamo un certo spirito: così il valoroso che ci dedica il suo amore non corre nemmeno il rischio di annoiarsi tra un bacio e l'altro. Essi, sicuro, vogliono farci credere che ci amano per farci piacere; ma il piacere lo fanno a sè stessi. Sofia rimase un momento sopraffatta; poi seguendo lo slancio dei suoi pensieri superficiali gridò: - E allora ho dunque ragione di dire che noi, povere donne sensibili, siamo costrette a cercare senza posa... - Punto - interruppe Maria, dissimulando un sorriso per la singolare conclusione. - Io direi invece che, poichè è sempre la stessa cosa, meglio il marito co' suoi difetti, co' suoi sbadigli, colla sua veste da camera... Non sarà eroico, ma è sincero. Sofia rise di cuore. Questa dissertazione sugli uomini l'aveva divertita; gli uomini erano un tema favorito per lei, anche a costo di dirne male, o di lagnarsene, o di vituperarli, accusandoli di tutte le disgrazie che colpiscono il sesso debole. - Siamo curiose noi due - disse alla fine. - Invece di raccontarci le nostre vicende siamo qui a discutere come avvocati. - Sì, parliamo un poco di noi. - Prima te. Che vita fu la tua dopo il collegio? - Ho sofferto molto. - Eppure sei rimasta buona: io vedi, quando ho qualche cosa che mi contraria divento cattiva. - Così è dei piccoli dolori; inaspriscono - rispose Maria colla sua gran calma serena, colla sua voce calda, dalle vibrazioni sonore. - Solamente i grandi, i veri dolori danno forza. Tu vivi in una piccola cerchia di piccole emozioni; il tuo mondo interno, scommetto, ha le proporzioni dell'ambiente che ti circonda: un salottino, un lembo di cielo, un raggio di sole, un po' d'aria... quanto basta, appena per respirare. - Ma io... - Cara, non te ne faccio una colpa. È press'a poco la vita di quasi tutte le donne. Che eri tu a cinque anni? Una bella bambina vestita di bianco, coi capelli sciolti sulle spalle; la mamma ti adorava, ti baciucchiava, ti chiamava il suo tesoro; gli amici di casa ti portavano i confetti... non è così? - Precisamente. - E a quindici? A quindici, l'abito era ancora bianco, quando non era color di rosa, ma sempre fatto all'ultima moda sotto l'occhio vigilante della mamma. Gli amici di casa, invece dei confetti, ti offrivano dei fiori, delle romanze... ti facevano dei complimenti. Ti alzavi alla mattina cantando, poi andavi a passeggio; alla sera ballavi. Tutti sorridevano intorno a te, facevano a gara per persuaderti che la vita è seminata di rose. - È vero. - Ti presentarono finalmente un marito; era giovane, ricco, piacente... tu lo hai preso. - Oh! - sospirò Sofia - non tutto questo, ma infine fu proprio così. - Ed ora concludi; come è vuota la vita! Ma sai perché la trovi vuota? Perché non hai sofferto mai. In fondo alla sua leggerezza Sofia non mancava nè di cuore, nè di ingegno. Le ultime parole dell'amica la colpirono fortemente; Maria se ne accorse e cedette più volentieri ancora a un sentimento generoso che le dettava di essere la prima a rivelarsi. - Senti; io rimasi orfana presto e per questo dovetti imparare a reggermi da me e ho conosciuto che cosa vuol dire lottare... Tu meriti la mia confidenza, Sofia; mi hai accolta in casa senza saper nulla di me; voglio renderti la prova di fiducia, voglio aprirti intero il mio cuore. - Oh cara... Due lagrime spuntarono sugli occhi di Sofia e scendendo lungo le guancie, tracciarono un piccolo solco nella polvere rosa della cipria. - Hai conosciuto mio padre, - continuò Maria. - Sai che uomo era, e come ad una mente elevata unisse un carattere fiero e indipendente. Povero, aveva fatto sforzi incredibili per provvedere alla mia educazione in collegio. Tornata con lui, la nostra vita ritiratissima veniva quasi interamente consacrata allo studio. Eravamo affatto soli; non avevo amiche; non andava mai al passeggio; il carattere un po' selvaggio di mio padre e i suoi crescenti malanni, ci facevano il vuoto intorno; nessuna eco delle gioie mondane veniva a scuotere il silenzio claustrale della nostra casa. Leggevo a mio padre i suoi libri di storia e di scienze naturali; ascoltavo le sue dissertazioni, i suoi lamenti di vecchio disilluso, le memorie e i rimpianti del tempo passato... e avevo sedici anni. Dentro a me la vita, intorno a me la morte. - Povera Maria! Io sarei morta davvero. Mi ricordo, l'unica volta che venni a trovarti che impressione mi fece il muraglione nero del tuo cortile, e quell'unico cipresso funebre che lo ombreggiava, e quella sala austera, vasta come un tempio, nuda e fredda come una prigione... - Te la ricordi? Ebbene in quella sala austera, in quella sala che somigliava ad una prigione ho passato la mia giovinezza, quasi tutta. Nelle belle mattine di primavera, sporgendomi sul muraglione nero coperto di muffa, seguivo in alto il volo delle rondini e da un vicino giardinetto mi veniva a ondate il profumo delle glicinie che non potevo vedere; leggevo sui libri le descrizioni dei prati verdi e degli alberi in fiore; avevo qualche volta una voglia pazza di correre, di gridare, di buttarmi sull'erba, di allargare le braccia verso il cielo sconfinato... D'estate, verso sera, sentivo le ragazze del vicinato che si vestivano, ridendo, e uscivano per il passeggio. Io mi accoccolavo per terra, sfinita, con un desiderio intenso di vivere. Non sapevo se io ero bella. Chi vuoi che me lo dicesse? ma avevo una voglia grandissima di essere bella e di essere amata. - Ma proprio nessuno veniva in casa tua? Tuo padre non capiva che soffrivi? Maria scosse il capo. - Mio padre era vecchio, infermo, disilluso del mondo; la pace, una pace assoluta, era il suo bene. E poi, eravamo sempre in grandi impicci economici; nell'età in cui le altre ragazze vivono serenamente di sogni, io conoscevo già il prezzo del pane sudato, misurato... oh! ma se tu sapessi come le avversità maturano l'intelletto, come tutto ciò che è lotta ringagliardisce e dà forza! Aggiungi che nella mia schiavitù avevo una specie di libertà superiore alle mie compagne, perchè mio padre non mi sorvegliava punto e nella sua biblioteca avevo trovato dei libri di filosofia, di scienza, di medicina sui quali io mi ero precipitata, come sull'unico spiraglio di luce che mi fosse concesso. Pascevo lo spirito per ingannare la lunga anemia del mio corpo. - Hai sempre amato lo studio, tu. - Sì, ma più che lo studio, la verità. Avevo la smania di sapere, di conoscere... Frugai impavida, in tutti i problemi religiosi e filosofici... Da un lieve segno di stanchezza apparso sul volto di Sofia, Maria comprese che si era messa in un argomento troppo serio; la leggiadra donnina non poteva seguirla sul sentiero faticoso dove la sua anima aveva combattuto. Sostò improvvisamente, turbata, sentendosi un rossore sulla fronte; pentita forse di quell'abbandono di sè stessa. Alle vive sollecitudini di Sofia, continuò: - Tu vedi ad ogni modo, come io crebbi; bene o male che sia, la mia educazione così differente da quella che si imparte alle fanciulle, mi fece quello che sono. - E nessuna altra corrente ti sviò... nemmeno più tardi? - Vuoi dire l'amore? Esso venne e ribadì le mie catene da una parte, allargò dall'altra l'orizzonte delle mie gioie ideali. La mia esistenza non mutò affatto - si fece solo più concentrata. Tutti i desideri, le ansie, i sospiri che tacitamente mandavo al mondo, al di sopra dei muri della mia prigione; le aspirazioni sitibonde alla vita che mi tentavano nelle sere d'estate, quando sentivo l'eco delle gioie altrui; i turbamenti ignoti, le smanie cocenti, tutto ciò che ondeggiava come nebbia nel mio cervello, come fuoco latente nelle mie vene; tutta infine la mia giovinezza compressa e selvaggia si radrizzò lanciandosi verso quel sentimento nuovo. L'amore prese subito il posto d'ogni cosa che mi mancava; ma l'amore compresso, l'amore segreto, l'amore senza speranza, il più fatale, il più forte degli amori! Esso mi fu gioia, mi fu sorriso d'amica, mi fu carezza di madre, fu la fede del mio avvenire... io non avevo che lui! Te lo immagini questo amore serio e profondo? Lo vedi crescere di giorno in giorno e mettere radici indistruttibili in un cuore come il mio, che non aveva nessuno degli allettamenti mondani? Sofia strinse un momento la piccola testa tra le manine eleganti. L'amica le aveva schiuso un abisso di pensieri. Ella si trovava per la prima volta davanti ad una vera passione e ne provava le vertigini, non esenti da un brivido di terrore. - Ma chi era quest'uomo? domandò timidamente. - Chi era?... (Un gran pallore passò sulla fronte di Maria). La crescente ristrettezza nostra ci consigliò di prendere in casa un giovane, caldamente raccomandato a mio padre per senno e sapere. Quando dico un giovane non ti devi figurare... no, non dei soliti. Egli aveva poco più di trent'anni, ma le fatiche di aridi studi lo avevano invecchiato anzi tempo, e più nello spirito che nel volto. - Tuttavia ti piacque? - Lo amai - disse. E dall'accento grave, quasi solenne, Sofia colpita non replicò altro. Trascorse un minuto di silenzio, dopo il quale l'amica avrebbe forse ripreso le sue confidenze; ma durante quel minuto lo squillo del campanello avvertì l'arrivo di qualcuno; infatti la cameriera facendosi sulla soglia annunciò il signor padrone. - Ripiglieremo questa sera i nostri discorsi, - disse Sofia alzandosi. - Con mio marito saremo obbligate a sorbirci un po' di noia... non è lui certamente che potrebbe comprenderti, cara la mia Mariuccia. - Mi spaventi - rispose Maria abbozzando un sorriso, e poichè il passo del marito già risuonava, nella stanza vicina, aggiunse. - Ma chi hai dunque sposato? - Non te l'ho ancor detto? Vedilo, il professore Emanuele Campo... Maria emise un grido rauco, soffocato; fu assalita da uno smarrimento improvviso; si aggrappò colle mani contratte ai bracciuoli della poltrona quasi temesse di cadere; e Sofia nulla vide, nulla udì, essendo balzata verso l'uscio, spalancandolo, con fracasso di imposte sbattute e di allegro vocio. Emanuele Campo entrò.

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